Annali d'Italia, vol. 8 - 21
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alcuni che commesso non avea delitti, nè sparse tampoco le opinioni
condannate, nel territorio di coloro che costituiti si erano suoi
giudici.»
Morto in quest'anno il doge di Venezia Paolo Renier, gli fu dato
a successore Lodovico Manin, cavaliere e procurator di san Marco,
stato podestà di Vicenza, di Verona, di Brescia, e mostratosi nelle
magistrature interne d'indefessa attività e di vivo zelo pel pubblico
interesse fornito. Se nel suo particolare gli venne data nota di tanta
parsimonia che mal si addiceva alla sua opulenza, però che fosse il più
ricco uomo di Venezia, nelle pubbliche rappresentanze spiegò l'apparato
più nobile e più pomposo della magnificenza e della grandezza. Notarono
gli oziosi che de' cento venti dogi che a Venezia furono, il primo e
l'ultimo portarono lo stesso nome di Paolo, non volendosi nella serie
contare il Manin, che nella dignità in fatti non morì, avendo veduta
la caduta dell'insigne repubblica, e mancato poi a' vivi privato e da
parecchi negletto.
Ed eccoci alla nuova era storica, della quale abbiam detto in principio
del presente anno. Se non che, prima d'entrare nel difficile arringo
ne pare di dover chiudere il tratto sinora percorso con opportuno
discorso sulle scienze e sulle lettere, non che sulle arti, che sì
gran parte sono della gloria d'Italia nostra. Un celebrato storico
diede di queste parti un suo giudizio, nel quale, sebbene in tutto
non consentiamo, crediamo però pregio dell'opera il presentarlo tale
e quale ai nostri lettori, i quali, se in qualche luogo il troveranno
disforme dalle sentenze che in proposito sono corse, bel campo avranno
a quei raffronti, a quelle disposizioni, a que' paralleli da' quali
l'istruzione risulta. Dice egli adunque:
«Nessuna età mai promise tanta felicità agli uomini quanto il secolo
decimottavo, prima che una feroce tempesta lo turbasse. Quanto fra gli
uomini di utile, di grazioso, di grande si trovava, tutto allora era o
si travedeva. Le volontà benevole, gl'intelletti illuminati, le lettere
in onore, le scienze in progresso. Dirò brevemente di ognuno di questi
fonti di beneficenza e di gloria. I nostri figliuoli, conoscendo l'aria
prima che respirammo e quali fummo e ciò che volemmo, non saranno,
credo, verso i loro padri di gratitudine avari.
L'Italia per le scienze naturali a nissuna delle nazioni che più le
coltivavano era inferiore, ad alcune superiore. E per parlare della
Francia specialmente che allora per questa parte dell'umano sapere più
d'ogni altra aveva onorata nominanza, sotto certi rispetti l'Italia
le cedeva, sotto altri la superava. Cedevale per lo splendore e per
l'eloquenza; il grande Buffon in questa parte chi eguagliare potrebbe?
Superavala per l'indagine scrupolosa, per l'esattezza delle ricerche,
contenti gl'Italiani di dire agli altri ciò che la natura diceva loro,
e temperandosi dai commenti; sistemi ed ipotesi, della cui fugace
indole già insin dai tempi suoi quel famoso italiano, a cui niuno fu
eguale, parlò, dico il buono, dotto ed eloquente Cicerone. Ciò che
io qui affermo, ad ognuno sarà manifesto che vorrà considerare, quale
Buffon e quale Spallanzani fossero. Dottissimi ambedue e diligentissimi
scrutatori della natura, venerandi ambedue sacerdoti della scienza,
ma uno dedito più all'immaginazione che all'osservazione, l'altro più
a questa che a quella, onde il tempo che sa bene scerner la realtà
dalle chimere, non poche cose riformò nelle opinioni del naturalista
franzese, poche o nissuna in quelle del naturalista italiano. Ma
sebbene non mediocri pregi d'eloquenza Spallanzani avesse, a niun
modo il suo fare si potrebbe paragonare con quel largo fiume che
spandeva con la sua inimitabil penna colui, cui tutte le nazioni
onoravano, cui la morte si pianse con universale cordoglio, cui la
memoria tanto valse nei cuori irritati dei nemici della Francia,
nel 1814, che Swartzemberg, che gli guidava, mandò spontaneamente
salvaguardia al piccolo Monbard, solo perchè stato era seggio di colui,
cui, benchè morto fosse, credeva degno di arrestare armi ed armati.
Potenti ossa di Buffon, pacifica vittoria, memorando temperamento dai
furori guerreschi, ugualmente onorevole e per chi l'inspirava e per
chi l'ordinava! I cannoni di Napoleone perdevano, le ossa di Buffon
vincevano.
«Buffon abbelliva, Spallanzani diceva semplicemente: _La cosa sta
così_: ma l'uno certamente e l'altro onore delle loro patrie, ornamento
del mondo. Io veramente ammiro nel naturalista, cui Scandiano produsse
e Pavia albergò, il genio italiano che, ancorchè abbondi di fantasia,
di verità pure e di realtà si pasce.
«Il lume della fisica primieramente in Italia tanto splendeva quanto
presso ad alcun'altra nazione, e forse per certe parti di lei, come,
per cagion d'esempio, l'idraulica e la meccanica, era ita più avanti.
Forse ancora per la elettricità, massimamente per le fatiche del padre
Beccaria, professore in Torino, ebbe più profonde e più sane nozioni di
qualunque altra, ricevuti ciò non per tanto i primi semi dall'estero.
«Ciò sulle prime, ma poscia tanto si innalzò che le altre nazioni
a' suoi fonti vennero abbeverandosi. Il caso fece trovare a Galvani
un fecondo pensiero; egli stesso colle sue sollecite investigazioni
il fecondò. Levossene un alto grido nel mondo. L'inventore credè che
fosse una legge animale e che perciò più a fisiologia che a fisica si
appartenesse. Ma era uscito da Como un sublime ingegno che a fisica
lo rivocò, dimostrando che gli effetti prodotti sugli animali altro
non erano che una parte, una derivazione della generale fisica legge.
Dire quanto pensasse e quanto scrivesse Volta impossibile sarebbe
alla mia stanca e tarpata penna; ma mi consolo pensando che bisogno
non è ch'io lo dica. Qual parte della terra v'ha che nol sappia e nol
dica e maraviglia non ne senta? Per Volta l'Italia andava nell'impero
delle scienze ogni giorno alcuna conquista facendo: il suo nome stesso
nel possente stromento impresso farà memoria nelle future età, quanti
miracoli un modesto uomo, imperocchè tanto modesto fu Volta quanto
ingegnoso e dotto, scoprisse nel chiuso seno dell'arcana natura, ed ai
maravigliati ed attenti uomini gli rivelasse.
«Se delle scienze matematiche vogliamo parlare, si vedrà che, tacendo
anche di tanti altri che a Pavia, a Firenze, a Roma, a Napoli ed a
Palermo fiorivano, il solo Lagrange dimostrava, che per la scienza
delle quantità astratte l'Italia non era sfruttata e degna ancora
appariva di quella regione di cui erano usciti Galileo e Sarpi. Nè
di Gugliemini tacerò, il quale trovò modo di pruovare con fisico
sperimento che la terra si muove.
«Quanto alle scienze chimiche, il cui imperio tanto incominciava a
dilatarsi innanzi che sorgesse il sole dell'ottantanove, gl'Italiani
più dagli altri impararono che agli altri insegnassero, quantunque
valenti chimici fra di loro a Torino, Pavia, Venezia e Napoli
sorgessero. La Francia in questa parte splendeva di un lume, senza
pari, e i nomi di Lavoisier, Berthollet, Fourcroy, Guyton-Morveau
saranno immortali.
«Ma non è senza opportunità il notare in questo luogo che se uomini
sommi allora la feconda Francia illustravano, veri e santi oracoli
del mondo, nella scienza che....... compone, scompone e ricompone le
sostanze, il volgo correva dietro cupidamente alle pazzie ed alle
chimere di un Cagliostro, di un San Martino e di un Mesmer. Questi
credeva con le boccette del primo di poter vivere almeno trecento anni;
quest'altro teneva per fermo di poter leggere, come si diceva di San
Martino, a trapasso di muro; un terzo finalmente, di Mesmer seguace,
con un poco di sale rotto in una bigoncia, e con certi alti smorfiosi
fatti da un impostore, si persuadeva di poter guarire da tutte le
malattie. Ed ecco un altro sicofanta, o sicofantessa che si fosse,
che conosceva e guariva tutti i mali solo con guardare le orine e far
dal suo tripode ricettacce, dopo di averle guardate. Ciò succedeva in
Parigi, e sì che si vedevano concorrere alla porta della sicofantessa
ogni mattina uomini e donne, cocchi e barelle con le ampolluzze e con
gli utelli pieni di orina per farla vedere alla pitonessa e portarne
poscia a casa i precetti. Queste materie poco si videro in Italia e non
vi fecero frutto, e la cagione si è che i Parigini sono tutto Ateniesi,
graziosi uomini in verità, mentre negl'Italiani, sebbene anch'essi
sappiano dell'Ateniese, c'è mescolato un po' di Spartano, voglio
dire che amano ragguardare dentro la midolla delle cose. Poi sono più
maliziosi, e sanno bene squadrare e guardare in viso gl'impostori.
«Le scienze morali seguitavano in Italia l'inclinazione comune, con
più felici augurii a miglior stato avviandosi. Una gran differenza ciò
non per tanto si osserva tra quanto vi succedeva in questo proposito e
ciò che in altri paesi si vedeva; questa era che quegl'Italiani stessi
che ardentissimi erano nel risecare dalla pianta religiosa ciò che
d'eccessivo e d'illegittimo vi aveva......... aggiunto, persistevano
però nelle credenze cattoliche lontani dagli scherni e dall'incredulità
che altrove regnavano. Volevano un'emendazione, non una distruzione.
«Le scienze economiche spiegavano pure anche esse i loro fiori nella
bene generativa penisola. Della quale cosa ognuno sarà persuaso, se
vorrà avvertire agli utili scritti di Genovesi e Galiani di Napoli e di
Fabbroni di Firenze. Questi alti ingegni, del bene comune aumentatori,
eziandio si differenziavano da certi economisti forestieri; perciocchè
non a chimere impossibili a ridursi in pratica nè ad astruse teorie
andavano dietro, ma cose palpabili trattavano e che, se vere erano in
ragione, utili erano anche in esperienza. Oltre a questi maestri per
iscritto, era allora in Italia un economista pratico che quanto essi
nelle loro benefiche lucubrazioni pensavano riduceva all'atto, e questi
fu Leopoldo di Toscana. Seppelo la Toscana stessa, che a più fiorente
stato pervenne.
«Sommo, anzi singolar pregio della Italia a que' tempi fu la scienza
della penalità, merce di quel........ mandato fuori da Beccaria.
Chi la umanità ama, chi ama la giustizia, debbe con perpetue lodi
innalzare quest'uomo immortale. La Italia l'onorò, l'onorarono le
nazioni forestiere, e da lui tutte riconobbero un bene immenso fatto
nella parte più cruda e terribile dell'umana legislazione. Orrende
piaghe sanò. Quattro grandi lumi, oltre i minori, splendevano allora
in Italia, uno in Napoli, uno in Firenze, un terzo in Milano e Pavia,
un quarto in Parma. Quelle erano veramente scuole patrie, quelli sodi
beneficii, che tutto l'edificio sociale con amica luce rischiaravano,
fecondavano, miglioravano. Così voleva allora il cielo che seguisse.
«Se poi vogliam voltare il discorso alle lettere, vedremo che, se poche
parti se ne eccettuano, la letteratura italiana era spenta, nè altro
più non era che una servile e sconcia imitazione della letteratura
francese. La storia, la maggior parte delle opere teatrali, le novelle,
i romanzi i poemi stessi rendevano un odore franzese, e tanta distanza
passava dallo scrivere che a que' tempi era prevalso in Italia, a
quello che vi si usava due secoli innanzi, quanta veramente si scorgeva
tra le cose scritte nell'ignorante medio evo a quelle, cui mandarono
alla luce gli autori del decimo quarto e decimosesto secolo. Parlo
solamente della distanza che tra l'un modo e l'altro s'interponeva, non
già dell'effetto, perchè allora si andò dal male al bene, adesso si
andava dal bene al male. Nei bassi tempi vi era speranza, perchè non
vi era corruzione di età decrepita, e solamente si vedeva che l'arte
era bambina; ma nella seconda metà del secolo decimottavo, quasi ogni
speranza si trovava estinta; perciocchè la medesima legge governa le
cose morali che le fisiche, cioè che si può andare dall'infanzia alla
virilità, non già dalla decrepitezza all'adolescenza, ed il pomo acerbo
può diventar maturo, il fracido non torna più a sanità, ma si disfà.
Tal era, generalmente parlando, l'italiana letteratura a' tempi che
videro fanciulla l'età presentemente canuta. A stento e se non con
molto stomaco si possono leggere oggidì le cose che vi si scrivevano.
Servilità ne' pensieri, servilità nella lingua. Come le scarpette delle
donne, così ancora i concetti e le frasi dei letterati venivano bell'e
formati da Parigi.
«In mezzo alla foresteria si era introdotto un altro nauseoso vizio,
e quest'era una certa leziosaggine, una certa delicatura, e quasi
direi smanceria, che faceva credere che la letteratura italiana fosse
divenuta imbelle e non più da uomini, ma da donne. Concettuzzi fioriti,
frasi leccate, nissuna forza, nissuna naturalezza, nissun maschio,
nissun sincero pensiero; ogni cosa scritta come se fosse alla presenza
della donnetta che si acconciava. La _toaletta_, come dicevano, e
il _sofà_, ed è miracolo che non abbiano detto il _budorio_ per dire
il _boudoir_, e le braccia ben _tornite_, pure come dicevano, della
innamorata, e i suoi pedini e le dituzze, e le descrizioni al minuto
del prendere il cioccolate, senza nemmeno dimenticare il colore de'
confetti che vi s'immergevano, od altre simili inezie andavano per gli
scritti de' più. Chi avrà letto il Roberti, e l'Algarotti, e Pietro
Chiari e le commedie del principe di Sangro, e quelle del Villis, saprà
da sè stesso ciò che voglio dire.
«Il male si accrebbe per l'autorità di un uomo cui la natura aveva dato
un ingegno smisurato, e che poteva essere il ristauro, e pure fu quasi
del tutto la ruina dell'italiana letteratura. Parlo del famoso poeta
padovano, del Cesarotti. Dio mi guardi dal proferire la bestemmia che
costui fosse imbelle; che anzi ingegno più virile e più vivido del
suo da lungo tempo la natura non aveva in Italia procreato. Ma volle
farsi singolare con una poesia parte gonfia, parte leccata, traducendo
il vero o finto Ossian. Le leziosaggini per la sua Bragela, ed il
suo lanciare pel suo Fingallo, ed altri eroi così tremendi pel nome
come pei fatti, corruppero talmente la poesia italiana, che più forma
alcuna non conservava di sè medesima. Quanto poi alle sue prose, egli
era un molinista tale in lingua, che ogni franzese parola o frase per
lui era buona, purchè una desinenza italiana le applicasse. Egli fu
un gran Busembaum per la lingua. Questi scandali dava Cesarotti, egli
che per la sublimità dell'ingegno avrebbe potuto a sublimi e sincere
opere italiane dare origine. E veramente si vede, che là dove puro
voleva ed italiano essere, il che non di rado ancora gli succedeva,
tali lumi mandava fuori che non uscirono mai maggiori dalla penna dei
più rinomati scrittori del bel secolo. Ma il consueto suo andare era
corrotto, e fu questo il tracollo.
«Le cose parevano doversi tenere per perdute, e nulla si poteva più
sperare da chi si tagliava i nervi da sè. Fortunatamente, mentre
Cesarotti ed altri, che di lui il vizio non l'ingegno avevano,
gettavano, come se a contanti pagati fossero, feccioso limo nelle
pure e limpide acque dell'Arno, il cielo, che non voleva che il fiore
italico si spegnesse, mandò quattro uomini a vivificarlo; questi furono
Parini, Metastasio, Goldoni ed Alfieri.
«Parini fu il primo a ritirare la trascorsa letteratura italiana verso
il suo principio, ed a ritirarla, nel tenero, al fare petrarchesco, nel
forte, al dantesco; ma più veramente ancora per la natura sua sapeva
di Dante che del Petrarca. Sublimi e pretti pensieri aveva, sublime e
pura lingua usava, un terribile staffile maneggiava. Le _toalette_,
e i _sofà_, e i ventagli, ed i letticciuoli morbidi rammentava non
per lodarli, ma per fulminarli. Grande e robusto uomo fu costui,
nella satira il primo, nella lirica ancora il primo. Ei fe' vedere e
dimostrò che senza le nebbie caledoniche, senza le smancerie galliche,
e consistendo nella vera lingua e nel vero stile italiano si potevan
creare opere in cui colla purità si trovava congiunta l'energia. Più
che poeta, più che sacerdote d'Apolline fu, posciachè fu maestro di
virtù, ed i molli costumi ad una virile robustezza ridusse: l'eunuca
età a più maschi spiriti eresse. Tanto potenti furono i suoi detti,
tanto potenti i suoi scritti!...............
..... Forse, chi sa, un giorno verrà quando gl'Italiani avran dimesso
il mestiere del voler fare i pedissequi dei forestieri........... in
cui maggiormente il suo esempio ed i suoi altissimi versi frutteranno.
Eglino intanto debbono aver cara ed onorata sempre la memoria del
Parini, di quel Parini che dal lezzo li sollevò, e dalle insipide
erbe purgò il sentiero che mena all'eletto monte, dove la virtù e le
divine suore albergano. Parini, poscia Alfieri, spensero la letteratura
delle inezie; ed i descrittori delle scene di taverna, e di qualche
monasteruzzo, mercè le illustri fatiche di quel grande Milanese,
peneranno ad allignare.
«In nissun autore osservasi un così puro fiore, una così perfetta
fragranza delle tre letterature madri, quanto in Metastasio, e niuna
traccia, quantunque in mezzo alla corruttela che già cominciava
ad ammorbare, vivesse, in Lui si ravvisa di moderna foresteria.
L'anima sua nitida e dolce a ciò il portava, l'essere Romano forse vi
contribuiva; conciossiacosachè o che i letterati romani siano vissuti
divisi dai forestieri più che gli altri Italiani, o che la natura
romana più fortemente resista al piegarsi alle influenze altrui, o che
quella lingua tanto scolpita che parlano, italiani pensieri e italiane
immagini e forme più profondamente nelle menti loro imprima, o che
finalmente quel ravvolgersi continuamente fra le romane antichità,
che i concetti e la grandezza antica ad ogni momento loro ricordano,
sel facciano, certo è bene ch'essi più di ogni altro si tennero
lontani così dalle gonfiezze del secolo decimosettimo, come dal
loglio forestiero che veniva mescolandosi col grano d'Italia. La quale
cosa tanto è più da osservarsi quanto che Roma si trova fra Toscana
e Napoli, dove, dopo la metà del secolo ultimo, quel loglio aveva
messo più profonde barbe, ed erasi in isconcia guisa moltiplicato.
Chi Metastasio legge, beve a pieno vaso senza alcuna mescolanza di
stranezza la grazia greca, la maestà latina, la eleganza italiana.
Col chiaro, amabile ed armonioso suo stile, colla naturalezza dei
pensieri e dei sentimenti, col contrasto nitidissimo delle passioni,
non feroci e barbare, ma alte e generose, e tali quali a popoli
civili, non a Caraibi, o ad Uroni, o a quelle bestie del medio evo si
convengono, diede a divedere che stando nei confini delle letterature
madri della meridionale Europa, si può e muovere fortemente gli affetti
e, mantenendo la sincerità del gusto italiano, innalzare gli animi.
Certamente, mai nissun autore fu tanto Italiano quanto Metastasio.
Possente argine fu contro il contagio forestiero, possente rimedio
per risanare i corrotti. La quale salutare operazione con tanto
maggior efficacia fece, che pel genere delle sue composizioni e per
la chiarezza del suo stile egli andava per le mani di tutto il mondo.
Che anzi non solamente su i regi teatri i suoi drammi si cantavano,
ma eziandio sulle scene innalzate dai comuni o dai particolari si
recitavano, e pochi erano i villaggi, non che le città che ogni anno,
massime nell'autunno, non udissero alcuna opera del poeta romano
recitata da uomini colti, e talvolta ancora da uomini di villa, a cui
poco altro sapere era venuto che quello di saper leggere e scrivere.
Il concorso a queste rappresentazioni era grande, ed il piacere che gli
astanti provavano, maraviglioso. Attori e spettatori si immedesimavano,
e degli eroici costumi dell'antichità si dilettavano, e per essi di
migliori sentimenti s'informavano...............
Ciò pruova che il Metastasio era veramente autore italiano, poichè
tanto agli italiani andava a sangue. Ciò pruova ancora che il vero fine
delle rappresentazioni teatrali è d'invaghire l'uomo del bello ideale
ed eroico onde ritrarlo dal pensare e dal sentire abietto e plebeo, e
più avvicinarlo a quell'alto scopo per cui Dio l'ha creato. Il quale
effetto se alcune moderne composizioni facciano, lascio al lettore il
giudicare.
Ma, seguitando a parlare del Metastasio, per giudicar bene che cosa ei
fosse e quel che far si volesse, e' non bisogna supporre, come alcuni
fanno, che intenzione sua fosse di scrivere tragedie, dando al nome di
tragedia la significazione che volgarmente gli si dà. Imperocchè ei
non volle già comporre tragedie da recitarsi, ma drammi da cantarsi,
quantunque assai acconciamente ancora recitare si possano, ed in essi
non di rado si trovino scene che nella più vera e sublime tragedia
si confarebbero. Ma resta sempre che, scrivendo per la musica, egli
soggiaceva a parecchie necessità che la sua libertà impacciavano, e che
dalle esigenze o del compositore della musica, o de' cantanti, o dalle
consuetudini teatrali stesse di que' tempi derivavano. Maravigliosa
cosa è come fra tanti lacci produrre potesse scene da cui nasceva una
così potente mossa d'affetti.
Di questo poeta parlando, pel quale principalmente si fa manifesto che
la sublimità dei pensieri e dello stile possono stare con la semplicità
e con la chiarezza, cade in acconcio il discorrere dello stato in cui
si trovava la musica al tempo in cui viene a terminarsi la nostra
presente storia. Pare a me, ed anzi certo sono, ch'ella pervenuta
fosse a quel grado di perfezione, sopra il quale nulla più resta nè
da desiderare nè da aggiungere, ed al quale qualche cosa aggiungendo,
si va verso la corruzione. Ciò dal conservatorio di Napoli e dagli
ammaestramenti di Durante principalmente riconoscere si dovea. Era quel
conservatorio, come quasi il cavallo troiano, da cui uscivano, non già
uomini armati per incendere e distruggere le città, ma divini ingegni
da eccellenti maestri informati, che per l'Italia, loro felice patria,
poi per estere regioni portando andavano ciò che più l'anima molce ed
innalza, e dalle tristi cure che l'umanità tanto spesso affliggono
la solleva ed allontana. Non romorosi o abbaruffati componimenti
erano, ma per ciascun pezzo un'idea madre, un'idea architettonica,
alle quali le altre, come ancelle ad una regina, per darle maggiore
risalto e farla campeggiare, servivano. La stessa armonica simmetria ed
acconcia corrispondenza di tutte le parti si scorgeva nella totalità
del componimento, di maniera che non solamente si vedeva che era una
creazione dello stesso spirito, ma eziandio che al medesimo soggetto si
apparteneva. La semplicità e la unità cotanto raccomandate da Orazio,
e in ciascuna parte e nel tutto si osservavano, e con loro congiunta
una tale leggiadria, una tale grazia, una tale eleganza che a sentirgli
era un vero incanto, e l'uomo provava una dolcezza inestimabile.
Pareva che egli da queste terrene cose disciolto, ed in migliore mondo
trasportato, di angelica natura si vestisse.
Nè complicati o meccanicamente laboriosi erano i mezzi, di cui quei
divini ingegni si servivano per produrre così maravigliosi effetti.
Semplicissimi erano e, quasi direi, invisibili questi mezzi. Al mirare
que' loro spartiti, assai poche note vi si vedevano, onde quasi pareva
che vi fossero effetti senza causa. Ma la causa appunto più forte ed
operosa era, perchè più semplice era e sapeva batter bene in quella
parte del cuore che abbisognava. Ed io mi ricordo di avere letto nel
dizionario di musica del Rousseau un fatto mirabile, ed è dove racconta
il terribile effetto che sempre faceva su gli ascoltanti (credo, se ben
mi ricordo, nel teatro di Ancona) un recitativo solamente accompagnato
da poche note del violoncello; irresistibile era quest'effetto, onde
ognuno al solo suo approssimarsi, già si sentiva commosso e subitamente
impallidiva come se da una incognita e possente causa compreso e domato
fosse. Quella era veramente musica italiana, possente per semplicità,
per grazia, per verità; la melodia padrona, l'armonia serva, l'armonia
che non fa effetto se non quando imita la melodia, i mezzi meccanici
lasciati a chi callose orecchie ed insensibile cuore ha. Chi sa che
siano Omero, Virgilio, Raffaello d'Urbino, facilmente intenderà ciò
ch'io voglio dire. Ed Omero, Virgilio, Raffaello si erano trasfusi in
Paisiello e in Cimarosa ed in tanti altri compositori di quel tempo,
che veramente si può e dee chiamare l'età dell'oro per la musica.
La maestria e la vera arte non consistono nel far monti di note e di
strani e ricercati accordi, ma nell'inventare motivi nuovi, graziosi,
adatti all'effetto che si vuole esprimere, e questi accompagnare con
accompagnamenti che gli aiutino, non gli soffochino. Il quale modo
di comporre, siccome di maggior effetto, così ancora di maggiore
difficoltà è; conciossiacosachè assai più difficile bisogna sia
l'inventar cose ideali, cioè i motivi (dono dato dal cielo a pochi) che
il raccappezzare cose corporee, cioè gli accordi. Di gran lunga maggior
numero di motivi nuovi, cui i maestri chiamano di prima intenzione, e
perciò maggiore difficoltà superata ed assai maggiore e più eccelsa
facoltà creatrice havvi nella sola Nina di Paisiello o nel solo
Matrimonio segreto di Cimarosa che in tutte le opere insieme anche del
più fecondo compositore de' giorni nostri. È vero che non vi è tanto
fracasso, cioè tanti mezzi meccanici; ma i divini dove sono? Questa è
una età pessimamente corrotta: nel morale vuole la forza, nella musica
il fracasso. I compositori sono diventati servi delle orchestre, le
quali sempre vogliono sbracciarsi per fare un gran romore e far vedere
che sanno sonare le difficoltà, ed eseguire il concerto, i cantanti
sono soffocati ed obbligati di strillare, ed il pubblico, che ha
perduto il cuore ed è divenuto tutto orecchie, applaude;.....
Altra è la musica istromentale, altra la vocale. La voce umana è la
vera e naturale espressione delle passioni; gli istrumenti sono mezzi
artificiali li quali possenti non sono se non in quanto imitano la
voce umana, e più o meno possenti sono, secondochè più o meno a lei
si avvicinano o da lei si discostano. Questa è la ragione per cui quel
gemere di violino ne fa uno strumento potentissimo. Onde non solamente
contro l'effetto fa, ma ancora contro natura chi con gl'istrumenti
soffoca la voce invece di secondarla ed aiutarla.
Io fui amico, ed egli a me, e molto me ne pregio, di un gentilissimo
maestro italiano. Compostasi da lui alcun tempo vera musica italiana,
piena di verità, di soavità, di grazia, come, per esempio, i suoi
bellissimi notturni sulle parole di Metastasio, una delle più
dolci cose che siano uscite da un cuore dolcissimo, si diede poi
a ingarbugliarsi con mescolare con eccessiva proporzione, musica
istromentale colla vocale. E Paisiello per Milano passando per andar
a Parigi ai cenni di Napoleone, sentita quella sua musica nodosa e
strepitosa, e, postagli la mano sulla spalla, gli disse: «Bonifazio,
lascia stare la musica tedesca.» (Il tarantino Anfione parlava della
musica vocale[2].) Il grazioso uomo mi disse con quella sua giovenil
voce che sempre ebbe: «Me la sono attaccata all'orecchio;» ma non se la
attaccò. Veramente il buon Bonifazio, oltre ad altre sue composizioni
alla tedesca, aveva composto la musica per un dramma a Torino, la
quale, malgrado di un gran miagolare di bassi che vi aveva fatto, non
ebbe alcun buon successo; felicissima vena, se mai una fu al mondo, e
veramente correggiesca, da un poco sano metodo di comporre guastata.
«La poesia e la prosa erano parecchie volte degenerate in Italia, e da
quasi cinque secoli avevano a più maniere di degenerazioni soggiaciuto.
La musica sola, da' suoi principii al suo apice gradatamente
ascendendo, sempre simile a sè medesima era proceduta, vero e sincero
frutto italico dimostrandosi. Tanto crebbe, che finalmente al punto
di perfezione pervenne, allor quando Cimarosa e Paisiello colle
loro mirabili melodie incantavano il mondo. Il secolo decimottavo
dopo il cinquanta fu per la musica ciò che il decimosesto fu per
la pittura, quando con le loro divine rappresentazioni Raffaello e
Michelagnolo pruovavano che la Grecia s'era in Italia trasportata. A
ciò contribuì Metastasio co' suoi dolcissimi versi, e, secondochè gli
affetti portavano, qualche volta ancora tremendi, ma pur sempre dolci.
Vincendevolmente i musici coi loro soavi o tremendi accenti al fare
di Metastasio ed all'imperio ch'egli sulle anime acquistato aveva,
contribuirono. Musica era la poesia di Metastasio, poesia la musica dei
condannate, nel territorio di coloro che costituiti si erano suoi
giudici.»
Morto in quest'anno il doge di Venezia Paolo Renier, gli fu dato
a successore Lodovico Manin, cavaliere e procurator di san Marco,
stato podestà di Vicenza, di Verona, di Brescia, e mostratosi nelle
magistrature interne d'indefessa attività e di vivo zelo pel pubblico
interesse fornito. Se nel suo particolare gli venne data nota di tanta
parsimonia che mal si addiceva alla sua opulenza, però che fosse il più
ricco uomo di Venezia, nelle pubbliche rappresentanze spiegò l'apparato
più nobile e più pomposo della magnificenza e della grandezza. Notarono
gli oziosi che de' cento venti dogi che a Venezia furono, il primo e
l'ultimo portarono lo stesso nome di Paolo, non volendosi nella serie
contare il Manin, che nella dignità in fatti non morì, avendo veduta
la caduta dell'insigne repubblica, e mancato poi a' vivi privato e da
parecchi negletto.
Ed eccoci alla nuova era storica, della quale abbiam detto in principio
del presente anno. Se non che, prima d'entrare nel difficile arringo
ne pare di dover chiudere il tratto sinora percorso con opportuno
discorso sulle scienze e sulle lettere, non che sulle arti, che sì
gran parte sono della gloria d'Italia nostra. Un celebrato storico
diede di queste parti un suo giudizio, nel quale, sebbene in tutto
non consentiamo, crediamo però pregio dell'opera il presentarlo tale
e quale ai nostri lettori, i quali, se in qualche luogo il troveranno
disforme dalle sentenze che in proposito sono corse, bel campo avranno
a quei raffronti, a quelle disposizioni, a que' paralleli da' quali
l'istruzione risulta. Dice egli adunque:
«Nessuna età mai promise tanta felicità agli uomini quanto il secolo
decimottavo, prima che una feroce tempesta lo turbasse. Quanto fra gli
uomini di utile, di grazioso, di grande si trovava, tutto allora era o
si travedeva. Le volontà benevole, gl'intelletti illuminati, le lettere
in onore, le scienze in progresso. Dirò brevemente di ognuno di questi
fonti di beneficenza e di gloria. I nostri figliuoli, conoscendo l'aria
prima che respirammo e quali fummo e ciò che volemmo, non saranno,
credo, verso i loro padri di gratitudine avari.
L'Italia per le scienze naturali a nissuna delle nazioni che più le
coltivavano era inferiore, ad alcune superiore. E per parlare della
Francia specialmente che allora per questa parte dell'umano sapere più
d'ogni altra aveva onorata nominanza, sotto certi rispetti l'Italia
le cedeva, sotto altri la superava. Cedevale per lo splendore e per
l'eloquenza; il grande Buffon in questa parte chi eguagliare potrebbe?
Superavala per l'indagine scrupolosa, per l'esattezza delle ricerche,
contenti gl'Italiani di dire agli altri ciò che la natura diceva loro,
e temperandosi dai commenti; sistemi ed ipotesi, della cui fugace
indole già insin dai tempi suoi quel famoso italiano, a cui niuno fu
eguale, parlò, dico il buono, dotto ed eloquente Cicerone. Ciò che
io qui affermo, ad ognuno sarà manifesto che vorrà considerare, quale
Buffon e quale Spallanzani fossero. Dottissimi ambedue e diligentissimi
scrutatori della natura, venerandi ambedue sacerdoti della scienza,
ma uno dedito più all'immaginazione che all'osservazione, l'altro più
a questa che a quella, onde il tempo che sa bene scerner la realtà
dalle chimere, non poche cose riformò nelle opinioni del naturalista
franzese, poche o nissuna in quelle del naturalista italiano. Ma
sebbene non mediocri pregi d'eloquenza Spallanzani avesse, a niun
modo il suo fare si potrebbe paragonare con quel largo fiume che
spandeva con la sua inimitabil penna colui, cui tutte le nazioni
onoravano, cui la morte si pianse con universale cordoglio, cui la
memoria tanto valse nei cuori irritati dei nemici della Francia,
nel 1814, che Swartzemberg, che gli guidava, mandò spontaneamente
salvaguardia al piccolo Monbard, solo perchè stato era seggio di colui,
cui, benchè morto fosse, credeva degno di arrestare armi ed armati.
Potenti ossa di Buffon, pacifica vittoria, memorando temperamento dai
furori guerreschi, ugualmente onorevole e per chi l'inspirava e per
chi l'ordinava! I cannoni di Napoleone perdevano, le ossa di Buffon
vincevano.
«Buffon abbelliva, Spallanzani diceva semplicemente: _La cosa sta
così_: ma l'uno certamente e l'altro onore delle loro patrie, ornamento
del mondo. Io veramente ammiro nel naturalista, cui Scandiano produsse
e Pavia albergò, il genio italiano che, ancorchè abbondi di fantasia,
di verità pure e di realtà si pasce.
«Il lume della fisica primieramente in Italia tanto splendeva quanto
presso ad alcun'altra nazione, e forse per certe parti di lei, come,
per cagion d'esempio, l'idraulica e la meccanica, era ita più avanti.
Forse ancora per la elettricità, massimamente per le fatiche del padre
Beccaria, professore in Torino, ebbe più profonde e più sane nozioni di
qualunque altra, ricevuti ciò non per tanto i primi semi dall'estero.
«Ciò sulle prime, ma poscia tanto si innalzò che le altre nazioni
a' suoi fonti vennero abbeverandosi. Il caso fece trovare a Galvani
un fecondo pensiero; egli stesso colle sue sollecite investigazioni
il fecondò. Levossene un alto grido nel mondo. L'inventore credè che
fosse una legge animale e che perciò più a fisiologia che a fisica si
appartenesse. Ma era uscito da Como un sublime ingegno che a fisica
lo rivocò, dimostrando che gli effetti prodotti sugli animali altro
non erano che una parte, una derivazione della generale fisica legge.
Dire quanto pensasse e quanto scrivesse Volta impossibile sarebbe
alla mia stanca e tarpata penna; ma mi consolo pensando che bisogno
non è ch'io lo dica. Qual parte della terra v'ha che nol sappia e nol
dica e maraviglia non ne senta? Per Volta l'Italia andava nell'impero
delle scienze ogni giorno alcuna conquista facendo: il suo nome stesso
nel possente stromento impresso farà memoria nelle future età, quanti
miracoli un modesto uomo, imperocchè tanto modesto fu Volta quanto
ingegnoso e dotto, scoprisse nel chiuso seno dell'arcana natura, ed ai
maravigliati ed attenti uomini gli rivelasse.
«Se delle scienze matematiche vogliamo parlare, si vedrà che, tacendo
anche di tanti altri che a Pavia, a Firenze, a Roma, a Napoli ed a
Palermo fiorivano, il solo Lagrange dimostrava, che per la scienza
delle quantità astratte l'Italia non era sfruttata e degna ancora
appariva di quella regione di cui erano usciti Galileo e Sarpi. Nè
di Gugliemini tacerò, il quale trovò modo di pruovare con fisico
sperimento che la terra si muove.
«Quanto alle scienze chimiche, il cui imperio tanto incominciava a
dilatarsi innanzi che sorgesse il sole dell'ottantanove, gl'Italiani
più dagli altri impararono che agli altri insegnassero, quantunque
valenti chimici fra di loro a Torino, Pavia, Venezia e Napoli
sorgessero. La Francia in questa parte splendeva di un lume, senza
pari, e i nomi di Lavoisier, Berthollet, Fourcroy, Guyton-Morveau
saranno immortali.
«Ma non è senza opportunità il notare in questo luogo che se uomini
sommi allora la feconda Francia illustravano, veri e santi oracoli
del mondo, nella scienza che....... compone, scompone e ricompone le
sostanze, il volgo correva dietro cupidamente alle pazzie ed alle
chimere di un Cagliostro, di un San Martino e di un Mesmer. Questi
credeva con le boccette del primo di poter vivere almeno trecento anni;
quest'altro teneva per fermo di poter leggere, come si diceva di San
Martino, a trapasso di muro; un terzo finalmente, di Mesmer seguace,
con un poco di sale rotto in una bigoncia, e con certi alti smorfiosi
fatti da un impostore, si persuadeva di poter guarire da tutte le
malattie. Ed ecco un altro sicofanta, o sicofantessa che si fosse,
che conosceva e guariva tutti i mali solo con guardare le orine e far
dal suo tripode ricettacce, dopo di averle guardate. Ciò succedeva in
Parigi, e sì che si vedevano concorrere alla porta della sicofantessa
ogni mattina uomini e donne, cocchi e barelle con le ampolluzze e con
gli utelli pieni di orina per farla vedere alla pitonessa e portarne
poscia a casa i precetti. Queste materie poco si videro in Italia e non
vi fecero frutto, e la cagione si è che i Parigini sono tutto Ateniesi,
graziosi uomini in verità, mentre negl'Italiani, sebbene anch'essi
sappiano dell'Ateniese, c'è mescolato un po' di Spartano, voglio
dire che amano ragguardare dentro la midolla delle cose. Poi sono più
maliziosi, e sanno bene squadrare e guardare in viso gl'impostori.
«Le scienze morali seguitavano in Italia l'inclinazione comune, con
più felici augurii a miglior stato avviandosi. Una gran differenza ciò
non per tanto si osserva tra quanto vi succedeva in questo proposito e
ciò che in altri paesi si vedeva; questa era che quegl'Italiani stessi
che ardentissimi erano nel risecare dalla pianta religiosa ciò che
d'eccessivo e d'illegittimo vi aveva......... aggiunto, persistevano
però nelle credenze cattoliche lontani dagli scherni e dall'incredulità
che altrove regnavano. Volevano un'emendazione, non una distruzione.
«Le scienze economiche spiegavano pure anche esse i loro fiori nella
bene generativa penisola. Della quale cosa ognuno sarà persuaso, se
vorrà avvertire agli utili scritti di Genovesi e Galiani di Napoli e di
Fabbroni di Firenze. Questi alti ingegni, del bene comune aumentatori,
eziandio si differenziavano da certi economisti forestieri; perciocchè
non a chimere impossibili a ridursi in pratica nè ad astruse teorie
andavano dietro, ma cose palpabili trattavano e che, se vere erano in
ragione, utili erano anche in esperienza. Oltre a questi maestri per
iscritto, era allora in Italia un economista pratico che quanto essi
nelle loro benefiche lucubrazioni pensavano riduceva all'atto, e questi
fu Leopoldo di Toscana. Seppelo la Toscana stessa, che a più fiorente
stato pervenne.
«Sommo, anzi singolar pregio della Italia a que' tempi fu la scienza
della penalità, merce di quel........ mandato fuori da Beccaria.
Chi la umanità ama, chi ama la giustizia, debbe con perpetue lodi
innalzare quest'uomo immortale. La Italia l'onorò, l'onorarono le
nazioni forestiere, e da lui tutte riconobbero un bene immenso fatto
nella parte più cruda e terribile dell'umana legislazione. Orrende
piaghe sanò. Quattro grandi lumi, oltre i minori, splendevano allora
in Italia, uno in Napoli, uno in Firenze, un terzo in Milano e Pavia,
un quarto in Parma. Quelle erano veramente scuole patrie, quelli sodi
beneficii, che tutto l'edificio sociale con amica luce rischiaravano,
fecondavano, miglioravano. Così voleva allora il cielo che seguisse.
«Se poi vogliam voltare il discorso alle lettere, vedremo che, se poche
parti se ne eccettuano, la letteratura italiana era spenta, nè altro
più non era che una servile e sconcia imitazione della letteratura
francese. La storia, la maggior parte delle opere teatrali, le novelle,
i romanzi i poemi stessi rendevano un odore franzese, e tanta distanza
passava dallo scrivere che a que' tempi era prevalso in Italia, a
quello che vi si usava due secoli innanzi, quanta veramente si scorgeva
tra le cose scritte nell'ignorante medio evo a quelle, cui mandarono
alla luce gli autori del decimo quarto e decimosesto secolo. Parlo
solamente della distanza che tra l'un modo e l'altro s'interponeva, non
già dell'effetto, perchè allora si andò dal male al bene, adesso si
andava dal bene al male. Nei bassi tempi vi era speranza, perchè non
vi era corruzione di età decrepita, e solamente si vedeva che l'arte
era bambina; ma nella seconda metà del secolo decimottavo, quasi ogni
speranza si trovava estinta; perciocchè la medesima legge governa le
cose morali che le fisiche, cioè che si può andare dall'infanzia alla
virilità, non già dalla decrepitezza all'adolescenza, ed il pomo acerbo
può diventar maturo, il fracido non torna più a sanità, ma si disfà.
Tal era, generalmente parlando, l'italiana letteratura a' tempi che
videro fanciulla l'età presentemente canuta. A stento e se non con
molto stomaco si possono leggere oggidì le cose che vi si scrivevano.
Servilità ne' pensieri, servilità nella lingua. Come le scarpette delle
donne, così ancora i concetti e le frasi dei letterati venivano bell'e
formati da Parigi.
«In mezzo alla foresteria si era introdotto un altro nauseoso vizio,
e quest'era una certa leziosaggine, una certa delicatura, e quasi
direi smanceria, che faceva credere che la letteratura italiana fosse
divenuta imbelle e non più da uomini, ma da donne. Concettuzzi fioriti,
frasi leccate, nissuna forza, nissuna naturalezza, nissun maschio,
nissun sincero pensiero; ogni cosa scritta come se fosse alla presenza
della donnetta che si acconciava. La _toaletta_, come dicevano, e
il _sofà_, ed è miracolo che non abbiano detto il _budorio_ per dire
il _boudoir_, e le braccia ben _tornite_, pure come dicevano, della
innamorata, e i suoi pedini e le dituzze, e le descrizioni al minuto
del prendere il cioccolate, senza nemmeno dimenticare il colore de'
confetti che vi s'immergevano, od altre simili inezie andavano per gli
scritti de' più. Chi avrà letto il Roberti, e l'Algarotti, e Pietro
Chiari e le commedie del principe di Sangro, e quelle del Villis, saprà
da sè stesso ciò che voglio dire.
«Il male si accrebbe per l'autorità di un uomo cui la natura aveva dato
un ingegno smisurato, e che poteva essere il ristauro, e pure fu quasi
del tutto la ruina dell'italiana letteratura. Parlo del famoso poeta
padovano, del Cesarotti. Dio mi guardi dal proferire la bestemmia che
costui fosse imbelle; che anzi ingegno più virile e più vivido del
suo da lungo tempo la natura non aveva in Italia procreato. Ma volle
farsi singolare con una poesia parte gonfia, parte leccata, traducendo
il vero o finto Ossian. Le leziosaggini per la sua Bragela, ed il
suo lanciare pel suo Fingallo, ed altri eroi così tremendi pel nome
come pei fatti, corruppero talmente la poesia italiana, che più forma
alcuna non conservava di sè medesima. Quanto poi alle sue prose, egli
era un molinista tale in lingua, che ogni franzese parola o frase per
lui era buona, purchè una desinenza italiana le applicasse. Egli fu
un gran Busembaum per la lingua. Questi scandali dava Cesarotti, egli
che per la sublimità dell'ingegno avrebbe potuto a sublimi e sincere
opere italiane dare origine. E veramente si vede, che là dove puro
voleva ed italiano essere, il che non di rado ancora gli succedeva,
tali lumi mandava fuori che non uscirono mai maggiori dalla penna dei
più rinomati scrittori del bel secolo. Ma il consueto suo andare era
corrotto, e fu questo il tracollo.
«Le cose parevano doversi tenere per perdute, e nulla si poteva più
sperare da chi si tagliava i nervi da sè. Fortunatamente, mentre
Cesarotti ed altri, che di lui il vizio non l'ingegno avevano,
gettavano, come se a contanti pagati fossero, feccioso limo nelle
pure e limpide acque dell'Arno, il cielo, che non voleva che il fiore
italico si spegnesse, mandò quattro uomini a vivificarlo; questi furono
Parini, Metastasio, Goldoni ed Alfieri.
«Parini fu il primo a ritirare la trascorsa letteratura italiana verso
il suo principio, ed a ritirarla, nel tenero, al fare petrarchesco, nel
forte, al dantesco; ma più veramente ancora per la natura sua sapeva
di Dante che del Petrarca. Sublimi e pretti pensieri aveva, sublime e
pura lingua usava, un terribile staffile maneggiava. Le _toalette_,
e i _sofà_, e i ventagli, ed i letticciuoli morbidi rammentava non
per lodarli, ma per fulminarli. Grande e robusto uomo fu costui,
nella satira il primo, nella lirica ancora il primo. Ei fe' vedere e
dimostrò che senza le nebbie caledoniche, senza le smancerie galliche,
e consistendo nella vera lingua e nel vero stile italiano si potevan
creare opere in cui colla purità si trovava congiunta l'energia. Più
che poeta, più che sacerdote d'Apolline fu, posciachè fu maestro di
virtù, ed i molli costumi ad una virile robustezza ridusse: l'eunuca
età a più maschi spiriti eresse. Tanto potenti furono i suoi detti,
tanto potenti i suoi scritti!...............
..... Forse, chi sa, un giorno verrà quando gl'Italiani avran dimesso
il mestiere del voler fare i pedissequi dei forestieri........... in
cui maggiormente il suo esempio ed i suoi altissimi versi frutteranno.
Eglino intanto debbono aver cara ed onorata sempre la memoria del
Parini, di quel Parini che dal lezzo li sollevò, e dalle insipide
erbe purgò il sentiero che mena all'eletto monte, dove la virtù e le
divine suore albergano. Parini, poscia Alfieri, spensero la letteratura
delle inezie; ed i descrittori delle scene di taverna, e di qualche
monasteruzzo, mercè le illustri fatiche di quel grande Milanese,
peneranno ad allignare.
«In nissun autore osservasi un così puro fiore, una così perfetta
fragranza delle tre letterature madri, quanto in Metastasio, e niuna
traccia, quantunque in mezzo alla corruttela che già cominciava
ad ammorbare, vivesse, in Lui si ravvisa di moderna foresteria.
L'anima sua nitida e dolce a ciò il portava, l'essere Romano forse vi
contribuiva; conciossiacosachè o che i letterati romani siano vissuti
divisi dai forestieri più che gli altri Italiani, o che la natura
romana più fortemente resista al piegarsi alle influenze altrui, o che
quella lingua tanto scolpita che parlano, italiani pensieri e italiane
immagini e forme più profondamente nelle menti loro imprima, o che
finalmente quel ravvolgersi continuamente fra le romane antichità,
che i concetti e la grandezza antica ad ogni momento loro ricordano,
sel facciano, certo è bene ch'essi più di ogni altro si tennero
lontani così dalle gonfiezze del secolo decimosettimo, come dal
loglio forestiero che veniva mescolandosi col grano d'Italia. La quale
cosa tanto è più da osservarsi quanto che Roma si trova fra Toscana
e Napoli, dove, dopo la metà del secolo ultimo, quel loglio aveva
messo più profonde barbe, ed erasi in isconcia guisa moltiplicato.
Chi Metastasio legge, beve a pieno vaso senza alcuna mescolanza di
stranezza la grazia greca, la maestà latina, la eleganza italiana.
Col chiaro, amabile ed armonioso suo stile, colla naturalezza dei
pensieri e dei sentimenti, col contrasto nitidissimo delle passioni,
non feroci e barbare, ma alte e generose, e tali quali a popoli
civili, non a Caraibi, o ad Uroni, o a quelle bestie del medio evo si
convengono, diede a divedere che stando nei confini delle letterature
madri della meridionale Europa, si può e muovere fortemente gli affetti
e, mantenendo la sincerità del gusto italiano, innalzare gli animi.
Certamente, mai nissun autore fu tanto Italiano quanto Metastasio.
Possente argine fu contro il contagio forestiero, possente rimedio
per risanare i corrotti. La quale salutare operazione con tanto
maggior efficacia fece, che pel genere delle sue composizioni e per
la chiarezza del suo stile egli andava per le mani di tutto il mondo.
Che anzi non solamente su i regi teatri i suoi drammi si cantavano,
ma eziandio sulle scene innalzate dai comuni o dai particolari si
recitavano, e pochi erano i villaggi, non che le città che ogni anno,
massime nell'autunno, non udissero alcuna opera del poeta romano
recitata da uomini colti, e talvolta ancora da uomini di villa, a cui
poco altro sapere era venuto che quello di saper leggere e scrivere.
Il concorso a queste rappresentazioni era grande, ed il piacere che gli
astanti provavano, maraviglioso. Attori e spettatori si immedesimavano,
e degli eroici costumi dell'antichità si dilettavano, e per essi di
migliori sentimenti s'informavano...............
Ciò pruova che il Metastasio era veramente autore italiano, poichè
tanto agli italiani andava a sangue. Ciò pruova ancora che il vero fine
delle rappresentazioni teatrali è d'invaghire l'uomo del bello ideale
ed eroico onde ritrarlo dal pensare e dal sentire abietto e plebeo, e
più avvicinarlo a quell'alto scopo per cui Dio l'ha creato. Il quale
effetto se alcune moderne composizioni facciano, lascio al lettore il
giudicare.
Ma, seguitando a parlare del Metastasio, per giudicar bene che cosa ei
fosse e quel che far si volesse, e' non bisogna supporre, come alcuni
fanno, che intenzione sua fosse di scrivere tragedie, dando al nome di
tragedia la significazione che volgarmente gli si dà. Imperocchè ei
non volle già comporre tragedie da recitarsi, ma drammi da cantarsi,
quantunque assai acconciamente ancora recitare si possano, ed in essi
non di rado si trovino scene che nella più vera e sublime tragedia
si confarebbero. Ma resta sempre che, scrivendo per la musica, egli
soggiaceva a parecchie necessità che la sua libertà impacciavano, e che
dalle esigenze o del compositore della musica, o de' cantanti, o dalle
consuetudini teatrali stesse di que' tempi derivavano. Maravigliosa
cosa è come fra tanti lacci produrre potesse scene da cui nasceva una
così potente mossa d'affetti.
Di questo poeta parlando, pel quale principalmente si fa manifesto che
la sublimità dei pensieri e dello stile possono stare con la semplicità
e con la chiarezza, cade in acconcio il discorrere dello stato in cui
si trovava la musica al tempo in cui viene a terminarsi la nostra
presente storia. Pare a me, ed anzi certo sono, ch'ella pervenuta
fosse a quel grado di perfezione, sopra il quale nulla più resta nè
da desiderare nè da aggiungere, ed al quale qualche cosa aggiungendo,
si va verso la corruzione. Ciò dal conservatorio di Napoli e dagli
ammaestramenti di Durante principalmente riconoscere si dovea. Era quel
conservatorio, come quasi il cavallo troiano, da cui uscivano, non già
uomini armati per incendere e distruggere le città, ma divini ingegni
da eccellenti maestri informati, che per l'Italia, loro felice patria,
poi per estere regioni portando andavano ciò che più l'anima molce ed
innalza, e dalle tristi cure che l'umanità tanto spesso affliggono
la solleva ed allontana. Non romorosi o abbaruffati componimenti
erano, ma per ciascun pezzo un'idea madre, un'idea architettonica,
alle quali le altre, come ancelle ad una regina, per darle maggiore
risalto e farla campeggiare, servivano. La stessa armonica simmetria ed
acconcia corrispondenza di tutte le parti si scorgeva nella totalità
del componimento, di maniera che non solamente si vedeva che era una
creazione dello stesso spirito, ma eziandio che al medesimo soggetto si
apparteneva. La semplicità e la unità cotanto raccomandate da Orazio,
e in ciascuna parte e nel tutto si osservavano, e con loro congiunta
una tale leggiadria, una tale grazia, una tale eleganza che a sentirgli
era un vero incanto, e l'uomo provava una dolcezza inestimabile.
Pareva che egli da queste terrene cose disciolto, ed in migliore mondo
trasportato, di angelica natura si vestisse.
Nè complicati o meccanicamente laboriosi erano i mezzi, di cui quei
divini ingegni si servivano per produrre così maravigliosi effetti.
Semplicissimi erano e, quasi direi, invisibili questi mezzi. Al mirare
que' loro spartiti, assai poche note vi si vedevano, onde quasi pareva
che vi fossero effetti senza causa. Ma la causa appunto più forte ed
operosa era, perchè più semplice era e sapeva batter bene in quella
parte del cuore che abbisognava. Ed io mi ricordo di avere letto nel
dizionario di musica del Rousseau un fatto mirabile, ed è dove racconta
il terribile effetto che sempre faceva su gli ascoltanti (credo, se ben
mi ricordo, nel teatro di Ancona) un recitativo solamente accompagnato
da poche note del violoncello; irresistibile era quest'effetto, onde
ognuno al solo suo approssimarsi, già si sentiva commosso e subitamente
impallidiva come se da una incognita e possente causa compreso e domato
fosse. Quella era veramente musica italiana, possente per semplicità,
per grazia, per verità; la melodia padrona, l'armonia serva, l'armonia
che non fa effetto se non quando imita la melodia, i mezzi meccanici
lasciati a chi callose orecchie ed insensibile cuore ha. Chi sa che
siano Omero, Virgilio, Raffaello d'Urbino, facilmente intenderà ciò
ch'io voglio dire. Ed Omero, Virgilio, Raffaello si erano trasfusi in
Paisiello e in Cimarosa ed in tanti altri compositori di quel tempo,
che veramente si può e dee chiamare l'età dell'oro per la musica.
La maestria e la vera arte non consistono nel far monti di note e di
strani e ricercati accordi, ma nell'inventare motivi nuovi, graziosi,
adatti all'effetto che si vuole esprimere, e questi accompagnare con
accompagnamenti che gli aiutino, non gli soffochino. Il quale modo
di comporre, siccome di maggior effetto, così ancora di maggiore
difficoltà è; conciossiacosachè assai più difficile bisogna sia
l'inventar cose ideali, cioè i motivi (dono dato dal cielo a pochi) che
il raccappezzare cose corporee, cioè gli accordi. Di gran lunga maggior
numero di motivi nuovi, cui i maestri chiamano di prima intenzione, e
perciò maggiore difficoltà superata ed assai maggiore e più eccelsa
facoltà creatrice havvi nella sola Nina di Paisiello o nel solo
Matrimonio segreto di Cimarosa che in tutte le opere insieme anche del
più fecondo compositore de' giorni nostri. È vero che non vi è tanto
fracasso, cioè tanti mezzi meccanici; ma i divini dove sono? Questa è
una età pessimamente corrotta: nel morale vuole la forza, nella musica
il fracasso. I compositori sono diventati servi delle orchestre, le
quali sempre vogliono sbracciarsi per fare un gran romore e far vedere
che sanno sonare le difficoltà, ed eseguire il concerto, i cantanti
sono soffocati ed obbligati di strillare, ed il pubblico, che ha
perduto il cuore ed è divenuto tutto orecchie, applaude;.....
Altra è la musica istromentale, altra la vocale. La voce umana è la
vera e naturale espressione delle passioni; gli istrumenti sono mezzi
artificiali li quali possenti non sono se non in quanto imitano la
voce umana, e più o meno possenti sono, secondochè più o meno a lei
si avvicinano o da lei si discostano. Questa è la ragione per cui quel
gemere di violino ne fa uno strumento potentissimo. Onde non solamente
contro l'effetto fa, ma ancora contro natura chi con gl'istrumenti
soffoca la voce invece di secondarla ed aiutarla.
Io fui amico, ed egli a me, e molto me ne pregio, di un gentilissimo
maestro italiano. Compostasi da lui alcun tempo vera musica italiana,
piena di verità, di soavità, di grazia, come, per esempio, i suoi
bellissimi notturni sulle parole di Metastasio, una delle più
dolci cose che siano uscite da un cuore dolcissimo, si diede poi
a ingarbugliarsi con mescolare con eccessiva proporzione, musica
istromentale colla vocale. E Paisiello per Milano passando per andar
a Parigi ai cenni di Napoleone, sentita quella sua musica nodosa e
strepitosa, e, postagli la mano sulla spalla, gli disse: «Bonifazio,
lascia stare la musica tedesca.» (Il tarantino Anfione parlava della
musica vocale[2].) Il grazioso uomo mi disse con quella sua giovenil
voce che sempre ebbe: «Me la sono attaccata all'orecchio;» ma non se la
attaccò. Veramente il buon Bonifazio, oltre ad altre sue composizioni
alla tedesca, aveva composto la musica per un dramma a Torino, la
quale, malgrado di un gran miagolare di bassi che vi aveva fatto, non
ebbe alcun buon successo; felicissima vena, se mai una fu al mondo, e
veramente correggiesca, da un poco sano metodo di comporre guastata.
«La poesia e la prosa erano parecchie volte degenerate in Italia, e da
quasi cinque secoli avevano a più maniere di degenerazioni soggiaciuto.
La musica sola, da' suoi principii al suo apice gradatamente
ascendendo, sempre simile a sè medesima era proceduta, vero e sincero
frutto italico dimostrandosi. Tanto crebbe, che finalmente al punto
di perfezione pervenne, allor quando Cimarosa e Paisiello colle
loro mirabili melodie incantavano il mondo. Il secolo decimottavo
dopo il cinquanta fu per la musica ciò che il decimosesto fu per
la pittura, quando con le loro divine rappresentazioni Raffaello e
Michelagnolo pruovavano che la Grecia s'era in Italia trasportata. A
ciò contribuì Metastasio co' suoi dolcissimi versi, e, secondochè gli
affetti portavano, qualche volta ancora tremendi, ma pur sempre dolci.
Vincendevolmente i musici coi loro soavi o tremendi accenti al fare
di Metastasio ed all'imperio ch'egli sulle anime acquistato aveva,
contribuirono. Musica era la poesia di Metastasio, poesia la musica dei
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