Annali d'Italia, vol. 8 - 20

superflui, o poco proficui, o privilegiati, e tra questi quello delle
regalie, togliendo in tal modo qualunque prerogativa che sottraesse ai
tribunali ordinarii quelle cause che percuotevano l'interesse della
corona. Esentò i comuni dai fori privilegiati; li rendè liberi nel
governo dei loro beni, diede loro facoltà non solamente di esaminare,
ma ancora di giudicare dell'opportunità delle pubbliche gravezze
per modo che il corpo loro venne a formare nel granducato a certi
determinati effetti una rappresentanza nazionale. Condonati, oltre a
ciò, dei debiti verso l'erario, e soddisfatti dei crediti, sorsero a
grande prosperità; crebbela ancor più il miglioramento del catasto.
Soppressi adunque i privilegii individui e i fori privilegiati, corpi
e persone acquistarono equalità di diritti quanto alla giustizia. Tali
furono gli ordini civili introdotti da Leopoldo. Circa i criminali
annullò altresì ogni immunità e parzialità di foro; abolì la pena
di morte, abolì la tortura, il crimenlese, la confisca dei beni,
il giuramento de' rei; statuì, le querele doversi dare per formale
istanza, e dovere stare il querelante per la verità dell'accusa;
restituirssersi i contumaci alla intregrità delle difese; del ritratto
delle multe e pene pecuniarie, cosa degna di grandissima lode, si
formasse un deposito separato a beneficio di quegli innocenti che
il necessario e libero corso della giustizia sottopone talvolta
alle molestie di un processo, ed anche del carcere, non meno che
per soccorrere i danneggiati per delitti altrui; il che fondò, cosa
maravigliosa, un fisco che dava invece di togliere; le pene stabili
proporzionate al delitto. Nè contento a questo, diè carico di scrivere
un novello codice toscano all'auditor di ruota Vernaccini ed al
consigliere Ciani, uomini l'uno e l'altro, i quali non solo volevano
e sapevano, ma ancora credevano potersi far bene e utilmente in queste
faccende delle leggi, il che non si dice senza ragione a questi nostri
dì, in cui da alcuni vorrebbesi insegnare che la miglior legislazione
che sia è quella dei tempi barbari.
Fu l'effetto conforme alle pie intenzioni; poichè fu in Toscana una
vita felicissima dopo le novità di Leopoldo: i costumi non solo buoni,
ma gentili; i delitti rarissimi, nè sì tosto commessi che puniti; le
prigioni vuote, ogni cosa in fiore. Così questa provincia, che già
aveva dato al mondo tanti buoni esempi, venuta in podestà d'un principe
umanissimo, diè ancor quello di un corpo di leggi temperato di modo che
nè il governo maggiore sicurezza, nè i popoli potevano maggior felicità
desiderare.
A questo medesimo fine contribuirono non poco i nuovi ordini di
Leopoldo rispetto all'agricoltura ed al commercio. Rendè i coloni
liberi dalle vessazioni, le terre dalle servitù, moderò la facoltà
di instituir fidecommissi, riunì la facoltà del pascolo al dominio,
onde fu distrutta l'antica legge del pascolo pubblico, per cui
veniva impedito ai possessori ed ai coloni di cingere di stabili
difese i terreni, e costretti erano a lasciarli in preda al bestiame
inselvatichito, con grandissimo guasto delle ricolte. Nacquero
da questa provvisione effetti notabilissimi, che e le ricolte si
migliorarono, ed i bestiami si addomesticarono.
Considerato poi quanto gli appalti generali dei dazii fossero molesti
ai popoli e gravi ai governi buoni, Leopoldo gli abolì. Molte privative
ancora furono tolte, quella della vendita dei tabacchi, dell'acquavite
e del ferro; a tutti si diè facoltà di cavar miniere; le gabelle sui
contratti, e la regalia della carta bollata si moderarono. Sapevasi
Leopoldo che tutte queste riforme avrebbero diminuito le entrate
dell'erario. Pure non se ne rimase, movendolo il ben pubblico più
che il vantaggio del fisco. Ciò non ostante, assai meno diminuirono
che s'era creduto; perchè la prosperità del paese e la più attiva
circolazione dei generi, che ne risultarono, supplirono in gran parte
quello che si perdeva. Mirabile argomento che la prosperità dei popoli
prodotta dallo svincolo, non la gravezza delle imposte, è la maggior
fonte che sia della ricchezza dell'erario.
Si aggiunsero le dogane interne soppresse, nuove strade aperte, canali
scavati, porti e lazzaretti o nuovi o ristorati, fatto sicuro a Livorno
agli esteri lo esercizio della religione, aboliti i corpi delle arti e
le matricole, surrogati agli impedimenti premii, facilità ed esenzioni,
massime in benefizio delle arti della seteria e del lanificio, parti
essenzialissime del commercio di Toscana. La libertà delle tratte,
mediante un modico dazio rispetto alle sete, tanto operò che se il
provento loro in Toscana montò, nel 1780, solamente a libbre cento
sessantatre mila cento settantotto; montò nel 1789, diciamlo in questo
luogo, a ben trecento mila.
Ma, per parlar di nuovo del governo delle terre, non solo Leopoldo
lo migliorò d'assai migliorando la condizione dei coloni, ma rendè
ancora coltivabili quelle che per infelicità di suolo si trovavano
incolte. Così la val di Chiana, così quella di Nievole, ricche ed
ubertose terre; così in gran parte il capitanato di Pietrasanta, e le
frontiere del litorale livornese e pisano, usando, secondo i luoghi,
appositamente tagli, colmate, argini, canali, furono per opera sua
liberate dall'acque, ridotte a sanità e restituite alla coltivazione.
Ma opera di molto maggior momento e di quasi insuperabile difficoltà
fu il prosciugamento delle maremme sanesi a tal termine condotto
che si aveva speranza di totale perfezione. Sono le maremme sanesi
un vastissimo padule che dai confini della provincia di Pisa sino a
quelli dello Stato ecclesiastico si distende, lungo il mare, lo spazio
di circa settanta miglia, e per larghezza dentro le terre da cinque o
sei fino a quindici o diciotto. La pianura di Grosseto è la parte più
considerabile di queste maremme. Sono in questi luoghi i terreni non
sommersi tanto fecondi, quanto l'aria vi è infame e pestilenziale.
Sotto Ferdinando I de Medici erasi già in parte conseguito l'intento,
e parecchi paduli a stato coltivabile ridotti. Trascurate poi le
opere da' suoi successori, ritornarono le terre e l'aria a peggior
condizione di prima. Ma non così tosto fu assunto Leopoldo, che pensò
alle maremme. Mandovvi il padre Ximenes, mandovvi Ferroni e Fantoni,
matematici di chiaro nome e dell'idraulica intendentissimi. Già la
pianura di Grosseto o, per meglio dire, la palude di Castiglione,
ambedue parti principalissime delle maremme, eransi ridotte a stato
tollerabile. Speravasi meglio, anzi il finale intento: usavansi
le colmate per le acque dell'Ombrone e della Bruna, introdotte ai
tempi delle torbe; usavansi canali e cateratte in più opportuni siti
trasportate.
Oltre a ciò, Leopoldo, mosso dal pensiero che le popolazioni scarse
fanno l'aria insalubre, le abbondanti sana, allettò con premii ed
esenzioni tanto i paesani quanto i forestieri, principalmente gli
abitatori dell'agro romano, a fermare la sede loro nella maremma.
Pagassesi dell'erario il quarto del prezzo delle nuove case ai
fondatori, dessersi terre o gratuitamente od a basso prezzo od a
carico di livelli od in enfiteusi; dessesi anco denaro a prestito, e
sicuro asilo a chi vi si venisse a ricoverare. Per questo crebbe la
popolazione, ed i terreni si coltivarono, e l'aria risanò. Peggiorarono
poi le opere per le difficoltà dei tempi; pure rimangono, e forse
ancora lungo tempo rimarranno nelle maremme sanesi i vestigii della
generosità di Leopoldo.
Nè minor lode meritano gli ordinamenti di questo giusto e magnanimo
principe circa il debito dello Stato. Più di tre mila luoghi di monte
furono cancellati, restituiti i capitali ai creditori col ritratto dei
beni venduti spettanti a regie e pubbliche aziende, impiegando a questo
uso anche i capitali provenienti dalla dote e contraddote della regina
sua moglie, ed altri costituenti parte del patrimonio suo privato. In
tal modo si spense in gran parte il debito che tanto gravava l'erario:
così, mentre in altri luoghi d'Italia il debito dello Stato montava
continuamente non per altro fine che per crear soldatesche, in Toscana,
per opera di Leopoldo, il debito medesimo si estingueva per fondarvi un
governo dolce, quieto per sè, sicuro pei vicini.
Nè per questo tralasciavansi provvedimenti di utilità o di ornamento;
perciocchè nel tempo medesimo sorgevano scuole per ogni ceto,
conservatorii, case di rifugio e di ricovero, ospizii ed ospedali,
e gli studii di Pisa e di Siena meglio si ordinavano; nuovi palazzi
fondavansi, gli antichi si abbellivano, nuovi passeggi si aprivano, le
librerie si arricchivano, il gabinetto di fisica s'accresceva, ed un
orto botanico si piantava.
Tra mezzo a tutto questo il principe, siccome quello che giusto
era e sincero, non volle starsene oscuro. E però fe' pubblicare la
dimostrazione per entrata e per uscita delle rendite dello Stato: in
questo quasi specchio dell'economia di Toscana vedonsi ed i risparmii
fatti e le imposizioni moderate ed il denaro convertito in cause
pietose di sollievo o d'ornamento pubblico.
E qui sarebbe da continuare il discorso intorno alle cose
ecclesiastiche; ma siccome ebbero compimento nell'anno seguente, così a
quello differiremo il tenerne parola.


Anno di CRISTO MDCCLXXXVII. Indiz. V.
PIO VI papa 13.
GIUSEPPE II imperadore 23.

Le riforme fatte in Toscana da Leopoldo nelle ecclesiastiche discipline
furono materia di molta gravità, e che destò molto grido e molta
aspettazione di uomini sì in Italia che fuori di essa. Gli antichi
Toscani, più propensi a dar ricchezze ai conventi che alle parrocchie,
lasciarono quelli ricchi, queste povere. Leopoldo convocò in quest'anno
un'assemblea dei vescovi di Toscana, proponendo loro cinquantasette
punti; tutti relativi alla riforma dell'ecclesiastica disciplina.
Molti si accordarono, altri si modificarono, altri si serbarono a tempi
migliori.
Il principe, avuto il parere di alcuni ecclesiastici di non poco
nome, stabilì le parrocchie dessersi a concorso, s'aumentassero i
redditi loro; veruna tassa più non pagassero ai vescovi forestieri,
annullassersi le pensioni di qualunque sorte sopra i benefizii curati,
permutassesi la destinazione dei fondi vincolati ad usi religiosi
e indifferenti, o poco utili, ed il provento di tali capitali in
aumento delle scarse congreghe dei parochi più bisognosi s'impiegasse;
con questo ed in compenso di tali concessioni i rettori delle cure
dall'esazione delle decime e da altri emolumenti di stola desistessero;
i parrochi alla residenza obbligati fossero; niuno più di un benefizio
godere potesse, ancorchè semplice, massimamente se residenziale fosse;
tutti i sacerdoti che benefizio residenziale avessero, fossero alla
chiesa, ove era fondato, incardinati, e tutti i sacerdoti semplici,
alla chiesa parrocchiale dove abitassero, e ciò con dipendenza dal
paroco, ed obbligo di aiutarlo nel pio suo ufficio; i benefizii tanto
di collazione ecclesiastica, quanto di nomina regia, a chi servito
avesse od attualmente servisse la chiesa, solo ed unicamente si
conferissero; i regolari ed i canonici dal paroco dipendessero, e ad
aiutarlo in tutto che abbisognasse obbligati fossero; alla sussistenza
degli ecclesiastici o poveri od infermi provvedessesi; i romiti,
salvo quelli che utili fossero, abolissersi; tutte le compagnie,
congregazioni e confraternite sopprimessersi: a tutte sostituissersi
le sole compagnie di carità; le chiese, oratorii, refettorii e stanze
delle compagnie soppresse ai parrochi gratuitamente si consegnassero;
i religiosi regolari dal vescovo dipendessero; l'abito non vestissero
prima dei diciotto anni, non professassero prima dei ventiquattro;
le religiose non prima dei venti vestissero, non prima dei trenta
professassero; il tribunale del santo ufficio s'annullasse; gli
ordini di Roma tutti si assoggettassero al regio consenso, prima che
pubblicarsi ed eseguirsi potessero; s'intendesse abolito il privilegio
degli ecclesiastici di tirar i laici al foro loro, e nelle cause
criminali in tutto e per tutto ai laici parificati fossero; le cure
ecclesiastiche e delle cause meramente spirituali conoscessero, e pene
puramente spirituali definissero; gli ordinarii ogni due anni il sinodo
diocesano, per conservare la purità della dottrina e la santità della
disciplina, convocassero.
Queste deliberazioni del principe Toscano, ancorchè molestissime
alla santa Sede, pareva che non toccassero la sostanza stessa di
quell'autorità spirituale pontificia, che già da più secoli i papi
avevano piena ed intiera.
Ma a quelle deliberazioni non si rimase Scipione Ricci, vescovo di
Pistoia, che aveva già opinato nell'assemblea dei vescovi di Toscana
acciò si ampliassero le facoltà, non che de' vescovi, de' parochi,
volendo che gli uni e gli altri avessero voce deliberativa ne' sinodi
diocesani. Statuì poi nel suo sinodo, avere il vescovo ricevuto da
Cristo immediatamente tutte le facoltà necessarie al buon governo della
sua diocesi, nè potersi le facoltà medesime od alterare od impedire, e
poter sempre e dovere un vescovo nei suoi diritti originarii ritornare
quando lo esercizio loro fu per qualsivoglia cagione interrotto, se il
maggior bene della sua chiesa il richiegga. Le quali proposizioni ed
altre ancora diedero assai mal suono, per guisa che Pio VI come erronee
ed anche come scismatiche alcuni anni dopo le condannò. Aggiunse il
Ricci alcune altre dottrine che parvero e temerarie ed alla santa Sede
ingiuriose: essere una favola pelagiana il limbo de' fanciulli; un solo
altare dover esser in chiesa secondo il costume antico; la liturgia ed
esporsi in lingua volgare e ad alta voce recitarsi; il tesoro delle
indulgenze essere trovato scolastico, chimerica invenzione lo averlo
voluto applicare ai defunti; la convocazione del concilio nazionale
esser una delle vie canoniche per terminar le controversie circa la
fede ed i costumi. In fine sommamente dolse a Roma quella proposizione
del sinodo pistoiese, per la quale i quattro articoli statuiti dal
clero gallicano nell'assemblea del 1682 si approvarono, e questa
particolarmente Pio VI con una sua bolla cassò e dannò come temeraria,
scandalosa ed alla santa Sede ingiuriosa.
Le dottrine del sinodo pistoiese levarono un gran rumore in Italia,
massimamente quando furono condannate a Roma. Scritti senza numero vi
si pubblicarono, quali in favor di Roma, quali in favor di Pistoia.
Allegavasi da' Romani incominciare a por piede in Italia le eresie
di Lutero; da' difensori del Ricci, un salutar freno incominciarsi e
porre agli abusi. Gli ultimi, tra perchè pretendevano ai discorsi loro
parole di semplicità e di parsimonia, e perchè inclinavano a favore de'
più, molto s'avvantaggiavano sugli avversarii loro ed andavano ogni dì
maggior favore acquistando.
Queste ferite tanto più addentro andavano a penetrare nel cuor del
pontefice, quanto più nel regno stesso di Napoli le medesime o poco
dissomiglianti dottrine si professavano. Pareva, ed ai principi
massimamente, che le dottrine che in Toscana prevalevano, non solo la
disciplina ristorassero, ma ancora la potenza temporale alla libertà
ed alla indipendenza da' romani pontefici restituissero. Perlochè con
piacere si abbracciavano, con celerità si propagavano, con calore si
difendevano. Ma nel regno delle Due Sicilie erano alcuni particolari
motivi per cui le medesime dottrine, che suonavano parole tanto
gradite di libertà e d'indipendenza, fossero dal governo medesimo
più volonterosamente ed accettate e difese. Da quanto si è venuto ne'
precedenti anni discorrendo si vede che colà pure i medesimi tentativi
si facevano che nella Lombardia austriaca ed in Toscana circa alla
disciplina ecclesiastica, ma con maggior ardore, come si disse, a
cagione delle controversie politiche con Roma. Composte aveva Pio VI,
al cominciamento del suo regno, o almeno acchetate le controversie
che sussistevano colla corte di Napoli; ma ben tosto si rinnovarono
più ardenti, e forse contribuì ad accenderle l'intolleranza del nunzio
pontificio, il quale ancora in quest'anno in Napoli trovavasi. Perdette
Roma il tributo della chinea, nè giovarono a ristabilirlo le erudite
allegazioni del cardinale Borgia ed altri scritti d'ordine della romana
corte pubblicati; ed il cardinale Buoncompagni, a Napoli spedito per
rivendicare almeno in parte il diritto di nomina ai vescovadi del regno
che quel sovrano erasi arrogato, nulla potè ottenere. Sembrava che la
corte volesse liberarsi da quella specie di tutela sotto la quale i
precedenti pontefici aveanla tenuta: scritti giurisdizionali fortissimi
pubblicavansi in quel regno, ed apertamente attaccavasi la pontificia
autorità; nè quelle contese cessarono se non allorchè un più importante
avvenimento, il cominciare, cioè, della rivoluzione di Francia, tutta
attrasse ed assorbì l'attenzione dell'Europa; vorticoso nembo che già
ci si vien facendo sopra.


Anno di CRISTO MDCCLXXXVIII. Indiz. VI.
PIO VI papa 14.
GIUSEPPE II imperadore 24.

Comincia quest'anno colle convulsioni della natura che desolarono gli
Stati del pontefice. Rimini varie scosse ne sentì successivamente,
a brevi intervalli, una più forte dell'altra. Scrollarono molti
edifizii, e quelli che in piedi rimasero davano nelle soffitte e nelle
pareti segni della potenza del terremoto; chiese e palagi, oggetti
spaventevoli di compassione. Gli abitanti atterriti e dal terrore
inseguiti, fuggiano per le piazze, uscian dalla città all'aperta
campagna, asilo cercando anche dove men sicuro asilo era. Molti caddero
vittima del disastro. Lungo tempo i tremebondi Riminesi soggiornavano
sotto le tende, anche nelle crude notti dell'invernal stagione. E Pio
VI, padre e signore, ad accorrere in sollievo de' suoi sudditi, de'
suoi figli, inviando loro non meno pronti che generosi soccorsi.
I due vulcani di Napoli e di Sicilia, se colle eruzioni straordinarie
non cagionarono grandi danni, sommo spavento destarono. Nell'Etna fu
maggiore che non nel 1779: l'arena e le pietre caddero sino sulla città
di Messina, sulle campagne adiacenti, su quelle dell'opposta Calabria,
sopra tutte le isole circostanti, e sino in Malta. Nè il Vesuvio volle
esser da meno: nel tempo stesso cominciò a gettar fiamme, e scorrendo
la lava lateralmente nel vallone che divide quella montagna dall'altra
di Somma, portò il terrore nell'anima degli abitatori della più
deliziosa parte dell'Italia.
Volle il re di Napoli mettere in piedi una rispettabile marineria:
trentadue legni da guerra, tra navi, fregate, corvette, brigantini e
galeotte, senza contare gli sciabecchi, gli ebbe costruiti ne' due
arsenali di Napoli e Castellamare, trovandosi egli continuamente
presente ad affrettare ai lavori.
Con queste forze gli venne fatto di reprimere le piraterie dei
Barbareschi che pareva avessero preso di mira particolarmente i legni
mercantili napoletani. Erano coloro in quest'anno usciti a corseggiare
più forti e più numerosi del solito, sotto pretesto di doversi, come
tributarii, unire alla flotta ottomana contro i Russi. A maggior
sicurezza, il re conchiuse un trattato di commercio e di navigazione
coll'imperatrice Caterina II, soprattutto pei porti russi sul mar Nero,
co' quali erasi stabilito un traffico proficuo ad ambe le nazioni.
Nè soli i Barbareschi abusavano dell'occasione della guerra tra i
Turchi ed i Russi, onde insultare persino quelle nazioni colle quali
erano in pace le loro reggenze; meno non ne abusavano alcuni altri
Europei, dandosi alla pirateria con bandiera russa. Se non che, a porvi
un argine, sorse Caterina con provvidenze opportune; e la repubblica
di Venezia, però che non erasi ancor potuta conchiudere coi Tunisini
la pace, faceva dal suo capitano delle navi Angelo Emo, di cui abbiam
detto, battere colla poderosa sua squadra di ottanta legni armati
le acque del Mediterraneo, perchè rispettata fosse la veneziana
neutralità, protetto il commercio, tolto di mezzo qualunque disordine.
A dì 31 di gennaio passò di questa vita in Roma, nell'età di
sessantasette anni, Carlo Odoardo della regal casa Stuarda, figliuolo
di Giacomo III e nipote di Giacomo II, re d'Inghilterra, della cui
impresa, a ricovrare il regno intesa, il sommo Muratori espose le
vicende nell'anno 1745.


Anno di CRISTO MDCCLXXXIX. Indiz. VII.
PIO VI papa 15.
GIUSEPPE II imperadore 25.

Nuova era apresi in quest'anno alla storia. Prima però di chiudere con
adequato discorso quella che sin qui trascorremmo, e di apparecchiarci,
colla esposizione dello stato d'Italia nel punto dal quale partiremo
per percorrere la novella, vogliamo notare in questo luogo alcun fatto
di minore importanza, ma che tuttavia merita d'essere ricordato in
questi Annali.
Fece molto parlare di sè sul finire di quest'anno un uomo singolare;
vogliam dire il conte Alessandro Cagliostro. Sotto di questo nome
un avventuriere si è acquistata non tenue celebrità. Non è noto
particolarmente che per alcuni libelli, sempre sospetti di parzialità,
e pel processo fattogli a Roma. Ma l'ignoranza e le contraddizioni de'
compilatori non permette di credere ad essi gran fatto maggiormente.
Comunque sia, riferiremo succintamente i principali fatti narrati nel
processo. Cagliostro nacque, dicono, a Palermo, il dì 8 di luglio
1743, da genitori di mezzana condizione, ed il suo vero nome era
Giuseppe Balsamo. Dopo una gioventù burrascosa non poco, e dopo molte
gherminelle, come quella che fece ad un orefice nominato Marano, al
quale cavò sessanta oncie di oro colla promessa di dargli un tesoro
sotterrato in una grotta, custodita dagli spiriti infernali, lasciò
la sua città natia, e cominciò a viaggiare. Visitò successivamente la
Grecia, l'Egitto, l'Arabia, la Persia, Rodi, l'isola di Malta, ed in
quei viaggi strinse amicizia col dotto Althotas, ch'egli ci ha dipinto
come il più saggio degli uomini; ma lo perdè a Malta, dove fu bene
accolto dal gran maestro che gli diede commendatizie per Napoli. Di
Napoli andò a Roma. In questa città conobbe la bella Lorenza Feliciani,
colla quale si unì in matrimonio. Da Roma gl'inquisitori della sua
vita gli fanno scorrere pressochè tutte le città d'Europa sotto i nomi
diversi di Tischio, di Melissa, di Belmonte, di Pellegrini, d'Anna, di
Fenice, di Harat e di Cagliostro, vivendo ora del prodotto delle sue
composizioni chimiche, ora di giunterie, più sovente del vergognoso
traffico che faceva delle bellezze della sua sposa. L'apparizione
più brillante di questo personaggio singolare fu quella che fece a
Strasburgo ai 19 di settembre 1780. Sarebbe difficile l'esprimere
lo entusiasmo ch'egli destò in quella città e di far conoscere i
moltiplicati atti di beneficenza onde parve che lo giustificasse.
La Borde non conosce termini abbastanza forti per dipingere il conte
Cagliostro. Nelle sue Lettere sulla Svezia, ei lo qualifica come uomo
ammirabile per la sua condotta e per le sue vaste cognizioni. «La
sua fisonomia, dice, annunzia lo spirito, esprime l'ingegno; i suoi
occhi di fuoco leggono nel fondo degli animi. Sa pressochè tutte le
lingue dell'Europa e dell'Asia, la sua eloquenza sorprende e rapisce,
anche in quelle cui parla men bene.» «Ho veduto, prosegue dicendo,
questo degno mortale in mezzo ad una sala immensa, correre di povero
in povero, medicare le schifose piaghe di tutti, mitigarne i mali,
consolarli colla speranza, dispensar loro i suoi rimedii, colmarli di
benefizii, alla fine caricarli de' suoi doni, senz'altro scopo fuor
quello di soccorrere l'umanità sofferente. Tale spettacolo incantatore
si rinuova tre volte ogni settimana; più di quindici mila infermi gli
devono l'esistenza.» A sì fatte testimonianze di La Borde si possono
aggiungere le lettere scritte al pretore di Strasburgo nel 1783 da
Miromesnil, da Vergennes, dal marchese di Segar, colle quali si chiede
l'appoggio dei magistrati in favore del nobile straniero, ne' termini
più favorevoli per esso. Tali tratti, è d'uopo confessarlo, non si
confanno colla orrida pittura che di Cagliostro ha fatto l'autore
della sua Vita, il quale lo mostra come l'infimo de' mariuoli ed il più
abbietto degli uomini. Ai 30 di gennaio 1785 il conte di Cagliostro,
che aveva già fatto un viaggio a Parigi, ritornò in essa capitale ed
alloggiò nella via San Claudio presso il baloardo. In quell'epoca si
tramava, o piuttosto, come dice egli medesimo, era già nata la famosa
baratteria della collana. Gl'intimi vincoli del conte col principe
Luigi di Roano, fortemente implicato in tale faccenda, dovevano fargli
temere per la sua propria libertà; ma fatto forte della sua innocenza,
s'oppose alle istanze de' suoi amici, i quali lo stimolavano a lasciar
Parigi. In fatti venne arrestato il dì 22 di agosto e chiuso nella
Bastiglia. La contessa di La Motte l'accusò «d'aver ricevuto la collana
dalle mani del cardinale, e di averla fatta in pezzi onde ingrossarne
l'occulto tesoro d'una facoltà inudita.» La accusa era un assurdo.
Cagliostro rispose con una memoria che fu dai Parigini ricevuta con la
sollecitudine che inspirava il personaggio. In tale memoria, di cui
si attribuisce la compilazione ad un magistrato celebre, Cagliostro,
senza appagare pienamente la curiosità del lettore, esce in alcuni
tratti del romanzo della sua vita, e dà ad intendere che la sua
nascita, quantunque sconosciuta, è illustre. Cita, affermando di
averli frequentati, i personaggi più eminenti dell'Europa, ed invoca
la loro testimonianza: nomina i banchieri che in tutte le città gli
somministrarono denaro, ma senza far conoscere la sorgente delle sue
ricchezze. La sentenza del parlamento del 31 di maggio 1786 assolse
il principe Luigi e Cagliostro dalle accuse contro di essi intentate;
ma entrambi furono esiliati. Cagliostro si ritirò in Inghilterra ivi
soggiornò circa due anni; passò da Londra a Basilea, indi a Bienne,
ad Aix, in Savoia, a Torino, a Genova, a Verona, e da ultimo andò
a Roma, dove fu arrestato il 27 di dicembre del presente anno e
trasferito nel castello Sant'Angelo, in un con sua moglie. Volendo
qui dire quant'è da dirsi di costui: gli fu fatto il processo e venne
condannato a dì 7 del mese di aprile 1791, siccome in esercizio
di libero muratore. La pena di morte, a cui era motivo siffatto
delitto, fu commutata in una prigione perpetua. Dicesi che sia morto
l'anno 1795 nel castello di San Leo. Sua moglie era stata anch'essa
condannata a perpetua clausura nel convento di Sant'Apollinare.
Furono spacciate sul conte Cagliostro parecchie favole, le quali altro
fondamento non hanno che la preoccupazione o le opinioni particolari
di chi le ha divulgate, gli uni lo tengono per uomo estraordinario,
per un vero facitor di prodigii; altri non veggono in lui che un
accorto ciarlatano. Gli si attribuiscono cure maravigliose e senza
numero; sembra nulladimeno evidente che il suo sapere in medicina
fosse estremamente limitato. Ugualmente che tutti i partigiani delle
dottrine ermetica e paracelsica, faceva grand'uso d'aromi e di oro.
Fu Cagliostro, caduto sotto le investigazioni della inquisizione, fu
tenuto per membro dei muratori templarii, ed attribuita la continua sua
opulenza ai moltiplici soccorsi che dalle diverse logge dell'ordine
gli provenivano. L'autore già citato della sua vita gli dà il vanto
dell'instituzione d'una società di muratori che si dicono egiziani,
la quale, s'egli fedelmente la avesse descritta, non sarebbe stata
che una meschina ciarlataneria, inetta a trappolare un istante l'uomo
meno assennato. Una pupilla o colomba, cioè una fanciulla nello stato
d'innocenza, messa dinanzi una caraffa, ma riparata da un paravento,
otteneva per la imposizione delle mani del gran cofto, la facoltà di
comunicare cogli angeli, e in quella caraffa vedeva qualunque cosa
volevi che vedesse. Finalmente uno scrittore de' nostri giorni, l'abate
Fiard, non dubitò di far Cagliostro uno spirito del tenebroso impero e
di associarlo con Mesmer, Pinetti, ed altri, all'infernale coorte. Il
cavalier Bossi, nella sua Istoria d'Italia, dopo esposte e confutate
le opinioni che intorno a Cagliostro correvano, conchiude: «Certo
è che giudicato fu egli secondo le massime del santo ufficio, e reo
supposto di avere sparso erronee opinioni e praticati gl'insegnamenti
delle scienze occulte, fu condannato a morte...... sebbene osservassero