Annali d'Italia, vol. 8 - 19
pontefice, da solo a solo, nissun cardinale, nissun prelato, nissun
domestico ammesso ai segretissimi colloqui.
Ai 20 di febbraio l'austriaco principe arrivava a Milano. In Torino ora
si riscaldava ora si raffreddava il grido della sua venuta. Vittorio
Amedeo di Sardegna desiderava che la sua città visitasse. Mandò il
marchese Balbis, pregando acciò venisse. Furono tra l'inviato del re e
lo imperatore molte cose parlate, ma nissuna conclusa. Per non vedere
quelle sponde del Po, l'Austriaco si scusò colla brevità del tempo:
il duca del Chiablese, fratello di Vittorio, fu mandato a Milano per
onorarlo.
Giuseppe fu nella capitale della Lombardia ciò che era stato altrove,
ma essendo fra i suoi popoli, con le mani ancor più piene di grazie per
dar riparo alla vita dei miseri. Visitò quindi Pavia e la sua famosa
università, a cui egli e la sua madre augusta tanto lustro, tanti
nobili professori, tanti utili sussidii di scienze avevano procacciato.
Era a quei tempi Pavia una vera italica Atene. Ognuno, crediamo, di
questo parere sarà, quando dirassi che Scarpa, Spallanzani, Gregorio
Fontana, Volta, Scopoli, Franck, Presciani, Tamburini, Mascheroni
e tanti altri illustri uomini la studiosa gioventù alle fonti del
sapere abbeveravano. Quivi l'imperatore, come in gratissimo seggio,
si rallegrava. Tutti quei virtuosi sacerdoti delle muse amorevolmente
accolse, e tutti quei preziosi repositorii di libri, dei parti dei tre
regni, curiosamente esaminò ed accrebbe, tutti quei ticinesi popoli
coi detti ed ancora più coi fatti rallegrò e consolò. Veduta al suo
cospetto la facoltà di teologia, così le disse: «Attendete pure ad
insegnare i dogmi semplicemente, e non istate a mescolarvi questioni
inutili, commenti oscuri, sofisticherie scolastiche. Le superflue
parole non ad altro servono che a suscitare gli odii ed a soffocare
i principii del vero cristianesimo. Sia chiara e schietta la fede,
benigna e tollerante la carità: sia Cristo la nostra face, Cristo il
nostro amore; le oziose ed acerbe disputazioni lasciamo a chi mal vede,
a chi mal sente, a chi mal ama.»
Così parlato, e poco ancora dimoratosi nell'antica sede del regno
lombardo, sede recente di più fortunati influssi, quell'amorevole padre
dei popoli a Milano tornò; poscia, valicate le Alpi, sulle sponde del
Danubio si ricondusse. Lasciò in Italia immortale memoria de' suoi
benefizii, ed un fratello condegno imitatore delle sue virtù.
Tutto il tempo che Giuseppe, di Napoli partito fermossi in Italia,
Gustavo di Svezia si trattenne a Napoli. Parea che i due sovrani non
avessero gran piacere di trovarsi insieme in alcun luogo. Per tanto,
restituitosi il re di Svezia a Roma il dì 10 di marzo, vi rimase sino
al 19 di aprile, i maggiori riguardi al capo della Chiesa cattolica
dimostrando, e colle maniere cortesi ed affabili la benivoglienza dei
Romani conciliandosi. Andato una mattina a vedere il museo, vi trovò
come a caso il pontefice, e, trattenendosi seco in conversazione presso
a due ore, formò il soggetto d'un bellissimo quadro del celebre pittore
franzese Gagneraux.
Assistendo alle funzioni della settimana santa, veramente magnifiche
nella principal chiesa dell'universo, non si potè, che pieno di
ammirazione non si manifestasse avere i protestanti il torto nel
criticare la pompa delle cattoliche funzioni; poichè, essendo ai popoli
la religione necessaria, era ben fatto circondarla con tutto ciò che
può renderla agli occhi umani rispettabile ed augusta.
Non per tanto, temendo quel monarca che i suoi popoli, della setta
di Lutero seguaci, nol credessero disposto rinnovellar l'esempio dato
un secolo prima dalla regina Cristina, e assicurarli volendo del suo
attaccamento al culto del proprio paese anche in mezzo alla cattolica
Italia, pose la romana tolleranza ad uno stranio cimento. Ordinò che
fosse alla meglio preparata una cappella nella sala del palazzo che
abitava, ed ivi assistette divotamente ad un discorso assai lungo del
barone di Taube, vescovo svedese, suo primo predicante e cappellano
di corte, accorso da Stoccolma a Roma per adempire ai doveri del suo
ministero, e alla celebrazione delle cerimonie pasquali secondo la
confessione di Augusta, e con i cavalieri, con tutta la gente della
sua comitiva e con altri luterani forestieri che trovavansi a Roma,
la cena conforme ai riti di detta confessione ricevette, alla funzione
ammettendo quante d'ogni classe persone vollero concorrervi.
Mandò in dono Gustavo al papa le medaglie dei sovrani e degli uomini
più insigni in diversi tempi dalla Svezia prodotti; ed essendo andato
a visitare il collegio di Propaganda, fu a lui offerto un omaggio che
indarno sarebbesi cercato ed ottenuto in qualunque altro paese: il suo
elogio in versi, stampato in quarantasei diversi linguaggi antichi e
moderni. La sorpresa del re fu viva, e soprattutto vivamente espressa.
Congedatosi Gustavo da Pio, per la via di Firenze e Parma giunse a
Venezia il giorno 3 di maggio, e Venezia con la solita sua splendidezza
delizioso e grato rese al monarca il suo soggiorno, con regate e
balli i più sontuosi. Di qui partito, passando per Milano e Torino in
Francia, al suo regno affrettatamente il richiamarono le vicissitudini
della Danimarca.
Già da quindici anni il granduca Leopoldo felicitava la Toscana.
Non solo la Italia, ma l'Europa tutta ammirava la saviezza delle sue
leggi, e applaudiva all'affetto dei sudditi pel sovrano. Ne abbiam
fatto più d'un cenno negli anni precedenti, non meno che delle riforme
tanto nel civile quanto nell'ecclesiastico da lui fatte. Ma ciò non
ostante, e quantunque delle cose ecclesiastiche sia per presentarsi
altrove l'occasione di parlare, non può tacersi delle forme politiche,
le quali, secondo che alcuni scrivono, egli voleva dare alla felice
provincia. Narrano adunque ch'egli avesse in animo di statuire, per
suprema legislazione dello Stato, quanto segue:
Che alla creazione della legge dovesse intervenire il voto del granduca
e quello della nazione;
Che la legge dovesse consegnarsi al granduca per l'esecuzione; perciò
fosse investito dell'autorità e del comando della forza, siccome per la
legge constituita veniva ordinato;
Che la nazione rappresentata fosse dalle assemblee comunitative, dalle
provinciali e dalla generale;
Che la petizione fosse libera ad ogni individuo maschio sopra ai
venticinque anni davanti alle assemblee comunitative del luogo di suo
domicilio, ma per oggetti meramente locali e compresi nelle facoltà dei
magistrati delle medesime comunità;
Dall'aggregato di varie comunità si formasse il distretto o circondario
provinciale, e che quivi tener si dovessero le assemblee provinciali;
Che le assemblee provinciali composte fossero dai deputati delle
rispettive comunità, e che appresso loro fosse libera la petizione, ma
soltanto per oggetti risguardanti l'intera provincia;
Come nelle assemblee comunitative si dovevano sentire le petizioni
delle rispettive comunità e quelle dei particolari comunisti, così
si dovessero anco discutere e passare al partito dei voti, e poi le
ammesse consegnare ai deputati, perchè le presentassero alle assemblee
provinciali, per quindi discutersi e mandarsi a partito partitamente;
Che dalle assemblee provinciali si eleggessero deputati per intervenire
all'assemblea generale, e ad essi si consegnassero tutte le petizioni
che vi erano state ammesse o decretate come voto provinciale, e
così venissero abbracciate tanto le petizioni comunitative quanto le
provinciali;
Che i deputati provinciali formassero l'assemblea generale, che dovesse
adunarsi senza intimazione o invito in determinato tempo ogni anno, e
risedere prima in Pisa, poi in Siena, poi in Pistoia, e finalmente in
Firenze, incominciando la volta ogni quattro anni;
Che per Livorno si stabilisse una norma particolare;
Che le assemblee in tutte tre i gradi fossero pubbliche;
Che la legge si potesse promuovere dalle assemblee generali, e dovesse
ricevere la sanzione del granduca, come egli la poteva proporre
all'assemblea, e col voto di quella la legge venisse creata;
Che il conto generale delle finanze si dovesse esaminare in pubblico
nell'assemblea generale, ed il ministro delle finanze dovesse produrlo
e dare tutte le notizie o spiegazioni occorrenti;
Che al medesimo modo esaminare si dovessero i conti comunitativi e
provinciali;
Che gli aumenti di stipendio agl'impiegati dello Stato dovessero
passare per due voti concordi, e così parimente le pensioni e
gratificazioni per titoli degni di straordinaria ricompensa;
Che qualunque impiegato di qualunque grado al servizio dello Stato che
fosse dichiarato di non avere la soddisfazione del pubblico, si dovesse
dimettere, e non si potesse altrimenti impiegare; ma che per tale atto
dovesse concorrere il voto unanime della piena assemblea generale senza
bisogno del voto regio;
Che tutte le nomine degl'impiegati appartenessero alla prerogativa
regia, e però tutte dal granduca si facessero;
Che parimenti di prerogativa regia fossero le nomine ai vescovati
e la collazione dei benefizii ecclesiastici di padronato regio o
comunitativo;
Che medesimamente i gradi e gli onori da darsi agli uffiziali della
milizia fossero parte della prerogativa regia;
Che finalmente la medesima prerogativa regia abbracciasse tutto ciò che
non era contrario alla legge fondamentale della costituzione;
Che gl'impiegati al servizio della corte o dello Stato non potessero
essere ammessi a sedere nelle assemblee nazionali, e neppure i
pensionarii, ma che ai medesimi non venisse interdetto il diritto di
petizione; fu anche spiegato che non cadessero sotto questa censura
gl'impiegati al servizio della comunità.
Giova andare avanti in queste disposizioni di Leopoldo siccome sono
da alcuni raccontate. Voleva bensì che la prerogativa di far grazia
fosse riservata al granduca, ma solamente per diminuire o commutare
le pene afflittive corporali ai delinquenti già condannati, ma non già
le pecuniarie. Intendeva e voleva che fosse intieramente nel granduca
soppressa la facoltà di rompere le sentenze dei tribunali nelle cause
civili, e per tale modo veniva estirpato quell'enorme abuso, che ancora
viveva e vive in certe monarchie, di violare a favore o pregiudizio
di questo o di quello le decisioni della giustizia. Non sono da
trasandarsi le parole veramente auree, se vere sono, che Leopoldo
scrisse nel preambolo di questa sua legge constitutiva:
«Che solo un despota imbecille o malvagio può credersi superiore alla
legge; ch'ella è fatta per regolare i diritti tra privati, e che il
far nascere la legge in grazia di una parte non è altro che un abuso di
potere, o l'effetto d'imprudenza di volubilità o di ignoranza di quei
giudici che introdussero questa nuova specie di grazia, che non può
aver luogo senza un torto o un'ingiuria verso dell'altra parte, a cui
la legge in quel momento sta in favore.»
Seguono alcune sicurtà, perchè in ogni tempo la costituzione salva ed
intatta conservare si potesse;
Che i successori al trono dovessero accettare e promettere l'osservanza
della costituzione prima di assumere l'autorità e la corona;
Che i principi della famiglia regnante non potessero essere investiti
di benefizii ecclesiastici di padronato regio, nè ammessi ad impieghi a
servizio dello Stato, o civili fossero o militari;
Che lo stesso interdetto abbracciasse espressamente anche i principi di
famiglie regnanti estere;
Che la truppa fosse tutta civica, nè che si potessero fabbricare
fortezze, e quelle che già esistevano non potessero contenere
artiglierie, nemmeno in forma di conserva.
Che le assemblee non solo potessero, ma dovessero esser guardiane della
costituzione, ed obbligate fossero a denunziare le infrazioni ed a
contrastarle, regolando in quali modi ed in quali forme speciali per
tali casi essi dovessero procedere.
La pretesa suprema legge continuava dicendo: che non si potessero
creare feudi, e quelli che venissero a decedere, non si potessero più
conferire;
Che la libertà del commercio fosse un articolo di legge costitutiva,
e che ad essa in nissuna maniera si potesse derogare, nè che limitare
si potesse, nemmeno a tempo, nè direttamente nè indirettamente, nè con
imposizioni o tasse, od altro qual si volesse vincolo o restrizione;
Che non si potesse creare debito pubblico nè per lo Stato, nè
provinciale, nè comunitativo oltre di quello che già vi fosse;
Che neppure alcun debito creare si potesse sul patrimonio della corona,
che si dichiarava inalienabile, indivisibile e incapace d'ipoteca.
Che, oltre i beni attribuiti a questo patrimonio, fosse instituito un
supplemento sull'erario pubblico pel decorso mantenimento del granduca
e della famiglia; ma che tale supplemento fisso fosse, nè mai aumentare
si potesse;
Che lo Stato non potesse mai essere obbligato a supplire nè alle
doti, nè alle spese pel mantenimento delle principesse, nè per lo
stabilimento e promozioni dei principi della famiglia;
Che fosse proibito dalla costituzione il vendere o il dare in appalto
le tasse, gabelle od imposizioni quali fossero o quali si volessero,
e che parimente fosse dalla costituzione vietato il concedere in
privativa alcun mercimonio o manifattura, neppure col profitto
dell'erario.
Quanto poi alla legge politica rispetto agli altri Stati, non era
fuggito dall'animo a Leopoldo il desiderio che la Toscana fosse in
perpetua neutralità con le nazioni anche barbaresche così per mare come
per terra, qualunque i tempi fossero, o quali le contingenze. Per la
qual cosa stabilì:
Che non si potessero stipulare alleanze offensive nè difensive, o
ricevere protezione o assistenza da potenze estere, e, molto meno,
somministrare oltre i termini, della neutralità, che dal granduca erano
stati chiaramente prescritti;
Che il territorio non si potesse ingrandire con l'acquisto di nuovi
Stati; nè cederne o cambiarne parte alcuna.
Parve a Leopoldo, seguono a narrare, che per Livorno, porto di mare,
scala di tanta mercatura, stanza e passaggio di tanti forastieri, in un
particolare modo statuire si dovesse. Vogliono pertanto che ordinasse
che la comunità di Livorno fosse esclusa dalle assemblee provinciali;
dal che conseguitava, che esclusa anche fosse dall'assemblea generale;
ma perchè le restasse qualche politico vincolo col rimanente della
Toscana, e i suoi bisogni fossero conosciuti, ed ai medesimi provvedere
si potesse, le furono lasciate le assemblee comunitative ed il diritto
di petizione. Le domande mandate e vinte per partito delle assemblee
comunitative di quella città dovevano mandarsi per mezzo di un oratore
espresso, ma senza voce deliberativa, all'assemblea generale per
esservi discusse e poste a partito.
Leopoldo decretò eziandio che, affinchè la pacifica Toscana, come
pacifica era, così ancora paresse, si sopprimesse ogni vestigio di
apparato di guerra marittima, salve soltanto le barche armate di sanità
e di esplorazione ed altri servigi fra le isole e la costa. Dal quale
decreto venne interamente annullata quella pazzia del correre armata
mano dei cavalieri di Santo Stefano contro i seguaci di Maometto, che i
detti cavalieri potevano bensì irritare, ma non ispegnere. Contuttociò,
per sicurezza di quell'emporio di Livorno e delle terre di marina,
pensò che utile e necessaria cosa fosse di farvi stanziare qualche
soldatesca stabile, massime di bombardieri e, come adesso si dice, di
artiglieri o cannonieri, e conservarvi o innalzarvi alcuna fortezza.
Tali erano, siccome narrano, i pensieri di Leopoldo circa il modo con
cui egli intendeva di costituire la Toscana.
Anno di CRISTO MDCCLXXXV. Indiz. III.
PIO VI papa 11.
GIUSEPPE II imperadore 21.
Intesa a questi giorni più di mezza Italia alle riformazioni d'ogni
genere nella pubblica cosa, ebbe Venezia a mettere per qualche tempo in
esercizio la sua saviezza, per divertire possibilmente le conseguenze
d'un avvenimento che alla fine costrinse la repubblica ad impugnare le
armi sul mare.
Nel marzo 1781 alcuni negozianti tunisini noleggiarono nel porto
d'Alessandria un bastimento veneziano per trasportare a Tunisi le loro
merci. Or pretendeano costoro che il legno dovesse dare tantosto alla
vela, non ostante una malattia sopraggiunta al capitano che impedivagli
assolutamente di partire, e, senza voler udir ragione, tanto quei
Tunisini insistettero che il console veneziano residente in Alessandria
dovette obbligare il figliuolo del capitano a mettersi in mare in vece
del padre.
Coll'equipaggio adunque di otto marinai veneziani e diciotto Tunisini
proprietarii del carico, imbarcossi il giovane pel suo destino; ma,
fatto ch'ebbe circa un sessanta miglia, si avvide che nel bastimento
era la peste. Volle tornarsene indietro ad Alessandria; ma i Tunisini
a viva forza l'astrinsero a progredire nel viaggio sino al porto
di Sfax, ove pel contratto doveva approdare. Se non che erano in
tragitto periti dieci Tunisini e tre marinai, e gli abitanti di Sfax,
del male accortisi, coll'armi in mano respinsero il capitano col suo
legno infetto, il solo favore accordandogli di due marinai, a prezzo
smisuratissimo, quantunque poco nel mestiere valenti.
Rigettato così dalla forza, e costretto a rimettersi in mare, il
capitano approdò a Malta. Quivi ancora, informata la deputazione
di sanità che il bastimento era attaccato dal contagio, mandò
proibendogli il porto, ed intimandogli che, se non fosse immantinenti
partito, avrebbesi senza remissione abbruciato il naviglio con tutto
l'equipaggio. Indarno furono le protestazioni e le proferte del
capitano di far lunga e rigorosa contumacia; indarno chiese il soccorso
d'alcuni marinai, senza i quali impossibile gli tornava ogni movimento,
quantunque esibisse di pagargli sino a dugento scudi per ciascuno:
le leggi inesorabili della pubblica salute gli stavano contro, ed ei
vide ardere sotto i proprii occhi il bastimento, salvo l'equipaggio,
cui peraltro non fu permesso di toccar terra che affatto ignudo, e
sommergendosi prima nell'acqua. Circostanza da notarsi in questo luogo
si è, che malgrado tutte le precauzioni dai Maltesi prese, i Tunisini,
sbarcando, seco portarono sopra bacili di rame tutto il denaro che si
trovavano, ed in appresso diedero ad intendere al loro dey, non essersi
il capitano preso alcun pensiero di loro, nè aver adoperato lui mezzo
di sorta per impedire l'arsione del bastimento. La quale relazione fece
che il dey pretendesse obbligata la repubblica di Venezia a pagare i
danni da' suoi sudditi patiti, mentre, per lo contrario, aveva ella
il diritto che indennizzati fossero i sudditi suoi del danno che lor
proveniva dalle mosse cui fu il capitano dai Tunisini forzato nelle
narrate circostanze.
Il dey che allora in Tunisi regnava fece sopra di ciò pressanti
rimostranze al console veneziano; ma ossia che sentisse la debolezza
delle sue ragioni e gli imponesse la forza della repubblica, oppure
che qualche altro motivo il consigliasse, si tacque, nè finchè visse
parlò di tali sue pretensioni. Ma, morto lui, il figliuolo che gli
succedette le mise di nuovo in campo, e dichiarò al console che si
sarebbe rotta la pace, se a lui ed a' suoi sudditi data non fosse
intiera soddisfazione. Ed insistendo il dey con tutta la tenacità
nel suo proposito, determinò la repubblica d'inviargli, per farla
finita, il suo capitano delle navi con proposizioni ragionevolissime e
coll'aggiunta di regali per la sua esaltazione. Ma questi sentimenti di
moderazione per parte della repubblica non fecero effetto; che anzi il
dey, invece di prestarsi ai termini di giustizia ed equità, produsse
nuove pretensioni, fra le quali una era quella che altri Tunisini
domandavano risarcimento di certi effetti che trovavansi sopra un
bastimento veneziano saltato in aria nel porto di Tunisi, avendovisi
appreso fortuitamente il fuoco.
Per quanto incompetenti, irragionevoli ed ingiuste cotali pretensioni
fossero, non uscivano dal circolo dell'insaziabile avidità della
barbara nazione che le metteva in mezzo, nè dai principii da essa
professati, che la forza sia la suprema ragione e giustizia in ogni
cosa. Intanto eccessi di un'altra natura ferirono direttamente la
dignità della repubblica. Non solo rovesciarono coi modi più insultanti
gli stemmi del veneziano consolato, ma e il suo capitano delle navi
spedito a Tunisi e la sua comitiva durarono molta fatica a sottrarsi
al tumulto della plebe, che furibonda gl'inseguiva nel momento che
tornavano alle navi. Abbattere lo stemma, insultare il pubblico
messo ed intimarsi solennemente dal dey alla repubblica la guerra fu
tutt'uno.
Sdegnato il senato all'iniquo modo di procedere, elesse a capitano
straordinario delle navi il cavaliere Angelo Emo. Quest'uomo sommo, ben
a ragione chiamato l'ultimo de' Veneziani, ricreatore della veneziana
marineria, salpò con breve flotta dalla patria nel precedente anno, a
Cattaro ed a Corfù rinforzandosi di legni da guerra, di soldati e di
gente di mare. Giunto colla sua squadra a Tunisi, s'impadronì subito
d'una tartana armata e riccamente carica ai Tunisini appartenente; e
quindi, esaminati i luoghi della costa, lasciò l'almirante a bloccare
l'ingresso principale del porto, ed ei coi rimanenti legni si volse a
bombardare Susa, città sessanta miglia da Tunisi discosta. Il vivissimo
bombardamento, per diciassette giorni e diciassette notti continuato,
atterrò molti e i più notabili edifizii della città, molti pure
spegnendo dei suoi difensori ed abitanti, sagrificati alle ostinate
barbarie del dey, che non volle la rinovazion della pace.
Avendo la veneziana squadra svernato a Trapani, tornò in quest'anno
dopo la metà di luglio sulle coste d'Africa, ripigliò il bombardamento
di Susa che durò sino al 4 di agosto, non permettendo il mare sempre
agitato di spingere più innanzi le guerriere operazioni, ed i bassi
fondi anzi consigliando a portare altrove lo sforzo. Giace sulla costa
di Barbaria, entro il golfo di Zerbi, la città di Sfax, dipendente dal
regno di Tunisi. Benchè circondata da bassi fondi che non permettono
di accostarvisi ai vascelli da guerra, benchè alcune isole sorgan
fra quelli che più pericolosa ne rendono la navigazione, benchè sino
allora avessero cotali ostacoli impedito ai legni delle altre potenze
di penetrare in quel ricinto, Emo tentò di conquiderla, ancorandosi
in distanza, e di quivi slanciandole contro più di cinquanta bombe,
che, cadendo per la maggior parte entro le mura, insegnarono per la
prima volta a que' barbari a temere pur essi que' globi fulminanti da'
quali si credeano sicuri. Ma non corrispondendo l'effetto pienamente
alle mire del comandante, pensò altra via di tornar loro del tutto
vano lo schermo di quella sirti, da' proprii navigli, congiungendone
le vuote botti, traendo, novella sua invenzione, un navile atto a dar
sui _querquenci_ e sulle secche il saggio e l'esempio di quel modo di
marittima offesa contro le rocche in terra, che, imitato poi e tratto a
termini di grandezza per mezzi infinitamente maggiori dal lord Exmouth
sotto Gibilterra, riuscì nondimeno a quella stessa fine, con immenso
apparato di forze, a cui Emo con forze tanto rimesse e parche il
condusse, di vincere no o distruggere que' corsali, ma di rintuzzarli.
Impietositosi però l'Emo ai casi di una popolazione tanto, per
l'ostinatezza del capo, sofferente, volle generosamente fare al dey
grave rappresentanza in una sua lettera, significandogli eziandio come
la repubblica fosse disposta a dargli quelle dimostrazioni di affetto
che in varie occasioni avea date al dey di lui genitore e predecessore,
qualora si determinasse ad approfittare della clemenza del veneto
senato. Commosso il dey alla generosa dichiarazione, fece sapere
all'Emo che intavolato avrebbe proposizioni di pace, qualora avesse
a trattare con lui solo, rimanendo con due soli legni, e licenziando
il rimanente. Rispose il Veneziano che poteva bensì far ritirare la
squadra, ma che delle condizioni della pace era del senato il decidere.
A questo pertanto inviò per espresso le proposizioni del dey, e mandata
la squadra parte a Trapani e parte a Corfù, passò egli a Malta, per
attendervi le risposte di Venezia, concessa frattanto ai Tunisini una
tregua di quaranta giorni.
Lasciò il senato al suo capitano la libertà di conchiuder la pace,
escluso però qualunque esborso o patto di denaro, e fissato che per
le gabelle i bastimenti veneziani non avessero a pagare se non il tre
per cento come i Franzesi pagavano, e non il cinque dal dey imposto;
che se a questi tali condizioni non aggradissero, rinnovasse Emo, il
senato comandava, le ostilità al più tardi nell'anno nuovo. Fu allora
mormorato che questa guerra, la quale durò sei anni ancora, avrebbe
potuto, appena sorta, terminarsi col sagrifizio di qualche denaro per
saziare l'avidità di quel principe africano, sacrifizio infinitamente
minore a quello d'una guerra di mare sì dispendiosa e tanto lunga.
E taluni ancora, sospettosi o maligni, vollero colpare della
continuazione d'essa lo stesso Emo, che non poteva, dicevano, vedersi
ozioso in patria, amava l'agitazione ed il movimento, e godea l'animo
in comandare, padrone assoluto, una flotta sul mare. Meschini di loro!
che non sapeano, o di sapere dispettavano, quanta mente, qual cuore in
Angelo Emo fosse, e qual giudizio di lui era per dare la storia che i
giudizii del volgo non imita. «Angelo Emo visse esemplare di costumi
e di repubblicana temperanza. Che aspirasse a farsi il Pisistrato
della sua patria altro indizio addurre non saprebbe la calunnia che
quell'arte in lui somma di rendere idolatre di sè le genti commessegli,
di far che i timori e le speranze tutte nel duce loro riponessero, ed
in sè rivelato loro, quasi diremmo, presente, rimuneratore, all'unità
ridotto venerassero l'aristocratico reggimento da cui gli uomini più
ripugnano. Comunque sia, la caligine di congetture non offusca lo
specchio della storia. Emo visse e morì terso di macchia; ma certamente
palese e quasi vocazione fu in esso la brama di ringiovanire la
vecchia patria: e di fatto, quella parte di cui sembra che prima uopo
era ravvivare in città sedente sul mare, la naval possa, con tanta
saldezza di vita rinnovò, che quando la patria omai più non era, opima
spoglia la rinvenne e tutta vita per anche chi ad usurparla mandò quel
guerriero che usando fin d'allora del diritto ferreo della fortuna e
dell'armi, nel 1796, Venezia rimeritava dell'ospitalità dandole morte.»
(_Castelli._)
Anno di CRISTO MDCCLXXXVI. Indiz. IV.
PIO VI papa 12.
GIUSEPPE II imperadore 22.
Abbiam detto di quello che Leopoldo granduca di Toscana volea
fare; ora è d'uopo toccare quello ch'ei fece. Questo principe, il
quale, al dire d'uno storico esimio, non si potrà mai tanto lodare
che non meriti molto più, mostrò quanto possa per la felicità de'
popoli una mente sana congiunta con un animo buono e tutto volto a
gratificare all'umanità. Solone fece un governo popolare e torbido,
Licurgo un governo popolare e ruvido, Romolo un governo soldatesco e
conquistatore; fece Leopoldo un governo quieto, dolce e pacifico, tanto
più da lodarsi dell'aver concesso molto quanto più poteva serbar tutto.
Erano prima di Leopoldo le leggi di Toscana parziali, intricate,
incomode, improvvide, siccome quelle che in parte erano state fatte ai
tempi della repubblica di Firenze, tumultuaria sempre e piena di umori
di parti, e parte fatte dopo, ma non consonanti con le antiche, le
quali tuttavia sussistevano. Altre ancora erano per Firenze, altre pel
contado, queste per Pisa, quelle per Siena, poche o nissune generali.
Sorgevano incertezze di foro, contese di giurisdizione, lunghezze
di affari, un tacersi per istracchezza dei poveri, un procrastinare
a posta de' ricchi, ingiustizie facili, ruine di famiglie, rancori
inevitabili. Erano altresì leggi criminali crudeli o insufficienti,
un commercio male favorito, un'agricoltura non curata, un suolo
pestilenziale, possessioni mal sicure, debito pubblico grave, dazii
onerosissimi.
A tutto pose rimedio il buon Leopoldo. Annullò i magistrati o
domestico ammesso ai segretissimi colloqui.
Ai 20 di febbraio l'austriaco principe arrivava a Milano. In Torino ora
si riscaldava ora si raffreddava il grido della sua venuta. Vittorio
Amedeo di Sardegna desiderava che la sua città visitasse. Mandò il
marchese Balbis, pregando acciò venisse. Furono tra l'inviato del re e
lo imperatore molte cose parlate, ma nissuna conclusa. Per non vedere
quelle sponde del Po, l'Austriaco si scusò colla brevità del tempo:
il duca del Chiablese, fratello di Vittorio, fu mandato a Milano per
onorarlo.
Giuseppe fu nella capitale della Lombardia ciò che era stato altrove,
ma essendo fra i suoi popoli, con le mani ancor più piene di grazie per
dar riparo alla vita dei miseri. Visitò quindi Pavia e la sua famosa
università, a cui egli e la sua madre augusta tanto lustro, tanti
nobili professori, tanti utili sussidii di scienze avevano procacciato.
Era a quei tempi Pavia una vera italica Atene. Ognuno, crediamo, di
questo parere sarà, quando dirassi che Scarpa, Spallanzani, Gregorio
Fontana, Volta, Scopoli, Franck, Presciani, Tamburini, Mascheroni
e tanti altri illustri uomini la studiosa gioventù alle fonti del
sapere abbeveravano. Quivi l'imperatore, come in gratissimo seggio,
si rallegrava. Tutti quei virtuosi sacerdoti delle muse amorevolmente
accolse, e tutti quei preziosi repositorii di libri, dei parti dei tre
regni, curiosamente esaminò ed accrebbe, tutti quei ticinesi popoli
coi detti ed ancora più coi fatti rallegrò e consolò. Veduta al suo
cospetto la facoltà di teologia, così le disse: «Attendete pure ad
insegnare i dogmi semplicemente, e non istate a mescolarvi questioni
inutili, commenti oscuri, sofisticherie scolastiche. Le superflue
parole non ad altro servono che a suscitare gli odii ed a soffocare
i principii del vero cristianesimo. Sia chiara e schietta la fede,
benigna e tollerante la carità: sia Cristo la nostra face, Cristo il
nostro amore; le oziose ed acerbe disputazioni lasciamo a chi mal vede,
a chi mal sente, a chi mal ama.»
Così parlato, e poco ancora dimoratosi nell'antica sede del regno
lombardo, sede recente di più fortunati influssi, quell'amorevole padre
dei popoli a Milano tornò; poscia, valicate le Alpi, sulle sponde del
Danubio si ricondusse. Lasciò in Italia immortale memoria de' suoi
benefizii, ed un fratello condegno imitatore delle sue virtù.
Tutto il tempo che Giuseppe, di Napoli partito fermossi in Italia,
Gustavo di Svezia si trattenne a Napoli. Parea che i due sovrani non
avessero gran piacere di trovarsi insieme in alcun luogo. Per tanto,
restituitosi il re di Svezia a Roma il dì 10 di marzo, vi rimase sino
al 19 di aprile, i maggiori riguardi al capo della Chiesa cattolica
dimostrando, e colle maniere cortesi ed affabili la benivoglienza dei
Romani conciliandosi. Andato una mattina a vedere il museo, vi trovò
come a caso il pontefice, e, trattenendosi seco in conversazione presso
a due ore, formò il soggetto d'un bellissimo quadro del celebre pittore
franzese Gagneraux.
Assistendo alle funzioni della settimana santa, veramente magnifiche
nella principal chiesa dell'universo, non si potè, che pieno di
ammirazione non si manifestasse avere i protestanti il torto nel
criticare la pompa delle cattoliche funzioni; poichè, essendo ai popoli
la religione necessaria, era ben fatto circondarla con tutto ciò che
può renderla agli occhi umani rispettabile ed augusta.
Non per tanto, temendo quel monarca che i suoi popoli, della setta
di Lutero seguaci, nol credessero disposto rinnovellar l'esempio dato
un secolo prima dalla regina Cristina, e assicurarli volendo del suo
attaccamento al culto del proprio paese anche in mezzo alla cattolica
Italia, pose la romana tolleranza ad uno stranio cimento. Ordinò che
fosse alla meglio preparata una cappella nella sala del palazzo che
abitava, ed ivi assistette divotamente ad un discorso assai lungo del
barone di Taube, vescovo svedese, suo primo predicante e cappellano
di corte, accorso da Stoccolma a Roma per adempire ai doveri del suo
ministero, e alla celebrazione delle cerimonie pasquali secondo la
confessione di Augusta, e con i cavalieri, con tutta la gente della
sua comitiva e con altri luterani forestieri che trovavansi a Roma,
la cena conforme ai riti di detta confessione ricevette, alla funzione
ammettendo quante d'ogni classe persone vollero concorrervi.
Mandò in dono Gustavo al papa le medaglie dei sovrani e degli uomini
più insigni in diversi tempi dalla Svezia prodotti; ed essendo andato
a visitare il collegio di Propaganda, fu a lui offerto un omaggio che
indarno sarebbesi cercato ed ottenuto in qualunque altro paese: il suo
elogio in versi, stampato in quarantasei diversi linguaggi antichi e
moderni. La sorpresa del re fu viva, e soprattutto vivamente espressa.
Congedatosi Gustavo da Pio, per la via di Firenze e Parma giunse a
Venezia il giorno 3 di maggio, e Venezia con la solita sua splendidezza
delizioso e grato rese al monarca il suo soggiorno, con regate e
balli i più sontuosi. Di qui partito, passando per Milano e Torino in
Francia, al suo regno affrettatamente il richiamarono le vicissitudini
della Danimarca.
Già da quindici anni il granduca Leopoldo felicitava la Toscana.
Non solo la Italia, ma l'Europa tutta ammirava la saviezza delle sue
leggi, e applaudiva all'affetto dei sudditi pel sovrano. Ne abbiam
fatto più d'un cenno negli anni precedenti, non meno che delle riforme
tanto nel civile quanto nell'ecclesiastico da lui fatte. Ma ciò non
ostante, e quantunque delle cose ecclesiastiche sia per presentarsi
altrove l'occasione di parlare, non può tacersi delle forme politiche,
le quali, secondo che alcuni scrivono, egli voleva dare alla felice
provincia. Narrano adunque ch'egli avesse in animo di statuire, per
suprema legislazione dello Stato, quanto segue:
Che alla creazione della legge dovesse intervenire il voto del granduca
e quello della nazione;
Che la legge dovesse consegnarsi al granduca per l'esecuzione; perciò
fosse investito dell'autorità e del comando della forza, siccome per la
legge constituita veniva ordinato;
Che la nazione rappresentata fosse dalle assemblee comunitative, dalle
provinciali e dalla generale;
Che la petizione fosse libera ad ogni individuo maschio sopra ai
venticinque anni davanti alle assemblee comunitative del luogo di suo
domicilio, ma per oggetti meramente locali e compresi nelle facoltà dei
magistrati delle medesime comunità;
Dall'aggregato di varie comunità si formasse il distretto o circondario
provinciale, e che quivi tener si dovessero le assemblee provinciali;
Che le assemblee provinciali composte fossero dai deputati delle
rispettive comunità, e che appresso loro fosse libera la petizione, ma
soltanto per oggetti risguardanti l'intera provincia;
Come nelle assemblee comunitative si dovevano sentire le petizioni
delle rispettive comunità e quelle dei particolari comunisti, così
si dovessero anco discutere e passare al partito dei voti, e poi le
ammesse consegnare ai deputati, perchè le presentassero alle assemblee
provinciali, per quindi discutersi e mandarsi a partito partitamente;
Che dalle assemblee provinciali si eleggessero deputati per intervenire
all'assemblea generale, e ad essi si consegnassero tutte le petizioni
che vi erano state ammesse o decretate come voto provinciale, e
così venissero abbracciate tanto le petizioni comunitative quanto le
provinciali;
Che i deputati provinciali formassero l'assemblea generale, che dovesse
adunarsi senza intimazione o invito in determinato tempo ogni anno, e
risedere prima in Pisa, poi in Siena, poi in Pistoia, e finalmente in
Firenze, incominciando la volta ogni quattro anni;
Che per Livorno si stabilisse una norma particolare;
Che le assemblee in tutte tre i gradi fossero pubbliche;
Che la legge si potesse promuovere dalle assemblee generali, e dovesse
ricevere la sanzione del granduca, come egli la poteva proporre
all'assemblea, e col voto di quella la legge venisse creata;
Che il conto generale delle finanze si dovesse esaminare in pubblico
nell'assemblea generale, ed il ministro delle finanze dovesse produrlo
e dare tutte le notizie o spiegazioni occorrenti;
Che al medesimo modo esaminare si dovessero i conti comunitativi e
provinciali;
Che gli aumenti di stipendio agl'impiegati dello Stato dovessero
passare per due voti concordi, e così parimente le pensioni e
gratificazioni per titoli degni di straordinaria ricompensa;
Che qualunque impiegato di qualunque grado al servizio dello Stato che
fosse dichiarato di non avere la soddisfazione del pubblico, si dovesse
dimettere, e non si potesse altrimenti impiegare; ma che per tale atto
dovesse concorrere il voto unanime della piena assemblea generale senza
bisogno del voto regio;
Che tutte le nomine degl'impiegati appartenessero alla prerogativa
regia, e però tutte dal granduca si facessero;
Che parimenti di prerogativa regia fossero le nomine ai vescovati
e la collazione dei benefizii ecclesiastici di padronato regio o
comunitativo;
Che medesimamente i gradi e gli onori da darsi agli uffiziali della
milizia fossero parte della prerogativa regia;
Che finalmente la medesima prerogativa regia abbracciasse tutto ciò che
non era contrario alla legge fondamentale della costituzione;
Che gl'impiegati al servizio della corte o dello Stato non potessero
essere ammessi a sedere nelle assemblee nazionali, e neppure i
pensionarii, ma che ai medesimi non venisse interdetto il diritto di
petizione; fu anche spiegato che non cadessero sotto questa censura
gl'impiegati al servizio della comunità.
Giova andare avanti in queste disposizioni di Leopoldo siccome sono
da alcuni raccontate. Voleva bensì che la prerogativa di far grazia
fosse riservata al granduca, ma solamente per diminuire o commutare
le pene afflittive corporali ai delinquenti già condannati, ma non già
le pecuniarie. Intendeva e voleva che fosse intieramente nel granduca
soppressa la facoltà di rompere le sentenze dei tribunali nelle cause
civili, e per tale modo veniva estirpato quell'enorme abuso, che ancora
viveva e vive in certe monarchie, di violare a favore o pregiudizio
di questo o di quello le decisioni della giustizia. Non sono da
trasandarsi le parole veramente auree, se vere sono, che Leopoldo
scrisse nel preambolo di questa sua legge constitutiva:
«Che solo un despota imbecille o malvagio può credersi superiore alla
legge; ch'ella è fatta per regolare i diritti tra privati, e che il
far nascere la legge in grazia di una parte non è altro che un abuso di
potere, o l'effetto d'imprudenza di volubilità o di ignoranza di quei
giudici che introdussero questa nuova specie di grazia, che non può
aver luogo senza un torto o un'ingiuria verso dell'altra parte, a cui
la legge in quel momento sta in favore.»
Seguono alcune sicurtà, perchè in ogni tempo la costituzione salva ed
intatta conservare si potesse;
Che i successori al trono dovessero accettare e promettere l'osservanza
della costituzione prima di assumere l'autorità e la corona;
Che i principi della famiglia regnante non potessero essere investiti
di benefizii ecclesiastici di padronato regio, nè ammessi ad impieghi a
servizio dello Stato, o civili fossero o militari;
Che lo stesso interdetto abbracciasse espressamente anche i principi di
famiglie regnanti estere;
Che la truppa fosse tutta civica, nè che si potessero fabbricare
fortezze, e quelle che già esistevano non potessero contenere
artiglierie, nemmeno in forma di conserva.
Che le assemblee non solo potessero, ma dovessero esser guardiane della
costituzione, ed obbligate fossero a denunziare le infrazioni ed a
contrastarle, regolando in quali modi ed in quali forme speciali per
tali casi essi dovessero procedere.
La pretesa suprema legge continuava dicendo: che non si potessero
creare feudi, e quelli che venissero a decedere, non si potessero più
conferire;
Che la libertà del commercio fosse un articolo di legge costitutiva,
e che ad essa in nissuna maniera si potesse derogare, nè che limitare
si potesse, nemmeno a tempo, nè direttamente nè indirettamente, nè con
imposizioni o tasse, od altro qual si volesse vincolo o restrizione;
Che non si potesse creare debito pubblico nè per lo Stato, nè
provinciale, nè comunitativo oltre di quello che già vi fosse;
Che neppure alcun debito creare si potesse sul patrimonio della corona,
che si dichiarava inalienabile, indivisibile e incapace d'ipoteca.
Che, oltre i beni attribuiti a questo patrimonio, fosse instituito un
supplemento sull'erario pubblico pel decorso mantenimento del granduca
e della famiglia; ma che tale supplemento fisso fosse, nè mai aumentare
si potesse;
Che lo Stato non potesse mai essere obbligato a supplire nè alle
doti, nè alle spese pel mantenimento delle principesse, nè per lo
stabilimento e promozioni dei principi della famiglia;
Che fosse proibito dalla costituzione il vendere o il dare in appalto
le tasse, gabelle od imposizioni quali fossero o quali si volessero,
e che parimente fosse dalla costituzione vietato il concedere in
privativa alcun mercimonio o manifattura, neppure col profitto
dell'erario.
Quanto poi alla legge politica rispetto agli altri Stati, non era
fuggito dall'animo a Leopoldo il desiderio che la Toscana fosse in
perpetua neutralità con le nazioni anche barbaresche così per mare come
per terra, qualunque i tempi fossero, o quali le contingenze. Per la
qual cosa stabilì:
Che non si potessero stipulare alleanze offensive nè difensive, o
ricevere protezione o assistenza da potenze estere, e, molto meno,
somministrare oltre i termini, della neutralità, che dal granduca erano
stati chiaramente prescritti;
Che il territorio non si potesse ingrandire con l'acquisto di nuovi
Stati; nè cederne o cambiarne parte alcuna.
Parve a Leopoldo, seguono a narrare, che per Livorno, porto di mare,
scala di tanta mercatura, stanza e passaggio di tanti forastieri, in un
particolare modo statuire si dovesse. Vogliono pertanto che ordinasse
che la comunità di Livorno fosse esclusa dalle assemblee provinciali;
dal che conseguitava, che esclusa anche fosse dall'assemblea generale;
ma perchè le restasse qualche politico vincolo col rimanente della
Toscana, e i suoi bisogni fossero conosciuti, ed ai medesimi provvedere
si potesse, le furono lasciate le assemblee comunitative ed il diritto
di petizione. Le domande mandate e vinte per partito delle assemblee
comunitative di quella città dovevano mandarsi per mezzo di un oratore
espresso, ma senza voce deliberativa, all'assemblea generale per
esservi discusse e poste a partito.
Leopoldo decretò eziandio che, affinchè la pacifica Toscana, come
pacifica era, così ancora paresse, si sopprimesse ogni vestigio di
apparato di guerra marittima, salve soltanto le barche armate di sanità
e di esplorazione ed altri servigi fra le isole e la costa. Dal quale
decreto venne interamente annullata quella pazzia del correre armata
mano dei cavalieri di Santo Stefano contro i seguaci di Maometto, che i
detti cavalieri potevano bensì irritare, ma non ispegnere. Contuttociò,
per sicurezza di quell'emporio di Livorno e delle terre di marina,
pensò che utile e necessaria cosa fosse di farvi stanziare qualche
soldatesca stabile, massime di bombardieri e, come adesso si dice, di
artiglieri o cannonieri, e conservarvi o innalzarvi alcuna fortezza.
Tali erano, siccome narrano, i pensieri di Leopoldo circa il modo con
cui egli intendeva di costituire la Toscana.
Anno di CRISTO MDCCLXXXV. Indiz. III.
PIO VI papa 11.
GIUSEPPE II imperadore 21.
Intesa a questi giorni più di mezza Italia alle riformazioni d'ogni
genere nella pubblica cosa, ebbe Venezia a mettere per qualche tempo in
esercizio la sua saviezza, per divertire possibilmente le conseguenze
d'un avvenimento che alla fine costrinse la repubblica ad impugnare le
armi sul mare.
Nel marzo 1781 alcuni negozianti tunisini noleggiarono nel porto
d'Alessandria un bastimento veneziano per trasportare a Tunisi le loro
merci. Or pretendeano costoro che il legno dovesse dare tantosto alla
vela, non ostante una malattia sopraggiunta al capitano che impedivagli
assolutamente di partire, e, senza voler udir ragione, tanto quei
Tunisini insistettero che il console veneziano residente in Alessandria
dovette obbligare il figliuolo del capitano a mettersi in mare in vece
del padre.
Coll'equipaggio adunque di otto marinai veneziani e diciotto Tunisini
proprietarii del carico, imbarcossi il giovane pel suo destino; ma,
fatto ch'ebbe circa un sessanta miglia, si avvide che nel bastimento
era la peste. Volle tornarsene indietro ad Alessandria; ma i Tunisini
a viva forza l'astrinsero a progredire nel viaggio sino al porto
di Sfax, ove pel contratto doveva approdare. Se non che erano in
tragitto periti dieci Tunisini e tre marinai, e gli abitanti di Sfax,
del male accortisi, coll'armi in mano respinsero il capitano col suo
legno infetto, il solo favore accordandogli di due marinai, a prezzo
smisuratissimo, quantunque poco nel mestiere valenti.
Rigettato così dalla forza, e costretto a rimettersi in mare, il
capitano approdò a Malta. Quivi ancora, informata la deputazione
di sanità che il bastimento era attaccato dal contagio, mandò
proibendogli il porto, ed intimandogli che, se non fosse immantinenti
partito, avrebbesi senza remissione abbruciato il naviglio con tutto
l'equipaggio. Indarno furono le protestazioni e le proferte del
capitano di far lunga e rigorosa contumacia; indarno chiese il soccorso
d'alcuni marinai, senza i quali impossibile gli tornava ogni movimento,
quantunque esibisse di pagargli sino a dugento scudi per ciascuno:
le leggi inesorabili della pubblica salute gli stavano contro, ed ei
vide ardere sotto i proprii occhi il bastimento, salvo l'equipaggio,
cui peraltro non fu permesso di toccar terra che affatto ignudo, e
sommergendosi prima nell'acqua. Circostanza da notarsi in questo luogo
si è, che malgrado tutte le precauzioni dai Maltesi prese, i Tunisini,
sbarcando, seco portarono sopra bacili di rame tutto il denaro che si
trovavano, ed in appresso diedero ad intendere al loro dey, non essersi
il capitano preso alcun pensiero di loro, nè aver adoperato lui mezzo
di sorta per impedire l'arsione del bastimento. La quale relazione fece
che il dey pretendesse obbligata la repubblica di Venezia a pagare i
danni da' suoi sudditi patiti, mentre, per lo contrario, aveva ella
il diritto che indennizzati fossero i sudditi suoi del danno che lor
proveniva dalle mosse cui fu il capitano dai Tunisini forzato nelle
narrate circostanze.
Il dey che allora in Tunisi regnava fece sopra di ciò pressanti
rimostranze al console veneziano; ma ossia che sentisse la debolezza
delle sue ragioni e gli imponesse la forza della repubblica, oppure
che qualche altro motivo il consigliasse, si tacque, nè finchè visse
parlò di tali sue pretensioni. Ma, morto lui, il figliuolo che gli
succedette le mise di nuovo in campo, e dichiarò al console che si
sarebbe rotta la pace, se a lui ed a' suoi sudditi data non fosse
intiera soddisfazione. Ed insistendo il dey con tutta la tenacità
nel suo proposito, determinò la repubblica d'inviargli, per farla
finita, il suo capitano delle navi con proposizioni ragionevolissime e
coll'aggiunta di regali per la sua esaltazione. Ma questi sentimenti di
moderazione per parte della repubblica non fecero effetto; che anzi il
dey, invece di prestarsi ai termini di giustizia ed equità, produsse
nuove pretensioni, fra le quali una era quella che altri Tunisini
domandavano risarcimento di certi effetti che trovavansi sopra un
bastimento veneziano saltato in aria nel porto di Tunisi, avendovisi
appreso fortuitamente il fuoco.
Per quanto incompetenti, irragionevoli ed ingiuste cotali pretensioni
fossero, non uscivano dal circolo dell'insaziabile avidità della
barbara nazione che le metteva in mezzo, nè dai principii da essa
professati, che la forza sia la suprema ragione e giustizia in ogni
cosa. Intanto eccessi di un'altra natura ferirono direttamente la
dignità della repubblica. Non solo rovesciarono coi modi più insultanti
gli stemmi del veneziano consolato, ma e il suo capitano delle navi
spedito a Tunisi e la sua comitiva durarono molta fatica a sottrarsi
al tumulto della plebe, che furibonda gl'inseguiva nel momento che
tornavano alle navi. Abbattere lo stemma, insultare il pubblico
messo ed intimarsi solennemente dal dey alla repubblica la guerra fu
tutt'uno.
Sdegnato il senato all'iniquo modo di procedere, elesse a capitano
straordinario delle navi il cavaliere Angelo Emo. Quest'uomo sommo, ben
a ragione chiamato l'ultimo de' Veneziani, ricreatore della veneziana
marineria, salpò con breve flotta dalla patria nel precedente anno, a
Cattaro ed a Corfù rinforzandosi di legni da guerra, di soldati e di
gente di mare. Giunto colla sua squadra a Tunisi, s'impadronì subito
d'una tartana armata e riccamente carica ai Tunisini appartenente; e
quindi, esaminati i luoghi della costa, lasciò l'almirante a bloccare
l'ingresso principale del porto, ed ei coi rimanenti legni si volse a
bombardare Susa, città sessanta miglia da Tunisi discosta. Il vivissimo
bombardamento, per diciassette giorni e diciassette notti continuato,
atterrò molti e i più notabili edifizii della città, molti pure
spegnendo dei suoi difensori ed abitanti, sagrificati alle ostinate
barbarie del dey, che non volle la rinovazion della pace.
Avendo la veneziana squadra svernato a Trapani, tornò in quest'anno
dopo la metà di luglio sulle coste d'Africa, ripigliò il bombardamento
di Susa che durò sino al 4 di agosto, non permettendo il mare sempre
agitato di spingere più innanzi le guerriere operazioni, ed i bassi
fondi anzi consigliando a portare altrove lo sforzo. Giace sulla costa
di Barbaria, entro il golfo di Zerbi, la città di Sfax, dipendente dal
regno di Tunisi. Benchè circondata da bassi fondi che non permettono
di accostarvisi ai vascelli da guerra, benchè alcune isole sorgan
fra quelli che più pericolosa ne rendono la navigazione, benchè sino
allora avessero cotali ostacoli impedito ai legni delle altre potenze
di penetrare in quel ricinto, Emo tentò di conquiderla, ancorandosi
in distanza, e di quivi slanciandole contro più di cinquanta bombe,
che, cadendo per la maggior parte entro le mura, insegnarono per la
prima volta a que' barbari a temere pur essi que' globi fulminanti da'
quali si credeano sicuri. Ma non corrispondendo l'effetto pienamente
alle mire del comandante, pensò altra via di tornar loro del tutto
vano lo schermo di quella sirti, da' proprii navigli, congiungendone
le vuote botti, traendo, novella sua invenzione, un navile atto a dar
sui _querquenci_ e sulle secche il saggio e l'esempio di quel modo di
marittima offesa contro le rocche in terra, che, imitato poi e tratto a
termini di grandezza per mezzi infinitamente maggiori dal lord Exmouth
sotto Gibilterra, riuscì nondimeno a quella stessa fine, con immenso
apparato di forze, a cui Emo con forze tanto rimesse e parche il
condusse, di vincere no o distruggere que' corsali, ma di rintuzzarli.
Impietositosi però l'Emo ai casi di una popolazione tanto, per
l'ostinatezza del capo, sofferente, volle generosamente fare al dey
grave rappresentanza in una sua lettera, significandogli eziandio come
la repubblica fosse disposta a dargli quelle dimostrazioni di affetto
che in varie occasioni avea date al dey di lui genitore e predecessore,
qualora si determinasse ad approfittare della clemenza del veneto
senato. Commosso il dey alla generosa dichiarazione, fece sapere
all'Emo che intavolato avrebbe proposizioni di pace, qualora avesse
a trattare con lui solo, rimanendo con due soli legni, e licenziando
il rimanente. Rispose il Veneziano che poteva bensì far ritirare la
squadra, ma che delle condizioni della pace era del senato il decidere.
A questo pertanto inviò per espresso le proposizioni del dey, e mandata
la squadra parte a Trapani e parte a Corfù, passò egli a Malta, per
attendervi le risposte di Venezia, concessa frattanto ai Tunisini una
tregua di quaranta giorni.
Lasciò il senato al suo capitano la libertà di conchiuder la pace,
escluso però qualunque esborso o patto di denaro, e fissato che per
le gabelle i bastimenti veneziani non avessero a pagare se non il tre
per cento come i Franzesi pagavano, e non il cinque dal dey imposto;
che se a questi tali condizioni non aggradissero, rinnovasse Emo, il
senato comandava, le ostilità al più tardi nell'anno nuovo. Fu allora
mormorato che questa guerra, la quale durò sei anni ancora, avrebbe
potuto, appena sorta, terminarsi col sagrifizio di qualche denaro per
saziare l'avidità di quel principe africano, sacrifizio infinitamente
minore a quello d'una guerra di mare sì dispendiosa e tanto lunga.
E taluni ancora, sospettosi o maligni, vollero colpare della
continuazione d'essa lo stesso Emo, che non poteva, dicevano, vedersi
ozioso in patria, amava l'agitazione ed il movimento, e godea l'animo
in comandare, padrone assoluto, una flotta sul mare. Meschini di loro!
che non sapeano, o di sapere dispettavano, quanta mente, qual cuore in
Angelo Emo fosse, e qual giudizio di lui era per dare la storia che i
giudizii del volgo non imita. «Angelo Emo visse esemplare di costumi
e di repubblicana temperanza. Che aspirasse a farsi il Pisistrato
della sua patria altro indizio addurre non saprebbe la calunnia che
quell'arte in lui somma di rendere idolatre di sè le genti commessegli,
di far che i timori e le speranze tutte nel duce loro riponessero, ed
in sè rivelato loro, quasi diremmo, presente, rimuneratore, all'unità
ridotto venerassero l'aristocratico reggimento da cui gli uomini più
ripugnano. Comunque sia, la caligine di congetture non offusca lo
specchio della storia. Emo visse e morì terso di macchia; ma certamente
palese e quasi vocazione fu in esso la brama di ringiovanire la
vecchia patria: e di fatto, quella parte di cui sembra che prima uopo
era ravvivare in città sedente sul mare, la naval possa, con tanta
saldezza di vita rinnovò, che quando la patria omai più non era, opima
spoglia la rinvenne e tutta vita per anche chi ad usurparla mandò quel
guerriero che usando fin d'allora del diritto ferreo della fortuna e
dell'armi, nel 1796, Venezia rimeritava dell'ospitalità dandole morte.»
(_Castelli._)
Anno di CRISTO MDCCLXXXVI. Indiz. IV.
PIO VI papa 12.
GIUSEPPE II imperadore 22.
Abbiam detto di quello che Leopoldo granduca di Toscana volea
fare; ora è d'uopo toccare quello ch'ei fece. Questo principe, il
quale, al dire d'uno storico esimio, non si potrà mai tanto lodare
che non meriti molto più, mostrò quanto possa per la felicità de'
popoli una mente sana congiunta con un animo buono e tutto volto a
gratificare all'umanità. Solone fece un governo popolare e torbido,
Licurgo un governo popolare e ruvido, Romolo un governo soldatesco e
conquistatore; fece Leopoldo un governo quieto, dolce e pacifico, tanto
più da lodarsi dell'aver concesso molto quanto più poteva serbar tutto.
Erano prima di Leopoldo le leggi di Toscana parziali, intricate,
incomode, improvvide, siccome quelle che in parte erano state fatte ai
tempi della repubblica di Firenze, tumultuaria sempre e piena di umori
di parti, e parte fatte dopo, ma non consonanti con le antiche, le
quali tuttavia sussistevano. Altre ancora erano per Firenze, altre pel
contado, queste per Pisa, quelle per Siena, poche o nissune generali.
Sorgevano incertezze di foro, contese di giurisdizione, lunghezze
di affari, un tacersi per istracchezza dei poveri, un procrastinare
a posta de' ricchi, ingiustizie facili, ruine di famiglie, rancori
inevitabili. Erano altresì leggi criminali crudeli o insufficienti,
un commercio male favorito, un'agricoltura non curata, un suolo
pestilenziale, possessioni mal sicure, debito pubblico grave, dazii
onerosissimi.
A tutto pose rimedio il buon Leopoldo. Annullò i magistrati o
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