Annali d'Italia, vol. 8 - 18

Credevano che la fortuna avendo tutto sconvolto, e tutti nella medesima
sciagura involti, e la condizione del ricco uguagliata a quella del
povero, avesse lasciato i beni in preda alla forza ed a benefizio del
primo occupante. Quindi è facile a comprendersi qual barbaro governo
si facesse, nei primi dì dell'orribile percossa, delle leggi, delle
sostanze, della santa religione, della sacra umanità. Orride cose
faceva la natura, ancor più orride ne facevano gli uomini.
Nè vuol tacersi che la sporca lussuria trovò anche luogo fra tante
angosce, fra tante ruine. Fu una peste peggiore del rubare, perchè
quella era mescolata colla speranza, questa accompagnata dalla
disperazione. Nè tacere pur devesi che chi doveva meno partecipare
in queste sporcizie, non meno degli altri dentro vi s'immerse,
e nell'universale dissoluzione fu provato che sventura non rompe
libidine.
Pronta e di breve tempo fu la distruzione, ma il ristaurare tante ruine
e l'emergere da tanto conquasso, il ricuperare quanto s'era perduto fu
opera di più lunga fatica e di maggiore momento. Ond'è che si videro
le popolazioni fuggite alla rabbia del terremoto in punto di perire
per la mancanza dei sussidii al vivere necessarii. La stagione era
in quel mentre d'assai e oltre l'usato inclemente, regnando sempre
pioggie molestissime e un freddo anzi rigido che no. Le ingiurie del
tempo tormentavano i miseri scampati, li tormentava ancora più la
fame. Tutti i generi, che al vestire dell'uomo ed a cibarlo servono,
erano stati o distrutti o sotto le rovinate fabbriche sepolti. L'olio
quasi tutto miseramente a terra sparso: sparsesi o perdessi la più
gran parte del vino o per la rottura delle botti o per lo sprofondarsi
delle volte. Quel vino poi che potè essere preservato, nelle sue più
intime parti corrotto, non acquistò mai più nè la sua vigoria nè la
sua purità. L'aceto stesso fiacco e privato del suo spirito e del suo
gusto divenne. La medesima tempesta annientò le biade che nei granai
erano riposte. Dissotterrossi in progresso di tempo il grano che nelle
fosse all'uso del paese si conservava; ma di niuna utilità fu, perchè
fracido si estrasse e d'ingrato odore o ciò fosse per l'acqua che per
le insolite fessure in quei penetrali aveva trovato la via, o per altri
influssi sorti dalle parti più interne e più basse, da cui la naturale
economia dei grani fosse stata contaminata e guasta.
Nè solo mancarono i generi, ma ancora le officine e gli artifizii,
per cui si ammorbidavano ed all'uso degli uomini atti e confacenti si
rendevano. La pallida fame incrudelì per ogni parte, e fu la prima e
la più terribile seguace del terremoto. Nè modo v'era in quel punto di
rimediarvi. Le strade giacevano così altamente ingombre di rottami e
di ruine, che il portare le vitali derrate dai paesi ove abbondavano a
quelli a cui mancavano, era opera difficile, anzi in quei primi momenti
d'impossibile esecuzione. Arrogevasi all'universale disgrazia che
essendosi o guasti i fonti per la corruzione delle acque o disseccati
per avere le polle interne preso altre vie, negavano all'afflitta
popolazione il solito refrigerio; e quando non pioveva più, chi presso
ai fiumi non abitava, sperimentava quanto fosse crudo il tormento della
sete.
Da tanti stenti, da tanti strazii, da tanti dolori, da tanti terrori si
generarono con una marcigione orribile malattie mortali, massimamente
di febbri di mal costume, per cui era tolto di vita chi da tanti rischi
di morte già era scampato. La fame, la sete, i perpetui lamenti di chi
era rimasto storpio o ferito, o di chi da ferale febbre era consumato
ed arso, il tetro aspetto dei cadaveri insepolti o chiusi sotto le
rovine, donde altro segno di sè non davano che un incomportabile
fetore, o gettati sui roghi ad incenerirsi, formavano un misto tale,
che da lui altro non poteva nascere che l'ultima desolazione e la
totale dissoluzione della società. Che leggi, quai magistrati, o qual
lume di ragione, o qual impulso di sentimento potevano resistere a
cruciamenti che piuttosto erano quelli, per così dire, delle anime
dannate, che di creature nella luce di questo mondo ancora viventi?
Umanità e religione si scossero in così fatale momento; non mancarono
gli umani provvedimenti. Sorse alla voce di tanti miseri il governo
del re Ferdinando, e prontamente con animo da beneficenza compreso, e
con mezzi quanto potè più efficaci a quegli estremi bisogni accorse.
Elesse al pio ufficio uomini che sapevano e volevano secondarlo, un
Pignatelli in Calabria, un Caracciolo in Sicilia. La fame, la mala
consigliatrice fame più d'ogni altra necessità pressava; alla fame
adunque per le prime provvidero. Nè fredda o lenta, ma accesa e
spronata fu la benignità di chi comandava e di chi obbediva. Soccorsero
con mandar generi di vitto prestamente nei luoghi più danneggiati,
innumerabili braccia al racconcio delle terre lavorando. Si fecero
incontanente assettare molini e forni, ed, antivedendo qualche nuovo
conquasso, ordinarono, là dove l'opportunità era maggiore, conserve
di grani, di farine, di biscotto, onde, ad ogni tristo accidente che
sopravvenisse, potesse essere in pronto il compenso. Non solamente
nei primi dì della fatale sventura, ma per molto tempo ancora una
moltitudine quasi innumerabile d'uomini affamati e per fame languenti
furono sostentati dai soccorsi che dalla mano regia provenivano.
Provvidesi eziandio, poichè malizia umana è così grande che fa negozio
della miseria altrui, con ordini adatti e severissimi, che siccome i
commestibili si somministravano, così ancora il loro trasporto da un
luogo all'altro, e l'acquisto sul luogo fosse agevole, retto e non
incomodo nè al venditore nè al compratore. L'annona regia largiva il
vitto, la supellettile, le vesti; l'erario il denaro. Per ogni lato,
per ogni canale scorreva il fiume della beneficenza sopra gl'infelici
percossi. Il governo faceva da sè e per sè, ma non tralasciò il
pensiero di raccomandare ai baroni che pronta ed amorosa cura avessero
dei loro vassalli. Quanto alle città regie, cioè quelle che, esenti da
baronaggio essendo, alla sola autorità del re soggiacevano, furono loro
dall'erario pubblico, per quel medesimo fine di soccorrere chi pativa,
distribuiti larghi sussidii.
L'immensa forza che aveva conquassato la terra, aveva eziandio la
sopraffaccia sua sconvolta tutta e coperta di ruine. Ondechè la
maggiore difficoltà che s'incontrava nel condurre a compimento il
pietoso ufficio era appunto la malagevolezza delle strade, come già
più sopra abbiamo osservato. Quasi isolate erano le città, isolati i
villaggi. Ad un male così grave sopperire non potevano le languenti
braccia dei Calabresi superstiti, nè l'animo afflitto, nè il numero
scemato. Misersi in opera le compagnie provinciali che nuovamente, non
a questi usi di sciagura, erano state ordinate. Fu loro comandato che
nella ulteriore Calabria gissero ed in pro degl'infelici abitatori a
sgombrar terre, a sollevar rottami, a racconciare strade, ad inalveare
fiumi, a prosciugar paludi, a dar corso a stagni si adoperassero. Le
soldatesche mani quivi non a micidiale, ma a conservatrice opera con
provvidissimo consiglio mandate, molto volentieri vi attesero. Deposti
i fucili e le sciabole, presero in mano vanghe, uncini, picconi, zappe,
funi, e racconciarono coll'arte ciò che la natura aveva stravolto e
scomposto. Quanti cadaveri trassero dai muti abissi, quanto prezioso
mobile dai rovinati edifizii, quanto oro, quanto argento, quanti nobili
arredi tra il fango, i sassi ed ogni lordura giacenti!
«Dicasi senza sospetto, scrivono i lodati accademici di Napoli, dicasi
senza sospetto di adulazione; fu mirabile cosa a vedere i tardi nipoti
de' valorosi Bruzii e degl'industri abitatori di tal parte della Magna
Grecia comportarsi con tale e sì costante intrepidezza e fedeltà,
che non può abbastanza lodarsene il coraggio, con cui si esposero
a sì difficile impresa, la rassegnazione colla quale si prestarono
ai comandi di que' prodi uffiziali che in tanto penoso impegno ne
diressero le operazioni, e l'ottima fede colla quale religiosamente
custodirono tutto ciò che essi dalle ruine disotterrarono. Si videro
in brevi giorni sgombrate le più vaste ruine, riaperte le strade e
facilitati i modi, onde potersi la sbandata gente riunire e sovvenirsi
a vicenda. Ritornarono al bene e al comodo della popolazione gli ori,
gli argenti, le suppellettili, i commestibili e que' generi di prima
necessità che non erano stati o guasti o distrutti.»
Speciale ordine dal principe e da chi la benefica sua volontà eseguiva,
ebbero questi pietosi e forti soldati di avere cura principalmente di
rinvenire e conservare le scritture, onde si regolavano gl'interessi
e lo stato delle famiglie. Come a loro fu comandato, così fecero.
Impedissi a questo modo uno scompiglio, una crudele confusione che
sarebbe stata d'infiniti danni e di acerbi sdegni troppo feconda
cagione.
Fra di queste benefiche operazioni che un paese vasto ed una numerosa
popolazione a novella vita chiamavano, una tristissima vista rendeva
funesti gli animi. Disotterravansi a luogo a luogo, a ora a ora dai
diroccamenti e dai dirupamenti gli ammaccati cadaveri. Sorgevano
pianti di chi riconosceva i suoi più cari, compassione e smarrimento
era in tutti. Vedendoli, contemplandoli, ognuno comprendeva quanto
fosse grande il calabrese ed il siciliano infortunio. Rotti erano
i corpi estinti in varie ed orribili guise, molti sformati talmente
e dall'antico aspetto tanto diversi, che più non si riconoscevano.
Putivano per putredine: un infame odore anticorriero e seme di mortali
malattie per le città e per le campagne si diffondeva. Al quale fomite
d'aere pestilenzioso maggiore forza era aggiunta dalla puzza che usciva
dai sepolcri stati sommossi, aperti e scoperti dalla violenza del
terremoto. Vedevansi per gli spaccamenti e scosci dei monti scendere
i cadaveri per lo innanzi chiusi nei loro avelli, o sul suolo stesso
sconvolto apparire in sembianze orrende. Il pericolo era grave che i
morti ammazzassero i vivi. Ebbesi dai magistrati regii nel miserabile
frangente, cura della salute pubblica.
Per provvidenza generale ordinarono ciò che per provvidenze particolari
già si era fatto in alcuni luoghi. Vollero che si accendessero i roghi
per dovunque abbisognasse, e che i cadaveri vi si incenerissero.
Abborriva sulle prime il volgo da un ufficio che siccome insolito
era, così ancora crudele ed inumano gli pareva. Ma tra per promesse,
persuasioni e comandamenti si venne a termine che il salutare editto
si mettesse ad esecuzione. All'odore putredinoso si mescolava l'odore
delle carni e delle ossa arse: il che cagione era di sommo ribrezzo ed
abbominazione.
Per andare all'incontro di così molesto senso, e per resistere ai
fatali effetti del fetore, si bruciavano nel medesimo tempo materie
odorose in grandissima copia, onde una densa e perpetua nube di profumi
la tristissima scena avviluppava, e meno orribile la rendeva.
Rivolsero anche il pensiero a chiudere le squarciate fauci dei sepolcri
con ampie e ferme masse di materiali atti ad impedire il velenoso fiato
che dalla putrescenza ne usciva.
Questi consigli e provvedimenti sortirono l'effetto desiderato nelle
Calabrie, ma non sì però che un influsso mortifero non le desolasse,
e molti fra i più non mandasse. Ma la salutare efficacia se ne
conobbe in que' luoghi, dove con maggiore diligenza furono mandati ad
esecuzione; imperocchè o le popolazioni ne furono preservate del tutto,
o il morbo con minore veemenza v'incrudelì, o più breve durata ebbe.
Per le prudenti e forti deliberazioni del vicerè di Sicilia Domenico
Caracciolo, Messina ne restò intieramente esenzionata. Vi si piansero
morti pel furore della terra e del mare, ma non per la forza delle
malattie.
Terminati i fieri e crudi disastri, rimase lungo tempo nei popoli
stupore, terrore ed orrore. Chi per gl'infelici luoghi viaggiava,
vedeva uomini che a manifesti segni dimostravano essere stati tocchi
da uno straordinario furore d'elementi e da un immenso infortunio.
Oltracciò, ad ogni tratto si temeva che la potente e rabbiosa natura
delle Due Sicilie di nuovo si mettesse in travaglio, e quanto aveva
lasciato intero o non intieramente distrutto rompesse e disciogliesse.
Una densa e fetente nebbia ingombrò per parecchi mesi, non solamente
il teatro di tante tragedie, ma ancora tutta l'Italia con parte della
Francia e della Germania.
A dì 29 d'aprile del presente anno cessò di vivere Bernardo Tanucci,
ministro napoletano. Da qualunque lato si guardi il lungo politico
aringo corso da Tanucci, indarno si cerca quale cosa potuto abbia
servire di fondamento all'alta riputazione in cui levossi da vivo e che
nol lasciò dopo morte.
La setta popolare e l'uso di recare le cose a maggior vantaggio dei più
prevalevano. Il secolo si volgeva principalmente contro i residui degli
ordini feudali, contro gli abusi, se mai ce ne fossero, e le esenzioni
del clero, contro i privilegii, di cui la nobiltà ed il clero stesso
godevano. A migliore egualità si volevano le cose tirare; a maggiore
dignità si andava la natura umana riducendo.
Vivo esempio del secolo era l'imperadore Giuseppe. Ora il vediamo
visitare di nuovo l'Italia con quel solo apparato che la virtù ed il
ben volere gli davano. Partito dall'imperiale residenza di Vienna nel
dì 6 dicembre, passato per Mantova, Parma e Modena, e tre giorni a
Firenze col fratello granduca trattenutosi, a Roma sull'ora del mezzodì
del dì 23 di tale mese inaspettatamente arrivò. Vide Roma e Pio, a cui
disse restituirgli la visita. Per soddisfare ai curiosi di queste cose,
si dica, ch'ei portava l'abito schietto dei suoi ufficiali, bianco con
mostre di velluto rosso; per abitazione aveva la casa del cardinale
Herezam, suo ministro; per tavola, quella d'un albergo vicino a piazza
di Spagna. La vigilia di Natale assistette ai primi vespri in San
Pietro, poi vi udì il mattutino e la messa di mezza notte. Erasegli
apparecchiato un magnifico inginocchiatoio con cuscini e tappeti di
velluto e d'oro; ma in quel luogo ed avanti il cospetto di colui che
il più alto adegua agl'imi, il ricco seggio ricusando, inginocchiossi a
terra, come se uno del popolo fosse, ed a terra prostrato pace al mondo
e felicità pe' suoi popoli pregò. In mezzo alle romane grandezze umile
e modesto si mostrò, grandezza più grande di tutte. Il dì seguente
poi recossi alla messa solenne cantata dal papa con tanta maestà,
con tanta pompa e con tale concorso di popolo, che vincitrice in quel
giorno veramente appariva la cattolica religione. Gustavo di Svezia
stesso, che con Giuseppe d'Austria a que' dì ai sublimi riti assisteva,
maravigliato restonne e tocco. Non era già uomo da convertirsi, ma da
considerare, come fece, con quanta maggiore efficacia delle protestanti
la religione cattolica possa con le sue pompe esteriori operare a pietà
e riverenza verso Dio, ed amore e beneficio verso gli uomini.
Giuseppe visitava Roma, e salutato di nuovo il pontefice, partì per
Napoli, onde vedervi quell'ameno e grande paese, il re Ferdinando, la
regina Carolina e la duchessa di Parma, sua sorella, alla quale portava
particolare affezione. Spezialmente poi desiderava di conversare coi
sommi filosofi che allora Napoli abitavano ed illustravano. Grandi
balli, grandi festini, e soprattutto grandi cacce vi si facevano. Di
ciò Giuseppe si dilettava, ma non vi aveva capriccio. Per sollievo
di spirito, non per tenore di vita que' piaceri prendeva. Meglio si
dilettava di vedere Filangeri, meglio di visitare gli ospedali e gli
ospizii, meglio di ammirare quel dilettoso clima, quella potente natura
che indicano dover pure chi vi regge fare per chi vi abita quanto essi
hanno fatto; e che certo gli abitatori vi sarebbero felicissimi. Grande
disparità era in tutti i paesi tra la bontà della natura ed il rigore
delle instituzioni, ma in nessun luogo più grande che in Napoli.


Anno di CRISTO MDCCLXXXIV. Indiz. II.
PIO VI papa 10.
GIUSEPPE II imperadore 20.

Continuando a trattenersi in Napoli, il principe austriaco vide ancora
molto volontieri Carlo di Marco, come veduto avrebbe Tanucci, morto
l'anno precedente[1], per opera de' quali principalmente a migliore
condizione s'incamminavano ogni giorno le cose del regno. Vide anche
volontieri Acton, che delle cose marineresche principalmente aveva
cura, e che allora, non essendo ancora nati tremendi furori in esteri
paesi, non era ancora acceso di que' furori egli stesso che il resero,
alcuni anni dopo, cotanto diverso ed acerbo.
Già s'erano fatte in Napoli, e si andavano preparando deliberazioni che
di non poco contentamento riuscivano al sovrano di Vienna. Abolivansi
i privilegii baronali, i comuni si proteggevano, gli ordini giudiziali
si miglioravano, si voleva che i giudici motivassero le sentenze. Molto
si faceva, eppure molto ancora restava da farsi. Ciò quanto al civile
e lo economico; quanto alle cose di giurisdizione mista, si procedeva
anche, ma con lodevole prudenza, a riforme. Le appellazioni a Roma
furono tolte, e soppresso il tribunale della nunziatura, soppresso del
tutto il tribunale dell'inquisizione. Già si parlava di sopprimere
i conventi stimati inutili; già si pensava di far dipendenti dagli
ordinarii e troncar loro ogni dipendenza da' generali di Roma: già un
Michele Torcia aveva presentato alla suprema giunta della Calabria uno
scritto, per cui provava che i claustrali costavano alla nazione più
di nove milioni di ducati all'anno, onde molti, tra per la condotta,
l'inscienza, le maniere e l'enorme prezzo, erano ormai venuti a noia a
tutti. Quelli che fra di loro di buoni studii erano nudriti e di retti
costumi informati, i quali non erano pochi, non bastavano per lavare le
note che sulle spalle di quegli altri erano state impresse.
Grati suoni venivano anche a Giuseppe dalla Sicilia. Domenico
Caraccioli, marchese di Villamarina, uomo di alto spirito e d'animo
volto a benefizio dei popoli, governava col grado di vicerè quell'isola
sino dal 1781. Personaggio era che molte regioni avendo peragrate, e
molte cose vedute in Francia e in Inghilterra, e di purgato intelletto
essendo, di suo proposito si moveva, e da sè medesimo sanamente
deliberava. Ma, oltre la capacità e volontà propria, si consigliava
col Napolitano Saverio Simonetti uomo di non mediocre valore, e che,
stato prima luogotenente della sommarìa in Napoli, era poi stato eletto
segretario di Stato per la grazia e per la giustizia. Quanto di bene
in Sicilia si fece a que' tempi, da questi due uomini riconoscere si
debbe, ma forse ancora più dal Simonetti che dal Caracciolo; imperocchè
il primo, siccome più prudente, più consigliatamente procedeva; mentre
il secondo, siccome più focoso, dava qualche volta negli scogli che non
sapeva nè voleva evitare.
Erasi già stabilito da' ministri di Napoli che il tribunale
dell'inquisizione anche in Sicilia con un modo pacifico, e senza
che il papa molto se ne risentisse, si sopprimesse; quest'era il non
provvedere le cariche degli inquisitori a misura che venivano vacando.
In fatti, vacato uno degli inquisitori, non aveva avuto surrogazione,
e vacato anche il secondo, non si pensava a dargli un successore.
Il supremo inquisitore Ventimiglia acerbamente si lamentava,
rappresentando che fosse meglio annullare del tutto il tribunale
che lasciarlo sprovveduto d'inquisitori; perciocchè, se dannoso era
stimato, la soppressione faceva l'effetto che si desiderava, e nissun
bisogno vi era di aggiungervi lo scherno, col lasciare le cariche
vacanti. Caraccioli, presa occasione da questa rappresentanza, instò
presso il governo supremo di Napoli, affinchè il tribunale finalmente
fosse tolto. In fatti, vi fece passare una provvisione, per cui fu
espedita l'abolizione del tribunale.
Imperfetti erano certamente gli ordini del parlamento di Sicilia,
ma pure servivano, massimamente per le tasse, di salutare freno al
governo. Il Caracciolo applicò l'animo a migliorarli. Grande vizio era
nel modo con cui si formava la deputazione del regno, la quale, fra
una tornata e l'altra del parlamento sedendo, alla perfetta esecuzione
delle leggi sancite vegliare doveva; conciossiachè accadesse che
essendo i baroni di grande potenza, risultava per l'ordinario ch'ella
fosse quasi tutta composta di baroni, o di qualche cadetto nobile.
Dal che procedeva che piuttosto agl'interessi di chi più poteva che
a quelli di chi poteva meno si avesse riguardo. Il buon vicerè, per
andare all'incontro di un così grave disordine, e ridurre quella forma
politica al suo primiero e più utile instituto, ordinò che sempre
alla deputazione fossero eletti quattro ecclesiastici pel braccio
ecclesiastico, quattro baroni pel braccio baronale, e quattro deputati
delle città libere pel braccio demaniale. Per tale ordinamento si
videro assunti alla deputazione ed ecclesiastici e gentiluomini in
compagnia de' baroni; cosa che fu di grande contento ed utilità ai
Siciliani.
Il parlamento in ciò giovava, che la Sicilia non venisse molto
aggravata dalle contribuzioni, ma portava con sè l'inconveniente che i
pesi fossero a rovescio ripartiti; perchè i baroni, pretendendo certe
ragioni di esenzione, alleggerivano i feudi ed aggravavano gli allodii.
Per la qual cosa il vicerè ed il suo savio consigliere Simonetti
proposero che i beni si allibrassero, e tutti, nissuno eccettuato,
a proporzione del loro valore, ai pubblici pesi soggiacessero. Ma i
baroni, che si sentivano percuotere nell'interesse, fecero in Napoli
un tale contrasto, che per lungo tempo all'utile e giusto pensiero
si soprassedette. Il loro principale argomento in ciò consisteva,
che le esenzioni e privilegii, di cui ora si trattava di privarli,
non erano punto a titolo gratuito, ma bensì un contraccambio ed un
compenso di certi obblighi speciali ch'essi soli avevano verso la
corona, massimamente ai tempi di guerra contratti. Protestavano essere
ingiusto giudizio il venire accomunati da una parte e restare gravati
dall'altra.
Tutto l'andamento di Caraccioli fu quello di abbattere i privilegi
baronali e la feudalità. Quindi aveva sempre caro di proteggere i
vassalli contro i baroni, e quelli fra i magistrati, che in pro dei
primi e contra i secondi giudicavano le cause, accarezzava. Per lo che
suscitati i popoli a quel favorevole vento, generalmente si muovevano
contro i diritti dei rispettivi baroni, e innanzi a' tribunali quasi
ogni giorno risuonavano querele contro i diritti proibitivi di caccia,
di forni, di fattoi, di pedaggi, di dogane interne, dei pagamenti
detti di terraggio e terraggiuolo, e di simili altre angherie odiose
per l'origine, pregiudiziali per gli effetti. Il commercio in fatti e
l'agricoltura per essi sommamente pativano, e la libertà dell'operare
nelle cose necessarie alla vita ne restava grandemente offesa. Non
disformi alle querele erano le sentenze, per le quali quasi sempre i
signori ne andavano con la peggio, onde appoco appoco un nuovo diritto
pubblico più conforme alla egualità si andava creando, e le gravezze
dei popolani si allentavano.
Caraccioli, uno dei primi baroni del regno, seguitava il suo genio,
e l'umor suo contro i baroni sfogava; non però per amarezza, ma per
l'utilità comune il faceva. Stabilì che il mero e misto imperio da
nissuno potesse esercitarsi, se non da chi ne mostrasse il titolo,
e parimente volle che nissuno dei baroni potesse partecipare nella
elezione dei giurati, cioè ufficiali del comune, se il titolo autentico
di poter ciò fare non esibisse. Abolì anche in amendue i casi ogni
forza di consuetudine; e siccome i più per consuetudine piuttosto che
per titoli scritti mostrabili quelle potestà esercitavano, ne seguitò
che furono obbligati di cessarle, non senza grave risentimento degli
antichi signori, a' quali pareva strano di non essere più delle antiche
ragioni e consuetudini investiti. Così i popolani divennero meno
gravati, ed i comuni più liberi; imperciocchè il principale nemico
della libertà dei comuni fu sempre, non già l'autorità regia, ma la
feudalità.
I vicerè di Sicilia erano soliti a fare delle circolari, monumenti
durabili del loro governo. Celebri furono a' suoi tempi quelle del
Caracciolo. Molte utili riforme vi si leggevano. Ai 15 di settembre
restrinse la così detta mano baronale, che valeva a fare l'esenzione
dei proventi territoriali e dei livelli, e prescrisse che i baroni non
potessero procedere a carcerazioni od altri atti simili nè di per sè,
nè per via di fatto. Ai 10 di gennaio poi dell'anno seguente, diciamolo
qui, giacchè siamo a questa, ordinò che i baroni non si potessero
ingerire nell'amministrazione delle università baronali, nè nel peculio
che amministravasi dai giurati. Un pensiero utilissimo ebbe nel mese
di ottobre del medesimo anno 1785, e fu che stabilì che i vassalli
non fossero più obbligati a lavorare i terreni dei loro baroni: il che
distruggeva i comandati, ossia certe servitudini di persone e di gleba.
Dalle narrate riformazioni ciascuno può conoscere quanto il male fosse
grave in Sicilia a cagione di quegli sconcii ordini feudali. Piacquero
all'universale dei popoli, il nome di Caraccioli fu celebrato dai
Siciliani, come di proprio ed alto benefattore; chi più poteva per
l'opinione, chi più poteva per le braccia, con somme lodi l'esaltavano.
I magistrati, i forensi, le persone di lettere l'egregio vicerè
favorivano, e dai risentimenti dei baroni il difendevano. Il popolo
poi, massimamente i contadini, e generalmente tutti i vassalli, si
dimostravano pronti a tener lieto e sicuro colui che le fatiche più
profittevoli e la vita più dolce aveva lor procurato. Quindi era
nato che i Siciliani si erano divisi in due parti, e venuto l'uso di
chiamarsi vicendevolmente col nome o di caracciolesco o di baronale.
Tutta la Sicilia co' suoi pensieri Caraccioli abbracciava, ma speciale
cura si dava di Palermo. Al dì primo di aprile vi pose la prima pietra
del camposanto; lodevole risoluzione. Ma spiacque dove fu stabilito,
per esser quello stesso presso la chiesa di Santo Spirito, là dove
appunto ebbero principio i vesperi contro i Franzesi. Adornò e rese più
regolare la piazza pubblica del mercato. Volle, ma non potè condurre
a termine il suo intento di aprire due giorni per settimana un mercato
pubblico per l'annona.
Tali erano le virtù di Caraccioli, le quali chiaramente splendevano
dentro e lontano da Palermo, ma non senza qualche ombra dentro.
Quelli che da vicino il vedevano, ed ogni giorno a fare con lui
avevano, non si soddisfacevano dell'impeto e dell'imprudenza con cui
trattava le faccende, ancorchè, come già abbiamo accennato, Simonetti
in qualche modo il ritenesse. Disgustò anche il popolo di Palermo,
perchè aveva voluto riformare le feste di Santa Rosalia, e perchè
ostentava una certa miscredenza e disprezzo delle cose sacre. Non
volle fare il voto solenne per l'immacolata Concezione della Vergine,
e motteggiava sovente sopra le cose riputate più rispettabili. Queste
erano imprudenze ed errori, le seguenti scandali e sconcezze indegne
dell'uomo e del grado. Invitava alla sua mensa le ballerine e le
cantatrici, e con esse conversava più famigliarmente che si convenisse.
Accadde ancora che, fatta venire una compagnia di comici franzesi,
invitò al teatro i vescovi.
Non minore dispiacere arrecava nè minore molestia dava ad ognuno
la protezione, con cui favoreggiava i delatori ed i fiscali, onde
e le calunnie e le avare investigazioni turbavano le famiglie, e le
proprietà incerte o gravate mantenevano. Questa fu una brutta peste
che contaminò l'amministrazione di quel famoso vicerè, e lo rese meno
commendabile ai contemporanei ed ai posteri. Nè vuolsi tacere che assai
subito e sensitivo era verso chi il riprendeva, ed è noto in Sicilia
ch'egli perseguitò acerbamente coloro che avevano fatto una satira
contro di lui, uomo grande per umanità, non grande per sopportazione;
virtù che ricerca maggior signoria di sè medesimo, e che Caraccioli non
aveva.
L'imperadore Giuseppe sentì, essendo ancora in Napoli, farsi o
prepararsi dal vicerè tante generose riformazioni in Sicilia; ne
riceveva non poca allegrezza. Poscia, lasciato Napoli, verso la sua
Milano s'incamminava. Ebbe a Roma nuove e prolungate conferenze col