Annali d'Italia, vol. 8 - 17

non per la prima volta avvenuto in paesi che bugiardi ed insidiosi
si potrebbero chiamare, posciachè per la bellezza ed amenità loro
allettano a spiagge infide e piene di mortali pericoli: un sole
benefico, chiari rivi scendenti dai poco lontani Apennini, freschezza
di siti all'ombra degli aranci, dei gelsi, dei limoni, dei fichi, dei
cedri, dei granati e della pampinosissima vite, fanno che quivi sieno i
luoghi forse i più dilettevoli della terra. Ma sono giardini d'Alcina;
la natura vi fu ad un tempo madre e matrigna.
Ma fra le quasi infinite avventure e disavventure che dobbiam
tralasciare, non possiamo astenerci dai trascrivere dallo storico più
volte lodato alcuni casi che più degli altri potranno interessare il
lettore.
«La compassione ch'io sento, scrive egli adunque, m'invoglia di
raccontare il caso di due madri infelici all'ultima ora sotto le ruine
codotte, ma non sole. Rovinò sopra di loro un tetto, rovinò la povera
casa. L'una aveva seco un figliuolo di tre anni, l'altra stringeva al
petto un bambino di sette mesi. Nella estrema sciagura, in quel fondo
di morte, la materna tenerezza non le abbandonò, anzi si accrebbe.
Curvaronsi contro i cadenti sassi, e fecero del dosso arco sopra le
innocenti creature. Istinto era, amore di madre era, ma frutto altresì
di compassionevole illusione; perciocchè incontro ai rovinanti massi
qual corpo di donna resistere potea? Morirono, e con esse i non salvati
fanciulli. Chi fu mai più infelice al mondo di quelle misere e desolate
madri? Furono trovate nell'attitudine descritta; e con le braccia
avvinte ai figli l'una accanto all'altra, esse coi corpi pieni di
lividori e di putrida gonfiagione, essi seccati e smunti. Or chi potrà
dire quanto dolore regnato abbia in quell'oscuro speco?
«Delle raccontate donne un'altra meno infelice, quantunque
infelicissima sia stato, tutta la Calabria in ammirazione converse.
Sette giorni intieri stette fra le ruine sepolta, nè alcun cibo o
bevanda ebbe. Funne estratta esanime e moribonda. Come prima racquistò
l'imperio dei sensi, _acqua_, gridò, _acqua, acqua io voglio_. Tant'era
la sete che la straziava. Disse che nella tenebrosa caverna prima
una infernale sete la struggeva, poscia perdè ogni sentimento di sè
stessa. La da così vicina morte scampata donna visse ancora alcun tempo
sovvenuta dalla pietà del pubblico.
«Simile caso avvenne ad una donna di Cinquefrondi, villaggio poco
distante te da Polistena, e dal sommo all'imo distrutto. Fu tratta viva
dopo sette giorni di sepoltura, ma con due figliuolini, che seco aveva,
morti.
«Quanto sopportar possa in casi straordinarii l'animale natura, ancora
più ne diede testimonianza un gatto, che, appiattatosi per asilo in
un caldaio, il quale il peso dei rottami sostenne, vi stette quaranta
giorni senza cibo di sorte alcuna. Il trovarono come giacente in
placido sonno. Appoco appoco si riebbe, ed alcuni anni ancora visse,
delizia del padrone.
«Quale fosse lo spaventevole capriccio del terremoto, egli scrive in
altro luogo, seppeselo il padre maestro Agazio, priore del carmine di
Jerocarne, il quale per questi luoghi viaggiava, quando più il flagello
v'infuriava. Spaventato volle fuggire; ma ecco un piede incepparsi
in un crepaccio che subito si serrò. S'affaticò di ritirarlo, ma
spese la fatica indarno. Mise grandi stridori, chiamò aiuto con alte
grida, in quella desolata solitudine nissuno comparve, e tuttavia il
piè stava stretto da quella straordinaria tanaglia. Credeasi morto,
attaccato com'era a quel fatale e strano ceppo. Ma ecco in un subito
per un nuovo urto di terremoto aprirsi il ceppo, spalancarsi la fauce
e dargli libertà e vita. Il povero religioso arrivò al convento tutto
sganganato, e più morto che vivo. Ognuno si maravigliava della stupenda
ventura, ed egli a stento la poteva raccontare; tanto era oppresso
dall'anelito e dalla paura!»
E altrove: «Era una casa ad uso d'osteria lontana forse a trecento
passi dal Solì. L'abitavano l'oste per nome Giovanni Aquilino, la
sua moglie ed una nipote di tenera età. Eranvi per accidente quattro
avventori. Giovanni se ne stava russando sul letto, siccome quello che
avvinazzato era e cotto bene, le due donne attendevano agli uffizii
di casa, gli avventori giuocavano alle carte. Ed ecco la casa intera
prender viaggio verso il Solì, nè fermarsi se non quando al suo letto
pervenne. Quivi l'urto fece ch'ella si disfece ed in frantumi andò.
L'ostessa rimase, come trovavasi, seduta, e dalla paura in fuori non
ebbe male alcuno. L'oste a maladetta forza si svegliò, e smaltito il
vino, pianse la perduta fortuna; la misera fanciulla schiacciata morì.
Morirono pure gli avventori venuti a giuocare sulle sponde dell'ameno,
ma infedele Solì.
«Uno sbalzo di terremoto aveva sepolto fra le ruine della sua casa
l'abbate Taverna, medico di Terranuova. La polvere lo soffocava, la
grandine dei piombanti sassi lo martellava, si credeva morto, quando
un'altra urtata di terremoto lo scarcerò, fuora il trasse e dal
pericolo lo scampò, per lo strano caso restò allibbito e intronato
lungo tempo; finalmente tornò del tutto in sè, e dilettavasi nel
raccontare come il terremoto l'avesse condotto vicino a morte, e
come l'avesse salvato. La famiglia dei Zappia ebbe un caso comune col
Taverna; sepolti da una spinta di terremoto, dissepolti da una altra.
«Anche nella desolata Terranuova successe una mirabile sopportazione
di un animale bruto. Nella casa dei Tutini, che rimase tutta infranta
e distrutta, una cagna fra le ruine incarcerata visse per tredici dì
senza alimento alcuno, e senza avere mai potuto lambire nè pure una
stilla d'acqua. Uscì, toltigli i rottami d'intorno, viva e magra, e
soprammodo sitibonda.
I terreni rimasero tutti lacerati da crepacci e da fenditure. Alcune
di queste fenditure avevano otto palmi di profondità, altre tredici,
altre venti, ed anche di più; varia era la larghezza, ma nissuna
maggiore di quattro palmi. Parevano quasi tutte fatte a taglio netto
e successivo, ma con direzione confusa, varia e indistinta a segno
che non ammettevano ordine alcuno, nè dove fosse il loro principio e
dove la fine non si poteva accertare. Sopra un alto monte rimpetto a
Terranuova, ma sulla opposta sponda del Solì, s'ergeva un villaggio
per nome Molochiello. Questo infelice paesetto fu devastato in modo
che pochi ed informi vestigii rimasero della sua esistenza. Una parte
di lui precipitossi a destra, l'altra a sinistra, nè più altro suolo
vi rimase del sito su cui giaceva che una fettolina a schiena d'asino,
così acuta, che non vi si poteva su camminare. Videsi in questo luogo
un orrido e non più udito spettacolo; che nel fianco del monte reciso
come a perpendicolo pendevano ammassate le reliquie dei cadaveri
riposti nei sepolcri, i quali, per lo squarcio avvenuto nei fianchi
delle rupe, rimasero scantonati e per metà divisi.
Un Antonio Avati contadino stava sur un castagno recidendone i rami,
quando arrivò la devastazione. Il castagno si mosse, e con placido
corso scese verso il fiume Marro per più di trecento passi. Fermossi
finalmente intoppandosi giù nel vallone. Scuotessi Arati, e salvo sulla
ripa saltò.
La rustica casa di Grazia Albanesi, moglie di Giuseppe Zema, viaggiava
anch'essa giù per lo monte. Aveva Grazia un bambino di poca età, che
giaceva forse placidamente dormendo in una rozza culla fra meschine
fasce avvolto. L'infelice madre restò affogata ed oppressa sotto le
smisurate moli e della propria casa e delle altre fabbriche e del
terreno e della creta che giù rovinavano dalla rupe di Molochiello.
Credessi che con lei fosse morto il bambino. Già erano trascorsi
tre giorni dal fatale avvenimento, quando da coloro che andavano
fra le ruine raccogliendo gli avanzi della loro sepolta e scarsa
suppellettile, furono uditi alcuni oscuri vagiti. Alzarono a speranza
i pietosi animi, smossero, scavarono, trovarono la misera ed innocente
creatura nella sua culla cinta di fango e fra orrendi frantumi involta.
Rea era la stagione, il freddo aspro assai, la pioggia dirotta.
Estrassero il bambino vivo da quell'informe spelonca così com'era,
rauco dal pianto, conquiso dalla fame e dalla sete, assiderato dal
freddo, dimagrato al sommo; così usci vivo dal sepolcro inusitato della
madre. Il presero, il fomentarono, con prudenza il dissetarono, con
prudenza ancora lo sfamarono. Salvo in somma il resero, ma non tanto
che non portasse nello smunto viso e nel debole corpicino, finchè
visse, i segni dell'andato patimento. Siccome morta era la madre, una
zia materna prese cura dell'orfano così stranamente preservato da una
stranissima ventura. Gli accademici di Napoli non senza maraviglia il
videro.»
Sino a questo passo furono raccontate le disgrazie di molti illustri
luoghi, di molte nobili città; or si diranno quelle di colei che tutte
e per antichità e per grandezza e per altezza di fama le avanza.
La magnificenza non più che l'amenità non preservò dalla cagione
inesorabile e furibonda.
Siede Messina sulla terra sicula, alto elevandosi quale regina
del famoso stretto che da lei il suo nome prende. Celebre ai tempi
antichi, celebre nel medio evo, e celebre ancora nelle moderne età,
fa testimonio, che quivi all'industria degli abitanti, alla fertilità
del suolo, alla benignità del cielo si aggiunge un quieto e necessario
rifugio a chi sen va navigando sur un mare sopra misura tempestoso, e
troppo spesso da furie disordinate perturbato. La natura rabbiosa qui
pose Scilla e Cariddi, scoglio e voragine infami per tanti naufragii, e
quivi la provvida natura pose il porto di Messina al pari di qualunque
altro più famoso che al mondo sia, ampio, profondo, sicuro, atto a
ricettare come le più piccole ed umili barche, così le più grosse
e magnifiche navi. Fu città cara a' Normanni, cara agli Svevi, cara
agli Aragonesi, onde sorse piena di sontuosi edifizii e corredata di
tutti quei comodi della vita che alle città principali di un reame
si appartengono. A così alto grado salì una volta la sua potenza, che
e grossissimo commercio faceva, e numerose armate sui mari spingeva,
e del primato dell'isola con la stessa popolosa Palermo contendeva,
ed alcun tempo il tenne. Per le guerre civili poi e pei rivolgimenti
politici e per le ribellioni, ed ancora pel crescere progressivo
dell'emula città, cadde in più basso stato, ma non però tale che
illustri segni non serbi, e per popolazione e per magnificenza di
edifizii, della grandezza antica. La natura e gli uomini l'avevano
fatta grande e graziosa; gli uomini poscia per le discordie, la natura
pei terremoti la mandarono in declinazione; e da sè medesima diversa la
fecero.
Tremarono e rovinarono le Calabrie, Scilla e Reggio a rincontro di
Messina poste, parte fracassate, parte sommerse giacquero. Il profondo
mare non interruppe la mortale causa. Tanto essa era entro le più cupe
e più profonde viscere della terra nascosta! Successero nell'infelice
Messina cose tali che Scilla e Cariddi non ne starebbono al paragone.
Sino dai primi giorni di febbraio vi comparvero, ancorchè fuor di
stagione fosse, quei _cicirelli_, pesci del genere delle sfirene, che
sono a quelle spiaggie tristo annunzio di tremuoto. La veduta di questi
allora insoliti pesci cominciò a turbare i Messinesi, i quali qualche
grave caso ne augurarono, ma però non sospettavano di così spaventosa
ruina della loro città.
Altri segni sorgevano dell'imminente tempesta e di funesto avvenire.
Il mare in quello stretto, che dal Peloro trascorre lungo l'aspetto di
Messina, è commosso da un flusso quotidiano, cui gli abitanti chiamano
marea, e con vocabolo corrotto rema. Due volte al giorno le acque sono
solite a gonfiarsi ed a correre verso settentrione nel Faro, e due
volte ricorrono nel mare Siculo verso Ostro. Fremono sì quando vanno e
vengono, ma non tanto che nei tempi ordinarii diventino tempestose. Tal
era ed è il consueto tenore con cui nello stretto di Messina procede
quel vorticoso mare.
Ma quando l'anno giunse ai primi di febbraio, principiò ad alterarsene
l'usato andamento: «Le maree, narrano gli accademici di Napoli, non
erano esattamente regolari da sei in sei ore; torbida, fremente e
oltre il costume feroce divenne la vorticosa Cariddi, e spesso anche
allorquando parea meno agitato il volume delle acque, si osservò
crescere repente il tortuoso giro di quel vortice, che quei naturali
appellano _carofalo_, e la rema, quasi confusa e interrotta nella
sua direzione, o arrestarsi per poco o sull'onda seguace rialzarsi, o
aprirsi in mormorante e rapidissima concentrica voragine.
A ciò si univa un insolito oscuro fremito, che quasi si approssimava
a un profondo e lontano muggito; e ciò o precedeva alla repentina
conturbazione delle correnti, o vi si accompagnava o la susseguiva. E
per ultimo, siccome al ritorno della rema dal Peloro l'onda escrescendo
si alzava oltre all'ordinario livello, e talvolta attentava di risalire
su i segni terminali della sponda selciata, così all'uscir del porto
e nel rientrare le anguste gole del Faro, lo sbassamento sovente n'era
fuor dell'usato tumultuario, vorticoso ed eccessivo.»
La sponda selciata di cui qui si parla, altro non era che una petraia o
seguenza di sassi ordinatamente posti che per difesa contro gl'impeti
del mare e per termine tra il mare medesimo e la susseguente pianura,
scorre per tutto il circuito del porto, e ne forma l'orlo estremo o
sia il margine internamente. Questo orlo selciato, ornato vagamente di
fontane e di statue, i Messinesi chiamano panchetta, dietro la quale
succede un ampio stradone, e in fondo di esso si ergeva un eminente e
maestoso casamento, o continuazione di graziosi e nobili edifizii che
facevano di sè bellissima mostra a chi veniva dal porto l'inclita città
visitando.
Dal mare venivano gli augurii, venivano anche dal cielo. Il sole tinto
di pallida luce in pieno meriggio, un aere ora quieto, ora repente
turbato, ora di nuovo quieto con un'afa noiosa che rendeva i corpi
gravi ed affannosi; cupi suoni che di lungi venivano, ma non bene
si sapeva donde; un volare incerto degli uccelli, un tremar degli
animali, uno schiamazzar di galline, e massimamente di oche, un urlar
di cani straordinario alcuna cosa fuor dell'usato protendevano, la
natura trovarsi in qualche penoso travaglio significavano, e gli animi
riempivano di stupore e di terrore.
Fra tutto questo apparato di luttuosi segnali nei primi giorni di
febbraio principiò la terra a tremolare, come di sè medesima più sicura
non fosse, e, come il mare, farsi ondeggiante volesse. Ma il tremolio
non cresceva in iscosse, muoveasi la terra, ma stavano gli edifizii.
I Messinesi, usi ai tremuoti, per così dire, volgari, non credevano,
quantunque spaventati fossero, che la leggiere trepidazione avesse a
cambiarsi in furor tale, che la città ne dovesse andar in sobbisso.
Implorarono l'aiuto divino, le sacre pissidi esponevano, inni sacri
cantavano, facevano processioni, i luoghi aspergevano coll'acqua
benedetta, ed accendevano i lumi all'adorato seggio dove si conserva
la lettera autografa che la Vergine scrisse ai Messinesi: reliquia
da essi tenuta preziosissima, e con grandissima divozione onorata.
Ma la natura, che aveva accesa nei profondi recessi di quelle terre
qualche immensa fornace, od ammassata qualche sterminata quantità di
acque, le quali in quei monti tendevano a squilibrarsi, non patì che la
potentissima cagione fosse defraudata de' suoi terribili effetti.
Ai 5 di febbraio, poco appresso l'infausta ora del mezzodì, la piccola
ondulazione degenerò subitamente in un orribile e generale rivolgimento
del mare, dell'aria e della terra. Udironsi frequenti sotterranei
muggiti; pruovaronsi ad ora ad ora ed a precipizio confusi e forti
scuotimenti del suolo. Ora in su si spingeva, come se di sotto all'insù
fosse percosso da potentissime spuntonate; ora s'avvallava come se una
voragine se gli fosse aperta sotto; orizzontalmente oscillava, ora
dava sbalzi di traverso, ora, quel che fu il moto pessimo di tutti,
si rivolgeva in giro, come se fosse portato da vertigine. Brevemente,
una tempesta per tanti lati e talmente succussoria infuriò, che non fu
maraviglia che così gravi e così numerosi guasti siano accaduti; bensì
è maraviglioso che tutta la città, almeno nella sua parte inferiore,
dove maggiormente la sofferente natura travagliò, non sia stata messa
a soqquadro intieramente ed in ruina. Moltissime porzioni del teatro
marittimo, cioè del casamento sovraddescritto, che il porto orna e
nobilita, diroccarono, questa a brani a brani, quella a sfasciumi più
grossi, quest'altra per un muro giù e un altro su, onde come spaccate
dall'alto al basso apparivano. Non si udivano in quelle ferali ore che
muggiti della terra convulsa, invocazioni di supplicanti, lamenti di
moribondi, scroscii e rimbombi di case e palazzi che si discioglievano
in ruine. «A dì così tremendo, scrivono gli accademici, a dì così
tremendo sopravvenne notte più infausta. Verso le ore sette e mezzo
la terra fu presa da tale e sì profondo scuotimento, che parve tutta
intesa a fendersi o a rovesciarsi e nabissare; e quindi la pallida e
tremante popolazione, tra il muggito della terra, il fremito de' venti
e il fragore del mare, sentì percuotersi dal rimbombo prodotto dalla
orrenda e quasi universale ruina de' tempii, de' casamenti volgari e
degli edifizii più vasti e più vistosi, ed ecco in qual modo fu portato
a più compiuto termine quel danno che s'era tra essi nel giorno e nella
sera cominciato a produrre.»
Non uno, ma tutti gli elementi congiurarono a ruina della città
dominatrice del Faro. Rovinate le case e rotti i focolari, il fuoco
non trovando più nè pascolo regolare, nè uscite consuete, s'appiccò
alle materie diroccate, e divampando con orribile incendio andava
serpendo e bruciando quanto era rimasto intero, sia che in piè ancora
si sostenesse, sia che a terra già sbalzato giacesse. La fiamma
divoratrice si estese con rapido corso da uno in altro luogo, e tale
spazio guadagnò, e tale acquistò irreparabile forza, che per sette
giorni ogni opera fu vana per estinguerla. Molto prezioso mobile arso,
molte sostanze o di ricchi negozianti o di nobili famiglie incenerite.
«Quindi a molti infelici, seguono a scrivere gli accademici, a'
quali riuscì facile lo scampare dal precipizio de' sassi, toccò la
disperata sorte di rimanere vittime delle fiamme. Orribile cosa
a mirarsi! Chi cercava di guadagnare l'altura de' tetti, chi si
affaticava per arrampicarsi alle travi; chi, ora ad una e ora ad
un'altra finestra affacciandosi, misurava col guardo l'altezza delle
mura, per gettarvisi, e ne rifuggiva spaventato dall'evidente pericolo
della caduta. Ma finalmente tutti videro approssimarsi la morte,
invocando invano, coll'errare di qua o di là, il desiderato soccorso,
impossibilitati a fuggire per le scale già dirute, ed ugualmente
privi di coraggio e di modo onde o gettarsi dall'alto o ricevere da'
cittadini, dagli amici o da' parenti un aiuto qualunque in mezzo alla
medesima loro situazione.»
L'incendio infuriava. Oltre allo scompiglio delle cadenti mura e
il terrore e la fuga de' cittadini, che impedivano le azioni dello
spegnere, un irresistibile alimento aveva la fiamma nella furiosa
bufera, che chiamarono aeremoto, la quale, quando più la terra
si scrollava ed il fuoco imperversava, soffiava terribilmente con
direzione incerta, anzi con buffi vorticosi e disordinati. Una casa
de' Ceraselli, già percossa e conquassata dal terremoto, fu dal vento
svelta, di lancio gettata, e sparsa in frantumi sopra il suolo. Pareva
veramente che quivi ed in que' momenti il mondo, sottosopra andando,
fosse arrivato alla sua fine.
Col fuoco, coll'aria, colla terra i Messinesi avevano a fare. Ma il
mare non s'indugiò a concorrere colla sua vasta mole a loro distruzione
e morte. Sollevossi quella mortifera e devastante inondazione, frutto
del marimoto di cui abbiamo, favellato e che ai Scillitani diede tanto
spavento ed arrecò gli ultimi danni. Lo smisurato e furiosissimo fiotto
con incredibile violenza entrò a turbare il tranquillo letto del porto,
superò la panchetta, traboccò fra di essa ed i grandi edifizii del
teatro marittimo, e tutto quello spazio allagando, di arena e di marino
fango il coverse. Aprissi in tale modo ed in que' funesti momenti
una scena di mostruosa e multiforme rivoluzione di natura, e si trovò
chiuso ogni passo alla fuga ed allo scampo.
Troppo lunga e noiosa narrazione sarebbe il numerare tutti i luoghi o
nabissati o infranti. Basterà il dire che i tempii più ragguardevoli
furono o sconquassati o altamente lesi o lievemente percossi. Oltre la
ruina de' begli edifizii del teatro marittimo, moltissimi casamenti
nobili, graziose stanze di magnati, abbellite da tutte le arti
più industri, furono o posti a soqquadro intieramente o gravemente
maltrattati. Le fabbriche delle opere pubbliche non incontrarono sorte
migliore. Una parte del grande spedale fu ridotta in pessimo stato.
Il palazzo reale rotto e diroccato in più parti, il seminario una
congerie informe di sassi, la parte maggiore del convitto di educazione
un ammasso di ruine, l'archivio della regia udienza sepolto sotto i
rottami, la porta dell'Assunzione quasi disfatta, il palazzo senatorio
screpolato tutto ed in parte diroccato, e di quasi tutte le case, che
più o meno offese restarono, tetti di peso divelti da' loro appoggi e
sbalzati in aria, poi caduti a sfasciarsi e stritolarsi del tutto in
terra; il convento de' teresiani, uno de' più danneggiati. La cupola
della chiesa del Purgatorio arrandellata di piombo sui tetti d'una casa
vicina. Mirabile fu il vedere il campanile del duomo tagliato, per così
dire, per filo d'altezza, e una metà rimasta in piè, l'altra diroccata
a terra, come se spaccato dalla cima alla base da una potente scure
stato fosse.
Tra mezzo a così rovinoso tumulto e scroscio poco più di settecento
persone in così popolosa città perirono; imperocchè, ai primi insulti
del terremoto, i cittadini fuggirono precipitosamente e al disteso
sui campi liberi alla campagna, dove, alzato avendo tende e baracche,
attendevano a dimorarvi sino a tanto che quell'insolito furore si fosse
estinto. Così l'immagine della vita s'era trasportata fuori; morte,
silenzio e solitudine regnavano in Messina. L'uomo sentiva raccapriccio
ed orrore per le desolate contrade della vasta città trascorrendo, dove
nè anima vivente vedeva che movesse, nè suono sorgere che le orecchie
gli percuotesse, udiva, se non quello d'alcune porte o finestre ancora
attaccate ai muri e dal vento sbattute come in abbandonato e deserto
edifizio. Avresti detto una città percossa e devastata dalla peste.
Ai 5 di febbraio non vi fu mai riposo compito dal terremoto,
scuotendosi continuamente ora con maggiore scrollo ora con minore il
suolo. Bene successe ai Messinesi la prudenza in appresso; imperocchè
ai 28 di marzo, come in Calabria, così ancora in Messina, preceduta da
molte scossette, venne una scossa violenta che parve che quello fosse
l'ultimo giorno per la città già cotanto desolata e deserta. Novelle
grida di stupore e di terrore si alzarono allora di sotto le tende e le
baracche, grida commiste di uomini e di donne, di vecchi e di fanciulli
cui pietà prendeva degli antichi abituri. Non poche spaccature di terra
si aprirono in Messina, ma non però di quella lunghezza e profondità
che si osservarono nella Piana di Monteleone. Alcuni narrano che
da queste aperte bocche usciti fossero aliti ferventi e di fetore
sulfureo; ma con migliore osservazione fu accertato che piuttosto
chimere d'immaginazioni percosse deggiono stimarsi, che testimonianze
d'uomini prudenti ed amatori della verità. La prossimità dell'Etna
spirava queste fole, sembrando al volgo che un terremoto ed un così
estremo conquasso avvenire non potessero senza che quel colossale e
rabbioso monte vi avesse parte e cagione ne desse. Ma fatto sta, che,
se egli operò di sotto, non operò di sopra, nè con fuochi o con aliti o
con fumi la sua immensa forza manifestò.
Fuvvi altresì chi s'immaginò avere sentito impresse di calore le acque
accavallate sui lidi nel momento del terribile marimoto; ma anche
questa fu una chimera di mente inferma. Bene è vero che le fontane
e i pozzi per alcuni giorni si disseccarono; il che aggiunse miseria
all'estremo travaglio prodotto dalle altre cagioni. Il terreno sotto
la panchetta e del contiguo stradone parve infangarsi e divenir
molliccio, ma però non eruttò melma. Forse la cagione che dalle
profondissime interiora della terra procedeva, quivi fu meno attiva che
nella Calabria, e non ebbe sufficiente forza per ispingere sino alla
superficie le fanghiglie, e produrre quei vomiti di materia cretacea.
Le spaventevoli catastrofi accaddero fra popoli di fantasia vivissima
e molto dediti alla religione, la quale nelle menti rozze e poco
illuminate degenera facilmente in superstizione. Onde non è a
maravigliare se nei paesi percossi si osservarono cose singolari:
apparizioni straordinarie, predizioni portentose, e cerimonie e riti
stupendi. Tre giorni dopo il fine del disastro, fatta una processione,
cantarono l'inno delle grazie: ringraziavano, abbenchè fossero senza
pane, senza roba e senza tetto; lodevole radice di pietà anche nella
miseria.
I costumi, ciò nondimeno, non erano nè diventarono migliori; che
anzi, come a segni non menzogneri apparve, peggiorarono e nel pessimo
diedero. Fra tanti dolori, una sfrenata cupidigia del far suo quello
d'altrui i feri animi di quei popoli dominava. Come ogni cosa era in
confusione, così adoperarono come se credessero che ogni cosa fosse
comune, e ciascuna di tutti; nè la compassione per altri nè il proprio
pericolo valevano per ritenergli che in abbominevoli latrocinii non
si precipitassero. Userem le parole del Dolomieu, siccome quelle
che pingono al vivo la condizione di quel tempo, e dimostrano quale
creatura sia l'uomo quando è sciolto dal freno delle leggi, quantunque
Dio minacci e colla sua terribil voce faccia sentire che pronto e
presto è il castigo.
«Mentre una madre scapigliata, scrive l'egregio Franzese quale nelle
sue Storie il traduce il Botta, e coperta di sangue andava domandando
alle ruine stesso ancora fumanti il figliuolo, cui, mentre nel grembo
il portava fuggendo, le aveva tolto la caduta di una rovinosa trave;
mentre un marito affrontava una morte quasi certa per ritrovare una
diletta sposa, si vedevano mostri con faccie d'uomini precipitarsi in
mezzo a muri traballanti, bravare il pericolo più orrendo, calpestar
uomini mezzo sepolti che di pietà e di aiuto gli richiedevano, per
andar a saccheggiare la casa del ricco e soddisfare ad una cieca
cupidigia. Costoro spogliavano vivi tanti infelici, i quali avrebbero
loro date le più generose ricompense, se al lagrimevole caso loro
avessero prestato una mano soccorritrice. Io ho alloggiato a Polistena
nella baracca d'un galantuomo che fu seppellito nelle ruine della
sua casa, le sole gambe scoperte per aria: il suo domestico gli tolse
le fibbie d'argento, e se ne andò via senza volergli dare aiuto per
disseppellirlo. Generalmente il popolo della Calabria ha mostrata una
depravazione incredibile di costumi nel mezzo agli orrori de' tremuoti.
La maggior parte degli agricoltori era all'aperto nelle campagne
quando successe la scossa dei 5 febbraio, e accorsero subito nei paesi
ingombri di polvere, non per prestare soccorso, ma per saccheggiare.»
Sin qui il veridico Dolomieu; ma direm cosa ancora più orrenda e pur
anco vera, ed è che questi uomini spietati, se soli erano ed in deserti
luoghi, rubavano e lasciavano in vita i miserabili sepolti senza
punto nè delle loro grida, nè delle loro strida curarsi; ma quando
temevano che alcuno li vedesse o gente sopraggiungesse, ammazzavano o
calpestavano, soppozzando o con rottami acciaccando coloro, cui rubato
avevano, più crudi in ciò che l'orrido flagello che allora la patria
sobbissava. Nè età, nè sesso, nè memoria di benefizii valevano per
fare che quelle spietate tigri s'impietosissero. Tutti soffocavano,
purchè chi soffocato era, avesse cosa che utilmente pel rubatore
gli potesse venir tolta. Fieri esempi massimamente d'ingratitudine
sorsero. I servitori i padroni, i coloni i proprietarii spogliarono.
Ciò facevano per istinto, ciò facevano per un barbaro raziocinio.