Annali d'Italia, vol. 8 - 16

potevano; eppure si sentisse dal pontefice rispondere ch'ei derogare
dall'usato ceremoniale non poteva. E così fu. Se questo rifiuto non
influì ad accelerare i disegni di riforma, ed a farli rapidissimamente
gli uni agli altri succedere, questo però fu il tempo in cui
l'imperadore ordinò la soppressione del collegio ungarico di Bologna,
e la partenza da quella città di tutti quei nazionali suoi sudditi
obbligati ad andarne a studiare nelle università di Buda o di Pavia.
Non bisogna chiudere la narrazione degli avvenimenti di quest'anno
senza registrare la morte, il dì 27 di maggio accaduta, di Giambatista
Beccaria, fisico egregio, a cui la scienza va debitrice di molti
progressi, specialmente nel ramo della elettricità.


Anno di CRISTO MDCCLXXXII. Indiz. XV.
PIO VI papa 8.
GIUSEPPE II imperadore 18.

Le amarezze tra il papa e i due principi austriaci Giuseppe e Leopoldo,
non tanto che si raddolcissero, tendevano un giorno più che l'altro
a maggiore disgusto per le riformazioni ch'essi tuttavia andavano
nelle materie ecclesiastiche tanto nei Paesi Bassi e nel Milanese,
quanto nella Toscana facendo. Le cose battevano massimamente, come
si è veduto, nel volere che i conventi, riguardati inutili, si
sopprimessero; che i sussistenti non avessero più nessuna dipendenza
dai loro generali di Roma, ma fossero al vescovo della diocesi
sottomessi; che per certo dispense per matrimonio a Roma più non si
ricorresse, ma dagli ordinarii fossero concedute; che certe pratiche
pompose di culto esteriore si annullassero; che, per quanto fare
si potesse, nissuno ecclesiastico ozioso se ne stesse, ma o per
sè medesimo od in sussidio dei parrochi nel divino ministero si
esercitasse; che le dottrine della giurisdizione suprema del papa sui
principi temporali più non s'insegnassero; che nelle università fosse
vietato di dare i giuramenti, secondo la forma prescritta da Alessandro
VII, e che le bolle _Vineam_ ed _Unigenitus_ dovessero aversi per nulle
e di niun effetto; che niun'altra professione di fede fosse permessa se
non quella di Pio IV; che silenzio perpetuo vi fosse sulla costituzione
contro i giansenisti, tanto nelle scuole private, quanto nelle
pubbliche.
Tutte queste ed altre provvisioni, aggiunte alle risoluzioni già prese
intorno alle mani morte mettevano in grande apprensione il pontefice e
chi lo consigliava.
Pio adunque, a cui romoreggiava d'ogni intorno così fiera tempesta,
essendo disposto a tentare ogni fortuna per tornare la santa Sede nella
sua dignità e prerogativa, ancorchè di Leopoldo maggiormente temesse,
fece risoluzione di indirizzarsi a Giuseppe, presumendo che, ove il
fratello maggiore si fosse piegato a più amorevoli pensieri, il minore
non si sarebbe indugiato a seguirne l'esempio. Oltre a ciò, che un
papa viaggiasse per andar a visitare un imperatore, era accidente più
conforme alla dignità che se si fosse mosso alla volta di un principe
di minore grado e potenza. Il pontefice persuadeva a sè medesimo che
non invano veduto avrebbe nella sua Vienna Giuseppe, che non in vano
sarebbe stata la gita del capo supremo della Chiesa, che non invano
avrebbe in età già avanzata corso paesi a lui tanto insoliti e lontani.
Deliberossi pertanto a voler vedere l'imperatore nella capitale stessa
del suo vasto impero. Grande attenzione, pari aspettazione era sorta
nel mondo per le recenti deliberazioni dei due fratelli austriaci, ma
più grandi ancora furono e l'attenzione e l'aspettazione quando udissi
un caso già da più secoli inudito, che ad un così lungo viaggio si
accingesse un romano pontefice.
Ovunque egli passava, concorrevano i popoli divoti per venerarlo; i
principi dal canto loro gli rendevano i dovuti onori. Alta cagione il
moveva. Chi maggiore pietà che congnizione delle storie aveva, augurava
lieto fine dell'insolita andata. Ma chi più dentro sentiva nelle
umane cose, queste consolatorie speranze non accettava, credendo che
il papa nulla potrebbe appuntare coll'imperadore. Costoro ragionavano
che Giuseppe, non per capriccio, ma molto pensatamente e di proposito
deliberato venuto era alle sue deliberazioni, e che per ciò da esse per
nissuna dimostrazione romana si dipartirebbe.
Pio fu accolto a Vienna con ogni maggiore segno di riverenza. Se
gli diede stanza nel palazzo imperiale, spesse volte l'imperatore
il visitava, i popoli se gli presentavano riverentemente avanti per
onorarlo, i soldati stessi, così comandando il principe, al sommo
sacerdote con le loro militari maniere s'inclinavano. Onde si vedeva
che la maestà religiosa vinceva la forza. Se in chiesa con la sua
pontificale pompa ufficiava, pieni erano i sacri luoghi di fedeli
che dal pontefice romano le spirituali grazie attendevano. Se dalla
imperial magione si affacciava, o andava per le vie della sovrana
città, ognuno alla venerabile sua persona o nel segreto suo pensiero
od anche colle aperte voci applaudiva. Nella più intima parte della
Germania trionfava Pio per l'aspetto della persona, per la riverenza
della religione, per portare in fronte quel nome di Roma, già prima
sede del mondo per l'armi, ora prima sede della cristianità per la
religione.
Quanto più l'imperadore stava fermo nel non volere cambiar proposito
e nel ricusare i desiderii del papa, tanto più si mostrava fervente
nella religione. Pio stesso con gravissime parole in un concistoro
pubblico tenuto nel palazzo imperiale a dì 19 di aprile il lodò;
con somma contentezza, disse, avere veduto da vicino l'imperiale
maestà, con somma contentezza avere abbracciato l'imperatore stesso,
quell'imperadore ch'egli cotanto stimava, cortese e facile averlo
sempre trovato ogni volta che pel debito del suo pastorale ufficio
di alcuna cosa il richiedeva; essere stato da lui nell'augusto suo
domicilio accolto, con ogni maniera di generoso servimento trattato;
maraviglia e consolazione avere sentito nel vedere la sua somma
divozione verso Dio, l'altezza del suo spirito, l'attenzione indefessa
ai negozii del principato; ciò consolare la sua paterna affezione, ciò
ricompensarlo della fatica presa per così lungo viaggio; consolarsi
ancora e dolce compenso trovare nel vedere quella magnifica città, nel
vedere i popoli concorsi, mentre ancora per via veniva, per onorarlo,
onde bene argomentato aveva che ancora intatte ed incorrotte erano la
pietà e la religione; non essere pertanto per cessare mai di lodare un
così religioso imperadore, non mai cessare di ricordarlo nelle preci
sue, non mai cessare d'implorare dal grande Iddio (che chi da lui non
si scosta, sempre sostenta e regge), acciocchè ed imperadore e popoli
nel santo proposito in cui erano, aiutasse sempre e confermasse.
Pio aveva vinto colla presenza e colla dignità i popoli, ma non potè
vincere l'imperadore. Nè le sue lodi, nè le istanze ebbero valeggio di
svolgere l'austriaco principe dal suo proponimento, e il pontefice fu
pur troppo chiaro della di lui mente volta a continuare nelle riforme.
Crescendo le molestie della santa Sede, manifestavansi per ogni dove
acerbi segni. La Toscana, Milano, l'alta Germania insorgevano; che
anzi Giuseppe avendo in questo tempo appunto messo la mano sui beni
ecclesiastici, così dei regolari come dei secolari, e lamentandosene il
pontefice, l'imperadore rispose risentitamente, che sapeva ben egli ciò
che si faceva, e che una divina voce in sè medesimo sentiva, la quale i
suoi imperiali decreti gl'inspirava e dettava.
Un mese erasi Pio soffermato a Vienna, donde partendo e prendendo
via per Augusta, Innspruck, Bressanone, Bolzano e Roveredo, giunse
ai confini del veneto dominio, dove, incontrato dai deputati della
repubblica, l'accompagnarono in Verona al convento dei domenicani di
Santa Anastasia, in cui albergò. Veduta l'arena, veduti gli altri
veronesi monumenti, avviavasi per Vicenza e per Padova a Venezia,
accolto sopra un ricco bucentoro, accompagnato dal patriarca e da'
prelati, incontrato dal doge e dalla signoria, da per tutto onorato,
da per tutto festeggiato, e padre comune salutato. Nel convento
dei domenicani, superbamente addobbato a spese del pubblico, prese
la stanza; pontificò nell'aggiacente chiesa de' Santi Giovanni e
Paolo, all'immenso devoto popolo accorso da superba tribuna la papale
benedizione impartì. Da questa magnifica Venezia partitosi, giungeva il
dì 13 del mese di giugno nella sua Roma.
Paolo, figliuolo di Caterina II imperadrice di Russia, dall'augusta
madre mandato, in compagnia della granduchessa sua consorte, a
restituire a Giuseppe II la visita che questi fatta le aveva nella
sua residenza di Pietroburgo, da Vienna passò a vedere l'Italia, sotto
il nome di conti del Nord, che aveano gl'imperiali coniugi per questo
viaggio assunto. Gli accolsero Roma e Napoli, Firenze, Modena e Milano,
e la nostra Venezia gli accolse in isplendida e regia ospitalità, nel
che non solea restare a niun altro potentato seconda. Magnifiche feste
in teatro, caccia di tori al chiaror delle faci nella gran piazza di
San Marco, e lo spettacolo singolare di queste adriache spiaggie,
la regata, con altri non meno brillanti che graditi trattenimenti
segnalarono i dieci giorni che gli ospiti illustri qui fermarono il
piede.
Ma mentre i principi veniano in Napoli accolti e festeggiati, la città
di Ortona, parte di quel regno, situata in riva al mare Adriatico,
nell'Abbruzzo Citeriore, si subissò. Posta sopra un monte assai
alpestre, formando una specie di penisola, in un terreno di tufo più
volte già smotato, venne a scoscendersi una parte del poggio, sì che un
buon terzo della città piombò tutto in un tratto in mare, nel rovinio
ammazzando più di due mila persone. Nel dì 25 di febbraio, un'ora
prima di sera, quasi in tutta l'estensione della città, incominciò
a distaccarsi dalle fabbriche la terra; alle tre della notte tutto
ciò che prima era colle apparve una voragine spaventevole. Il terreno
coperto dalla neve a quei giorni caduta precipitò velocissimo in mare.
Nessun riparo fermar poteva gli ulteriori danni. Gli abitanti, rimasti
attoniti a tanto inaspettato disastro, si diedero tutti alla fuga.
In quest'anno l'imperadore Giuseppe II abolì in tutti i suoi Stati,
quelli di Italia compresi, la pena di morte. Contemporaneamente in
Toscana abolivasi l'inquisizione.
Due figli di Apollo in quest'anno morte rapiva all'Italia; Metastasio e
Farinelli; famoso poeta quello, questo cantore famoso.


Anno di CRISTO MDCCLXXXIII. Indiz. I.
PIO VI papa 9.
GIUSEPPE II imperadore 19.

Nissuna regione del mondo fu mai tanto tormentata quanto l'estrema
parte d'Italia, che ora il regno delle Due Sicilie comprende. Gli
uomini in ogni tempo l'afflissero, ora con guerre intestine, ed ora
con guerre esterne, e spesso ancora con mutazioni di stirpi regie, a
cui pareva che quel bel paese non fosse cosa da lasciarsi ad altri. La
natura poi lo straziò ora con incendii spaventevoli di monti, ed ora
con terremoti più spaventevoli ancora.
Sonvi sul globo terracqueo alcuni luoghi, dove da tempi antichissimi
la natura è già sfogata, che è quanto dire, che le forze sue,
superati tutti gli ostacoli, hanno indotto quello Stato che a loro più
consentaneo è: questi luoghi, quanto ai fenomeni naturali, godono di
maggiore tranquillità. In altri paesi poi la natura, per così dire,
sforzantesi e rabbiosa ancora si travaglia, e tra mezzo a perturbazioni
ed a ruine tende a sormontare quanto le si oppone per arrivare al suo
stato di quiete.
Ora l'estrema parte d'Italia che al mezzodì si volge è una di quelle
che non hanno ancora ottenuta quella quiete, e la van cercando. Quindi
è che nelle sue viscere interne regna tuttavia una gran discordia,
che fuori a noi si scopre con fiamme spaventose, con eruttamenti
maravigliosi, con macigni liquefatti, con terremoti, con marimoti, con
aeremoti, che danno a temere che sia venuta la fine dell'esistenza,
non che del riposo, e pure altro non sono che avviamento alla quiete.
La natura non conosce tempo; per lei nè anni nè secoli vi sono, e
di noi si ride, a cui incresce il morire. Noi non vedremo la quiete
della Magna Grecia nè delle siciliane sponde, ma tempo verrà ch'esse
l'avranno, e la stessa condizione acquisteranno, che già nelle più
parti di questo nostro globo si osserva. Non so però perchè così tardi
ella vi sia per arrivare, scrive un famoso storico che trascriviamo, e
perchè contrada così magnifica e così bella, forse la più magnifica e
la più bella di tutte, e perchè uomini così sensitivi e così immaginosi
abbiano a soffrire un così luogo travaglio. Se castigo di Dio è, non
vedo ch'essi abbiano peccato più degli altri; se necessità di fortuna,
bisognerà confessare, che siccome sempre cieca ella è, così ella è
sovente ingiusta.
Racconterò, seguita il lodato storico, cose stupende, e tali, che
dubito che da nessuna penna degnamente raccontare non si possano;
una provincia intera sconvolta, molte migliaia d'uomini in un sol
momento estinti, i sopravviventi più infelici dei morti; la terra, il
cielo, il mare sdegnati; ciò che la natura ha fatto di più sodo, in
ruina; ciò che per la sua sottigliezza toccare non si può tanto impeto
acquistare, che, le toccabili cose furiosamente urtando, rovesciò;
ciò che mobile e grave è, fuori del consueto nido sboccando, guastare
ed abbattere quanto per resistere a più leggeri elemento solamente
stato era construtto; i fati d'Ercolano, i fati di Pompei, e forse
peggiori perchè più subiti, a molte città apprestarsi, non soffocate
ed oppresse, ma stritolate e peste; una faccia di terre le più amene
e ridenti del mondo cambiata subitamente in ultima squallidezza ed
orrore; orribili fetori di cadaveri putrefatti non riscattabili fra
l'immense ruine, orribili effluvii di acque stagnanti nel loro corso
d'accidenti straordinarii interrotte, orribili malattie da spaventi,
da stenti, da moltiplici infezioni prodotte, abissi aperti, città
subbissate od inabissate, monti scoscesi, valli colmate, fiumi e
fonti scomparsi, nuovi comparsi, polle di mota da aperte voragini
scaturienti; un istinto d'animali bruti il futuro male preveggenti,
una sicurezza d'uomini, cui la ragione è meno provvida dell'istinto;
un salvar di fanciulli con morte delle madri, un preservar di padroni
per fedeltà di servi, un aiutar d'infelici per bontà di governo, per
umanità di signori, per carità di preti; vittime per casi strani o
quasi non credibili dall'ultimo eccidio scampate; una cieca fortuna,
un impeto ineluttabile, un grido di morte uscito dalla terra per
sotto, dal cielo per sopra, dal mare per lato, spaziare dappertutto,
ed ogni cosa rompere, ogni cosa spaventare, ogni cosa in ruina ed in
isconquasso precipitare; gl'incendii uniti alle ruine, e le fiamme
consumare ciò che al furore degli altri elementi era avanzato. — A ciò
tutte le superstizioni più stravaganti che caggiono in menti smosse,
tutte le furberie di chi delle sciocche superstizioni e dei solenni
terrori si pasce ed in suo pro gli converte; a ciò ancora pentimenti
fugaci di uomini malvagi, rapine contro miseri, insulti contro
benefattori, abbandoni di chi soccorso chiedeva e pietà; il mondo
morale, come il mondo fisico in disordine; ciò che doveva intenerire
i cuori, e farli dell'umana miseria conoscenti, vieppiù indurarli ed
aspri ed inesorabili farli; gente scelleratissima con opere nefande
dimostrare che la cupidigia del rubare e l'infame sfogamento della
libidine sopravanzavano, e soffocavano la compassione e lo spavento.
Maravigliosa terra di Napoli che sempre dimostrasti essere in te
estremo il bene, estremo il male, nè dal consueto stile poterti
ritrarre nemmeno la natura orrida e sconvolta: quello dinota eroismo,
questo una spaventevole ostinazione.
È impossibile seguire più innanzi nella sua stupenda narrazione del
fatto lo storico illustre che a parte a parte lo descrisse; ma verrem
da lui traendo ciò che i tratti principali della tremenda catastrofe
possa mettere dinanzi alla mente.
Alla state fervidissima dell'anno 1782 era succeduto nelle Calabrie un
autunno piovosissimo, nè cessò lo smisurato acquazzone nel susseguente
gennaio; che anzi vieppiù per questo conto imperversando il cielo,
caddero nell'anzidetto mese pioggie così disoneste e dirotte e
precipitose, che la terra calabra, massime quella così detta della
Piana, restò altamente danneggiata, non solamente pegli allagamenti dei
fiumi, ma ancora per essere stati i terreni viemmaggiormente ammelmati
e fatti capaci di dissoluzione. Cotale perturbazione della natura
presagiva calamità ancor maggiori, ma niuno si dava a temere che esse
fossero per arrivare al totale discioglimento della contrada. Avevano
altre volte quei popoli simili pioggie e simili innondazioni vedute,
ma, dal guasto dei superficiali terreni e dal danno delle ricolte in
fuori, da altri maggiori disastri non restarono afflitti.
Intanto era il nuovo anno giunto al principio di febbraio, mese per
fatal destino funesto alla Magna Grecia, e specialmente alla Calabria;
perciocchè in esso piombò la fatale ruina sopra i distretti Ercolanense
e Pompeiano sotto il consolato di Regolo e di Virginio; in esso fu
conturbata, alcuni secoli avanti, la Sicilia e distrutta Catania;
in esso nel duodecimo secolo sommosse dai tremuoti non solamente la
Sicilia, ma eziandio le Calabrie. Il principio più fatale che la fine,
poichè al quarto od al quinto giorno di lui accaddero quegli scroscii
della natura.
Correva appunto il quinto giorno di febbraio di quest'anno, ed il
giorno era giunto alle diecinove ore italiane, vale a dire, in quella
stagione, un poco più oltre del mezzodì. Nell'aria non appariva alcun
segno straordinario. Rare e quiete nubi a luogo a luogo il cielo
velavano. Nè il Vesuvio nè l'Etna buttavano; Stromboli non più del
solito. Sentivasi il freddo, ma non oltre l'usato; il consueto aspetto
stava sopra le calabresi cose. Eppure la terra in sè medesima chiudeva
un insolito furore. O fossero fuochi, o fossero vapori potentissimi che
scarcerare si volessero, quella ordinaria calma dovea fra brevi momenti
turbarsi per dar luogo ad un rumore e ad uno scompiglio orrendo. Gli
uomini nol presentivano, e senza tema le ore fra i soliti diletti o
fra le solite fatiche andavano passando. Ma non gli animali bruti,
che inquieti, fastidiosi, spaventati, col correre, col tremare, col
gridare, mostravano che alcuna terribil cosa si andava avvicinando, ed
aspettavano.
Così un'arcana natura con ispaventosi presentimenti avvertiva del
pericolo chi poco o nulla evitare il poteva, mentre di lui conscii non
faceva quelli che pel lume della ragione fuggirlo, se non in tutto,
almeno in parte saputo avrebbero.
Trascorso era il giorno 5 di febbraio di pochi minuti oltre il mezzodì
quando udissi improvvisamente nelle più profonde viscere della terra
un orrendo fragore; un momento dopo la terra stessa orribilmente si
scosse e tremò. In quel momento medesimo cento città, o non furono più,
o dalla primiera forma svolte, quasi informi ammassi di spaventevoli
ruine giacquero. In quel sempre orribile e sempre lagrimevole e sempre
di funesta rimembranza momento, più di trenta mila umane creature
rimasero ad un tratto morte e sepolte. Quale passo da tanta quiete a
tanto spavento! Quale conversione da tanta allegrezza a tanto pianto!
Quale differenza da tante vite a tante morti!
Non fu breve la cagione dell'orrenda catastrofe: perciocchè scossesi e
tremò la terra colla medesima veemenza e fremito ai 7 febbraio, ai 26
ed ai 28, e finalmente ai 18 di marzo una violentissima scossa avvertì
i Calabresi che i loro spaventi e dolori non erano ancora giunti al
fine, e che, per iscampare dalla morte, su quel suolo infido altro
rimedio non vi era che quello di fuggire; ed assai lontano fuggire,
posciachè l'ira del cielo sopra di loro non era ancora esausta. Il
gravissimo urto di marzo scompigliò, ruppe e rovesciò quanto ancora
era rimasto intiero ed in piè, se pure ancora alcuna cosa intiera e
sulle fondamenta rimasta era. Giunsesi la disperazione al terrore: ad
ogni momento credevano quei miserandi popoli che la terra, spaccandosi
in abisso, gl'inghiottisse tutti. Quelli di febbraio esercitarono
principalmente il loro furore sopra le città più vicine al Faro;
l'ultimo su quelle che verso lo strangolamento d'Italia tra i golfi di
Sant'Eufemia e di Squillace sono poste.
Le raccontate scosse squassarono con violentissime urtate la terra, ma
fra di quelle non vi fu mai quiete perfetta. Di quando in quando alcune
scosse minori si sentivano, e fra di loro un perpetuo ondeggiamento, un
andare e venire più o meno manifesto della terra, come se ella divenuta
fosse fiottosa, e per cui non pochi travagliavano di quel molesto male
che affligge ne' viaggi marittimi coloro che non vi sono avvezzi.
Fatale fu questo terremoto non solamente per la violenza delle
concussioni, ma ancora, e forse più, per la diversità e moltiplicità
de' moti impressi alla terra. Fuvvi il moto subsultorio, cioè dal
basso all'alto, come se qualche orrendo fomite battesse o picchiasse
o punzecchiasse l'esterna crosta per farsi via da uscir fuora, in
quella guisa stessa che un colpo dato con un grosso martello sotto
una tavola orizzontale farebbe. Fuvvi il moto di sbalzo, come se una
porzione della terra a modo di fionda i soprapposti corpi in alto
scagliasse. Fuvvi il moto vertiginoso, come se la terra in sè medesima
si rivoltasse ed una vertigine imprimesse a ciò che toccava, moto che
fu il più pericoloso di tutti, e che atterrò molti edifizii che retto
avevano ad altri moti, e le superficie de' corpi converse, mettendo
le superiori sotto, le inferiori sopra. Fuvvi il moto ondulatorio,
il più solito ne' terremoti, e per lo più da Oriente verso Occidente
andava. Fuvvi finalmente un moto di compressione dell'alto al basso,
per cui i terreni si abbassavano, e, come a dire, si insaccavano,
e più fortemente compressi si assodavano. Dal disordine de' moti si
argomentava che disordinata fosse la cagione, e che guerra vi fosse
sotto, come vi era sopra. Non è da tacersi punto che più sonoro era
il fragore, che chiamavano _rombo_, spaventevole nunzio di estreme
sciagure, e più forti erano le scosse che susseguitavano, onde maggiore
danno seguitava un maggiore spavento.
Or chi potrebbe ridire la varietà degli accidenti in tanto sconquasso?
Monteleone, nobile ed antica città, che mostra qualche residuo di muri
ciclopei, restò altamente offeso dalla percossa, sì che i più suntuosi
templi, i più vasti edifizii, come le più umili case, furono rotti
e scomposti, ed ancora che i più atterrati non fossero, diventarono
nondimeno inabitabili. Maggiore fu la desolazione di Mileto, dove,
oltre le case, che tutte patirono infiniti danni, restò da cima a
fondo irreparabilmente infranto e inabissato il magnifico tempio della
Trinità; tetto, mura, campanile, altari, andarono tutti in un monte
di rottami. Tropea fu percossa dal terremoto, ma in grado minore.
Meno ancora restò offeso il poco lontano villaggio di Parghelia,
villaggio singolare non per grandezza nè per ricchezza di edifizii,
ma per industria dei terrazzani, troppo diversa dalla rilassatezza
che in non poche parti della Calabria regnava. Soriano, andato esente
dal terremoto del 5 febbraio, restò desolato da quello del 7; nè vi
rimase orma degli edifizii di terra pigiata, che nel paese chiamano
terraloto, e da cui la massima parte della città si formava. Lieta,
anzi lietissima era la strada da Soriano a Jerocarne, siccome quella
che ombreggiata era e vagamente sparsa di ulivi, di castagni, di
quercie e di viti, ed ora divenne un miscuglio commisto di ruine.
Tanto sovvertimento patirono i terreni! Si screpolarono, aprironvisi di
profonde fessure. Ma le fessure immobili non erano; ora si serravano
impetuosamente, combaciandosi di nuovo gli orli, ora si riaprivano,
disgiungendosi quelli novellamente. Le fenditure, e così in questo
luogo come in ogni altro, pigliavano diverse forme, ma le più in cotale
modo s'informavano, che parecchie da un solo centro aperto anch'esso
partendo, a guisa di raggi se ne allontanavano. Talvolta usciva da
queste spaccature una fanghiglia cretacea spremuta a forza, come
pare, dai più interni ripostigli della terra. E di questa fanghiglia
altri ed altri eziandio erano i modi. Dalle grandi e vaste spaccature
usciva copiosissima, e le vicine campagne allagava. Ne restavano
intrisi i rottami, intrise le ruine, intrisi gli alberi e i sassi.
Sovente accadea che non da fenditure saltava fuori, ma da certe conche
circolari; che sul terreno cavo si formavano; e dal centro delle
medesime, piuttosto che da altre parti, scaturiva.
Tale fu la natura degli accidenti di questo terremoto, che piuttosto
acqua o creta nell'acqua disciolta sorsero dalle profonde viscere
del travagliato globo che fuoco od altre sostanze che la presenza
dall'igneo elemento manifestare sogliono; cosa che riuscì contraria
alla opinione di molti che credono da fuochi sotterranei ingenerarsi i
terremoti.
Successe poco lungi da Soriano nei terreni del fra Ramondo, del
Covolo e del fiume Caridi una gran rovina ed una inondazione di fango:
giardini, due case rurali, un oliveto, due monticelli sdrucciolarono,
il Caridi scomparve, si aprirono voragini, sgorgò acqua in copia,
giacquero gli alberi in varie guise fra quell'incomposta congerie,
sfortunatamente sepolte dall'orrendo scoscendimento alcune umane
creature. Alcuni giorni appresso ricomparve il Caridi, ma in altro
letto, nè puro o limpido come prima, ma limaccioso e torbido.
Il più atroce tormento di chi restava sepolto vivo, ed in molti uomini
e donne ciò si osservò, sempre fu la sete. Usciti dal carcere rovinoso
non altro domandavano, non altro agognavano che bere, e sull'acqua per
dissetarsene cupidissimamente si gettavano. Tant'era il rovello che
li tormentava, che, perchè dall'improvviso e troppo copioso uso della
bevanda non ricevessero mortale danno, uopo era ministrarla loro con
regola e misura.
Tra le disgrazie di molti illustri luoghi, di molte nobili città che
raccontare non possiamo, però che il tempo e lo spazio ne sospingono,
non possiamo tacere di Polistena, vaga città sulle sponde del
Jerocarne, che non fu più, demolita di maniera, che i tetti rimasero
innabissati e le fondamenta cacciate fuora dal loro sotterraneo cavo:
tutta sotto sopra fu messa, nè mai più informe ammassamento di rottami
si presentò agli occhi degli uomini spaventati che quello della
distrutta Polistena. «Quando da sopra una eminenza, scrive il Dolomieu
nella versione del Botta, io vidi le ruine di Polistena, quando io
contemplai i mucchi di pietre che non hanno più alcuna forma, nè posson
dare più idea di ciò che era quel luogo, quando io vidi che nissuna
casa era sfuggita dalla distruzione, e che tutto era stato livellato al
suolo, io pruovai un sentimento di terrore, di pietà, di raccapriccio,
e per alcuni momenti le mie facoltà restarono sospese.» Le case
precipitarono nel fiume, i grossi muri del convento dei domenicani si
sfasciarono ed in grandi massi rovinarono. Dalla parte de' cappuccini
si avvallò il terreno, in varii luoghi largamente si sfesse, tutto il
paese all'intorno sino a piè del monte tre miglia distante si screpolò.
Un momento solo del 5 febbraio precipitò e soffocò negli abissi più di
due mila Polistenesi, fra sei mila che erano. I sopravviventi, erranti
e miseri, non solo case più non avevano, ma nemmeno fra quella informe
ruina le riconoscevano: a stento il luogo dell'antica e distrutta sede
accertavano.
Terranuova divenne in pochi istanti un vano nome; il suolo stesso ove
posava, non solo cangiò forma, ma non fu più. «Un gemito indistinto,
così scrivono gli accademici di Napoli, un gemito indistinto, un
terribile fragore, e una densa nube di polve ascose tra la più compiuta
annichilazione l'enorme strage che indistintamente si fece degli uomini
e dei bruti.» Aveva la terra nel suo fiorito stato due mila abitatori;
solo quattrocento dalla catastrofe scamparono.
Trapasseremo senza arrestarci le ruine, gli sconvolgimenti,
l'annichilamento di Molochiello, di Casalnuovo, di Oppido, di Santa
Cristina, di Scilla, di Reggio, di cent'altri e villaggi e casali
e città; trapasseremo eziandio gl'infiniti casi compassionevoli e i
molti singolari casi e venture e disavventure dell'orrendo disastro