Annali d'Italia, vol. 8 - 15

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inglesi di America contro la madre patria. Prevedeasi che questa
guerra avrebbe prodotti molti inconvenienti, ed arrecato non picciol
disturbo all'italiano commercio. Abbracciarono dunque, principalmente
il granduca di Toscana, il re di Napoli e la repubblica di Venezia,
una rigorosa neutralità, ed emanarono editti che, manifestandola ai
rispettivi sudditi, prescriveano le regole alle quali quell'atto gli
obbligava. Venne poi Caterina II, e propose ai popoli dell'Europa che
non erano in guerra una neutralità armata, a fine di proteggere il
commercio delle nazioni neutre da ogni attacco od insulto per parte
delle potenze belligeranti. Secondo tale proposizione, le navi neutre
devono godere di navigazione libera, anche da un porto all'altro,
sulle coste delle potenze in guerra; tutti gli effetti appartenenti ai
sudditi di queste hanno a considerarsi come liberi, tosto che sieno sur
un bordo neutro, eccetto le merci stipulate contrabbando: conservando
in mezzo al rumore dell'armi la neutralità più esatta, le nazioni
neutre trattano come pirati tutti i bastimenti delle nazioni in guerra
che tentassero qualche violenza contro le navi mercantili sotto la loro
bandiera.
Senza l'ire degli elementi, che nell'anno precedente travagliarono
molte parti della Toscana; senza i danni per le eccessive acque patiti
da Parma e da Genova pur percossa da grave incendio; senza Bologna che
in quest'anno fu spaventata, pel corso di ben otto mesi, da frequente
terribile tremuoto che la minacciava dell'ultima rovina; senza lo
scoppio della polveriera di Civitavecchia, accesa da un fulmine,
la quale in gran parte guastò la città e la fortezza: il Vesuvio
presentossi a' Napoletani in uno aspetto che, a memoria d'uomini,
non s'era veduto l'eguale. Per tre bocche ne' primi giorni d'agosto
l'ignivoma montagna sfogava le viscere ardenti mandando fuori tre
torrenti di lave infuocate e vampe di fiamme guizzanti e sanguigne.
Ad un'ora della notte dell'8 di quel mese, dietro un tremendo
scoppio, ecco che squarciatosi il monte, dei tre spiragli si forma una
spaventosa voragine. Mai ad occhio umano non si offerse spettacolo più
infernale. Vedevasi dall'ampia apertura l'interno del monte, ma non
vedevasi in esso che un'ardentissima massa di vorticoso fuoco. Salivano
le fiamme più alto del monte più d'un miglio, e giù quindi scorreva la
lava, che pareva dover tutto incendiare e distruggere. Resina e Portici
si credettero sepolti ed inceneriti. Quale a pien meriggio illuminate
Napoli e tutta la costa. La cenere ed i sassi, che con orribile impeto
e fracasso gettava l'enorme cratere, molto lungi andarono e sino a
Nola pervennero. Guai ad Ottaiano, dal cratere del Vesuvio lontano tre
miglia! rischiava di essere seppellito co' suoi dodici mila abitanti
sotto le pietre, come furono in altri tempi Ercolano, Stabia, Pompei,
solo un'ora di più che l'eruzione durasse. Allentava il furore;
cessava. Con tutto ciò immensi furono i danni che soffersero tutte le
terre e ville d'intorno. Napoli si vide piena di spaventati contadini
che correvano in folla a cercare in essa un asilo. Denso il fuoco e
caliginoso giunse a coprire tutto il Largo del castello di Napoli;
ma le pietre infuocate incendiarono interi boschi, sprofondarono i
tetti, la campagna fino ad un palmo di altezza coprirono. Tra queste
pietre se ne trovarono sino di novecento libbre, e di spumosa materia
essendo, immensa superficie presentavano. Le ceneri, quai gruppi di
nubi dal vento agitate, oltre a Benevento e sino in Puglia a scaricarsi
andarono. I danni in questa trista occasione risentiti furono calcolati
a trecento mila ducati.
Da un'altra parte, la grossa terra di Bagolino poco distante da
Brescia, terra di tre mila anime, frequente di fucine e fornaci, arse
tutta in men di poche ore, con morte d'oltre a cinquecento persone,
quali dal fuoco consunte, quali dal fumo soffocate.
Fu in quest'anno abolito in Modena il santo uffizio dell'inquisizione.
Accaduta, dopo sedici anni di ducea, la morte del doge di Venezia Luigi
Mocenigo, gli fu sostituito il cavaliere Paolo Renier. Dotto nella
lingua greca e latina, istrutto a fondo nella storia antica e moderna,
di memoria straordinaria fornito, animato parlatore ed energico, a
queste qualità univa una somma perizia nel maneggio degli affari. Con
tutti cotali vantaggi o dalla natura avuti o coll'arte acquistati e
coll'applicazione, non godette per qualche tempo della stima universale
de' suoi concittadini; imperciocchè, sospettato di favorire sottomano
il malcontentamento de' patrizii, manifestatosi principalmente nel
1762, e di cui abbiamo a suo luogo fatto parola, perdette gran parte di
quella considerazione, di cui precedentemente godeva. Se non che, da
quel sagace ed accorto uomo ch'egli era, tenne fermo nella burrasca,
e seppe rivolgere per modo a suo pro le condizioni del tempo, che,
eletto ambasciatore alla corte di Vienna, passò poi a quella di
Costantinopoli, che gli tornò vantaggiosissima per molti riguardi.
Tornato in patria, ed eletto doge, pervenne a riguadagnare l'opinione
pubblica interamente, quei medesimi avversando che pareva avesse un
tempo favoreggiati.


Anno di CRISTO MDCCLXXX. Indiz. XIII.
PIO VI papa 6.
GIUSEPPE II imperadore 16.

Contrassegna quest'anno la morte di una gran donna. L'imperatrice Maria
Teresa, dopo la morte del suo consorte Francesco I e la elevazione del
figliuol suo Giuseppe, dimesso non aveva mai il lutto; e sebbene una
parte attiva pigliato avesse nello smembramento della Polonia, e col
trattato del Teschen dell'anno precedente avesse accresciuto gli Stati
suoi con porzione della Baviera, gran parte tuttavia delle pubbliche
cure aveva all'imperatore Giuseppe lasciato. Data agli esercizii della
più solida pietà, vide ella tranquillamente avvicinarsi il supremo
giorno, e morì in Vienna il 29 di novembre di quest'anno. Come ad
alcuni Romani imperatori dato si era il nome glorioso di padre della
patria, così madre della patria taluno la chiamò: certa cosa è che
essa, massime negli ultimi anni del suo regno, non fu sollecita che
di spargere i benefizii sui poveri, sulle vedove e sugli orfani, e
dichiarò perfin, morendo, che se alcuna cosa fatta aveva degna di
riprensione, certamente consapevole non n'era, imperocchè sempre
avesse avuto in vista il bene e la prosperità de' suoi sudditi.
Regnato per lo spazio di quarant'anni, e amato sempre la verità e
la giustizia, Maria Teresa talvolta lagnata erasi che nelle elezioni
ingannata si fosse e che male intese o peggio ancora eseguite le sue
intenzioni state fossero. Ad essa si attribuisce la massima, espressa
fino dal tempo in cui regnava il padre suo Carlo VI, non esservi che
il piacere di compartire grazie e far del bene ai sudditi che render
possa sopportabile il peso di una corona. Gli Stati d'Italia ad essa
appartenenti non mai furono tanto felici e tranquilli quanto sotto il
suo reggimento; tra le lodi tribuite a quella sovrana, l'ultima non
fu certo quella che esattamente voleva essere di tutto informata; che
ai piccioli come ai grandi aperto voleva l'accesso alla sua persona,
e tutti ascoltava con clemenza, le grazie concedendo o il motivo
allegando del rifiuto, senza promesse illusorie, senza mendicati
ripieghi, e senza alcuna di quelle vaghe frasi ed incerte che lo stile
alcuna volta adornano, ovveramente sfregiano dei potenti. Fu detto
da un autor franzese che vivendo seguiti avesse gl'insegnamenti da
Marc'Aurelio lasciati intorno ai doveri dei regnanti. Morendo, i figli
Giuseppe e Leopoldo sul trono lasciava.
Nè a caso si è nominato Leopoldo di Toscana; aveva egli l'animo a
ridurre a migliore stato le leggi; gli accidenti anche lo sforzavano.
I conventi dei frati, sottratti, in vigore degli ordini ecclesiastici
che prima delle riformazioni da lui fatte erano ancora in osservanza,
dalla giurisdizione degli ordinarii, da Roma unicamente per mezzo
dei loro generali dipendevano. I conventi poi delle monache dai frati
ricevevano la direzione spirituale. Queste condizioni riuscivano di non
poca molestia a chi sui luoghi la Chiesa governava e lo Stato. I frati
come indipendenti erano, così divenivano anche sbrigliati ed il quieto
vivere delle famiglie e del pubblico turbavano.
Sorgevano poi gravi inconvenienti nei conventi delle monache,
conciossiachè, introdottavisi la corruttela dei costumi, non vi
era disordine che non vi si commettesse. Il lezzo di dentro rendeva
odore fuori, i buoni si scandalizzavano, gli inclinati al male si
corrompevano. Maligni esempi uscivano da quei luoghi, che santi
dovrebbero essere e santi stimarsi. I vescovi non avevano autorità di
porvi rimedio. Da Roma venivano ripari lenti e si mandavano le cose
in lungo, domandandosi processi, informazioni, interrogatorii sopra
ciò che ognuno pur troppo per vero conosceva. Accusava esagerazioni
da parte di chi si lamentava, e supponeva mala volontà e calunnie. La
curia poi portava, specialmente ai tempi di Rezzonico, e poi morto
Ganganelli, mal animo a chi reggeva la Toscana per le riformazioni
che vi erano state fatte in certi ordini toccanti la disciplina
ecclesiastica. Le cose andavano di male in peggio, sicchè giunsero
ad un estremo tale che la pazienza e l'ulteriore sopportazione in chi
governava sarebbero state colpa: anzi erano in tale disposizione che si
dubitava che non fossero più atte a ricevere alcuna medicina.
Erano in Pistoia due conventi di monache domenicane retti dai religiosi
del medesimo ordine; quelli di Santa Caterina e di Santa Lucia.
Tristo nome avevano già da qualche tempo; il popolo ragionava di certe
brutture che vi si commettevano: incerte voci erano, ma che pure, per
la perseveranza, indicavano esservi alcuna radice di verità. Lo dice
Scipione Ricci vescovo di Pistoia, nei suoi scritti.
Pervennero a notizia di Leopoldo, il quale ordinò all'Alamanni, vescovo
in quei giorni, di Pistoia, che si recasse subito in mano la direzione
spirituale di tutti i conventi delle domenicane di quella città. Nel
tempo stesso proibì, sotto pena di carcere, ai domenicani di entrarvi.
Ma le donne non vollero obbedire. Incominciarono a dire che non
volevano riconoscere nè il vescovo per loro superiore, nè i confessori.
Poi, levando sempre più il viso, allegavano che papa Pio V il santo
aveva pronunciato la scomunica contro chi fra i claustrali ad altro
superiore obbedisse che a quello dato per autorità della santa Sede.
Tanta era la loro contumacia, che quelle, le quali in articolo di morte
si trovavano, amavano meglio morire senza confessione che confessarsi
al confessore mandato dal vescovo.
Se ne scrisse a Pio VI pontefice: rispose essere calunnie, e che non
voleva approvare la violazione delle legislazioni dei due conventi. Si
lamentò anzi che quello fosse un addentellato di Leopoldo per usurpare
in altri conventi e generalmente in tutti l'autorità della santa Sede.
Allora il granduca scrisse lettere circolari ai vescovi della Toscana,
ordinando che ciascuno di loro e tutti con unanime consentimento
addomandassero al papa, che i conventi, nissuno eccettuato, dalla
direzione dei frati si sottraessero ed alla dipendenza spirituale degli
ordinarii si sottomettessero. I prelati condiscesero ai desiderii di
Leopoldo; le episcopali domande arrivarono al Vaticano; Leopoldo stesso
mandò le sue istanze, e Pio pregò che quella deliberazione abbracciasse
dalla quale sola si poteva sperare la riforma degli abusi ed il
ritiramento delle cose religiose verso il loro principio e verso la
buona ed esemplare disciplina.
Il pontefice, per quel sospetto che aveva che ci covasse sotto
e calunnia e disegni a pregiudizio della santa Sede, udì poco
favorevolmente le petizioni di Toscana. Rispose a ciascun vescovo
attendessero pure a mandargli i processi e le informazioni, poi
vedrebbe ciò che convenisse farsi. Ma siccome il granduca insisteva con
pressa, così il papa trovò il mezzo termine di dare facoltà ad alcuni
vescovi toscani di governare, come delegati apostolici, col freno
spirituale i conventi che in deformi consuetudini fossero trascorsi,
e che i frati avessero o turbato o corrotto. Quanto alle religiose
sregolate di Santa Caterina di Pistoia, Ippoliti, che in quei dì
sedeva vescovo di quella città, le fece trasferire nel convento di
San Clemente di Prato, che pure al governo dei domenicani soggiaceva.
Quelle di Santa Lucia, prive del fomento delle consorti di Santa
Caterina, si assoggettarono, e diventarono, se non migliori, almeno più
caute.
In quest'anno il Ricci successe all'Ippoliti nel governo della diocesi
di Pistoia, di cui la città di Prato era membro. Colla medicina di
Pistoia credevasi di aver rimediato a tutte le piaghe, e che l'intero
ovile fosse a sanità ricondotto. Ma vana fu l'aspettazione, posciachè
in Prato maggiore contaminazione si scoperse. Due monache di Santa
Caterina di questa città, una nobile pratese di anni cinquanta, l'altra
di altra nobile famiglia pur di Prato, di anni trentotto, viveano già
da molti anni immerse ne' più gravi disordini.
Gli empi dogmi e le perverse consuetudini non avevano però tanto potuto
celarsi, non già dalle ree femmine, che non se ne infingevano, ma dai
superiori ecclesiastici che desideravano sopire senza scandalo una
cosa cotanto detestabile, che fuora le lingue non ne favellassero, e
quel luogo che santo ed intemerato doveva essere, empio e sacrilego
non chiamassero. Il vescovo Ricci ed il granduca Leopoldo, ai quali
queste cose infinitamente dispiacevano, avevano preso risoluzione,
correndo gli anni 1778, 1779 e 1780, di osservar bene quegli andamenti,
e di accertarsi anche per processi informativi, affinchè, mandate a
Roma le informazioni, la congregazione dei cardinali sopra i regolari
ed il pontefice stesso non potessero aver cagione di sopportare e non
provvedere.
Intanto, per allontanare da Santa Caterina ogni occasione di corruttela
e di scandalo, le due monache, per ordine sovrano, furono trasferite
a Firenze, per esservi chiuse nel conservatorio di San Bonifacio, dove
occupate in opere manuali avessero altro che pensare. Tuttavia non vi
diventarono migliori; però dagli ordini del conservatorio era impedito
ch'elleno con le parole e con l'esempio le innocenti creature che colà
entro convivendo contaminassero.
In questo mentre si andava fra i consiglieri del papa considerando
ciò che fosse a farsi per ravviare le cose di Toscana. Trattavasi se
convenisse, inchinandosi alle domande di Leopoldo e di Ricci, dare al
vescovo ogni necessaria facoltà, perchè potesse ritornare all'ordine,
alla purità ed alla pace Santa Caterina con tutti gli altri monasteri
di domenicane che nella sua diocesi si trovavano. Roma aveva gravi
risentimenti contro il granduca e il suo vescovo prediletto, a
cagione delle riforme che già avevano fatte e quelle che annunziavano
di voler fare. Specialmente poi acerbo animo portavano a Ricci per
avere pubblicato un monitorio contro la divozione del cuore di Gesù.
In questo mezzo il cardinal Palavicino, segretario di Stato di papa
Pio, cagionevole di salute essendo, si era condotto a cambiar aria,
lasciando il carico delle faccende al cardinale Rezzonico.
Quest'ultimo cardinale, più simile allo zio, che fu papa, che prudente
ad accomodarsi ai tempi che correvano, benaffetto ai gesuiti, ostava al
Ricci. Pio VI, che pur i gesuiti, autori della divozione del cuore di
Gesù, non amava, e che quanto Ricci quella divozione dannava, siccome
d'animo alto e risentito era, e gelosissimo dell'autorità e dignità
della Sede pontificia, si dimostrava anche alieno così dal vescovo di
Pistoia, come dal granduca, anzi da tutta la casa austriaca, da cui
allora riconosceva la diminuzione delle romane prerogative.
I domenicani, grandemente avversi in altri tempi ai gesuiti, nella
congiuntura presente ai medesimi si unirono, perchè vedevano che una
cattiva nominanza si solleverebbe contro il loro ordine, se il papa
con un solenne atto facesse vedere al mondo che le colpe d'alcune
domenicane e di alcuni dei domenicani erano conformi alla verità. Tra
gesuiti e domenicani fecero un così forte agitare alla corte, che il
papa, non che consentisse a dare le facoltà domandate al vescovo di
Pistoia, gli scrisse lettere acerbissime, tassandolo d'imprudenza per
aver sollevato questi romori in tempi tanto calamitosi per la Chiesa.
In quanto poi alle due religiose, prescrisse che fossero innanzi al
tribunale dell'inquisizione tradotte, per essere da lui, secondo che
meritavano, castigate.
Il granduca, a cui stava a cuore l'onor del vescovo pistoiese ed
il suo, e che non voleva che la potestà secolare fosse dichiarata
incompetente per provvedere ai disordini che succedevano nei conventi,
e di cui la fama, uscendo fuori, scandalizzava i popoli, scrisse in
termini molto risentiti a Roma, facendo intendere che non mai avrebbe
consentito che le due monache fossero date in potestà del santo
uffizio. Minacciò poi apertamente che se il governo pontificio si
fosse ancora peritato al sommettere i conventi delle monache di Toscana
all'autorità spirituale dei loro ordinarii, avrebbe provveduto egli di
propria autorità alle corruttele che vi erano pullulate.
Ad un tratto così risoluto il papa, rispondendo al granduca, gli fece
sapere che delle due monache deliberasse pure ciò che più conveniente
stimasse. Nello stesso tempo conferì ai vescovi del granducato, e
particolarmente a quel di Pistoia, le facoltà che gli erano state
domandate. Che anzi il pontefice, il quale le buone cose amava, quando
gli adulatori nol tentavano in proposito della grandezza e della
dignità della Sede pontificia, scrisse lettere di amara riprensione
al generale dei domenicani, per non avergli fatto conoscere la verità
sugli accidenti scandalosi di Prato.
In quest'anno Modena abolì nelle procedure criminali la tortura.


Anno di CRISTO MDCCLXXXI. Indiz. XIV.
PIO VI papa 7.
GIUSEPPE II imperadore 17.

Giuseppe II, erede di tutti gli Stati della casa d'Austria per la
morte della madre, come per quella del padre, era, quindici anni
prima, salito sul soglio imperiale, dalla natura dotato d'un capitale
straordinarissimo di penetrazione, e ricco di molte e molte cognizioni
ne' diuturni suoi viaggi acquistate, tutti i suoi pensieri, tutte le
cure al bene ed alla prosperità dei sudditi rivolse. Nuove forme ai
giudizii, con nuovo codice civile e criminale; generosa protezione alle
scienze ed alle lettere; nuove manifatture e nuove arti introdotte;
aperti nuovi canali al commercio, ed ingrandite e ristaurate a comodo
dei viandanti le pubbliche vie; sistemata infine ed ordinata ne' suoi
stati la pubblica economia.
Ardeva però l'imperadore di vivissimo desiderio d'incarnare prontamente
coll'esecuzione quelle vaste idee di riforme ecclesiastiche che da
gran tempo aveva concette e gustate. Già da più di venti anni, in
tutti i governi, e principalmente in quelli d'Italia, lo spirito di
riforma in questa parte di esterior disciplina erasi con non poca
solennità manifestato. Venezia, Genova, Parma, Modena e Napoli aveano
posta la falce nel campo. Ora, scorsi appena diciotto giorni da che
mancata era l'imperadrice Maria Teresa, pubblicò Giuseppe la prima sua
provvisione intorno alle persone che si davano allo stato claustrale.
Essergli, diceva, noto per esperienza che quelli che abbracciano
la vita religiosa, dispongono sovente de' loro beni a favore delle
case e comunità in cui entrano; or comandare lui che nissun novizio
o religioso che testare o stipulare qualunque atto di ultima volontà
prima della professione dei voti volesse, non potesse, sotto qualunque
pretesto, disporre di più di mille ducento fiorini in favore di dette
case e comunità.
Tre mesi dopo questo, diede fuori l'editto che concerneva a tutti gli
ordini frateschi: che tutte le case religiose negli Stati austriaci
sussistenti dovessero, comandava, rinunziare totalmente e per sempre ad
ogni unione, dipendenza o connessione con altre cose religiose estere o
con esteri superiori; al contrario, tutti i regolari austriaci essere
governati e diretti dai provinciali rispettivi, sotto l'ispezione ed
autorità de' vescovi, dovessero: le medesime disposizioni altresì alle
comunità delle femmine si estendessero, e sotto pena della deposizione,
avessero le superiore per l'avvenire a dipendere soltanto ed
esclusivamente dal clero degli Stati dell'imperadore, tanto in affari
ecclesiastici come nelle temporali bisogna.
Immediatamente a questo editto ne seguitò un altro, col quale
ordinavasi che quanti religiosi di qualunque sesso chiedessero
di essere dispensati da' fatti voti, ai rispettivi ordinarii, per
riportarne la bramata dispensa, le istanze loro rivolgessero: vietati,
in pari tempo, tutti i voti tanto temporanei come condizionati, se
fatti prima dell'età permessa per la vestizione, cioè ventun anni per
le donne, venticinque pegli uomini.
Intimato a tutti gli eremiti di deporre il lor abito romitico, venne
Giuseppe contemporaneamente in sull'abolire diversi monasteri d'ambi
i sessi. Tutte le case religiose, tutti i monasteri ed ospizii sotto
qualsivoglia nome di certosini e camaldolesi, come pure di monache
carmelitane, francescane, cappuccine o di Santa Chiara, rimasero
soppressi ed aboliti generalmente in tutta l'estensione degli Stati
austriaci. Allora fu che non poche monache, o non persuase di passare
in altri istituti dal sovrano approvati, o di trasferirsi fuori degli
Stati austriaci, fecero ritorno, in Italia, nelle paterne case.
Avendo esso principe giudicato necessario che le bolle, i brevi, i
decreti emanati da Roma, per l'influenza che avevano sugli affari dello
Stato, prima della pubblicazione, a lui ogni volta e senza eccezione
nissuna fossero presentati per ottenere il beneplacito, pratica già in
uso in moltissimi altri Stati cattolici, prescrisse a tutti i vescovi
ed arcivescovi de' suoi Stati che tutti gli ordini pontificii sì in
forma di breve, decreto, costituzione, o in forma altra qualunque
si fosse, indirizzati al popolo, a comunità tanto ecclesiastiche che
secolari, oppure a private persone, relativi a collazioni di benefizii,
pensioni, onori, potestà, diritti, od anche in materie dogmatiche o
di disciplina, dovessero, avanti la pubblicazione, presentati essere
alla reggenza civile d'ogni provincia con una copia autentica stesa
da pubblico notaio del paese, ed accompagnata da suppliche, affine di
essere poi della sovrana approvazione muniti.
Convinto Giuseppe II, come egli si esprimeva, de' perniciosi effetti
della violenza alle coscienze fatta, e de' vantaggi essenziali che
una vera tolleranza cristiana procura alla religione ed allo Stato,
credette bene di determinare, riguardo a questo punto, alcune regole.
Fosse permesso l'esercizio privato della loro religione a tutti i
sudditi protestanti, sia della confessione elvetica, sia di quella di
Augusta, in qualunque luogo degl'imperiali Stati. Sapessero eglino che,
nelle elezioni e collazioni di cariche civili, il principe riguardo
alcuno non avrebbe alla differenza della religione, ma unicamente,
come s'era sin allora fatto senza sinistro effetto nel militare, la
probità; la capacità, la buona condotta degli aspiranti valuterebbe.
Ne' matrimonii contratti tra persone di religione diversa, se il marito
cattolico fosse e la moglie protestante, i figli e maschi e femmine la
religione del padre seguissero; se il marito protestante e la moglie
cattolica fosse, i figli maschi seguissero la religione del padre, le
femmine quella della madre. Purchè osservasse le leggi municipali e le
sovrane ordinazioni, e la quiete pubblica non disturbasse, nissuno,
Giuseppe comandava, fosse mai assoggettato per motivo di religione a
pene pecuniarie o corporali qualunque; prescritto a tutti i magistrati
e giudici di ricordare a' cattolici la carità e l'amor fraterno,
di astenersi dalle parole ingiuriose, dalle offese, da' pungenti
rimproveri contro coloro che la ventura non ebbero di nascere in grembo
della cattolica Chiesa.
Aveva già l'imperatore con altro editto annunziato a' suoi sudditi
che, trovandosi eglino nel caso di dover chiedere per oggetto di
matrimonio una dispensa sopra uno od altro impedimento canonico, non
a Roma domandar la dovessero, ma bensì al rispettivo arcivescovo, da
cui, mediante il pagamento di modica tassa di cancelleria, concessa
sarebbe; ingiunto ai parochi, tanto delle campagne come delle città, di
non congiungere in matrimonio coppia veruna di sposi, se dispensa altra
qualunque fuor di quella del rispettivo ordinario gli presentasse.
Qualche tempo dopo, oltre alcune condizioni prescritte ai vescovi
intorno alle dette dispense, ordinò, che chi bisogno ne avesse, prima
di cercarle ai vescovi, la permissione dal sovrano impetrarne dovesse.
Contenendo il pontificale romano un giuramento che i vescovi, all'atto
della loro consacrazione, al papa fanno, l'imperatore emanò un suo
decreto, con cui intendeva di non ricusare il placito alle bolle
spedite da Roma agli arcivescovi e vescovi nuovamente eletti, ma vi
aggiungeva la condizione espressa che nè il prelato consacratore
nè il prelato consacrato non venissero autorizzati nè a ricevere
nè a prestare il detto giuramento se non nel senso dell'ubbidienza
cattolica, e non altrimenti. Ordinò quindi che i nuovi eletti, prima
di essere consacrati e prima di quel giuramento ordinario al papa
immediatamente dopo la nomina od elezione altro prestarne dovessero
tutto speciale di fedeltà all'imperadore, in presenza del governatore e
de' due più anziani assessori del luogo; giuramento che, sottoscritto
dal nuovo o vescovo o arcivescovo, dai tre testimoni suddetti, e
spedito originalmente al sovrano, conteneva una promessa assoluta
dell'eletto di comportarsi verso l'imperadore, suo solo legittimo
sovrano, principe e signore, da fedel suddito e vassallo, non
facendo e non permettendo scientemente che fatta fosse direttamente o
indirettamente cosa alcuna che pregiudiciale essere potesse e contraria
alla persona di Sua Maestà, alla sua augusta casa, allo Stato o ai
diritti della sovranità; con inoltre la promessa di ubbidire senza
tergiversazione a tutti i decreti, leggi ed ordini dell'imperadore, di
fargli osservare da' suoi inferiori col dovuto rispetto, e di cercare e
procurare in ogni occasione la gloria ed il vantaggio del sovrano e de'
suoi Stati. Alcuni vescovi eletti e non consecrati, questo decreto come
ad essi ingiurioso e tendente a renderne sospetta la fede riguardando,
supplicarono all'imperadore di dispensarli dal nuovo giuramento di
fedeltà ad essi prescritto, proferendo in quella vece di più non
prestare al papa nè l'antico nel pontificale riportato e nelle bolle
inserito, nè verun altro; e lo imperadore volentieri la proposizione
accettò.
Ed altre leggi ed altre provvidenze il saggio principe impartì nelle
materie ecclesiastiche, le quali non si poteva che nella novità non
cagionassero scrupoli e dubbiezze; il perchè non giorno forse passava
che al trono alcuno non si presentasse a chiedere spiegazioni.
Ma nel corso di tali riforme e novazioni un avvenimento di natura
diversa disgustò l'imperadore. Per uso antico nella romana corte
stabilito, alla morte di ciascuno de' principali monarchi cattolici
d'Europa, Austria, Francia, Spagna e Portogallo, rendevansi dai
papi nella pontificia cappella con grande solennità gli ultimi onori
all'estinto, di cui il santo padre stesso tesseva il funebre elogio.
Non era però esempio che onore siffatto stato fosse reso alle regine
o alle imperadrici che regnato non avevano se non congiuntamente ai
mariti; ma l'imperatrice Maria Teresa, regina di Boemia, d'Ungheria
e di tanti altri regni e Stati, era caso nuovo e meritava speciale
riguardo. Il papa consultò i suoi maestri di ceremonie, e questi gli
esposero di non aver trovato, per diligentissimi esami, che a donne
solenni funerali nella pontificia cappella stati mai fatti fossero.
E non consideravano che, dopo introdotto quell'uso, nissuna sovrana
cattolica era in Europa stata nel caso di reggere da sè i popoli,
come retti gli aveva Maria Teresa. Corse allora voce che il cardinale
Herczam, ministro cesareo a Roma, ne facesse formale istanza, e sotto
gli occhi del papa gl'inconvenienti mettesse che dal non fare insorgere
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