Annali d'Italia, vol. 8 - 13

e dei due prelati antecedentemente già nominati, volendo che in via
sommaria e senza contestazione o forma o giudizio, anche per mezzo
dell'inquisizione, procedessero contro le persone di qualsivoglia
stato, grado, qualità e dignità fossero, le quali ritenessero,
serbassero o celassero libri, scritture, mobili o suppellettili
qualunque che alla soppressa società si fossero appartenute. E
potessero anche obbligarle a svelare le nascoste cose colle censure
ecclesiastiche, e con tutt'altra pena, con cui piacesse alla
congregazione di castigarle.
Per tal modo l'edifizio innalzato da Paolo III fu demolito da Clemente
XIV. A queste deliberazioni seguitarono ferme esecuzioni. Ai 16
d'agosto, in sul far della notte, i prelati Macedonio e Alfani, membri
della congregazione più sopra accennata, andarono alla casa professa
del Gesù; il prelato Sersale al collegio romano di Sant'Ignazio;
il medesimo prelato Alfani al noviziato di Sant'Andrea; l'avvocato
Zacheri, prosegretario della congregazione dei vescovi e regolari, alla
penitenzieria di San Pietro; l'avvocato Dionigi, auditore del cardinale
Caraffa, all'ospizio dei Portoghesi in Trastevere; il prelato Archetti,
al Collegio germanico; il prelato Riganti al collegio greco; il prelato
Passionei al collegio scozzese; l'abbate Foggini, teologo del cardinal
Corsini, al collegio degl'Inglesi; finalmente il prelato Della Porta
al collegio maronita: gli accompagnavano compagnie di soldati corsi.
Occupatisi dai soldati tutti gli aditi, e postisi tanto dentro quanto
fuori delle nominate case, ciascun prelato deputato, assembrati e
chiamati in cospetto loro i religiosi della comunità, lessero loro per
bocca di notari, che seco loro avevano condotto per questa bisogna,
le lettere del mandato, di cui erano dal pontefice investiti, poscia
la bolla che l'istituto sopprimeva. Quindi procedettero a mettere
i sigilli su gli archivii, sulla ragioneria ed altri depositi o
d'argenterie o di provvisioni. Le quali cose fatte ed eseguite, i
deputati se ne andarono, lasciando sul luogo i soldati, affinchè i
sigilli si conservassero intatti e fermi, ed i religiosi guardassero.
Il giorno seguente i religiosi soppressi cessarono le loro scuole ed
ogni altra funzione. Le loro chiese furono chiuse, eccetto quelle del
Gesù, di Santo Apollinare, in cui furono posti ad ufficiare cappuccini,
minori osservanti e preti secolari, con proibizione di farlo essi
Gesuiti pubblicamente, e nemmeno di farsi vedere nelle sagrestie.
Il medesimo giorno essendosi adunata la congregazione dei cinque
cardinali negli appartamenti della Rota al Quirinale, mandò ordine
che il padre Ricci, superiore generale dei Gesuiti, fosse trasferito
dalla casa professa al collegio inglese: il quale ordine fu messo ad
esecuzione la sera, condotto e scortato il Ricci dai soldati al luogo
destinato in una carrozza del cardinale Corsini, il quale, siccome
persona di bontà, nè troppo avversa ai Gesuiti, il dimane gli mandò
offerendo cioccolato, caffè ed altri simili delicature di cibi. A tale
umile stato era ridotto un uomo che poc'anzi reggeva una compagnia
ricchissima e potentissima in tutte le provincie cristiane dei due
mondi, e che nato egli medesimo in una famiglia per antichità, per
dignità e per beni di fortuna risplendente, ogni altra cosa piuttosto
doveva augurarsi, che questa di dovere cibarsi dei cibi altrui. Dopo
tre mesi poi venne, per le imprudenze di alcun suo amico servato in
castel Santo Angelo. Gli assistenti del generale furono anch'essi dalla
forza soldatesca sostenuti chi in una casa, chi un'altra.
Ancorchè la bolla della soppressione de' Gesuiti fosse da tutti
aspettata, poichè non s'ignoravano nè le istanze de' principi, nè
che il papa già da lungo tempo biecamente li guardava, nè gli atti
rigorosi che erano stati usati contro di loro nelle principali città
dello Stato ecclesiastico, fu ciò, non ostante, con molta maraviglia e
quasi stupore in Roma ricevuta. Alcuni avevano creduto che il papa non
si sarebbe osato di dare un così gran passo, e di venire ad una tanta
deliberazione, che stimavano poter riuscire di grave pregiudizio alla
santa Sede. Altri si erano persuasi che si sarebbe trovato per ripiego,
siccome n'era corso voce, di riformare solamente la società, non di
estinguerla. Non si sa per quale proposito, ma certo è bene che il
ministro di Spagna aveva in ultimo scritto alla sua corte pregando che
della riformazione si contentasse. Ma era venuta risoluta risposta, che
attendesse pure alla soppressione, e d'altro non gli calesse, perchè
sapeva bene il re quel che si faceva.
Ora in quella Roma solita a fare ed udire tanti discorsi sulle
operazioni dei papi, si parlava diversamente, e secondo i diversi
umori della deliberazione di Ganganelli. Chi le era contrario e per
amore de' Gesuiti parlava, andava facendo varii commenti, ed aspre
parole a pensieri aspri annestava. Dall'altra parte i difensori del
papa non tacevano, nè i loro discorsi erano meno acerbi di quelli degli
avversarii. Lungo sarebbe il riportare il molto che fu detto, ridetto
e contraddetto in Roma, poi negli altri paesi intorno alla soppressione
dei Gesuiti. Intanto per ogni luogo si andava sfasciando l'edifizio da
papa Paolo eretto.
I principi cattolici accettarono la bolla di Clemente quanto alla
soppressione; ma rispetto ai beni della compagnia, che il papa aveva
desiderato che si applicassero ad opere pie ecclesiastiche, i sovrani
dichiararono che vi mettevano su la mano regia, e ne avrebbero fatto
quell'uso che più vantaggioso avrebbero stimato allo Stato ed alla
religione. Fecero anche qualche riserva in ordine a quelle clausole
della bolla che contrarie fossero ai diritti della sovranità ed alle
leggi ed usi del paese. Nominatamente la repubblica di Venezia aveva
bensì accettato la bolla, ma colla condizione che fosse salva in tutto
la condizione dei vescovi, salvi i diritti sovrani, le leggi ed il
costume della repubblica, ed esclusa intieramente la comminatoria della
scomunica. Il decreto del senato investì il patriarca della facoltà
di eseguire il breve, quanto alla parte spirituale, con ciò però che
nulla facesse senza l'assistenza di un senatore delegato. Volle altresì
che il senatore prendesse possesso dei beni gesuitici a nome della
repubblica, che si usasse ogni dolcezza coi religiosi soppressi, e che
agli altri ecclesiastici si anteponessero così per le messe quotidiane
come per gli altri esercizii spirituali.
Parimente i serenissimi collegi di Genova s'impadronirono per decreto
espresso di tutti i latifondi, di tutti i mobili ed immobili, di
tutte le rendite, di tutti i capitali in oro ed argento, vasellame,
libri, vasi sacri ed ornamenti che ai Gesuiti appartenevano, o di cui
godevano, e così pure delle loro case, collegi e chiese che esistevano
o fossero per esistere negli Stati della repubblica, ordinando ad una
deputazione composta di tre senatori e quattro nobili di prenderne
reale ed effettivo possesso, e di usare a questo fine tutti i mezzi che
sarebbero necessarii.
Allo stesso modo adoperarono gli altri sovrani d'Italia; il re
di Napoli specialmente con molta condiscendenza verso la volontà
del pontefice, il re di Sardegna con qualche amaro motto verso il
breve, non perchè della soppressione non si soddisfacesse, ma per la
disposizione del papa di voler dare una destinazione determinata ai
beni dei religiosi soppressi, parendogli, come a Venezia ed a Genova
era paruto, che ciò toccasse le prerogative della sovranità temporale.
Già regnava in quel momento sul Piemonte, in luogo di Carlo Emmanuele
III, morto ai 20 di febbraio del corrente anno, il suo successore e
figliuolo Amedeo III.
In ogni parte ebbe luogo l'umanità verso i vietati padri, nè
soggiacquero ad altri rigori, se non quelli che derivavano dal tenore
stesso della bolla. Solamente nella Valtellina, come prima vi si ebbe
notizia della bolla di soppressione, il popolo si sollevò a furore, e
li cacciò via con grida e minacce, mettendo anche a sacco i loro beni,
case, chiese e collegi.
Nella Germania cattolica il breve ebbe facile esecuzione, se si
eccettui la città di Augusta, di cui il principe vescovo scrisse a
Clemente, esservi i Gesuiti giudicati necessarii per utilità della
religione, e però il pregava di contentarsi che seguitassero a vivere
in comunità. Il papa non se ne soddisfece, e, maneggiando il negozio
con prudenza, ottenne finalmente quel che desiderava, ed Augusta
uniformossi al breve.
Ma la volontà del pontefice diede in intoppo nella Slesia per
l'opposizione del re di Prussia. Eranvi in quella provincia Gesuiti, a
cui era commessa l'educazione della gioventù cattolica. Il re non volle
che il breve vi fosse mandato ad effetto, e conservò que' padri nella
direzione delle scuole con salvezza de' loro beni, case e collegi.
Tra le ricerche fatte con estrema diligenza tanto da' commissarii
apostolici in Roma quanto da' deputati de' principi nelle varie
provincie d'Europa, e la minaccia della scomunica contro chi ritenesse
le proprietà de' Gesuiti, non poche ricchezze si rinvenirono in arnesi,
gioie, vasi così sacri come ad uso mondano, ed altre masserizie di gran
valore. Rinvennesi eziandio una certa quantità di denaro contante;
ma questa parte non riuscì all'aspettazione universale, essendosi
ritrovata di gran lunga minore delle enormi somme che nelle riposte
gesuitiche od in conservo presso i loro banchieri gli uomini si erano
dati a credere essere accumulati; conciossiacosachè fosse voce che
occultato avessero e messo in salvo più di ducentocinquanta milioni di
franchi.
Noi abbiamo di sopra accennato siccome al 20 di febbraio del presente
anno il re Carlo Emmanuele III di Sardegna aveva abbandonato la
vita, correndo l'anno settuagesimo secondo della sua età. Guerriero
abile, amministratore diligente, principe d'ottimo costume, sarebbe
per ogni parte da lodarsi, se in certe cose anche buone il volere
far troppo non si voltasse in vizio. Lasciò del suo regno memorie
notabili. Oltre ad altri benefizii, la Sardegna riconosce da lui la
fondazione delle due università di Cagliari e di Sassari; e se da
lodarsi era il pensiero di aprire que' fonti di utili sussidii in
una contrada che molto abbisognava, ugualmente da lodarsi fu il modo
con cui fu mandato ad effetto. Assegnaronsi ai professori emolumenti
ragguardevoli per que' tempi, e sotto un principe piuttosto scarso che
assegnato nello spendere, non furono certamente di poco momento. Fecesi
diligente ricerca de' migliori e più dotti uomini, tanto nazionali
quanto esteri per condurli ad insegnare nelle due novelle università.
Si ordinò una buona disciplina per gli studenti, un acconcio metodo
d'insegnamento per le scuole, una conveniente norma pegli studii. La
Sardegna a nuova vita scientifica e letteraria sorgeva, e si rendeva
manifesto che quell'antica terra era anch'essa feconda di felici
ingegni. Giambattista Simon arcivescovo Turriano, Giannantonio Cossù,
Giuseppe Cossù, Francesco Carboni, Francesco Maria Corongiù, Salvatore
Mameli, Giuseppe Valentino, ed i Cetti ed il Gemelli, con molti altri,
le scienze e le lettere nella famosa e per troppo lungo tempo dagli
Spagnuoli negletta isola nobilitarono.
Nè devesi defraudare della meritata lode il re per aver dato un
migliore ordinamento ai monti frumentarii, o granatici, come si
chiamavano in Sardegna, che per opera delle antiche corti, cioè
assemblee generali degli Stati, avevano avuto principio. Erano questi
monti frumentarii depositi destinati a sovvenire, accomodandoli per via
di prestanze gratuite o di modico interesse di denari, gli agricoltori
che da per sè non potevano, per mancanza di fondi, sementare le terre.
Ma siccome avviene nelle umane istituzioni, anche le migliori, o per
difettive ordinazioni sul principio o per abusi nel progresso, questi
repositorii non corrispondevano più alle intenzioni de' fondatori, e
si erano deviati dall'uso e dall'utile per cui stati erano istituiti.
Per ritirare verso il suo principio una instituzione utilissima in un
paese dov'erano ancora molte terre incolte, ordinò il re, cui erano
ministri o consiglieri un Bogino, un Lodovico Costa della Trinità, un
Vittorio Lodovico des Hayes, ordinò, a ciò movendolo principalmente la
sentenza del Costa, che in ciascun luogo, per ristringere le cose sotto
uniforme regola, vi fosse un magistrato d'uomini eletti così fra gli
ecclesiastici come fra i laici (pensiero accomodato, perchè gli uni e
gli altri avevano antichi diritti), i quali il locale monte avessero in
governo; e perchè l'amministrazione con norma certa ed ordine stabile
procedere potesse, per la ordinazione medesima furono statuiti i doveri
di ciascuno, e le forme del governare, ed il modo dello spartimento de'
frumenti, della riscossione de' crediti, del rendimento delle ragioni.
Di grado in grado, affinchè più occhi la medesima cosa guardassero,
salivano gli ufficii; in ogni diocesi fu creato un magistrato
diocesano, al medesimo modo composto di ecclesiastici e di laici, ma
dal vescovo presieduto, datagli la cura d'invigilare sui magistrati
locali. Si fece poi provvisione che gli uni e gli altri, cioè ed
i magistrati locali ed i diocesani, sopravvegliasse un magistrato
supremo, che in Cagliari sedeva, ed a cui furono chiamati i principali
uffiziali della corona, le prime voci d'ogni stamento ed altre persone
che per zelo dimostrassero avere graziosa volontà verso i monti, e
per pratica sapessero giovarli. Al buon pro loro usaronsi eziandio
le servitudini, e ad opportuni ordini corrisposero conformi effetti.
Diedesi con molto zelo opera ai lavori gratuiti comandati da chi
per feudalità di chiesa o di spada ne aveva il diritto, i magistrati
sopra i monti con ardore ed intelligenza li disponevano, accrebbersi i
capitali, diminuissi il merito delle prestanze, con maggiore agiatezza
vissero i coloni, molte terre, per lo innanzi sterili ed infeconde,
divennero fertili e fruttifere, e produssero in pro della meglio
amministrata isola copia d'ogni buona sostanza. Tanto potè una buona
volontà regolata da buon giudizio! Moltiplicossene la popolazione della
Sardegna, onde si può affermare che Carlo Emmanuele sia stato il più
provvido e benefico sovrano che da molti secoli indietro ella avuto
avesse.
Carlo Emanuele non era uomo da lasciarsi trasportare dal secolo,
posciachè i pensieri proprii non con istraniere forme, ma da sè
formava; e nemico era di qualunque novità che non gli fosse paruta
utile e buona per ogni parte. Ingegno molto riflessivo aveva, tanto
forse eccessivo nella prudenza, quanto lontano dalla temerità. Tardo
era nel determinare, tenacissimo nella cosa deliberata. Giusto era, e
delle feudali cose sanamente pensava; ma, lento nel toccarle per timore
di scrollare l'edifizio sociale di cui erano parte; pure si mosse.
Erano in Savoia le mani morte a guisa dell'antico reame di Borgogna,
di cui il primitivo dominio della casa di Savoia fu membro. Queste mani
morte, ch'erano di due sorti, o delle terre o delle persone, ei regolò
primieramente nel 1762, senza troppo conseguire il fine che desiderava,
e poi definitivamente nel 1771, con grandissimo utile degli uomini e
delle cose.
Lodano alcuni Carlo Emanuele per aver dato miglior sesto alle
costituzioni de' suoi Stati, opera già incominciata da suo padre.
Certamente egli è in ciò da lodarsi, perchè ne risultò maggiore
uniformità nell'amministrazione e nella giustizia, ma è da biasimarsi
di non aver cancellato da que' codici i vestigii dei tempi barbari che
non in picciol numero li contaminavano, massime circa lo stato delle
persone ed i processi e giudizii criminali. Per essi si vedeva che le
dolci dottrine che accennavano a miglioramenti nel governo dei principi
verso i popoli, principalmente negli ordini giudiziali, poco o nulla
avevano ancora penetrato, nè udite erano in piazza Castello della
nobile e generosa Torino.
Crudo non era punto Carlo Emmanuele, ma la tenacità della sua natura
il teneva ch'egli quelle riforme, anche salva l'autorità regia,
nelle leggi operasse che non che l'umanità, ma ricercavano ancora la
giustizia e la religione. Già nei vicini regni e nei lontani un più
benigno influsso andava consolando gli uomini, ed a migliori speranze
chiamandoli; il Piemonte, a guisa delle rocche che il circondano,
immobile durava, nè mostrava d'inchinarsi ai piacevoli venti. Già un
Luigi, due Ferdinandi, un Giuseppe, un Leopoldo le condizioni degli
uomini da loro governati ammollivano, ed a benefiche voci prestavano le
orecchie; ma Carlo Emmanuele ai generosi esempi poco si moveva, quasi
unicamente contento al travagliarsi intorno all'amministrazione, nella
quale certamente molto valeva.
Gli studii si fomentavano, purchè non uscissero da un disegnato e
stretto cerchio. Nissuna vita nuova, nissun impulso, nissuna scintilla
d'estro fecondatore; un aere grave pesava sul Piemonte, e i respiri
impediva. Lo stesso vivere tanto assegnato del principe faceva che la
consuetudine prevalesse sul miglioramento, e che nissuno dall'usato
sentiero uscisse, ancorchè più facili, più utili e più dilettevoli
strade di sè medesime facessero mostra in luoghi vicini.
Dai duri lidi fuggivano Lagrange, Alfieri, Denina, Bethollet, Bodoni,
e fuggendo dimostravano che se quella era per natura una feconda terra,
aveva un gretto agricoltore. Carlo Emmanuele e Bogino si martorizzavano
sui conti, e le generose aquile, sdegnose di quel palustre limo, a più
alti e propizii luoghi s'innalzavano. Francia, Italia, Inghilterra,
Prussia i nobili rampolli accoglievano, ed essi sopra alieni campi
fruttificavano: Luigi Federico, Ferdinando, Leopoldo pagavano il debito
di Carlo Emmanuele e del suo successore.
Tuttavia è da terminarsi quanto di Carlo Emmanuele fu detto colle
parole che un valente scrittor franzese, il signor Mimaut, antico
console generale di Francia in Sardegna, lasciò in una Storia che
ai giorni nostri pubblicò di quell'isola, riportandole quali le ha,
nelle sue storie, tradotte il chiarissimo Botta: «Se mai tempo felice
e prospero fuvvi per la Sardegna, certo fu quello del regno di Carlo
Emmanuele III. Fu questo principe, succeduto a suo padre nel 1730, il
migliore ed il più grande re che la casa di Savoia illustrato abbia. Ei
godrà nella memoria degli uomini di una gloria tanto più pura, quanto
che per benefizii e per virtù se l'acquistò, e per le sue fatiche a
niun'altra cosa mirò che alla felicità de' suoi popoli. Non isfuggì
a quest'eccellente principe, cui guidavano i savii consigli del conte
Bogino, suo primo ministro, uno dei più abili statisti del tempo, suo
Sully e suo Colbert, di quanta importanza per lui fosse la possessione
di un'isola pur troppo dai suoi antichi signori avuta in non cale;
perciò egli con più particolare amore amolla e coltivò.»
Non così tosto il re Carlo Emmanuele era passato da questa vita
all'altra, che il re Vittorio Amedeo, suo successore, si era con
tutta la famiglia condotto alla Veneria, donde non ritornò a Torino
se non dopo alcuni giorni; ma prima che vi giungesse, aveva mandato
pel cavaliere di Morozzo, ministro degli affari interni, domandando
al Bogino che dismettesse la carica di ministro della guerra e di
Sardegna, conservatogli però lo stipendio e le pensioni di riposo;
della quale carica fu investito il conte Chiavarina, segretario del
gabinetto del re. Il marchese di Aigleblanche, della casa di san
Tommaso, fu chiamato ministro degli affari esteri con soprantendenza
degli archivii. Gli fu, dopo alcun tempo, surrogato il conte di Perone,
e il conte Corte fu chiamato ministro degli affari interni in cambio
del Morozzo. Il cardinale delle Lance, uomo di un fare generoso e
grande, ma delle prerogative di Roma zelantissimo, il quale grande
elemosiniere della corona era, domandò licenza, e l'ebbe, ed in suo
luogo fu sostituito il Rovà, arcivescovo di Torino.


Anno di CRISTO MDCCLXXIV. Indiz. VII.
CLEMENTE XIV papa 6.
GIUSEPPE II imperadore 10.

Godeva il papa anzi prospera salute che no; poichè e di complessione
robusta era, e le sue naturali forze non erano state consumate da
vita intemperante e licenziosa; che anzi era sempre vissuto assegnato
e parco, siccome a' suoi moderati desiderii si confaceva. Per tal
modo si andava avanzando verso la più vecchia età, quando in uno di
quei giorni della settimana santa del corrente anno, dopo di aver
pranzato, si sentì in un subito una commozione nel petto, nello
stomaco e nel ventre, come se compreso fosse da un freddo interno. Ne
restò con istupore, essendo cosa insolita; ma pure, siccome quello
che d'animo forte e costante era, attribuendo quell'insulto di male
a caso fortuito, si riebbe, e a poco a poco si rasserenò. Tuttavia
fu principio di un'infermità che era per rompere il filo della sua
vita; imperciocchè gli si cominciò ad arrocar la voce, e per questa
ragione, stimandosi che fosse afflitto di catarro, fu deliberato che
per la cappella che dovevasi tenere nella basilica di San Pietro il
giorno di Pasqua se gli mettesse un capannone o bussola per ricovero
nel sito della cappella. Precauzione inutile, perchè gli si vide dopo
alcuni giorni infiammata la bocca e la gola, quindi seguitare vomiti
interrotti, ed eccessivi dolori nel ventre; le orine gli si impedirono,
gli s'infievolirono le gambe, perdeva le forze, ed ogni giorno più
si rendeva manifesto che il suo mortale corpo si andava disfacendo.
Mormoravasi che di veleno si morisse. Forse egli stesso sel credeva,
tanto era stato subito il male, e tanti erano i sospetti che regnavano.
Certa contadina del paese di Valentano, Bernardina Beruzzi, che altri
chiamavano Peronchini, famosa profetessa, aveva predetto la morte del
Ganganelli ad insistito sulla predizione, come se esser dovesse effetto
d'una trama. Ganganelli non era uomo da lasciarsi spaventare da simili
baie fatte per dar pasto agli sfaccendati su per i trivii e su per le
piazze, e Bernardina teneva in quel concetto che meritava, cioè di una
sciocca o d'una furba. Ma da un'altra parte, conoscendo quanto sotto
dolci spoglie certa gente nascondesse d'odio e di vendetta, provvedeva
a sè medesimo, e la propria salute con tutti i mezzi più prudenti
procacciava. Scrissero che furongli trovate pillole contro i veleni. La
vitale forza interna mancava, stante che un umore litigginoso, ch'era
solito sfiorirgli alla pelle, quell'anno non uscì.
Già la morte si avvicinava. Successe un po' di calma, come suole
avvenire poco innanzi che l'uomo sia venuto all'ultimo confine della
vita, come se Dio avvertire volesse i mortali di pensare ai fatti loro
in quell'estremo momento. Già i famigliari si rallegravano, come se
il loro signore a sanità tornasse. Ma la calma era preceditrice della
morte. Ricomparirono in un subito i funesti segni, e la mattina de'
22 settembre Ganganelli esalò la forte anima, rendendola a colui che
gliel'aveva data.
Fu sparato il cadavere. Trovaronsegli lividori nelle intestina, la
pelle ancor essa illividita ed in alcuni luoghi nera; tutta la salma
rendeva un fetore insopportabile. Crebbero i romori che il santo padre
fosse stato avvelenato, non già perchè le apparenze dell'esplorato
cadavere ciò dimostrassero, perciocchè si osservano anche nei morti
senza veleno e da morti naturali tolti da questa vita, ma perchè gli
uomini si erano mattamente dati a credere che colui che aveva soppresso
i Gesuiti non di morte naturale, ma di tossico dovesse morire. Gli
uni affermarono l'attossicamento per certo, gli altri con eguale
asseveranza il negarono. Del resto, è da credere che dal detto al fatto
ci sia una gran distanza, nè si vede che i medici che il cadavere hanno
tagliato abbiano dichiarato avervi trovato sostanza velenosa, cosa che
sola avrebbe potuto levar via ogni dubbio.
La morte di Clemente increbbe a tutti coloro che amavano di vedere
la sincera religione unita alla paterna sopportazione. Papa unico
il chiamavano, papa quale ad un secolo scrutatore ed inquieto si
conveniva. Sono parecchie cose al mondo che più colla bontà si
acquistano che colla ragione; perocchè niuno è che la bontà non ami, ma
la ragione ha spesso per nemico chi ella convince.
Tutti i sovrani avevano in venerazione Clemente; nè solo i cattolici,
ma ancora quelli di religione diversa. Federigo di Prussia, fra gli
altri, assai del buono e spiritoso papa si soddisfaceva, ed amava
di contentarlo. Da lui impetrò che il vescovo di Breslavia potesse
visitare una parte de' suoi diocesani, agevolezza che non aveva mai
potuto ottenere da' predecessori. «Che buon papa, che buon papa
ha Roma,» diceva Federigo, e il diceva da vero, non per malizia,
quantunque malizioso fosse.
Il nome di Clemente era in onore in Inghilterra. Vedevansi a Londra
frequenti, così ne' luoghi pubblici come nelle case dei privati, i
busti di questo pontefice. Le quali cose quando gli venivano riferite,
ei rispondeva: «Volesse pur Dio che ciò che fanno per la persona, il
facessero per la religione!» In somma in quel paese, tanto abbondante
d'uomini sensati, tanto era nominare Ganganelli quanto Lambertini, due
papi simili per dottrina, per saviezza, per bontà, per ingegno.
Nè minori sentimenti di rispetto e d'affetto nodriva per Ganganelli
l'imperadrice di Russia, la quale gli scrisse lettere molto onorevoli
per impetrare un vescovo cattolico a regola e consolazione de' prelati
e religiosi del rito romano che abitavano ne' suoi Stati.
Dicono che l'egregia fama di Clemente fosse anche penetrata sino a
Costantinopoli, e che il soldano molto l'onorasse. Fu anzi tramandato
alla memoria che il sovrano de' Turchi abbia detto un giorno parlando,
all'ambasciatore di Venezia: «Se tutti i vostri papi fossero come
quello che presentemente avete, i nostri patriarchi greci non si
mostrerebbero tanto dalla corte di Roma alieni. Egli è un saggio che
molto sa e rettamente procede, e non fia che ai più lo somiglino le età
future.»
I Turchi, i protestanti, i Russi, gli Inglesi stessi, tanto odiatori
del papato, lodavano quel papa che altri con malediche penne lacerava.
Le lodi stesse dei dissidenti gli erano imputate a delitto, come se
la durezza e la cupidigia de' due papi della famiglia de Medici e di
alcuni altri non avessero partorito abbastanza amari frutti per la
Chiesa cattolica, e specialmente per la sede di Roma.
Clemente, assunto al pontificato, aveva seguito il suo consueto
costume quanto alla vita privata, da umile fraticello vivendosi qual
era stato, ma nelle udienze e funzioni pubbliche non mancava in lui
la magnificenza. Molto ancora si studiava di abbellire la sua Roma.
Promosse ed ingrandì l'opera già cominciata da Lambertini, di adunare
in un museo che ancora oggidì del suo nome di Clemente si chiama,
preziosi residui dell'antichità. Raccolse i già noti, trovonne in quel
fecondo suolo degl'ignoti, e tutti collocava in luogo appropriato,
a maraviglia dei curiosi, ad istruzione degli studiosi delle belle
arti. Parve che l'antica terra alle generose intenzioni del pontefice
sorridesse; imperciocchè, tentata, versava fuori in copia le opere
preziose degli scarpelli de' secoli passati. Le reliquie della nostra
religione, i residui della pagana ad un tempo adunava. Gli uomini di
gentilezza informati o di studio desiderosi di ciò il commendavano
molto; ma divenne argomento di nuova accusa dall'altro lato,
biasimandolo i suoi nemici dello aver mescolato le cose sacre colle
profane, come se un museo d'antichità fosse una chiesa. Piacevagli
visitare sovente quelle onorande depositerie de' nostri antichi padri;
piacevagli mostrarle egli stesso in persona ai forestieri che la sempre
gloriosa Roma visitavano, e fra le maraviglie che vi si vedevano, il
buon pontefice stesso non era la minore. Ebbe particolare cura della
libreria del Vaticano, cui in singolar modo adornò di stampe, di testi
a penna, di medaglie: crebbe a' suoi tempi per gli sforzi suoi, crebbe
per generosità del cardinal Passionei, suo amico, ed a lui molto
somigliante, il quale l'arricchì della sua. Gentili spiriti nudriva
allora Roma, come sempre; ma questa volta erano dati loro liberi e
fecondi cambi da chi reggeva.
Anche all'utilità Ganganelli mirava. Non omise il pensiero de' porti
d'Ancona e Civitavecchia, pei quali ordinò utili riparazioni. Provvide
alla comodità delle strade, in ogni parte dell'amministrazione de'