Annali d'Italia, vol. 8 - 11

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magistrato era di sopravvedere e provvedere che la volontà del principe
fosse eseguita.
Nè alle narrate deliberazioni si rimasero i pensieri del Dutillot e
del duca di Parma. Avevano i popoli supplicato al duca, e pregatolo di
far considerazione quanto restassero offesi dalla soverchia libertà per
cui si traevano fuor del dominio, e specialmente nelle curie di Roma,
i litigii così dei secolari come degli ecclesiastici. Lamentavansi i
popoli parimenti, ed al duca supplicarono, perchè vi rimediasse, che i
benefizii e le pensioni ecclesiastiche dai diplomi romani si dessero
a persone straniere con esclusione degl'indigeni; dal qual abuso
segnatamente venivano a sentir danno moltissime chiese parrocchiali,
anche quelle che rendite sufficienti per sè medesime non avendo pel
decente esercizio del culto divino, erano sovvenute dalle liberalità
dell'erario pubblico.
Le quali cose e supplicazioni bene considerato dal duca Ferdinando,
ed avutovi riguardo, pubblicò, ai 13 di gennaio 1768, un editto, per
cui comandò che, senza averne prima ottenuto il sovrano beneplacito,
nissun suo suddito, o mediato o immediato, o secolare o ecclesiastico,
o collegio od università, compresi i conventi e le famiglie religiose
dell'uno e dell'altro sesso, senza la menoma eccettuazione, si ardisse
di trarre o di esser tratto a contestare e sostenere, in qualunque
grado d'istanza, liti giudiziali in alcun tribunale estero, compresi
anche quelli di Roma, per qual si fosse causa, anche ecclesiastica e
relativa a beni, ragioni, diritti e preminenze di qualunque sorte;
Che nissuno nemmeno si ardisse, senza il mentovato beneplacito, di
ricorrere a principi, governi e tribunali esteri, nè per ragione
di beni, azioni, preminenze e diritti di qualunque sorta, nè per
conseguire ne' suoi Stati benefizii, pensioni ecclesiastiche, commende,
dignità o cariche con annessa giurisdizione di qualunque grado o
prerogativa;
Che i benefizii ecclesiastici curati e non curati, compresi anche i
concistoriali, le pensioni, abbazie, commende, dignità e cariche di
annessa giurisdizione, qualunque fossero, non potessero conseguirsi che
da sudditi nazionali, e ciò ancora nemmeno senza il previo beneplacito
dell'autorità sovrana;
Che senza la regia permissione dell'esecuzione nissun giudice o
tribunale, tanto laico quanto ecclesiastico, s'ardisse di eseguire qual
si volessero scritti, ordini lettere, sentenze, decreti, bolle, brevi e
provvisioni di Roma, e di qual si fosse podestà o curia estera;
Che qualunque atto contrario alla presente sovrana disposizione che da
qualche disubbidiente venisse fatto, fosse irrito e nullo e da aversi
in nissuna considerazione, con ciò eziandio che i disubbidienti fossero
severamente puniti anche in via economica, per la loro disubbidienza
verso le principali massime di buon governo e le più rilevanti leggi
dello Stato.
Un complesso di tali leggi e provvisioni in un breve corso d'anni
accettate e promulgate nel ducato di Parma e Piacenza dimostravano
evidentemente quanto quel governo fosse risoluto a sradicare gli abusi
che in materie giurisdizionali e nelle disposizioni regolatrici dei
beni e delle persone ecclesiastiche erano trascorsi. Ma queste erano
percosse fatali all'autorità romana, e di tanto maggior rammarico
quanto che le medesime deliberazioni andavano prendendo piede, e già
l'avevano preso in altri Stati, non che dell'estero, dell'Italia, e
pareva che fosse una tempesta che si volesse allargare in ogni luogo.
In termini difficili il pontificato si trovava; la resistenza lo
metteva in necessità di usare mezzi che l'opinione di molti riprovava,
e niuna cosa reca più grande pregiudizio ad una podestà, qualunque ella
sia, che fare deliberazioni non obbedite. Dall'altro lato, il non fare
risentimento accennava che esso abbandonasse quelle massime che per
tanti secoli aveva seguitato. A tale estremo passo gli era mestieri di
fare scelta tra il procedere pieghevole e prudente di Benedetto ed il
fare rigido ed inflessibile di alcuni altri papi. Clemente XIII non
era di natura intrattabile, e sarebbesi forse inclinato od a qualche
concessione od almeno a qualche mezzo termine di conciliazione; ma
troppo fu e consigliato e sollecitato ad opporre il pontificale petto,
ed a farsi forte contro di questa nuova tempesta.
Adunque, ai 20 di gennaio dell'anno scorso, il papa pubblicò la sua
sentenza, e contro i commettitori di quanto era contrario alla immunità
ecclesiastica ed ai diritti legittimi della sedia apostolica usò l'armi
pontificali. Toccate primieramente tutte le disposizioni del duca che
giudicava contro i diritti e le immunità della Chiesa, e reso conto
dei mezzi di pacificazione da lui inutilmente usati; investendosi
della sua pontificale autorità, scriveva che poichè speranza più non
v'era di stornare con la pazienza e la dolcezza i colpi terribili
intentati all'autorità della santa Sede e della Chiesa, credeva essere
giunto alla fine quel tempo, in cui egli vendicar doveva le libertà
ecclesiastiche così violentemente offese affinchè nissuno potesse
dargli la taccia d'aver tradito il suo dovere. Dichiarava pertanto
nulli, di niun valore, temerarii ed abusivi i sopraddetti atti,
decreti, editti, prammatiche, come usciti da mano di persone che non
avevano nissuna autorità di formarli. Dichiarava egualmente nulli e
di niun valore tutti quelli che dalle medesime persone in avvenire
uscire potessero; proibiva finalmente a' suoi venerabili fratelli ai
vescovi di quei ducati, ed a qualunque altro di conformarvisi. Oltre a
tutto questo, posciachè ad ognuno era notorio che tutti quelli i quali
avevano partecipato nella formazione, pubblicazione o esecuzione delle
ordinanze medesime, erano incorsi in tutte le censure ecclesiastiche,
così dichiarava che da queste censure non potessero essere liberati,
nè riceverne l'assoluzione, eccettuati i casi di pericolo di morte, se
non da lui stesso, o dal pontefice che dopo di lui sedesse. Dichiarava
altresì che, a volere che l'assoluzione data in pericolo di morte
fosse salutare e valida, era condizione indispensabile che, passato
il pericolo, gli assolti ritrattassero e disfacessero quanto avevano
fatto di attentatorio alle immunità ecclesiastiche; le quali cose non
facendo, rimarrebbero alle medesime pene sottoposti. Voleva finalmente
che, siccome era notorio che le sue presenti pontificali lettere
incontrerebbero pur troppo delle difficoltà, per essere pubblicate
ed affisse con sicurezza negli Stati di Parma, Piacenza e Guastalla,
le pubblicazioni fatte nei luoghi soliti di Roma annodassero quelli
ai quali appartenevano, come se fossero loro state nominatamente e
personalmente intimate.
Parlossi altamente e fecesi un rumore grande pel mondo cattolico, così
delle risoluzioni del duca di Parma, come del monitorio del papa; ed in
mezzo ai molti discorsi, il duca Ferdinando, confortato dal Dutillot,
primieramente con suo editto del 13 di marzo 1768 proibì severamente
il monitorio in tutti i suoi Stati. Poi a dì 6 del seguente aprile
presentò, per mezzo dei ministri delle tre corone di Francia, Spagna
e Due Sicilie, al papa una rimostranza de' suoi ministri, in cui e
contro la pontificia decisione protestava, e, le sue ragioni adducendo,
dimostrava che le prammatiche e gli editti, di cui si trattava, avevano
fondamento nel diritto sovrano e nella incontrastabile utilità dello
Stato.
S'infiammarono dall'una parte e dall'altra gli spiriti. Uscirono
alla luce scritti moltiplici, alcuni in favore di Roma, molti in
favore di Parma. E siccome il papa, nel principio del suo monitorio,
aveva chiamato col nome di _suoi_ i ducati di Parma e Piacenza, si
riandarono le antiche cose, per conoscere quale fosse o non fosse la
sovranità della Sedia apostolica su di quella bella e doviziosa parte
d'Italia. Questi sostenevano che Parma e Piacenza fossero anticamente
parte dell'esarcato, e, per conseguenza, devolute con le altre città
di quell'antico Stato alla santa Sede; che i pontefici le avevano
senza contrasto possedute come vere e legittime possessioni della
Sede medesima; che i trattati posteriori, per cui s'erano variate le
sorti delle due città e date in mano di altri lignaggi principeschi
non avevano potuto cambiare la natura delle cose, nè aver la Sede
apostolica mai consentito alle mutazioni di signoria, ma anzi sempre
protestato contro le medesime. E venendo alle disposizioni del
duca Ferdinando contenute nelle prammatiche ed editti, dei quali si
contentava il merito, dicevano essere evidente ch'essi avevano posto
la falce nella messe altrui, ed intaccato enormemente i diritti della
potestà ecclesiastica. Se v'era abuso, esclamavano, non avere mai Roma
ricusato di darvi riparo coi principi secolari intendendosi, nè esser
ella per ricusare; ma essere nel tempo medesimo evidente che l'utilità
e nemmeno la necessità non danno il diritto, e che quando il mandato
non c'è, tutto quello che si fa è irrito, invalido e nullo, nè fare
si può senza ingiuria di colui al quale il fare si aspetta; se la
contraria dottrina prevalesse, si turberebbero tutte le giurisdizioni e
il mondo ritornerebbe nel caos, e la umana società si dissolverebbe.
I difensori di Parma non se ne stettero oziosi, e pubblicarono parecchi
scritti, fra i quali si notarono principalmente quelli di Giambattista
Riga, Piacentino, avvocato fiscale del duca. Del supremo dominio
parlando, asserirono che non mai la santa Sede l'aveva posseduto, e che
era favola di menti o non sane o ignoranti o bugiarde il pretendere che
Parma e Piacenza fossero anticamente membri dell'esercato di Ravenna,
perciocchè era notorio che furono sempre città soggette ai Lombardi,
o libere colle proprie leggi, o appartenenti al ducato di Milano.
Quanto alla immunità ecclesiastica, i difensori del duca allegavano
che quanto è vero che il governo della Chiesa in ciò che riguarda
le cose meramente spirituali è ed esser deve libero e independente
dall'autorità temporale; tanto da un'altra parte è certo che la potestà
che la Chiesa esercita sopra alcune cose temporali, come sono appunto
i beni della terra e le eredità e le successioni, è una concessione
de' principi, che essi possono o modificare o regolare, od anche
sopprimere, quando ciò per l'utilità dello Stato fosse richiesto; e
citando a sostegno dello loro opinioni santo Agostino, san Girolamo,
santo Ambrogio, continuavano a dire che nuova non era nella Chiesa la
prammatica del duca, e che esso non aveva fatto altro che imitare altri
principi, e queglino stessi dei quali la Chiesa sommamente si lodava.
A questo modo gareggiavano fra di loro e si davano l'un l'altro molte
brighe la corte Romana ed il duca di Parma; ma nissun di loro si
dipartì dalle prese risoluzioni, e tanta fu la prudenza del governo
del principe secolare, che nissun grave inconveniente nacque nel ducato
per l'interdetto messo sopra gli esecutori della sua volontà, nè pure
originandosi quelle turbazioni di alcuni ordini religiosi che parte
contristarono, parte sdegnarono Venezia ai tempi del suo interdetto.
Con tanta maggior franchezza il duca procedeva in questa bisogna che
le altre corti borboniche, le quali per un trattato del 1761, che
chiamarono il patto di famiglia, s'erano fra di loro collegate ad
ogni bene e ad ogni male, ed a conformità, anzi unità di consigli,
avevano preso focosamente a favorirlo. In fatti, non così tosto il
monitorio del papa era pervenuto a loro notizia, non si contentarono di
sopprimerlo ne' loro Stati, ma richiesero fortemente il papa della sua
rivocazione, la quale non avendo potuto ottenere, vennero finalmente
a determinazioni più rigorose e più efficaci. Il re di Francia, come
si è già detto al finire dell'anno precedente, fece occupare da' suoi
soldati, condotti dal marchese di Rochechouart, la città di Avignone
ed il contado Venosino; poi mandò commissarii del parlamento di
Provenza a prenderne possessione in suo nome, e ricevere il giuramento
di fedeltà, come di paese già annesso alla sua corona, dai consoli,
sindaci ed abitanti. Dal canto suo il re di Napoli pose le mani addosso
nel medesimo modo a Benevento, mandandovi soldatesche e commissarii, e
diceva che Benevento era suo, come il re Luigi d'Avignone e del contado
affermava.
Siccome poi ai Borboni non isfuggiva che la durezza del pontefice
procedeva principalmente dai consigli de' Gesuiti, che già avevano
cacciati da' loro Stati, e da quelli del cardinale Torrigiani, suo
ministro di Stato, prelato tutto dedito a que' padri, addomandarono
con molto calore ch'egli la compagnia di Gesù interamente sopprimesse.
Ma Clemente, che prestava molta fede alle loro parole, ed a cui
rincresceva di privare anche in Italia di quel sussidio la santa
Sede, giacchè negli altri regni della cristianità l'aveva perduto,
fermò l'animo e resse alle istanze, nè si lasciò volgere ai desiderii
de' principi. Dalla quale sua fermezza procedette che le cose
non si addomesticarono nè col duca di Parma, nè coi principi suoi
consanguinei, finchè Clemente XIII visse. Ei conservò il suo monitorio,
Parma i suoi ministri, Francia Avignone, Napoli Benevento, Spagna i
suoi risentimenti.
Oltre a questi disturbi di Parma, gravi e veramente pericolose erano
per altre parti le condizioni della Chiesa al momento dell'esaltazione
già detta del Ganganelli.
Non poco sdegno nudriva Giuseppe re di Portogallo contro di Roma,
per vedere ancora in piè gl'Ignaziani che tanto egli odiava. Vi era
anche in quel reame pericolo di scisma, cioè di separazione dalia
santa Sede, minacciando il re di creare un patriarca in Lisbona per
l'esercizio della suprema autorità pontificale, e di non avere più
altra comunicazione col pontefice romano che quella delle preghiere.
Non minori minaccie faceva la Spagna, la quale continuamente fulminava
contra i Gesuiti e con sinistre voci protestava che se di loro come
desiderava sentenziato non fosse, verrebbe a qualche risoluzione
funesta a Roma.
La Francia riteneva Avignone, come si disse di sopra, e grandi
risentimenti faceva sì per l'oltraggio fatto al duca di Parma colla
scomunica, e sì per le lunghezze che il papa andava framettendo per
conformarsi ai desiderii di Spagna ed a' suoi proprii per la domandata
soppressione.
Per le narrate cose il duca di Parma irritatissimo anch'egli si
dimostrava, e consigliato da ministri savii e fermi, faceva le viste di
non temere i fulmini del Vaticano.
Non riceveva la Sedia apostolica minori molestie dal re di Napoli, il
quale, oltrechè perseverava nello appropriarsi Benevento e Pontecorvo,
si spiegava eziandio di volere più avanti nello Stato ecclesiastico
allargarsi; e da riforma in riforma procedendo, dava a divedere che,
poichè il papa non voleva fare avrebbe fatto egli. In somma le immunità
ecclesiastiche continuavano ad andare in ruina nel regno. Il re,
considerati gli abusi che nascevano dalla riscossione delle decime
ecclesiastiche, le abolì intieramente, ordinando che l'erario regio
supplirebbe con una conveniente pensione in favore di que' curati, ai
quali, per la soppressione delle decime, restasse una congrua minore
di centotrenta ducati. Andava anche un giorno più che l'altro tarpando
l'ali alla nunziatura, con ridurre molte cause miste all'autorità
ordinaria dei tribunali regi. Queste mosse principalmente davano
Tanucci e Carlo di Marco.
Venezia, senza ricorrere all'autorità pontificia, di propria volontà
riformava le comunità religiose: lo spirito del Sarpi in lei sempre
viveva; nè valse a Clemente XIII che da Venezia sortito i natali
avesse per poter la novella tempesta schivare. Benchè in grazia di
lui avesse cassato il decreto, emanato già per risentimento delle
decisioni intorno ad Aquileia, che proibiva gli abusi di certe dispense
e delle indulgenze che per denaro si concedevano, non si rimase però
che qualche secreto rancore gli animi dei padri ancora non alterasse,
e non si manifestasse con rigori di dazii e di gabelle sui confini
contro i sudditi dello stato ecclesiastico. Ma più specialmente
nell'anno addietro il senato avvertì che le ricchezze del clero erano
divenute tanto esorbitanti che di grave scandalo riuscivano ai privati
e di molto danno al pubblico, però che le mani morte possedevano una
rendita quasi eguale a quella dello Stato. Quindi prese rigorose e
valide misure tanto sui beni de' cherici che sopra le persone loro;
ma noi potè fare senza che il papa gravemente se ne risentisse. Ed
in fatti con un suo breve dell'8 ottobre di quell'anno si lamentò
colla repubblica ch'ella avesse, oltrepassando i termini dei proprii
campi, posto i piedi in su quelli d'altrui, e sotto specie di regolare
interessi attinenti allo Stato, si fosse fatto lecito d'intaccare la
giurisdizione ecclesiastica; e dopo noverate ad una ad una le cose che
teneva illecite, «alzava la paternale voce, e la repubblica ammoniva
che da tali perniziose e scandalose determinazioni recedesse.» Rispose
il senato, e stette fermo nelle sue risoluzioni: il papa nuovamente
esclamava con altro suo breve del 17 dicembre sempre dello stesso anno,
ed, al senato le parole indrizzando, l'avvertiva che, recate dalle di
lui lettere nuove ferite al suo paterno cuore, dovea di nuovo parlare,
di nuovo ammonire, pregare, lamentarsi, biasimare. Ricevuto il breve
del papa, il senato non si rattenne in silenzio; ma non si rimosse
da quanto ordinato aveva, nè il pontefice venne al passo estremo
di pronunziare l'interdetto contro la repubblica; e come tal era la
condizione sua che il consentire gli pareva impossibile, il contrastare
senza frutto, le cose in quello stato si rimasero.
La Polonia stessa, che sempre era stata devotissima alla santa Sede,
mossa dall'universale consentimento e da quell'influsso contrario
che contro Roma si spandeva, cominciava a vacillare ed i privilegii
della nunziatura diminuiva, e poneva un freno alla volontà della curia
romana.
Alle quali cose se vogliamo aggiungere quello spirito filosofico
che d'ogni intorno spirava, e che metteva in dubbio non solamente le
prerogative della Sedia apostolica, ma ancora le verità stesse della
fede, si verrà conoscere a quale e quanta tempesta avesse ad ostare il
nuovo pontefice, ed in qual pericoloso frangente si avvolgesse.
Stava il mondo in grandissima aspettazione di vedere a quali consigli
si atterrebbe, e quali mezzi userebbe Clemente XIV per rivolgere in
meglio le disposizioni dei principi. Il cedere e il non cedere in tali
congiunture può essere ugualmente di danno, quello, perchè mette le
cose domandate per perdute, questo, perchè mette pericolo che se ne
perdano delle maggiori. Nè si ha nemmeno certezza che il concedere
faccia moderazione in chi domanda; imperciocchè il più delle volte
succede che più si dà e più si domanda. Contuttociò Ganganelli vedeva
evidente la necessità di contentare i principi, perchè, se di soverchio
si contrastasse loro, era da temersi che dessero della scure sulla
radice stessa dell'autorità pontificia, cosa alla quale gli scritti
dei filosofi e dei giansenisti stessi gagliardamente spingevano. Il che
ottimamente considerato, principiò a dare segni di quanto voleva fare.
Nominò suo segretario di Stato il cardinale Pallavicino, personaggio
grato alle potenze; scrisse ai monarchi lettere pacifiche ed amorevoli.
Lieti augurii eran questi, che già una causa speciale e viva
aveva fomentati, il viaggio, cioè, in Italia in quest'anno fatto
dall'imperatore Giuseppe. Vide Napoli, Roma e Firenze, vide la sua
Milano. Padre de' popoli più che re in ogni luogo si dimostrava,
il povero, più che il ricco in cale aveva, non abborriva dalle
tortuose scale ed anguste, nè aveva a schifo gli umili tugurii; il
più bell'ornamento di cui un possessore di regni possa far mostra,
portava seco; imperciocchè l'accompagnavano la semplicità del costume,
l'affabilità del discorso, la bontà dell'animo, e meglio amava sentirsi
chiamare benefico che augusto. La sua vivida mente in ogni occorrenza
appariva; figliuolo buono ed ingegnoso d'ingegnosa e buona madre.
Amava i dotti, e viaggiando gli accarezzava come stelle, fra la volgare
oscurità onorandoli. Pio ancora lo vedevano i popoli e religioso, dal
che argomentavano che non per tiepidezza di fede, ma per ardore del
ben fare richiamava a nuovi ordini le cose giurisdizionali e la vita
de' chierici. Le accoglienze che generalmente i popoli gli facevano,
e particolarmente gli ecclesiastici, erano segno manifesto del quanto
fossero cambiati i tempi da quelli di _Barbarossa_. Quando visitò
Roma, l'accompagnava il suo fratello Leopoldo, granduca di Toscana.
Nè l'uno nè l'altro si fecero, come il Medici, canonici di San Pietro.
Correva il tempo dell'interregno per la morte di Rezzonico, ed avanti
l'esaltazione del Ganganelli, il sacro collegio, che allora governava
la città, l'accolse con ogni più lieta e festevole dimostrazione,
deputando per complimentarlo ed accompagnarlo entro quelle festose
mura i principi Conti, Borghese, Aldobrandini, Doria, Barberini,
di Bracciano, di Piombino. Come prima in cospetto della città era
comparso, i principi deputati, avendo con esso loro il governatore di
Roma, con graziose parole l'avevano onorato; offrirongli la guardia
svizzera, che ricusò. Gli si diedero festini magnifici nelle case
di Bracciano, Corsini, Santacroce e Salviati: tutto era magnifico
e bello, ma il più magnifico e più bello era la semplicità del
fare e del favellare. Maravigliosa fra le altre fu la festa datagli
dall'ambasciatore di Venezia; ad onoranza e a disegno, imperocchè a
quel tempo Giuseppe vivesse con qualche amarezza verso la repubblica.
I due fratelli visitarono con divozione e maraviglia il famoso tempio
ben degno del principe degli apostoli, tempio d'una monarchia che
pensiero fu di un repubblicano. Desiderarono di vedere il conclave, che
a que' dì si teneva per l'elezione del nuovo papa; si apersero loro le
porte. Giuseppe domandò quando la elezione si farebbe, ed i cardinali
risposero aspettarsi i cardinali dall'estero; ed interrogando poscia
qual fosse il conclave che aveva durato più lungo tempo, gli venne
risposto, quello di Benedetto XIV, che più di sei mesi soprastette a
far l'elezione; al che soggiunse: «Or bene poco importa che il conclave
duri anche un anno, purchè nominiate un pontefice simile al Lambertini
che fu amico a tutti.»
«Mi vien voglia, dice uno storico illustre, di raccontare i presenti
che il sacro collegio ed il governatore di Roma fecero a Leopoldo,
simili a quelli di Giulio II, che mandò un carico di presciutti e
buoni vini al parlamento d'Inghilterra per renderselo benevolo; tre
piatti di vitella mongana adorni di fiori e nastri; di vini del paese
otto casse; di vini forastieri fruttati dalle Canarie, da Malaga, da
Cipro, sedici barili; di rosolii due; di pesci delicati, come storioni,
ombrine, tre; di zucchero, di zuccherini, di caffè, di cioccolata,
buona quantità, con frutti, confetti di ogni sorta prugnole, cedrati,
poponi, olive; e v'erano anche due statue di butirro alte ciascuna un
palmo: poi pavoni, fagiani, galline rare acconce in gabbia, presciutti,
mortadelle ed altri salumi preziosi. Questi pel gusto, i seguenti per
l'intelletto: dodici tomi in foglio di viste e prospettive di Roma con
parecchi quadri di mosaico e di tappeti istoriati oltremodo belli.
Vennero quindi i presenti più speciali di Roma, reliquie incassate
in oro del peso di sedici libbre con grande numero di pietre preziose
incastonatevi. Anche Giuseppe ebbe i suoi doni, e furono reliquie.»
Ai 17 di marzo i tre prelati deputati scrissero lettere all'imperatrice
madre, in nome del conclave, notificandole, avere il sacro collegio
esultato di tutta allegrezza, vedendo fra le mura di Roma e nel grembo
degli elettori del pontefice i suoi due figliuoli augusti. Narrarono
quanta fosse stata la pietà loro e la venerazione verso le cose sante;
dimostrarono quanto il sacro consesso desiderasse e quanto sperasse
ch'ella degnasse proteggere e crescere lo splendore e le prerogative
degli ordini religiosi, e conservare i diritti, le possessioni
e dominii della Chiesa. Testimoniarono infine, niuna cosa più
ardentemente desiderare che una pace inviolabile ed una perfetta unione
tra il clero ed i principi cattolici.
Partissi Giuseppe da Roma, poi dall'Italia, lodato e venerato anche da
coloro che di lui e delle sue intenzioni sospettavano. Ma i suoi detti
e fatti restarono nella memoria degli uomini, come segni e pegni di un
più felice avvenire.
Nello Stato di Milano regolaronsi le cose delle mani morte a foggia
di quanto erasi fatto in Parma ed a Venezia, ed istessamente quanto
riguardava agli ordini religiosi. Levata poi l'imperatrice Maria
Teresa di mano all'inquisizione ogni facoltà sui libri, avvocò a sè le
cause a questa materia relative, e statuì che la censura dei libri si
appartenesse ai magistrati da lei deputati.
Anche in Parma, oltre alle cose più sopra discorse, il duca,
lamentandosi, in sul limitare stesso d'un decreto, che una potestà
straniera esercitata da' claustrali sotto titolo d'Inquisizione del
santo Officio, si fosse ne' suoi Stati introdotta, volle ed ordinò che,
come morto fosse lo inquisitore di Parma, le cause dovessero giudicarsi
da' vescovi, e nissuno più si ardisse, altro che essi, ingerirvisi.
Poco appresso mori l'inquisitore, i vescovi assunsero il carico;
promessa loro dal principe, ove abbisognasse, l'assistenza del braccio
secolare. I detenuti nelle carceri del santo Officio furono dichiarati
tenersi prigioni a nome del duca sin che fossero le loro cause spedite,
dato anche ai vescovi il comandamento d'informare la potestà secolare
delle loro sentenze. E nel medesimo tempo il duca regolò i conventi,
espulse i religiosi forestieri, salvo chi per età o per merito o
per dottrina si meritasse di dimorare. Delle confraternite e luoghi
pii ordinò che, secondo l'utilità, fossero o soppressi o riformati o
incorporati.
Il marchese Tanucci e Carlo di Marco, ministri del re di Napoli, lo
movevano a statuire, come statuì, che i conventi che non potevano
mantenere dodici frati fossero soppressi, e i frati distribuiti in
altri conventi, con obbedienza di tutti verso gli ordinarii; che
nissuno prendesse l'abito claustrale prima di ventun anni, nissuno
professasse prima dei venticinque; che le rendite dei conventi fossero
depositate nel banco di Napoli a benefizio ed uso dei conventi
per quella rata che sarebbe creduta necessaria; che le cause loro
in prima istanza si giudicassero dui vescovi, e in appello da un
tribunale supremo instituito dal re; che i conventuali forastieri
tornassero nei loro paesi; che i benefizii e le dispense di affinità si
conferissero dai vescovi; delle rendite delle confraternite, cappelle,
congregazioni, una parte restasse assegnata al culto divino, e
dell'altra il re disponesse per opere pie; soprantendesse un magistrato
apposta creato dal re alle rendite dei vescovati, e se dei più ricchi
qualche cosa soprabbondasse, si ripartisse tra le chiese povere ed i
vescovi meno facoltosi.
In Toscana, in cui, sino dal 1751, per opera del reggente
Richecourt, del senatore Rucellai e di Pompeo Neri, si erano fatte
varie ordinazioni nella materia delle mani morte ed in quella
dell'inquisizione, specialmente intorno alle carcerazioni, ai castighi
e alla censura dei libri, in quest'anno, per un ordine del granduca
Pietro Leopoldo, i soldati andarono per le città, e tutti i rifuggiti
dalle chiese levarono, e li portarono nelle carceri della giustizia
civile; in pari tempo il granduca stesso scrivendo a Roma, gli uomini
nefarii non contaminare più col loro feroce aspetto le sedi di Dio,
essere nelle carceri ordinarie condotti, ma stare e vivere per loro
l'immunità, sospendersi contro d'essi, per rispetto dell'antico asilo,
la mano regia, nè la giustizia ricercarli dei commessi delitti. E i
rei per verità puniti non erano, ma per la sua deliberazione ciò almeno
aveva il buon principe conseguito che, chiusi in carceri sicure, quei
tormenti della società non potevano più uscire a spaventarla. Poscia
pel futuro Leopoldo decretò che i rifuggiti, in qualunque luogo si
fossero ricovrati o di qualsivoglia delitto colpevoli, salvo i falliti
di buona fede, ne venissero levati dai soldati della mano regia, per
essere condotti innanzi ai tribunali ordinarii, e castigati secondo
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