Annali d'Italia, vol. 8 - 08
1764, ordinò che dentro otto giorni i Gesuiti uscissero del regno,
qualora non giurassero di rinunziare all'istituto loro. Sulla fine di
quell'anno stesso, il re, aderendo al voto di tutti i parlamenti del
regno, pronunciò l'abolizione totale de' Gesuiti in Francia.
A tal colpo Clemente XIII, che aveva a sè medesimo persuaso la
conservazione de' Gesuiti toccare la coscienza, perchè li teneva
utili alla religione ed alla Chiesa, rotto il silenzio, pubblicò, il 7
gennaio di quest'anno, la bolla _Apostolicum_, che confermava i Gesuiti
in tutti i loro privilegii, giustificandoli su tutte le accuse, e per
capacità, zelo e servigio con somme lodi innalzandoli.
Se mai altra bolla si sparse rapidamente nel mondo, questa fu presto
in mano di tutti, specialmente in Francia, dove levò altissimo
rumore. Denunziata quindi al parlamento, verso la metà di febbraio, il
parlamento stesso emanò un decreto, con cui rimase la bolla soppressa
e proibita, con espressa inibizione di accettarne per l'avvenire
verun'altra, se non fosse accompagnata del regio beneplacito. Ed
in Portogallo, fatta la bolla soggetto di molte discussioni, uscì
finalmente fuori un rescritto o decreto del re, col quale veniva
dichiarata di niun effetto rispetto a' suoi dominii e regni,
proibendone qualunque esemplare non solo riguardo al non poterne fare
uso alcuno, ma ordinando eziandio che tutte le copie si dovessero
consegnare al così detto tribunale dell'inconfidenza. Dichiarò inoltre
il re eguale intenzione e volontà riguardo a tutti gli altri brevi
e scritture della medesima natura che non avessero ottenuto prima la
reale approvazione; ordine sovrano che fu registrato in forma di legge
nella segreteria, indi pubblicato nella gran cancelleria della corte e
del regno.
In Corsica, Marbeuf cominciò ad usare il ministero di pace, promettendo
da parte del re Luigi fermezza e sicurtà ai patti di concordia
che con Genova fossero stipulati. Varii negoziati s'intavolarono
tanto in Corsica con Paoli e col colonnello Buttafuoco da parte del
Marbeuf, e dal conte della Tour du Pin, che per la Francia e per
Genova trattavano, quanto a Versaglies, dove per questo fine della
Tour du Pin e Buttafuoco si condussero. L'affare si maneggiò, come
già altre volte, senza effetto, perchè si diede in quel perpetuo
intoppo, che i Corsi volevano la loro independenza, e Genova non la
voleva consentire. In fatti gl'isolani domandavano lo Stato libero e
sovrano, e la possessione di tutte le piazze, che i Genovesi ancora
tenevano. Chiedevano inoltre che la Capraia e Bonifazio fossero loro
dati in feudo, obbligandosi di pagare a Genova, per ricognizione della
feudalità, un tributo annuale di quaranta mila lire, che era quanto i
Genovesi, siccome essi stessi affermavano, ricavavano ogni anno dalla
Corsica. Per maggior dimostrazione della dipendenza feudataria di que'
due luoghi, i Corsi offerivano di mandare ogni dieci anni uno de' loro
primarii personaggi a chiedere l'investitura. Promettevano altresì di
consentire ai Genovesi il libero commercio e senza pagamento di dazii
in tutte le terre e mari di Corsica.
Anno di CRISTO MDCCLXVI. Indiz. XIV.
CLEMENTE XIII papa 9.
GIUSEPPE II imperadore 2.
L'Italia, fatta dalla natura delizia dell'Europa, godea pur essa delle
delizie della pace, nè il rimbombo de' suoi bronzi guerrieri interruppe
in quest'anno i giulivi spettacoli che ne contrassegnarono quasi tutti
i giorni, se non fosse in sul mare presso le lontane coste dell'antica
Libia.
In questo silenzio di avvenimenti maggiori, crediamo di dover
consegnare in queste carte la memoria delle circostanze che
accompagnavano il pagamento dell'annuo tributo solito a contribuirsi
alla santa Sede dai sovrani delle Due Sicilie, e consistente in un
cavallo bardato, detto chinea, ed in sette mila ducati del regno.
Ogni anno, la vigilia de' Santi Apostoli, portavasi il ministro
plenipotenziario del re al portico della basilica vaticana, e
colà, presentando al pontefice la chinea, e pagando il denaro al
tesoriere della camera apostolica, proferiva in latino una formola
già stabilita, e che in lingua italiana così sonava: «N. (il nome
del re), mio clementissimo signore, manda a vostra santità questo
cavallo decentemente ornato, ch'io presento in nome di lui, e sette
mila ducati, per solito tributo del regno di Napoli, pregando Dio
Ottimo Massimo che vostra santità possa per molti anni riceverlo pel
bene e vantaggio della cristianità e per l'accrescimento della santa
nostra cattolica fede. Sono questi i voti di sua maestà ed i miei
proprii umili e ferventissimi.» Al che il papa rispondeva: «Riceviamo e
volontieri accettiamo questo censo dovuto a noi ed alla Sede apostolica
pel diretto dominio del nostro regno delle Due Sicilie di qua e di là
del Faro. Al nostro carissimo figlio nel Signore N. preghiamo da Dio
salute, ed a lui, ai popoli e vassalli diamo l'apostolica benedizione,
in nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. Così sia.»
La Toscana, che per quasi trenta anni era stata governata da un privato
delegatovi dal granduca Francesco, che faceva la sua residenza a
Vienna come imperator di Germania, prestò questo anno, nel dì ultimo
di marzo, con vera espansione d'animo, il giuramento di fedeltà ad
un sovrano proprio, all'arciduca Leopoldo, di cui presagiva il beato
reggimento. Ed in fatti il novello granduca tutte volse le sue cure a
render florido il proprio Stato, e fin da questi primordii die' opera
al miglioramento delle maremme di Siena, a quello della moneta, a
far prosperare la marineria, a sistemare le regole della giustizia. A
Livorno, dove fu splendidamente e giulivamente accolto, visitò tutto,
animò tutto, e pose la prima pietra alla fabbrica d'un gran quartiere
per la marineria. Finalmente fece aprire una strada che da Pistoia
arrivasse sino a' confini del Modonese, strada tante volte indarno
disegnata e che tornava a reciproco vantaggio degli abitanti de' due
Stati.
Nè men sollecito del nuovo sovrano di Toscana nel promuovere la
circolazione e libertà del commercio fu il giovinetto monarca delle
Due Sicilie. L'audacia dei corsari barbareschi infestava continuamente
le spiaggie della Calabria e delta Sicilia, non che il rimanente
dell'Italia. Per porre una volta freno alla loro insolenza, e
provvedere ad un tempo e tutelare la tranquillità del commercio, stimò
il re opportuno di conchiudere sull'importante oggetto un trattato con
la Francia, e fare che intanto rimanessero interrotte e sospese ne'
porti di quel regno le visite de' bastimenti napoletani e siciliani,
e lo stesso si osservasse nei porti delle Due Sicilie riguardo alle
navi franzesi. E scopo essendo della negoziazione il francare ed
assicurare il commercio in quelle parti principalmente dove sarebbe
stato più esposto agl'insulti dei Barbareschi, così, attendendo
che si concludesse, fece il re di Napoli gettare in acqua sei nuovi
sciabecchi, due galere e quattro galeotte, affinchè, mettendosi a
corseggiare, coprissero, e difendessero le costiere dei proprii Stati,
ed inseguissero i legni dei pirati, ordinando nel tempo stesso che nel
porto di Napoli stessero sempre parate una galera ed una galeotta,
quella a difesa del porto stesso, questa per recarsi ovunque la
chiamasse il bisogno.
Già la Francia aveva anch'essa nel Mediterraneo una squadra di vascelli
comandati dal principe Beauffremont. Con questa fece egli una visita
alle piazze di Barbaria, e prima a quella d'Algeri, che da alquanti
mesi avea perduto il vecchio suo beì, ed il cui successore, Mahomet
Effendi, ostinatissimamente ricusava qualsiasi componimento colla
Spagna e coi Napoletani. Ma ben lo persuase la comparsa della squadra
franzese, come si persuasero ancora gli altri beì di Tunisi e di
Tripoli; a tal che il principe Beauffremont ottenne quanto desiderava
ed avuta promessa solenne che sarebbero rispettati i legni delle due
nazioni, oltre a quelli che spiegavano bandiera franzese, se ne tornò a
Tolone, lieto della sua corsa e della felice riuscita.
Dopo la vista della squadra franzese, il beì di Tripoli n'ebbe
un'altra per parte de' Veneziani. Erano seguiti a danno di varii legni
mercantili di questa repubblica gravi e frequenti insulti in onta alla
fede dei trattati da circa due anni fermati tra la repubblica stessa
e le reggenze africane. Ora, risoluto il senato a non più sofferirne
la mala fede, ed a trarne solenne vendetta, fu messa alla vela una
squadra sotto gli ordini del cavaliere Giacomo Nani, il quale, non
sì tosto schierò nel porto di Tripoli le sue navi e fece sonare i
cannoni, vide a bordo della propria nave il beì, presto a dargli tutte
le convenevoli soddisfazioni ed a pattuirvi quelle condizioni che
fossero state di aggradimento del veneziano senato. Furono dunque dalla
reggenza sborsate rilevanti somme per salvarsi dal giusto risentimento
della repubblica, e, restituiti tutti i bastimenti stati predati, volle
in oltre il beì che fossero severamente gastigati i rais o capitani
che aveano insultata la bandiera di Venezia; e se non era il console
della repubblica che caldamente s'interpose per mitigare l'asprezza
ed il rigore dei minacciati gastighi, avrebbero avuta mozza la testa.
Fra' patti convenuti fu principalmente questo: che i limiti oltre i
quali passare non potessero i legni corsari si dovessero estendere
per l'avvenire dal capo di Santa Maria sino a quello della Sapienza;
dal che ne derivò un doppio vantaggio, perchè, rimovendosi dalle foci
dell'Adriatico le corse di que' Barbari, rimanevano nel tempo stesso
difese le coste del regno di Napoli, e meglio protetto il commercio
delle altre nazioni.
Anno di CRISTO MDCCLXVII. Indiz. XV.
CLEMENTE XIII papa 10.
GIUSEPPE II imperadore 3.
Essendosi rotte le pratiche a ragione di quello scoglio insuperabile
dell'indipendenza, i Corsi, condotti da Achille Murati, fecero una
fazione improvvisa sopra l'isola Capraia, antico membro del loro regno,
e se ne impadronirono, successo, che siccome molto afflisse i Genovesi,
così diede non poca allegrezza ai Corsi, che concepirono migliore
speranza, e più sicuramente augurarono dello stabilimento della loro
libertà.
L'incomoda ed oggimai troppo lunga tenzone ora pende al suo fine.
Era manifesto ad ognuno che Genova si trovava inabile a ritornare i
suoi antichi sudditi all'obbedienza. Quarant'anni di sforzi inutili,
oltre le antiche perturbazioni, che tanto travaglio le avevano dato,
bene dimostravano che la ribellante isola ero per lei perduta. Non
erano valse le tregue, non le paci, non le armi; Genovesi e Corsi
non potevano vivere insieme se non come esteri gli uni verso gli
altri e non più come nel medesimo ordine misti ed associati. Il valor
guerriero dei Corsi, il valore e la prudenza di Paoli si dimostravano
insuperabili ed invincibili dalla potenza genovese. E in ciò recava
eziandio un gran momento l'avere Paoli riunito in concordia tanti
animi discordi, cosa che sin allora non si era veduta. Oltre a questo,
quell'uomo aveva saputo ordinare una libertà più ancora fondata sulle
leggi che sulle forti inclinazioni d'una gente rozza e quasi ancora
selvaggia; e colla libertà introduceva la civiltà. Le quali cose tutte,
mentre somministravano più efficaci mezzi di resistenza, rendevano agli
uomini più cara la causa corsa. Il secolo stesso la favoriva, e Genova
vinta diveniva anche odiosa. Già i popoli cominciavano a maravigliarsi
che quella Genova stessa che nel 1746 con sì generoso e forte animo
si era rivendicata in libertà, ora tanto odio esercitasse contro una
nazione del pari forte e generosa, ed ostinatissimamente affettasse
l'assoluto dominio. L'opinione dava favore alla Corsica; ciò non era
nascosto a coloro che reggevano la repubblica, e già entravano nei
supremi magistrati nuovi pensieri.
Col medesimo passo nascevano le voglie forestiere. Vi era chi
voltava a suo profitto I'impotenza di Genova. La Corsica, piena
di abitatori forti e guerrieri, situata in opportuno luogo tra la
Francia e l'Italia, copiosa di generi preziosi, felice per foreste
stupende, sicura per porti spaziosi e comodi, molto piaceva a chi
coll'Inghilterra gareggiava di possanza marittima nel Mediterraneo.
Vecchio pensiero era questo: i soldati a parecchie fiate mandati
nell'isola, tante diligenze, tanti amorevoli consigli, il tante volte
interporsi a dolcezza tra i Corsi vinti e gli sdegnati signori, ciò
era per allettare i popoli, per assuefarli ai volti, alla favella,
all'imperio di Francia. Brevemente, la Francia agognava la Corsica.
Ciò non ostante, pareva poco generoso procedere il divenire da
ausiliario padrone, ma confidava nella necessità, che avrebbe sforzato
i Genovesi ad offerirsi. E un accidente impensato, mettendoli in
maggiore travaglio ed in qualche disgusto colla Francia, fece piegare
il contrasto a quel segno dov'ella mirava. Il re di Spagna aveva in
aprile di quest'anno espulsi i gesuiti da' suoi regni: e il papa, a
cui parevano in troppo grande numero, perciocchè sommavano a parecchie
migliaia, non avea permesso che si ricovrassero nello Stato pontificio.
La Spagna ricercò ed ottenne da Genova che avessero ricetto in Corsica,
e quivi furono destinate per loro seggio le piazze dove i Franzesi
tenevano presidii.
I Genovesi, in ciò compiacendo alla Spagna, avevano dispiaciuto alla
Francia, che anch'essa aveva pochi anni innanzi espulsi gl'Ignaziani
da' suoi dominii, sì che poco mancò che per questa cagione non si
partisse dall'amicizia di Genova. Con acerbissime parole se ne lagnò
col senato, protestando che ne avrebbe fatto giusti risentimenti; ed
in fatti il re mandò ordine a Marbeuf che tosto sgombrasse dalle piazze
dove entrati fossero i Gesuiti.
Non così tosto vide Marbeuf a comparire in Algaiola, Calvi ed Aiaccio
gli ospiti che la Spagna espelleva, che, uniformandosi alla volontà
del re, le lasciò, ritirando i passi verso Bastia e San Fiorenzo.
Subitamente Algaiola venne in potere dei nazionali; per poco anzi
stette che Calvi non vi venisse, come vennevi la città di Aiaccio, e la
cittadella stessa, la quale, battuta aspramente dai Corsi e ridotta in
grandissima necessità di viveri, già stava in sul punto di darsi. Così
i Genovesi, per aver dato ricovero agli esuli di Spagna, sdegnarono
la Francia, e perdettero parecchi forti ed importanti luoghi; chè i
soldati franzesi cessero il luogo ai monaci spagnuoli. Esuli erano
questi religiosi, e per tale titolo meritavano che alcuno cura ne
prendesse; ma quivi portavano un fatale pregiudizio. Veramente i Corsi
se ne prevalevano, nè mai furono così vicini al conseguimento totale
dei loro pensieri e di arrivare a quella franchigia che, fin allora
stata sanguinosa e torbida, speravano finalmente di vedere felice,
lieta e sicura.
Mentre la fortezza di Aiaccio stava in grave pericolo, e nelle altre
terre ancor tenute da' Genovesi si trepidava, pervenne avviso che tra
Marbeuf e Paoli era stata conchiusa una sospensione di offese da durare
insino a che, compiti i quattro anni di soggiorno stati stipulati, i
Franzesi dovessero fare la loro partenza dall'isola, il qual termine
era di pochi mesi lontano. La Francia minacciosamente affermava di non
voler acconsentire ad alcuna prolungazione: assai, diceva, essersi
travagliata per quella disordinata Corsica; facessero i Genovesi da
sè, e come potevano e come l'intendevano colle loro proprie forze
terminassero l'antica lite.
I Gesuiti intanto instavano perchè fosse loro permesso d'introdursi
nell'interno del regno per fabbricarvi a loro spese chiese e collegi
e adoperarsi allo ammaestramento della gioventù. Paoli ed il supremo
consiglio inclinavano a contentarli; ma i professori dell'università
con molta costanza si opposero, onde furono loro proibite non solamente
le fabbriche, ma ancora l'internarsi nella isola senza un passaporto di
Paoli.
Se non che, acconciatesi frattanto le cose tra Spagna e Roma, i Gesuiti
tornarono nello Stato pontificio, dove ebbero pur ricetto quelli del
regno delle Due Sicilie e dell'isola di Malta, in questo medesimo anno
espulsi, quivi alimentati della pensione dai rispettivi sovrani loro
assicurata.
Anno di CRISTO MDCCLXVIII. Indizione I.
CLEMENTE XIII papa 11.
GIUSEPPE II imperadore 4.
Genova si accorse finalmente che bisognava veder la fine di un tormento
che la teneva impedita e dolorosa già quasi da un mezzo secolo:
soggiogare quei forti e pertinaci isolani da sè non poteva, e colla
Francia più non lo sperava. Il mondo aspettava di vedere un'Olanda nel
mezzo del Mediterraneo; sorse in quella vece una nuova provincia di
Francia.
Ai 15 di maggio, dopo di essersi agitate molte pratiche, si fermò
finalmente a Versaglies tra la Francia e Genova un accordo appartato
da' Corsi, per cui si stipulò che la repubblica cedeva alla Francia
il regno di Corsica comprese le fortezze, le artiglierie ed ogni
attrezzo militare, con patto però che per le artiglierie e gli
attrezzi militari, secondo la stima che se ne farebbe dai periti, il re
corrispondesse in denaro l'equivalenza;
Che la sovranità del regno apparterrebbe sempre alla repubblica;
Che agli antichi proprietarii, mostratene le identità, si restituissero
tutti i beni confiscati;
Che i Corsi fossero veri sudditi della Francia tutto il tempo che
l'isola possederebbe;
Che la Francia fosse obbligata a mantenere in Corsica sedici
battaglioni;
Che guarentirebbe la repubblica dai corsari turchi e corsi, acciocchè
la bandiera genovese potesse liberamente trafficare ne' suoi mari.
Che il re desse libero possesso della Capraia a Genova.
Si sparse prima un certo rumore; poi si ebbe certo avviso del trattato.
Quindi si udirono novelle che nei porti della Provenza si allestiva
un armamento per portare i nuovi battaglioni nell'isola, cui doveva
condurre e governare il marchese di Chauvelin, tenente generale.
Arrivarono finalmente avvisi, siccome già nel porto d'Aiaccio erano
sbarcati due battaglioni del reggimento di Bretagna.
A tal annunzio gl'isolani si commossero a gravissimo sdegno; la
padronanza di loro medesimi vedevano in grandissimo pericolo, la
libertà parimente, tanto sangue inutilmente sparso, spenti i lunghi
desiderii, gli antichi costumi, la nativa lingua stessa andava in
dileguo. Bene non isfuggiva loro che la potente mano della Francia
avrebbe procacciato la quiete nelle loro città e campagne, e protetto
le navigazioni per l'esercizio del commercio: ma i popoli che mirano
alla franchigia, non misurano la felicità dalla quiete nè dalla
ricchezza; ma stimano pazzamente felicità suprema il travagliarsi nelle
faccende pubbliche, il maneggiarsi come pare e piace.
Chiamata Paoli in fretta la nazione a parlamento, fecesi la consulta in
Corte a dì 22 di maggio; e quivi il generale favellò con temperatissime
parole non disgiunte da dignità e fermezza. Sdegno destossi nelle
anime feroci che altamente deliberarono. Fu quindi decretato che si
crescesse numero ai soldati regolari, che in ogni luogo uniformemente
si ordinasse la milizia, che in ogni pieve si annotassero le armi
da fuoco, e chi fosse atto a portarle, le pigliasse, e difendesse la
patria; che i beni sì mobili che stabili e le mercanzie ed ogni altro
fondo fruttifero pagassero una nuova tassa del quattro per migliaio,
e quanto la tassa gettasse, tutto s'impiegasse nella bisogna della
guerra; che il clero secolare la decima pagasse di tutti i benefizii,
ed i regolari cento lire per convento; che fossero vietate le tratte
delle biade; che si ordinassero più severe forme di giustizia; che
tutte le persone civili non impiegate in servizii pubblici dovessero
uscirne a campo per guardia del generale. E chiamavano sacro quel
denaro, sacri quei battaglioni, quell'impeto sacro.
Quindi parlarono alla gioventù di Corsica, e le infiammative parole
trovarono in tutti un'ottima volontà verso la patria. Udivansi pei
piani e pei monti grida commiste, un fracasso d'armi, un suonar di
corni: tutta la silvestre Corsica si moveva, e nel periglioso cimento
si avventava.
In questo aspetto ed in mezzo a tanta concitazione, i Franzesi, portati
sulle navi dalla Provenza pervennero sui lidi corsi, e sbarcarono
a Bastia, Calvi, Aiaccio, Bonifazio e San Fiorenzo. Consegnate loro
dai Genovesi le piazze, le artiglierie e le munizioni, fu levato da
Bastia lo stendardo della repubblica, e postolo sulle navi, non senza
solennità, il trasportarono col commissario generale a Genova. Fu
inalberata su tutte le cime la bandiera franzese.
Ora, prima dei lutti, vengono le feste. I Bastiesi, come se temessero
che gli altri Corsi abbastanza già non gli odiassero, ne fecero
delle belle e grandi, sì che al loro dire e fare parve che già
svisceratamente amassero il re di Francia. Cantossi con molta pompa
nella franzese Bastia l'inno delle grazie la mattina; la sera poi
rallegrò la città una splendida luminaria; il palazzo pretorio tutto
risplendette di doppieri all'uso veneziano; sul finestrone di mezzo si
leggeva la seguente iscrizione:
LVDOVICO XV
FRANCORVM, NAVARRAE ET CVRSORVM
REGI CHRISTIANISSIMO
AVCTIS IMPERII FINIBVS,
TRANQVILLITATE PVBLICA ASSERTA,
AVGVSTO, PACIFICO, FELICI
MAGISTRATVS POPVLVSQVE BASTIENSIS
FAVSTIS AVSPICIIS
PLAVDEBANT.
Poi sulla destra dello stemma reale, anch'esso circondato di lumi, si
vedeva un sole risplendente col motto: _Imbres et nubila vincit_. Sulla
sinistra, la Bastia col rimanente della Corsica e tre gigli col motto:
_Et Cyrno crescite flores_.
Che cosa pensassero i Corsi di queste dimostrazioni, non è punto
necessario che con parole si scriva.
Fermi poi questi primi bollori, dalle feste si fece passo alle
finzioni, dalle finzioni poscia alle battaglie. Il duca di Choiseul,
ministro del re, scrisse a Paoli, notificandogli che i soldati di
Francia non avrebbero dato veruna molestia allo nazione, che il
marchese di Chauvelin, tosto che fosse in Corsica pervenuto, si sarebbe
con esso lui accordato, affinchè con buona armonia passassero le cose,
che il re accoglieva l'isola sotto l'ombra sua, e prendeva cura della
sua felicità. Poi si mandò fuori voce che per certi rispetti si farebbe
un po' di guerra, ma senza danno della nazione, perchè le soldatesche
regie adoprerebbero di concerto con le corse.
I Corsi, che tenevano l'armi in mano, non sapevano che dirsi, ed
erano da varii pensieri agitati. Li tolse finalmente dal dubbio
un'intimazione fatta da Marbeuf a Paoli: tenere lui ordine dal re
di fare che tra Bastia e San Fiorenzo fossero e restassero liberi
i passi. Nello stesso tempo si lasciò intendere che voleva che gli
fossero cedute le scale dell'isola Rossa, Algaiola, Macinaio e Gornali.
Il Corso, che vedeva essere perciò fatto incominciamento di guerra,
rispose col sangue avere acquistato que' luoghi, col sangue volerli
conservare: bene accorgersi che si voleva privare la nazione della
libertà, frutto di tanta guerra.
Ora doveva il mondo giudicare se i Corsi, poichè al ferro si veniva,
nell'imprender guerra contro la potente Francia, più imprudenti o più
prudenti fossero, più temerarii o più coraggiosi. Ripromettevansi i
Franzesi di soggiogarli; i Corsi si ripromettevano di poter sostenere
quella libertà per cui combattevano fin già da otto lustri: Paoli e
Corsica uniti insieme si credevano invincibili.
Non così tosto Paoli si avvide, per l'intimazione fatta da Marbeuf
e da altri segni che la Francia alle cagioni di Genova e per suo
pro veniva a trovare la Corsica coll'armi, e sopra di sè pigliava
la guerra, fu reso capace ch'era venuto il tempo di fare gli ultimi
sperimenti; laonde applicò il pensiero a prender modo alle difese
e ad ordinare quanto per la conservazione della libertà in così
estremo caso abbisognasse. Pose in arme tutte le milizie, aggiunse
nuovi soldati ai reggimenti d'ordinanza; formò campi mobili, mise
in forte tutti i luoghi capaci di munizione, e stabilì in somma ogni
cosa a valida propugnazione e conservazione dello Stato. E la nazione
tutta consentiva con lui: correvano i Corsi ad offrirsi con volontà
prontissima. Quelli che militavano ai servigi di Francia, chiesta
licenza, si acconciarono volonterosamente a quelli della loro nazione.
Narrano che per tanta concitazione, Paoli avesse cinquanta mila uomini
tra pagati dallo Stato, o dalle provincie, o dalle pievi, o dai comuni,
o da sè medesimi.
Paoli aveva sua stanza a Murato con la sua eletta schiera dei mille,
aggiuntevi alcune altre: il suo fratello Clemente alloggiava ad Oletta
con cinque mila.
Stando le cose in questi termini, si venne al paragone dell'armi.
Correndo il dì 30 di luglio, i Franzesi andarono alla fazione dello
strigarsi le strade tra Bastia e San Fiorenzo. A questo fine, per
incontrarsi sul mezzo, partirono Marbeuf dalla prima di dette piazze,
ed il maresciallo di campo Grandmaison dalla seconda. Grandmaison
spinse i Corsi con molto sangue, poi fu respinto con molto sangue
anch'esso. Ingrossò i soldati, vinse in una trincea quarantadue Corsi,
che si lasciarono tagliare tutti a pezzi piuttosto che arrendersi, e
marciò verso le vie più strette. Combattuto e combattendo si avanzava,
volendo passare alla conquista di Olmetta e di Nonza.
Marbeuf nel medesimo tempo, partendo da Bastia, s'era avvicinato alle
montagne, cacciatosi davanti con uccisione e presura di molti tutte
le piccole squadre del nemico, che fecero pruova di contrastargli
il passo. Già era pervenuto verso Barbaggio, e già a Patrimonio
s'accostava: assalse le due terre, e da ambe fu ribattuto con molto
sangue. Volle impadronirsi della sommità di Montebello, e fu lo sforzo
indarno. Così successero i fatti di guerra all'ultimo di luglio ed al
primo di agosto. Ai 2, Marbeuf si avventò con più poderose forze contro
Barbaggio e Patrimonio. Fuvvi un caldissimo combattere alla seconda di
queste terre, che presa e ripresa più volte, dimostrò quanto valorosi
fossero ed assalitori e difenditori, ma finalmente cesse in potestà di
Francia. E i Franzesi ottennero più facilmente Barbaggio, loro restando
da superarsi la forte terra di Furiani, dove reggevano le milizie
Nicodemo Pasqualini e Gian Carlo Saliceti, e la torre di Biguglia.
Intanto, per la perdita di Patrimonio e di Barbaggio, quasi tutta
la provincia del Capo Corso venne in potere dei Franzesi, i quali,
possedendo anche la pieve di Sisco, s'impadronirono di Nonza, di Brando
e di Erbalunga. Solo ostavano Furiani e Biguglia, onde sicuramente non
possedessero il Capo Corso.
Giunse in questo mentre in Corsica il marchese di Chauvelin
soprattenuto fino allora in viaggio per infermità; nè giunse solo,
ma con nuovi soldati, specialmente colla legione reale. Volendo usare
l'impressione che credeva avere fatto nella nazione i primi conflitti
sull'istmo per cui si va nell'interno del Capo Corso, pubblicò patenti
regie, nelle quali parlava il re Luigi: avergli la repubblica di
Genova trasmesso la sovranità dell'isola; tanto più volentieri averla
accettata, quanto più bramava di procurare felicità a' suoi nuovi
sudditi, ai suoi cari popoli di Corsica: volere che si posassero i
tumulti che da tanti anni gli agitavano; voler mantenere le promesse
per la forma del governo della nazione; sperare che la nazione, godendo
i vantaggi della protezione sua, sarebbe per sottomettersi, e non lo
ridurrebbe alla necessità di trattarla come ribella; ammonirla che
se nell'isola continuassero qualche confusione torbida e mista o la
pertinace disobbedienza, ne risulterebbe la distruzione d'un popolo da
lui con tanta compiacenza nel numero de' suoi sudditi adottato.
Così parlò il re Luigi, nuovo sovrano, ai Corsi; e quindi parlò
Chauvelin, che siccome i Corsi Franzesi erano, così comandava che
nissun Corso con altra bandiera stesse a navigare fuorchè colla
Franzese, ed ogni comandante, padrone, capitano o maestro di nave
venisse a levare da lui le nuove patenti e la bandiera bianca.
Come ebbero parlato il re e Chauvelin, parlarono i Corsi; cioè per
qualora non giurassero di rinunziare all'istituto loro. Sulla fine di
quell'anno stesso, il re, aderendo al voto di tutti i parlamenti del
regno, pronunciò l'abolizione totale de' Gesuiti in Francia.
A tal colpo Clemente XIII, che aveva a sè medesimo persuaso la
conservazione de' Gesuiti toccare la coscienza, perchè li teneva
utili alla religione ed alla Chiesa, rotto il silenzio, pubblicò, il 7
gennaio di quest'anno, la bolla _Apostolicum_, che confermava i Gesuiti
in tutti i loro privilegii, giustificandoli su tutte le accuse, e per
capacità, zelo e servigio con somme lodi innalzandoli.
Se mai altra bolla si sparse rapidamente nel mondo, questa fu presto
in mano di tutti, specialmente in Francia, dove levò altissimo
rumore. Denunziata quindi al parlamento, verso la metà di febbraio, il
parlamento stesso emanò un decreto, con cui rimase la bolla soppressa
e proibita, con espressa inibizione di accettarne per l'avvenire
verun'altra, se non fosse accompagnata del regio beneplacito. Ed
in Portogallo, fatta la bolla soggetto di molte discussioni, uscì
finalmente fuori un rescritto o decreto del re, col quale veniva
dichiarata di niun effetto rispetto a' suoi dominii e regni,
proibendone qualunque esemplare non solo riguardo al non poterne fare
uso alcuno, ma ordinando eziandio che tutte le copie si dovessero
consegnare al così detto tribunale dell'inconfidenza. Dichiarò inoltre
il re eguale intenzione e volontà riguardo a tutti gli altri brevi
e scritture della medesima natura che non avessero ottenuto prima la
reale approvazione; ordine sovrano che fu registrato in forma di legge
nella segreteria, indi pubblicato nella gran cancelleria della corte e
del regno.
In Corsica, Marbeuf cominciò ad usare il ministero di pace, promettendo
da parte del re Luigi fermezza e sicurtà ai patti di concordia
che con Genova fossero stipulati. Varii negoziati s'intavolarono
tanto in Corsica con Paoli e col colonnello Buttafuoco da parte del
Marbeuf, e dal conte della Tour du Pin, che per la Francia e per
Genova trattavano, quanto a Versaglies, dove per questo fine della
Tour du Pin e Buttafuoco si condussero. L'affare si maneggiò, come
già altre volte, senza effetto, perchè si diede in quel perpetuo
intoppo, che i Corsi volevano la loro independenza, e Genova non la
voleva consentire. In fatti gl'isolani domandavano lo Stato libero e
sovrano, e la possessione di tutte le piazze, che i Genovesi ancora
tenevano. Chiedevano inoltre che la Capraia e Bonifazio fossero loro
dati in feudo, obbligandosi di pagare a Genova, per ricognizione della
feudalità, un tributo annuale di quaranta mila lire, che era quanto i
Genovesi, siccome essi stessi affermavano, ricavavano ogni anno dalla
Corsica. Per maggior dimostrazione della dipendenza feudataria di que'
due luoghi, i Corsi offerivano di mandare ogni dieci anni uno de' loro
primarii personaggi a chiedere l'investitura. Promettevano altresì di
consentire ai Genovesi il libero commercio e senza pagamento di dazii
in tutte le terre e mari di Corsica.
Anno di CRISTO MDCCLXVI. Indiz. XIV.
CLEMENTE XIII papa 9.
GIUSEPPE II imperadore 2.
L'Italia, fatta dalla natura delizia dell'Europa, godea pur essa delle
delizie della pace, nè il rimbombo de' suoi bronzi guerrieri interruppe
in quest'anno i giulivi spettacoli che ne contrassegnarono quasi tutti
i giorni, se non fosse in sul mare presso le lontane coste dell'antica
Libia.
In questo silenzio di avvenimenti maggiori, crediamo di dover
consegnare in queste carte la memoria delle circostanze che
accompagnavano il pagamento dell'annuo tributo solito a contribuirsi
alla santa Sede dai sovrani delle Due Sicilie, e consistente in un
cavallo bardato, detto chinea, ed in sette mila ducati del regno.
Ogni anno, la vigilia de' Santi Apostoli, portavasi il ministro
plenipotenziario del re al portico della basilica vaticana, e
colà, presentando al pontefice la chinea, e pagando il denaro al
tesoriere della camera apostolica, proferiva in latino una formola
già stabilita, e che in lingua italiana così sonava: «N. (il nome
del re), mio clementissimo signore, manda a vostra santità questo
cavallo decentemente ornato, ch'io presento in nome di lui, e sette
mila ducati, per solito tributo del regno di Napoli, pregando Dio
Ottimo Massimo che vostra santità possa per molti anni riceverlo pel
bene e vantaggio della cristianità e per l'accrescimento della santa
nostra cattolica fede. Sono questi i voti di sua maestà ed i miei
proprii umili e ferventissimi.» Al che il papa rispondeva: «Riceviamo e
volontieri accettiamo questo censo dovuto a noi ed alla Sede apostolica
pel diretto dominio del nostro regno delle Due Sicilie di qua e di là
del Faro. Al nostro carissimo figlio nel Signore N. preghiamo da Dio
salute, ed a lui, ai popoli e vassalli diamo l'apostolica benedizione,
in nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. Così sia.»
La Toscana, che per quasi trenta anni era stata governata da un privato
delegatovi dal granduca Francesco, che faceva la sua residenza a
Vienna come imperator di Germania, prestò questo anno, nel dì ultimo
di marzo, con vera espansione d'animo, il giuramento di fedeltà ad
un sovrano proprio, all'arciduca Leopoldo, di cui presagiva il beato
reggimento. Ed in fatti il novello granduca tutte volse le sue cure a
render florido il proprio Stato, e fin da questi primordii die' opera
al miglioramento delle maremme di Siena, a quello della moneta, a
far prosperare la marineria, a sistemare le regole della giustizia. A
Livorno, dove fu splendidamente e giulivamente accolto, visitò tutto,
animò tutto, e pose la prima pietra alla fabbrica d'un gran quartiere
per la marineria. Finalmente fece aprire una strada che da Pistoia
arrivasse sino a' confini del Modonese, strada tante volte indarno
disegnata e che tornava a reciproco vantaggio degli abitanti de' due
Stati.
Nè men sollecito del nuovo sovrano di Toscana nel promuovere la
circolazione e libertà del commercio fu il giovinetto monarca delle
Due Sicilie. L'audacia dei corsari barbareschi infestava continuamente
le spiaggie della Calabria e delta Sicilia, non che il rimanente
dell'Italia. Per porre una volta freno alla loro insolenza, e
provvedere ad un tempo e tutelare la tranquillità del commercio, stimò
il re opportuno di conchiudere sull'importante oggetto un trattato con
la Francia, e fare che intanto rimanessero interrotte e sospese ne'
porti di quel regno le visite de' bastimenti napoletani e siciliani,
e lo stesso si osservasse nei porti delle Due Sicilie riguardo alle
navi franzesi. E scopo essendo della negoziazione il francare ed
assicurare il commercio in quelle parti principalmente dove sarebbe
stato più esposto agl'insulti dei Barbareschi, così, attendendo
che si concludesse, fece il re di Napoli gettare in acqua sei nuovi
sciabecchi, due galere e quattro galeotte, affinchè, mettendosi a
corseggiare, coprissero, e difendessero le costiere dei proprii Stati,
ed inseguissero i legni dei pirati, ordinando nel tempo stesso che nel
porto di Napoli stessero sempre parate una galera ed una galeotta,
quella a difesa del porto stesso, questa per recarsi ovunque la
chiamasse il bisogno.
Già la Francia aveva anch'essa nel Mediterraneo una squadra di vascelli
comandati dal principe Beauffremont. Con questa fece egli una visita
alle piazze di Barbaria, e prima a quella d'Algeri, che da alquanti
mesi avea perduto il vecchio suo beì, ed il cui successore, Mahomet
Effendi, ostinatissimamente ricusava qualsiasi componimento colla
Spagna e coi Napoletani. Ma ben lo persuase la comparsa della squadra
franzese, come si persuasero ancora gli altri beì di Tunisi e di
Tripoli; a tal che il principe Beauffremont ottenne quanto desiderava
ed avuta promessa solenne che sarebbero rispettati i legni delle due
nazioni, oltre a quelli che spiegavano bandiera franzese, se ne tornò a
Tolone, lieto della sua corsa e della felice riuscita.
Dopo la vista della squadra franzese, il beì di Tripoli n'ebbe
un'altra per parte de' Veneziani. Erano seguiti a danno di varii legni
mercantili di questa repubblica gravi e frequenti insulti in onta alla
fede dei trattati da circa due anni fermati tra la repubblica stessa
e le reggenze africane. Ora, risoluto il senato a non più sofferirne
la mala fede, ed a trarne solenne vendetta, fu messa alla vela una
squadra sotto gli ordini del cavaliere Giacomo Nani, il quale, non
sì tosto schierò nel porto di Tripoli le sue navi e fece sonare i
cannoni, vide a bordo della propria nave il beì, presto a dargli tutte
le convenevoli soddisfazioni ed a pattuirvi quelle condizioni che
fossero state di aggradimento del veneziano senato. Furono dunque dalla
reggenza sborsate rilevanti somme per salvarsi dal giusto risentimento
della repubblica, e, restituiti tutti i bastimenti stati predati, volle
in oltre il beì che fossero severamente gastigati i rais o capitani
che aveano insultata la bandiera di Venezia; e se non era il console
della repubblica che caldamente s'interpose per mitigare l'asprezza
ed il rigore dei minacciati gastighi, avrebbero avuta mozza la testa.
Fra' patti convenuti fu principalmente questo: che i limiti oltre i
quali passare non potessero i legni corsari si dovessero estendere
per l'avvenire dal capo di Santa Maria sino a quello della Sapienza;
dal che ne derivò un doppio vantaggio, perchè, rimovendosi dalle foci
dell'Adriatico le corse di que' Barbari, rimanevano nel tempo stesso
difese le coste del regno di Napoli, e meglio protetto il commercio
delle altre nazioni.
Anno di CRISTO MDCCLXVII. Indiz. XV.
CLEMENTE XIII papa 10.
GIUSEPPE II imperadore 3.
Essendosi rotte le pratiche a ragione di quello scoglio insuperabile
dell'indipendenza, i Corsi, condotti da Achille Murati, fecero una
fazione improvvisa sopra l'isola Capraia, antico membro del loro regno,
e se ne impadronirono, successo, che siccome molto afflisse i Genovesi,
così diede non poca allegrezza ai Corsi, che concepirono migliore
speranza, e più sicuramente augurarono dello stabilimento della loro
libertà.
L'incomoda ed oggimai troppo lunga tenzone ora pende al suo fine.
Era manifesto ad ognuno che Genova si trovava inabile a ritornare i
suoi antichi sudditi all'obbedienza. Quarant'anni di sforzi inutili,
oltre le antiche perturbazioni, che tanto travaglio le avevano dato,
bene dimostravano che la ribellante isola ero per lei perduta. Non
erano valse le tregue, non le paci, non le armi; Genovesi e Corsi
non potevano vivere insieme se non come esteri gli uni verso gli
altri e non più come nel medesimo ordine misti ed associati. Il valor
guerriero dei Corsi, il valore e la prudenza di Paoli si dimostravano
insuperabili ed invincibili dalla potenza genovese. E in ciò recava
eziandio un gran momento l'avere Paoli riunito in concordia tanti
animi discordi, cosa che sin allora non si era veduta. Oltre a questo,
quell'uomo aveva saputo ordinare una libertà più ancora fondata sulle
leggi che sulle forti inclinazioni d'una gente rozza e quasi ancora
selvaggia; e colla libertà introduceva la civiltà. Le quali cose tutte,
mentre somministravano più efficaci mezzi di resistenza, rendevano agli
uomini più cara la causa corsa. Il secolo stesso la favoriva, e Genova
vinta diveniva anche odiosa. Già i popoli cominciavano a maravigliarsi
che quella Genova stessa che nel 1746 con sì generoso e forte animo
si era rivendicata in libertà, ora tanto odio esercitasse contro una
nazione del pari forte e generosa, ed ostinatissimamente affettasse
l'assoluto dominio. L'opinione dava favore alla Corsica; ciò non era
nascosto a coloro che reggevano la repubblica, e già entravano nei
supremi magistrati nuovi pensieri.
Col medesimo passo nascevano le voglie forestiere. Vi era chi
voltava a suo profitto I'impotenza di Genova. La Corsica, piena
di abitatori forti e guerrieri, situata in opportuno luogo tra la
Francia e l'Italia, copiosa di generi preziosi, felice per foreste
stupende, sicura per porti spaziosi e comodi, molto piaceva a chi
coll'Inghilterra gareggiava di possanza marittima nel Mediterraneo.
Vecchio pensiero era questo: i soldati a parecchie fiate mandati
nell'isola, tante diligenze, tanti amorevoli consigli, il tante volte
interporsi a dolcezza tra i Corsi vinti e gli sdegnati signori, ciò
era per allettare i popoli, per assuefarli ai volti, alla favella,
all'imperio di Francia. Brevemente, la Francia agognava la Corsica.
Ciò non ostante, pareva poco generoso procedere il divenire da
ausiliario padrone, ma confidava nella necessità, che avrebbe sforzato
i Genovesi ad offerirsi. E un accidente impensato, mettendoli in
maggiore travaglio ed in qualche disgusto colla Francia, fece piegare
il contrasto a quel segno dov'ella mirava. Il re di Spagna aveva in
aprile di quest'anno espulsi i gesuiti da' suoi regni: e il papa, a
cui parevano in troppo grande numero, perciocchè sommavano a parecchie
migliaia, non avea permesso che si ricovrassero nello Stato pontificio.
La Spagna ricercò ed ottenne da Genova che avessero ricetto in Corsica,
e quivi furono destinate per loro seggio le piazze dove i Franzesi
tenevano presidii.
I Genovesi, in ciò compiacendo alla Spagna, avevano dispiaciuto alla
Francia, che anch'essa aveva pochi anni innanzi espulsi gl'Ignaziani
da' suoi dominii, sì che poco mancò che per questa cagione non si
partisse dall'amicizia di Genova. Con acerbissime parole se ne lagnò
col senato, protestando che ne avrebbe fatto giusti risentimenti; ed
in fatti il re mandò ordine a Marbeuf che tosto sgombrasse dalle piazze
dove entrati fossero i Gesuiti.
Non così tosto vide Marbeuf a comparire in Algaiola, Calvi ed Aiaccio
gli ospiti che la Spagna espelleva, che, uniformandosi alla volontà
del re, le lasciò, ritirando i passi verso Bastia e San Fiorenzo.
Subitamente Algaiola venne in potere dei nazionali; per poco anzi
stette che Calvi non vi venisse, come vennevi la città di Aiaccio, e la
cittadella stessa, la quale, battuta aspramente dai Corsi e ridotta in
grandissima necessità di viveri, già stava in sul punto di darsi. Così
i Genovesi, per aver dato ricovero agli esuli di Spagna, sdegnarono
la Francia, e perdettero parecchi forti ed importanti luoghi; chè i
soldati franzesi cessero il luogo ai monaci spagnuoli. Esuli erano
questi religiosi, e per tale titolo meritavano che alcuno cura ne
prendesse; ma quivi portavano un fatale pregiudizio. Veramente i Corsi
se ne prevalevano, nè mai furono così vicini al conseguimento totale
dei loro pensieri e di arrivare a quella franchigia che, fin allora
stata sanguinosa e torbida, speravano finalmente di vedere felice,
lieta e sicura.
Mentre la fortezza di Aiaccio stava in grave pericolo, e nelle altre
terre ancor tenute da' Genovesi si trepidava, pervenne avviso che tra
Marbeuf e Paoli era stata conchiusa una sospensione di offese da durare
insino a che, compiti i quattro anni di soggiorno stati stipulati, i
Franzesi dovessero fare la loro partenza dall'isola, il qual termine
era di pochi mesi lontano. La Francia minacciosamente affermava di non
voler acconsentire ad alcuna prolungazione: assai, diceva, essersi
travagliata per quella disordinata Corsica; facessero i Genovesi da
sè, e come potevano e come l'intendevano colle loro proprie forze
terminassero l'antica lite.
I Gesuiti intanto instavano perchè fosse loro permesso d'introdursi
nell'interno del regno per fabbricarvi a loro spese chiese e collegi
e adoperarsi allo ammaestramento della gioventù. Paoli ed il supremo
consiglio inclinavano a contentarli; ma i professori dell'università
con molta costanza si opposero, onde furono loro proibite non solamente
le fabbriche, ma ancora l'internarsi nella isola senza un passaporto di
Paoli.
Se non che, acconciatesi frattanto le cose tra Spagna e Roma, i Gesuiti
tornarono nello Stato pontificio, dove ebbero pur ricetto quelli del
regno delle Due Sicilie e dell'isola di Malta, in questo medesimo anno
espulsi, quivi alimentati della pensione dai rispettivi sovrani loro
assicurata.
Anno di CRISTO MDCCLXVIII. Indizione I.
CLEMENTE XIII papa 11.
GIUSEPPE II imperadore 4.
Genova si accorse finalmente che bisognava veder la fine di un tormento
che la teneva impedita e dolorosa già quasi da un mezzo secolo:
soggiogare quei forti e pertinaci isolani da sè non poteva, e colla
Francia più non lo sperava. Il mondo aspettava di vedere un'Olanda nel
mezzo del Mediterraneo; sorse in quella vece una nuova provincia di
Francia.
Ai 15 di maggio, dopo di essersi agitate molte pratiche, si fermò
finalmente a Versaglies tra la Francia e Genova un accordo appartato
da' Corsi, per cui si stipulò che la repubblica cedeva alla Francia
il regno di Corsica comprese le fortezze, le artiglierie ed ogni
attrezzo militare, con patto però che per le artiglierie e gli
attrezzi militari, secondo la stima che se ne farebbe dai periti, il re
corrispondesse in denaro l'equivalenza;
Che la sovranità del regno apparterrebbe sempre alla repubblica;
Che agli antichi proprietarii, mostratene le identità, si restituissero
tutti i beni confiscati;
Che i Corsi fossero veri sudditi della Francia tutto il tempo che
l'isola possederebbe;
Che la Francia fosse obbligata a mantenere in Corsica sedici
battaglioni;
Che guarentirebbe la repubblica dai corsari turchi e corsi, acciocchè
la bandiera genovese potesse liberamente trafficare ne' suoi mari.
Che il re desse libero possesso della Capraia a Genova.
Si sparse prima un certo rumore; poi si ebbe certo avviso del trattato.
Quindi si udirono novelle che nei porti della Provenza si allestiva
un armamento per portare i nuovi battaglioni nell'isola, cui doveva
condurre e governare il marchese di Chauvelin, tenente generale.
Arrivarono finalmente avvisi, siccome già nel porto d'Aiaccio erano
sbarcati due battaglioni del reggimento di Bretagna.
A tal annunzio gl'isolani si commossero a gravissimo sdegno; la
padronanza di loro medesimi vedevano in grandissimo pericolo, la
libertà parimente, tanto sangue inutilmente sparso, spenti i lunghi
desiderii, gli antichi costumi, la nativa lingua stessa andava in
dileguo. Bene non isfuggiva loro che la potente mano della Francia
avrebbe procacciato la quiete nelle loro città e campagne, e protetto
le navigazioni per l'esercizio del commercio: ma i popoli che mirano
alla franchigia, non misurano la felicità dalla quiete nè dalla
ricchezza; ma stimano pazzamente felicità suprema il travagliarsi nelle
faccende pubbliche, il maneggiarsi come pare e piace.
Chiamata Paoli in fretta la nazione a parlamento, fecesi la consulta in
Corte a dì 22 di maggio; e quivi il generale favellò con temperatissime
parole non disgiunte da dignità e fermezza. Sdegno destossi nelle
anime feroci che altamente deliberarono. Fu quindi decretato che si
crescesse numero ai soldati regolari, che in ogni luogo uniformemente
si ordinasse la milizia, che in ogni pieve si annotassero le armi
da fuoco, e chi fosse atto a portarle, le pigliasse, e difendesse la
patria; che i beni sì mobili che stabili e le mercanzie ed ogni altro
fondo fruttifero pagassero una nuova tassa del quattro per migliaio,
e quanto la tassa gettasse, tutto s'impiegasse nella bisogna della
guerra; che il clero secolare la decima pagasse di tutti i benefizii,
ed i regolari cento lire per convento; che fossero vietate le tratte
delle biade; che si ordinassero più severe forme di giustizia; che
tutte le persone civili non impiegate in servizii pubblici dovessero
uscirne a campo per guardia del generale. E chiamavano sacro quel
denaro, sacri quei battaglioni, quell'impeto sacro.
Quindi parlarono alla gioventù di Corsica, e le infiammative parole
trovarono in tutti un'ottima volontà verso la patria. Udivansi pei
piani e pei monti grida commiste, un fracasso d'armi, un suonar di
corni: tutta la silvestre Corsica si moveva, e nel periglioso cimento
si avventava.
In questo aspetto ed in mezzo a tanta concitazione, i Franzesi, portati
sulle navi dalla Provenza pervennero sui lidi corsi, e sbarcarono
a Bastia, Calvi, Aiaccio, Bonifazio e San Fiorenzo. Consegnate loro
dai Genovesi le piazze, le artiglierie e le munizioni, fu levato da
Bastia lo stendardo della repubblica, e postolo sulle navi, non senza
solennità, il trasportarono col commissario generale a Genova. Fu
inalberata su tutte le cime la bandiera franzese.
Ora, prima dei lutti, vengono le feste. I Bastiesi, come se temessero
che gli altri Corsi abbastanza già non gli odiassero, ne fecero
delle belle e grandi, sì che al loro dire e fare parve che già
svisceratamente amassero il re di Francia. Cantossi con molta pompa
nella franzese Bastia l'inno delle grazie la mattina; la sera poi
rallegrò la città una splendida luminaria; il palazzo pretorio tutto
risplendette di doppieri all'uso veneziano; sul finestrone di mezzo si
leggeva la seguente iscrizione:
LVDOVICO XV
FRANCORVM, NAVARRAE ET CVRSORVM
REGI CHRISTIANISSIMO
AVCTIS IMPERII FINIBVS,
TRANQVILLITATE PVBLICA ASSERTA,
AVGVSTO, PACIFICO, FELICI
MAGISTRATVS POPVLVSQVE BASTIENSIS
FAVSTIS AVSPICIIS
PLAVDEBANT.
Poi sulla destra dello stemma reale, anch'esso circondato di lumi, si
vedeva un sole risplendente col motto: _Imbres et nubila vincit_. Sulla
sinistra, la Bastia col rimanente della Corsica e tre gigli col motto:
_Et Cyrno crescite flores_.
Che cosa pensassero i Corsi di queste dimostrazioni, non è punto
necessario che con parole si scriva.
Fermi poi questi primi bollori, dalle feste si fece passo alle
finzioni, dalle finzioni poscia alle battaglie. Il duca di Choiseul,
ministro del re, scrisse a Paoli, notificandogli che i soldati di
Francia non avrebbero dato veruna molestia allo nazione, che il
marchese di Chauvelin, tosto che fosse in Corsica pervenuto, si sarebbe
con esso lui accordato, affinchè con buona armonia passassero le cose,
che il re accoglieva l'isola sotto l'ombra sua, e prendeva cura della
sua felicità. Poi si mandò fuori voce che per certi rispetti si farebbe
un po' di guerra, ma senza danno della nazione, perchè le soldatesche
regie adoprerebbero di concerto con le corse.
I Corsi, che tenevano l'armi in mano, non sapevano che dirsi, ed
erano da varii pensieri agitati. Li tolse finalmente dal dubbio
un'intimazione fatta da Marbeuf a Paoli: tenere lui ordine dal re
di fare che tra Bastia e San Fiorenzo fossero e restassero liberi
i passi. Nello stesso tempo si lasciò intendere che voleva che gli
fossero cedute le scale dell'isola Rossa, Algaiola, Macinaio e Gornali.
Il Corso, che vedeva essere perciò fatto incominciamento di guerra,
rispose col sangue avere acquistato que' luoghi, col sangue volerli
conservare: bene accorgersi che si voleva privare la nazione della
libertà, frutto di tanta guerra.
Ora doveva il mondo giudicare se i Corsi, poichè al ferro si veniva,
nell'imprender guerra contro la potente Francia, più imprudenti o più
prudenti fossero, più temerarii o più coraggiosi. Ripromettevansi i
Franzesi di soggiogarli; i Corsi si ripromettevano di poter sostenere
quella libertà per cui combattevano fin già da otto lustri: Paoli e
Corsica uniti insieme si credevano invincibili.
Non così tosto Paoli si avvide, per l'intimazione fatta da Marbeuf
e da altri segni che la Francia alle cagioni di Genova e per suo
pro veniva a trovare la Corsica coll'armi, e sopra di sè pigliava
la guerra, fu reso capace ch'era venuto il tempo di fare gli ultimi
sperimenti; laonde applicò il pensiero a prender modo alle difese
e ad ordinare quanto per la conservazione della libertà in così
estremo caso abbisognasse. Pose in arme tutte le milizie, aggiunse
nuovi soldati ai reggimenti d'ordinanza; formò campi mobili, mise
in forte tutti i luoghi capaci di munizione, e stabilì in somma ogni
cosa a valida propugnazione e conservazione dello Stato. E la nazione
tutta consentiva con lui: correvano i Corsi ad offrirsi con volontà
prontissima. Quelli che militavano ai servigi di Francia, chiesta
licenza, si acconciarono volonterosamente a quelli della loro nazione.
Narrano che per tanta concitazione, Paoli avesse cinquanta mila uomini
tra pagati dallo Stato, o dalle provincie, o dalle pievi, o dai comuni,
o da sè medesimi.
Paoli aveva sua stanza a Murato con la sua eletta schiera dei mille,
aggiuntevi alcune altre: il suo fratello Clemente alloggiava ad Oletta
con cinque mila.
Stando le cose in questi termini, si venne al paragone dell'armi.
Correndo il dì 30 di luglio, i Franzesi andarono alla fazione dello
strigarsi le strade tra Bastia e San Fiorenzo. A questo fine, per
incontrarsi sul mezzo, partirono Marbeuf dalla prima di dette piazze,
ed il maresciallo di campo Grandmaison dalla seconda. Grandmaison
spinse i Corsi con molto sangue, poi fu respinto con molto sangue
anch'esso. Ingrossò i soldati, vinse in una trincea quarantadue Corsi,
che si lasciarono tagliare tutti a pezzi piuttosto che arrendersi, e
marciò verso le vie più strette. Combattuto e combattendo si avanzava,
volendo passare alla conquista di Olmetta e di Nonza.
Marbeuf nel medesimo tempo, partendo da Bastia, s'era avvicinato alle
montagne, cacciatosi davanti con uccisione e presura di molti tutte
le piccole squadre del nemico, che fecero pruova di contrastargli
il passo. Già era pervenuto verso Barbaggio, e già a Patrimonio
s'accostava: assalse le due terre, e da ambe fu ribattuto con molto
sangue. Volle impadronirsi della sommità di Montebello, e fu lo sforzo
indarno. Così successero i fatti di guerra all'ultimo di luglio ed al
primo di agosto. Ai 2, Marbeuf si avventò con più poderose forze contro
Barbaggio e Patrimonio. Fuvvi un caldissimo combattere alla seconda di
queste terre, che presa e ripresa più volte, dimostrò quanto valorosi
fossero ed assalitori e difenditori, ma finalmente cesse in potestà di
Francia. E i Franzesi ottennero più facilmente Barbaggio, loro restando
da superarsi la forte terra di Furiani, dove reggevano le milizie
Nicodemo Pasqualini e Gian Carlo Saliceti, e la torre di Biguglia.
Intanto, per la perdita di Patrimonio e di Barbaggio, quasi tutta
la provincia del Capo Corso venne in potere dei Franzesi, i quali,
possedendo anche la pieve di Sisco, s'impadronirono di Nonza, di Brando
e di Erbalunga. Solo ostavano Furiani e Biguglia, onde sicuramente non
possedessero il Capo Corso.
Giunse in questo mentre in Corsica il marchese di Chauvelin
soprattenuto fino allora in viaggio per infermità; nè giunse solo,
ma con nuovi soldati, specialmente colla legione reale. Volendo usare
l'impressione che credeva avere fatto nella nazione i primi conflitti
sull'istmo per cui si va nell'interno del Capo Corso, pubblicò patenti
regie, nelle quali parlava il re Luigi: avergli la repubblica di
Genova trasmesso la sovranità dell'isola; tanto più volentieri averla
accettata, quanto più bramava di procurare felicità a' suoi nuovi
sudditi, ai suoi cari popoli di Corsica: volere che si posassero i
tumulti che da tanti anni gli agitavano; voler mantenere le promesse
per la forma del governo della nazione; sperare che la nazione, godendo
i vantaggi della protezione sua, sarebbe per sottomettersi, e non lo
ridurrebbe alla necessità di trattarla come ribella; ammonirla che
se nell'isola continuassero qualche confusione torbida e mista o la
pertinace disobbedienza, ne risulterebbe la distruzione d'un popolo da
lui con tanta compiacenza nel numero de' suoi sudditi adottato.
Così parlò il re Luigi, nuovo sovrano, ai Corsi; e quindi parlò
Chauvelin, che siccome i Corsi Franzesi erano, così comandava che
nissun Corso con altra bandiera stesse a navigare fuorchè colla
Franzese, ed ogni comandante, padrone, capitano o maestro di nave
venisse a levare da lui le nuove patenti e la bandiera bianca.
Come ebbero parlato il re e Chauvelin, parlarono i Corsi; cioè per
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