Annali d'Italia, vol. 8 - 05

omicidii, benefizio immenso del giovane capitano chiamato a sanazione
della Corsica, il quale maggiormente poscia il confermò con andar esso
stesso girando per l'isola, principalmente col fine di vedere se si
ministrasse buona e retta giustizia.
Ma un altro caso avvenne che fu cagione di atroci sdegni, e, destando
molti a nemici pensieri, accrebbe forza alla fazione del Matra.
Trovandosi Paoli a Campoloro, bandì dell'isola e castigò colla confisca
de' beni un Ferdinando Agostini, reo di tentato omicidio. Era parente
di costui Tommaso Santucci di Alessani, stato poc'anzi uno de' quattro
membri del consiglio segreto di Stato. Sendo personaggio d'importanza,
credettesi di ottenere facilmente la remissione della pena, ed a tal
fine pregò il capitano generale. Ma Paoli, che al pro di tutti non di
alcuno solamente mirava, e che già un suo parente stesso aveva lasciato
al corso della giustizia, la preghiera inflessibilmente sostenne, e per
quanta pressa gli si facesse intorno, non volle consentire. Santucci
sdegnato, e segnatasi altamente nell'animo l'ingiuria che si credeva
di avere ricevuto, andò ad unirsi a Matra, a cui già erano venuti, per
odii occulti o palesi o per mera ambizione, altri principali Corsi, per
modo che già formavano un'intera intelligenza considerabile. Vi vennero
un secondo Santucci, un Angelo Colombani, un Cotani, un Paganelli con
molti seguaci, ed adunatisi nel convento dei Francescani, chiamarono
loro capo contro Paoli il Matra. Questo moto si andava ingrossando per
la giunta di nuovi settarii e di ogni facinoroso avido di fare il suo
pro nelle turbate cose.
Non sì tosto Paoli, che stava in orecchi e vegliava questi moti,
ebbe avviso della sollevazione di questi uomini scandalosi e ribelli
alle voglie della patria, prevedendo quanto fatale potesse essere
quell'incendio sul principio del suo magistrato, chiamò gente delle
pievi meglio affette; e divenuto grosso e potente sui campi, avviossi
verso Alessani, per porre il piede su quelle prime faville. Ma l'emulo
suo, che s'era imboscato in quella pieve con duemila de' suoi, l'assalì
così all'improvviso, mentre passava, che fu rotto e quasi del tutto
abbandonato da' compagni, ed alle maggiori fatiche del mondo potè
salvarsi nel convento di Campoloro. Se Matra fosse stato presto a
seguitare l'impeto della fortuna favorevole, avrebbe ottenuto piena
vittoria dell'avversario. Ma stimando di avere vinto quando l'altro
poteva ancora risorgere, temporeggiò, se ne stette a bada, ed, in
cambio di correre a Campoloro, s'incamminò verso Corte, vincitore sè
medesimo predicando.
In questo mezzo tempo Paoli non mancò a sè stesso, e non che il suo
coraggio si abbattesse, più vivido anzi risorse. Fece quivi veramente
grande sperimento della sua virtù, discorse bene le condizioni del
tempo, chiamò di nuovo i suoi Rostinchi, levò a rumore tutte le terre
del comune, che sono appunto Rostino con le pievi di Orezza, Ampugnani,
Casacconi e Vallerustie. Le novelle genti di Paoli arrivarono in suo
aiuto unite in una schiera di tre mila furiosi paesani, che assaltati
i Matreschi, li misero in fuga per Alessani. Il fugato Mario Matra
ritirossi primieramente in Serra, poi in Aleria, dove aveva le sue
possessioni; ma tornò in campo con nuovi seguaci raccolti nelle pievi
di Castello, Rogna ed Aleria. Novellamente restò vinto e costretto
a rifuggirsi in quel suo nido di Aleria, dove girava gli abitanti
in ogni sua voglia; ma accortosi che con le proprie forze non poteva
ostare all'avversario, si diede in braccio a Genova, non abborrendo dal
vincere quello con la servitù de' suoi, purchè vincesse. Tali sono gli
ambiziosi. Andò a Bastia, corse a Genova, tornò con promesse ed aiuti;
il commissario Doria molto il favoriva. Fece un'intelligenza ed un
ristretto de' suoi confidenti, per servirsene al caso che meditava.
Era questo il sesto anno che la bella quanto sfortunata Italia godeasi
la pace procuratale dal trattato d'Aquisgrana; ma poco mancò che
uno strano accidente non venisse a turbarla. Un Luigi Mandrin, capo
di contrabbandieri, annidatosi da qualche anno tra i confini della
Francia, verso gli Svizzeri e la Savoia, rese la sua squadra talmente
celebre e terribile insieme, mettendo a contribuzione e spavento
città e provincie, che il governo franzese, volendo tor di dosso a'
suoi sudditi questa peste, avea spedito due grossi corpi di milizie
con ordine di farne ad ogni costo l'arresto. Madrin, che trovavasi in
Savoia, dove pure il tenevano di vista, ritirossi con quattro compagni
nel castello di Roccafort, dove non poteva dalle milizie franzesi esser
preso senza violazione del diritto delle genti. Ma lo uffiziale che
quelle milizie comandava, senza tante considerazioni, ed avanzandosi
con gran segretezza sino alla torre di San Genis d'Aosta, dove uccise
dieci o dodici contadini, altri ferì, e misse tutti in fuga quelli
che, sorpresi dalla novità della fazione, gli si erano voluti opporre,
inoltrò quindi prestamente sino a Roccafort, sorprese il famoso
contrabbandiere e lo tradusse a Grenoble, poi a Valenza, in cui finì
sulla ruota i suoi giorni.
Intanto il re di Sardegna, informato dell'accaduto, si fece a chiedere
al re di Francia pronta e solenne soddisfazione dell'ingiuria recatagli
con un'insigne violenza che ne offendeva la sovranità. E la corte
di Francia volea dargliela; ma non convenendosi ne' modi, il re di
Sardegna ordinò al suo ambasciatore di lasciar Parigi senza prendere
comiato, e distribuì in proposito una ragionata memoria a tutti i
ministri stranieri residenti a Torino. Non cessarono intanto i maneggi,
i quali condussero al felice risultato d'un accomodamento, che, con
reciproca soddisfazione di quelle due potenze, spiantò quel seme che
la discordia aveva apprestato a distruggere la buona armonia con tanta
difficoltà ristabilita.


Anno di CRISTO MDCCLVI. Indizione IV.
BENEDETTO XIV papa 17.
FRANCESCO I imperadore 12.

Nell'anno nuovo Matra corse per la seconda volta le campagne di
Corsica, piuttosto nemico di Paoli che amico della patria, contuttochè
mostrasse sempre un gran zelo per la libertà. Veniva con armi e
munizioni e denaro genovese; la fama portava grandi cose di lui,
e magnificava gli aiuti concedutigli. Quei della sua parte ed ogni
torbido fante accozzavasi con esso lui per guisa che facevano un alto
rumore per quelle montagne. Con tutti questi ordigni del gridare e del
promettere e del vantarsi e del sonare i zecchini aveva congregato una
seguenza di molti giovani, sì che pareva vicino il sobbisso di Paoli.
Il novello Mario uscì in campo, sperando di sorprendere il nemico
alloggiato nella pieve di Verde; ma non potè asseguire l'intento,
perchè il capitano tanto odiato da lui, avuto presto avviso del fatto,
aveva dato indietro, in sembianza di fugato più che di ritirantesi,
sino al convento di Bozio, dove si fermò ed attese a fortificarsi.
Mandò intanto ordinando a Clemente suo fratello ed al presidente
Venturini che prestamente accorressero, se amavano la sua salvezza.
Matra in questo mentre passò a quella volta, credendosi al certo di
avere la guerra vinta, anzi l'avversario stesso in mano. Giunse,
e cinto il convento d'armati, male si poteva Paoli difendere, non
avendo con sè che sessanta compagni. Già Mario squassava la porta del
convento, già la bruciava, già l'atterrava, già pareva giunto l'estremo
termine della vita di Paoli, quando a corsa ed a furia arrivarono
Venturini ed altri capi accompagnati da molta gente desiderosissima di
salvare colui cui la Corsica aveva chiamato salvatore e padre. Successe
fra le due parti una molto accanita zuffa, in cui i matreschi, non
sostenendo l'impressione del nemico, rimasero vinti e sbaragliati, ed
il loro condottiere ferito in un ginocchio. Ridotto in grande povertà
di consiglio, pensò di ritirarsi ma nol potè, perchè, sopraggiunto
dai paolisti infuriati, restò crudelmente trucidato, quantunque Paoli
ad alta voce gridasse, che dall'atroce pensiero si ritraessero e
in vita il serbassero. Tutti i partigiani del vinto rimasero preda
del vincitore, eccetto pochi, che si ricoverarono fra i Genovesi a
Paludella e San Pellegrino. Fra i prigioni, tre furono passati per
l'armi, gli altri obbligati a spianare il forte d'Aleria con gettarne
i sassi in mare, affinchè nissun vestigio restasse di quel nido, donde
a danno comune s'era partito il ribelle Matra. A tale andò la bisogna,
che a tutti furono tolte l'armi, di più di cinquecento si arsero le
case, dagli altri si ricercarono ostaggi per sicurezza di obbedienza.
Oltre modo lacerarono e dannificarono il paese dei disubbidienti.
Mentre Paoli comprimeva il nemico, e, lieto d'una vittoria che tanto
gli cresceva credito presso la nazione, castigava i partigiani di
Genova, fece pensiero di premiare, affinchè senza il debito onore non
rimanessero, coloro che secondo l'animo suo procedevano e fedelmente
si conformavano agli ordini suoi. A questo fine istituì un ordine
di cavalieri, che chiamò _compagnia volontaria_. Costoro portavano
una sottogiubba di panno corso rotonda e senza alcun ornamento, con
berretta verde e mostre di velluto pur verde; sulle maniche e sul petto
una croce coll'imagine della immacolata Concezione, i semplici compagni
d'argento, i graduati d'oro, coperta prima d'alcun fatto illustre, e
scoperta dopo. Obbligavansi ai servigi della patria a proprie spese,
andavano alle fazioni a piedi, solo a cavallo il gran maestro, che
eleggevano per sei mesi; ed il primo fu Giovanni Rocca, segretario di
Stato.
In questo tempo (per certe risse sanguinose accadute tra Franzesi ed
Inglesi nell'America settentrionale, e per contenzione di confini,
sulle frontiere del Canadà, o piuttosto per superbia e cupidigia
dell'Inghilterra da una parte, per debolezza del governo della Francia
dall'altra, poichè immerso il re nei piaceri, pareva che all'emulo
impero volesse comportare ogni cosa) s'era accesa fra le due potenze
una crudel guerra, sul principio della quale, ed in fin già prima
che fosse dichiarata, l'Inghilterra aveva tolto sui mari i vascelli
e le sostanze di Francia. Ora, correndo gli Inglesi il Mediterraneo,
la Francia concepì timore, ch'essi dei casi della Corsica volessero
tramettersi, e, levandola dall'obbedienza di Genova, s'impadronissero
di qualche sua parte, e vi facessero una stanza ferma con danno
manifesto de' proprii interessi. Della qual cosa tanto più sospettò
ch'erano andate attorno voci che Paoli avesse con l'Inghilterra qualche
segreta corrispondenza, e con esso lei seguitasse qualche domestichezza
d'amicizia e di fede.
A ciò pensando, le parve che non fosse più da differire di stringersi
maggiormente co' Genovesi; perlochè fece con Genova sue pratiche
col fine di conseguire da lei l'intento suo, che era di introdurre
soldati franzesi nelle piazze di presidio. La signoria, cui il
medesimo sospetto angustiava, massime nel caso che gl'Inglesi perduto
avessero Porto Maone per l'espugnazione del forte di San Filippo a
quei dì fortemente battuto dai Franzesi, s'inclinò facilmente alla
volontà della Francia; laonde nei primi giorni di novembre, condotti
dal marchese di Castries, al quale era stato dal re dato il grado
di comandarli, sbarcarono in Corsica tre mila Franzesi, prendendo le
stanze in Aiaccio, Calvi e San Fiorenzo. Non venivano come nemici ai
Corsi sollevati, nè a favore di nessuno, come pubblicavano, nè i Corsi
gli trattarono da nemici; solamente si appostavano gli uni e gli altri
con somma diligenza, e con grande gelosia osservavano ciò che l'altro
facesse.
Se la repubblica di Genova era rimasta contenta d'aver ottenuto
l'intento suo di vedere in Corsica un corpo di truppe franzesi,
ebbe pur motivo d'esserlo pel buon avviamento che presero le di lei
vertenze colle comunità di San Remo e di Campofreddo. Nel mese di
gennaio l'imperadore diede ordine al consiglio aulico di riassumere la
causa di quelle comunità a lui ricorse come feudi imperiali. Appena
ne giunse a Genova la notizia, la signoria, che avea già posto a San
Remo il morso d'una specie di cittadella, fece immantinente presentare
al detto consiglio aulico due scritture valevoli a far sospendere un
procedimento, di cui ad ogni modo poteasi temere l'esito incerto. Era
l'una di queste scritture una supplica presentata al senato genovese
da tre deputati delle comunità di San Remo residenti a Genova, con cui
la comunità stessa si metteva a' piedi della signoria, e riponea la sua
fiducia nella sovrana clemenza del senato per essere tornata in grazia
del suo principe; e l'altro un atto passato a Vienna dal procuratore
della comunità di Campofreddo, con cui ampiamente rinunziava ai ricorsi
sino a quel giorno fatti all'imperadore presentare.
Altissimi commovimenti produsse ne' popoli di quelle due comunità la
notizia di tali fatti de' loro commessi; si pubblicarono e divulgarono
da per tutto le loro solenni proteste, pregando e richiedendo i
ministri de' sovrani e delle potenze d'Europa a voler considerare
quelle scritture come estorte, nulle e riprovate dalle comunità. Le
quali proteste, pur presentate al consiglio aulico, fecero sì che per
quell'anno rimanesse l'affare sospeso, nè se ne udisse parola.
La guerra dei sette anni, in questo anno dal re di Prussia rotta
all'imperadrice regina, condusse l'Italia a vedere nudarne per la
Germania, e quindi per la Boemia, alcuni reggimenti de' suoi figli,
bella e fiorita gente, che dal granducato di Toscana l'imperadore
chiamò a far parte degli eserciti imperiali. Nè maggior peso le recò
l'altra guerra insorta nel nuovo mondo tra Spagna e Portogallo da una
parte, e gl'Indiani del Brasile dall'altra, che volevano mantenersi
indipendenti; ma vinti e disfatti, dovettero porre giù le pretese, e
sottomettersi. Se non che merita forse d'esser ricordato che gli oziosi
novellisti avevano fatto alla Italia gratuitamente il dono d'un Nicolò
Rubini del Friuli, che sotto il nome di Nicolao I menasse alle pugne
gli abitanti del Paraguai, da lui mossi e suscitati nella sua qualità
di gesuita; ma presto venne sopra la verità, e l'Italia perdette quel
non ambito onore d'aver dato un suo figlio per sovrano del nuovo mondo.
Ma mentre svaniva dalla mente dei creduli e dalle pagine della storia
questo re immaginario, la Corsica perdeva quello che aveva realmente
sopra di lei regnato. Partito Teodoro tre volte da quel regnò che
avealo nel 1736 solennemente riconosciuto per suo signore; divenuto
in seguito vero trastullo della fortuna, oppresso continuamente da
debiti, lottando col bisogno, perseguitato da' creditori, chiuso in una
prigione di Londra, come era stato prima in quelle di Amsterdam, trovò
in Orazio Valpole chi prese cura di lui, e raccolti sussidii volontarii
da uomini benevoli, col provento li cavò del carcere. Teodoro staggì
il suo regno di Corsica pel pagamento a favore dei prestatori. «Non so
come l'intendessero, dice uno storico esimio, ma in somma il fatto è
certo: vi sono di queste ubbie in Inghilterra, quando la vena dà.» Morì
poi in quest'anno a Londra, e fu sepolto nella chiesa di Santa Anna di
Westminster con la seguente iscrizione in lingua inglese, che vien a
dire in italiano:
«Qui giace Teodoro, re di Corsica, morto in questa parrocchia a
dì 11 dicembre del 1756 subito dopo d'essere uscito, pel benefizio
dell'atto sui falliti, dalle carceri del banco del re: lasciò il suo
regno di Corsica per sicurtà ai creditori.» Crederei che la chiusa
dell'iscrizione fosse scherzo, se si scherzasse sulle tombe, riflette
il poc'anzi citato storico illustre.


Anno di CRISTO MDCCLVII. Indizione V.
BENEDETTO XIV papa 18.
FRANCESCO I imperadore 13.

La compagnia volontaria da Pasquale Paoli novellamente istituita in
Corsica a premio de' più meritevoli non ebbe ad aspettare molto per
mettere alla prova il suo valore, e, giustificando la scelta fatta
dei membri, accrescere la speranza del capitan generale; imperocchè si
pose egli tantosto con essa all'impresa di espugnare la torre di San
Pellegrino custodita da' Genovesi, posto d'importanza e vantaggioso
a chi ne fosse signore. Un ingegnere svizzero diresse le operazioni
dell'assedio, le quali riducevansi a far salire chetamente un soldato
alla porta della torre per farvi un'apertura tale che vi potesse
passare un uomo armato, e quindi sorprendere d'improvviso il custode
dell'armi e della munizione. La cosa o male intesa o male eseguita
non riuscì, quantunque i Corsi con tanto silenzio e precauzione si
fossero appropinquati alla torre che i difensori non se ne erano
accorti per niente. Il soldato, che dovea far l'apertura nella porta,
cadde. I Corsi, invece di rifarsi da capo allo esperimento, o di dare
un improvviso assalto, perdettero inutilmente molto tempo, che diede
campo al presidio di dare all'armi e far piovere sopra gli assalitori
le palle. Costretti quelli a ritirarsi, determinaronsi ad un assedio
formale e ad obbligare i difensori ad arrendersi almeno per la fame.
Nè tardando questa molto a farsi sentire, fu proposta la resa mediante
un'onesta capitolazione. Ma Venturini, un capo corso, si fece a
gridare non voler capitolazioni, ma o che il presidio si rendesse
a discrezione, o altrimenti sarebbe presa per assalto e colla forza
dell'armi. Questa ostinazione fu salute degli assediati. Concorse in
questi momenti due galee genovesi con altri legni minori, obbligarono
i Corsi alla ritirata, colla perdita di molti di loro, tra i quali uno
de' nuovi cavalieri.
Intanto il marchese Doria, commissario alla Bastia, ordinò in nome
della repubblica che nissun paesano si avvicinasse a quella città,
ordine che fece ripetere dagli altri commissarii e comandanti genovesi
che si trovavano nell'isola, e ad esecuzione del quale formò un
campo volante, che dovea arrestare tutti i Corsi trasgressori. Ed
all'opposto, Paoli ed il supremo consiglio di Stato corso proibirono
a tutti i nazionali di avere alcuna corrispondenza colle città e coi
luoghi governati dai Genovesi, e molto più di trasportarvi vettovaglie
di qualunque sorta, al campo volante del commissario, contrapponendo
un altro campo consimile, per tener in dovere chiunque avesse ardito
d'infrangere le loro prescrizioni. La quale rigorosa misura sortì
l'inevitabile suo effetto; cominciò a farsi sentire la carestia così
vivamente alla Bastia, che il marchese Doria alle calde istanze degli
abitanti dovette rivocare i suoi divieti, e lasciar che la città si
provvedesse di viveri come meglio potesse.
Siccome la fama così altamente parlò di Pasquale Paoli, uomo che tanto
fece per la libertà della sua patria e che, se una forza sopravanzante
non si opponeva, avrebbe fondato nella natia isola una repubblica a
guisa di quella d'Olanda, pensiero che girava a quei tempi nella mente
degli uomini, non sarebbe fatica perduta lo spaziare alquanto sulla
sua vita, costumi, desiderii ed opere. In picciole scene, sono non di
rado grandi esempii. Se non cito ci stringono i limiti a queste carte
imposti e ne fanno la legge di toccare sol di volo e per sommi capi
l'alto subbietto.
Oppressi gli emuli e date di sè medesimo felici speranze, Paoli, se
avuto avesse la smania di tanti che abusano della confidenza che in
loro collocano i popoli, avrebbe potuto fare i Corsi servi e porre
sè in cima di tutti. Ma prevalse in lui un pio desiderio e si diè a
battere altra strada.
A' tempi del generoso uomo, i Corsi distinsero per suo consiglio
l'autorità pubblica in tre potestà; la legislativa, la esecutiva e la
giudiziale. Sedeva la prima nel parlamento, o, come la chiamavano, la
_consulta generale_, che rappresentava l'intero corpo della nazione,
e la componevano circa cinquecento membri, denominati _procuratori_,
ed eletti parte dal popolo, parte dal clero sì secolare che regolare.
I procuratori in consulta adunati avevano la facoltà di fare e di
annullare leggi e di stanziare la somma annua da potersi spendere per
lo Stato. Ed oltre alle leggi facevano certi magistrati, di due ordini,
uno giudiziale, l'altro esecutivo, cioè un ministro di giustizia per
ciascuna delle nove provincie della Corsica, e nove membri del supremo
governo esecutivo, uno pure per ciascuna provincia.
Il supremo governo esecutivo, cui chiamavano eziandio supremo
magistrato, o supremo consiglio, composto, come abbiam veduto, di
nove membri o consiglieri, aveva per presidente il generale Paoli,
dalla consulta a quella maggioranza eletto. Avevano questi consiglieri
diritto d'intervenire alla consulta, e di proporre per bocca del
presidente di lei quanto loro paresse giusto, o necessario, o
conveniente.
Paoli aveva titolo di _generale del regno e capo del magistrato
supremo di Corsica_. Nelle sessioni, sedeva sotto un baldacchino
coi consiglieri in qualche distanza da lui. La sua tavola ed il
mantenimento dalla casa erano a spese della nazione, senza limitazione
alcuna di somma, lasciandosi interamente, perchè potesse tener grado,
lo spendere a sua discrezione. Poteva disporre del denaro pubblico come
gli pareva più spediente, purchè non oltrepassasse la somma fissata
dalla consulta. Grande era la sua autorità, e forse eccessiva, se
le contingenze del tempo, e le turbate e incerte cose della Corsica
non la scusassero; imperciocchè per la milizia e pel mare godeva di
una potestà assoluta, e per tali faccende non era nemmeno obbligato
di domandar il parere dei consiglieri; e quando spontaneamente il
domandava, la loro voce si aveva solamente per consultiva, non per
giudicativa. Poteva trattare con qualunque potenza di pace, di guerra,
o di alleanza, ma non concludere senza l'assenso dei consiglieri,
avendo in tutti questi casi un solo voto come gli altri, con questa
eccezione però che nei casi di vita o di morte, se si trattasse di
condannare, avesse un voto solo, se di assolvere, due.
Aveva intorno per la guardia del suo corpo circa ottanta soldati, i
quali per ordine espresso della consulta il dovevano accompagnare ogni
qualvolta che in cospetto del pubblico o per ufficio o per altra causa
comparisse. I funesti casi di Sampiero e Giampiero, ed altri tentativi
di assassinio fatti contro di Paoli stesso, a tale deliberazione
avevano sforzato la consulta. Ma ciò egli detestava come segno di
tirannide, affermando e protestando volerne veder la fine tosto che
la Corsica un volto genovese più non vedesse. Nella sua anticamera,
nè nella camera, nemmeno di notte, nessuna guardia di uomo voleva; ma
era meglio e più fedelmente custodito che da uomini. Sei grossi cani
corsi stavano sempre, terribili custodi, alla porta dell'anticamera,
e nella camera stessa. Con lui dormivano, con lui vegliavano, e se
alcuno di notte a lui accostato si fosse, in mal punto venuto vi
sarebbe; perciocchè sarebbe stato incontanente da quelle orrende bocche
lacerato a pezzi. Molto Paoli gli accarezzava, ed essi il conoscevano e
l'amavano, e ad ogni suo cenno pronti l'obbedivano: dolcezza e ferità
in loro si accoppiavano. Trovo scritto, seguita a dire uno storico
famoso, che per tal costume Paoli ritraesse dell'antico; così, al dir
d'Omero e di Virgilio, Patroclo, Telemaco ed Evandro avevano i loro
cani; al dire degli storici, Siface i suoi.
Era stabilito per legge della consulta sotto pene gravissime che
nessuno parlasse o scrivesse contro il supremo consiglio, meno ancora
contro il generale, credendo quegli uomini gelosissimi la libertà delle
lingue e delle penne un veleno pestifero.
Quanto alla potestà giudiziale, abbiamo veduto come i procuratori
delle province eleggessero un ministro per provincia, al quale si
dovea ricorrere nei casi di maggiore importanza, quelli di poco
momento essendo giudicati da' giudici o podestà di ciascuna città o
aggregazione di villaggi. Questi ministri potevano condannare a multe
ed anche a pene corporali; e fu loro eziandio data autorità sopra il
sangue; ma quando ne usavano, erano in obbligo di mandare il processo
al supremo governo che confermava o annullava la sentenza.
Crearono poi pei giudizii delle cause civili, il cui importare
oltrepassasse cinquanta lire, imperciocchè sotto di questa somma
le sentenze de' ministri sopraddetti erano terminative, una ruota
composta di tre legisti, la quale sempre doveva fare la sua residenza
nella città di Corte. Da questa ruota vi era appellazione al supremo
consiglio, ma solamente quando constava che alcuno fosse stato molto
aggravato.
Questi ordini giudiziali non erano certamente perfetti, ed ancora li
bruttava l'infame uso della tortura. Ma intenzione del generale era di
perfezionarli col tempo.
I comuni si regolavano per gli uffiziali municipali, e li chiamavano
padri del comune. Erano eletti dai padri o capi di famiglia.
Le cause ecclesiastiche si agitavano nel tribunale del vicario
apostolico mandato dal papa, con autorità universale, e dalle sue
sentenze si appellava alla corte di Roma.
Paoli sentiva dell'ignoranza de' suoi compatrioti dolore acerbissimo:
nissun mezzo più acconcio vedeva per dirozzare, ingentilire ed
appiacevolire la nazione, di quello d'illuminare gl'intelletti ed
informare gli animi co' buoni esempii. In ciò non concordava con
Rousseau, cui aveva chiamato per dar leggi all'isola; imperocchè, come
ad ognuno è noto, il filosofo di Ginevra credeva che il ben essere
non potesse consistere che con una certa ruvidezza di costumi, e di
ciò in Corsica ne era dovizia. Perciò giva predicando che fra tutti i
popoli Europei i soli Corsi erano capaci di buone leggi. «Ma qui cade
in acconcio, dice il più volte lodato storico, l'antico proverbio,
che se l'ignoranza è vizio, il troppo sapere è parimente vizio, ed in
questo, come in ogni altra cosa, ogni bene sta nel mezzo. Non dico già
che il gran sapere sia vizio, in un individuo, poichè anzi è un pregio
eccelso e sommamente da lodarsi, ma solamente dico, che il sapere più
che al popolo si appartiene, sparso generalmente in una nazione, è
vizio e cosa da fuggirsi, perchè non può essere compiuto in ognuno, e
il ciel liberi gli Stati dall'essere in mano dei semidotti! Il perfetto
sapere dà la modestia e la ritiratezza, l'imperfetto la superbia,
l'impertinenza e l'ambizione.»
Paoli mosse, ed i supremi magistrati consentirono, che nella città
di Corte si fondasse una università degli studii, a cui concorrendo
i giovani Corsi, s'imbevessero di quanto più dirozza ed imbuonisce
l'uomo. Ciò successe nel 1764. Ottima disciplina ordinossi pel nascente
studio, esami settimanali, esami annuali; lodi e premi e corone, forti
stimoli a giovani intelletti. I professori, stipendiati dalla nazione,
insegnavano gratuitamente. La novità del caso, quel cibo tanto gradito,
quanto per la prima volta offerto e gustato, la naturale attitudine
per le scienze e per le lettere degl'ingegni corsi, i conforti e
gl'incoraggiamenti del Paoli, uomo tenuto in tanta venerazione dalla
gioventù, partorivano effetti mirabili.
Queste cose faceva il benevolo reggitore della Corsica fra mezzo i
furori della guerra e l'incertezza del destino futuro della sua patria.
Importava massimamente a Paoli la cura della guerra e degli esercizii
militari. Contuttociò egli andava pensando come avvezzar potesse i suoi
compatriotti alle opere di agricoltura, cui per lungo uso ripugnavano.
Gli andava dunque invitando alle rurali fatiche, accarezzava chi vi si
dava, premiava chi vi profittava, a poco a poco altro aspetto vestiva
la Corsica infelice, la smossa terra rendeva l'odore delle fortunate
radici, vedevasi sui campi, cosa insolita per lo innanzi, le marre
mescolatamente colle spade.
Giovine e, per così dire, fanciulla era a quei dì la Corsica per la
capacità del governare le faccende dello Stato: bisogno ancora aveva di
tutela. Ad ogni ora domandavano a Paoli consiglio di quanto avessero
a farsi e per le cose e per le persone: rispondeva: _Fate voi altri,
nominate voi altri_. Così gli avvezzava.
Squallida l'isola per la guerra, squallida per la povertà. «La patria,
il generale diceva, è il corpo della Sunamitide, noi e i magistrati
il profeta Eliseo, che, occhi ad occhi, bocca a bocca sopra di lui
distesi, opera facciamo di rianimarlo: già comincia a muoversi, già
riprende calore e vita, e se il tempo e Iddio ci aiutano, presto
vedremo non solo la quiete e l'ordine, ma ancora le scienze e le arti.