Annali d'Italia, vol. 8 - 04
in ispezialità, esposte alle piraterie africane, più non vedevano in
loro difesa le galee maltesi, ridotte a convertire l'oggetto primario
della loro istituzione in quello di procacciar alimenti agli abitatori
dell'isola loro.
Vero è che il gran maestro erasi rivolto alle corti di Vienna, di
Francia, di Spagna e di Portogallo, pregandole d'interporre i loro
buoni ufficii in questo affare; ma preoccupate da alcuni riguardi,
e specialmente da quello di non pregiudicare alla gloria del re
Carlo, intaccando i diritti e le prerogative della sua corona,
ristrinsero le sollecitazioni principalmente a far rivocare da Sua
Maestà siciliana ii suo decreto, lasciando le cose nello stato in cui
erano precedentemente. Non condiscese la corte di Napoli al proposto
temperamento; ma, insistendo il pontefice nelle paterne sue istanze
presso la medesima, ambe le parti accordaronsi in questo, di rimettere
ogni cosa nelle mani del Lambertini. Il quale, come vicario di Gesù
Cristo, scrisse di proprio pugno una lettera al re don Carlo, in
cui con l'eloquenza che gli era propria, lo pregava di ridonare la
sua buona grazia alla sacra religione di Malta, ed a non negargli il
contento di una favorevole risposta.
Don Carlo, che sul trono delle Due Sicilie, come poi su quello di
Madrid, presentò alle genti nella sua persona il modello di tutte le
virtù, che fu sul soglio reale quale, se nato suddito, avrebbe bramato
il proprio sovrano; pieno di umanità e di religione; avverso alle
guerre e persuaso che la felicità de' popoli al suo governo affidati
non dall'arte dipendesse di sterminare i suoi simili, ma dalla probità,
dalla buona fede e dalla purità dei costumi in chi governa; affezionato
in particolar modo a Benedetto XIV; don Carlo, ricevuta ch'ebbe la
lettera, gli rispose, essersi commosso dalle vivissime istanze di Sua
Santità in proposito delle differenze con l'ordine di Malta, sentito
disposto ad avere ogni riguardo ad una intercessione cui doveva per
tanti titoli riverire; avere perciò dato ordine perchè fosse riaperto
il commercio dei suoi Stati coll'isola di Malta, e levato il sequestro
de' beni della stessa religione; confidarsi però che, come Sua
Santità nella sua lettera lo assicurava, la risoluzione così presa non
produrrebbe la benchè minima ombra di pregiudizio a' suoi diritti, ma
anzi, all'incontro, quelli che possedea nell'isola e sopra la chiesa
di Malta, qualunque fossero, rimarrebbero in tutta la loro forza e in
pieno vigore.
Anno di CRISTO MDCCLIV. Indizione II.
BENEDETTO XIV papa 15.
FRANCESCO I imperadore 10.
All'inaspettata alleanza, anzi alla futura parentela nell'anno
precedente convenuta tra la casa d'Este e quella d'Austria, che invece
di consolidare parea ad alcuni che metter dovesse in pericolo la quiete
dell'Italia; al pacifico concordato della corte di Spagna con quella
di Roma; alle moleste sì, ma non sanguinose differenze insorte tra
Roma, Genova e Napoli, e tra questa corte e la religione di Malta,
che peraltro avrebbero potuto turbare l'italiana tranquillità appena
nata; successe quest'anno sulla riviera occidentale di Genova un caso
che parea dover produrre un grave incendio. Sollevaronsi i popoli
di S. Remo e di Campofreddo. O sia che la piccola comunità di Cola,
dipendente da S. Remo, si fosse richiamata alla repubblica di Genova
per la gravezza delle taglie che le si faceano portare, o sia che
insorgesse la discordia per qualche novità intorno a' confini voluti
stabilire, oppure per entrambi cotali motivi; fatto è che il popolo di
S. Remo, facendo risuonare voci di libertà, di cui credeva di dover
godere a fronte del sovrano dominio della repubblica, dato di piglio
alle armi, si mostrò disposto a scuoterne intieramente il giogo.
Informato il governo di Genova che quegli abitanti eransi assicurati
della persona del commissario Doria e delle truppe state colà spedite
per metter fine alle dissensioni tra S. Remo e la comunità di Cola,
mandò tre galee, una bombarda e vari bastimenti da trasporto carichi
di truppe sotto il comando del generale Agostino Pinelli. Ora, avendo
il generale fatto incontanente avanzare una scialuppa con tamburo
che intimasse agli abitanti di consegnare fra due ore la persona del
commissario Doria e la sua famiglia alle truppe della repubblica,
in pena del ferro e del fuoco e di essere passati a fil di spada; la
scialuppa stette due ore alla spiaggia, e poscia condusse due deputati,
i quali dissero al generale che, dipendendo quanto egli domandava dalla
volontà del popolo, non era possibile dargli soddisfazione dentro il
poco tempo prescritto.
A tale dichiarazione il generale ordinò le ostilità contro i ribelli;
quindi le galee e la bombarda fecero un fuoco che durò tutta la notte;
i ribelli dal canto loro rispondendo con alcuni cannoni da campagna che
trovavansi a loro disposizione. Sul far del giorno le truppe sbarcarono
in una spiaggia distante due miglia dalla città, senza incontrare
opposizione di sorta; ma di mano in mano che i granatieri verso la
città avanzavano, i contadini, dalle case, dalle muraglie, dagli ulivi,
facevan loro fuoco addosso, sostenuti da altri che eransi in varii siti
appostati. A fronte di tale resistenza, i granatieri, fatti forti da
alcuni corpi di milizia alamanni, procedettero arditamente contro i
ribelli e si impadronirono de' posti più importanti delle vicinanze di
S. Remo.
Mentre il generale Pinelli dava le disposizioni necessarie per compire
l'impresa, vennero a lui da parte del popolo due nuovi deputati per
sottomettersi a patto d'aver salva la vita, l'onore ed i beni. Rispose
il generale che bisognava subito consegnargli il commissario Doria,
come avea precedentemente domandato, e ritenendo i messi, permise loro
di far sapere in iscritto le sue intenzioni ai ribelli. Si prevalsero
questi adunque della accordata permissione, ed in fatti poco stante
capitò il commissario Doria, e con esso altri quattro deputati per
supplicare il generale di annuire alla grazia già prima implorata.
Rimandolli egli con isdegno, soggiungendo che dovessero consegnare
tutte le armi, ed appartener poi alla repubblica, alla cui clemenza si
avevano a rimettere, il conceder quello di che pregavano; nè valsero
preghi o lagrime dei deputati a commuovere quel capitano dell'armi
genovesi. Ebbesi però un armistizio, ed il giorno appresso la città si
arrese a discrezione.
La prima notte ed il giorno appresso stettero le cose in calma; ma
la seconda notte il generale fece arrestare nel proprio letto molte
persone, e chiamati il consiglio di reggenza ed il parlamento, ingiunse
loro di pagare in termine di due ore ottanta mila lire; e come nel
prefinito spazio non avea potuto essere consegnato il denaro, fece
arrestare e il parlamento e la reggenza, guardandoli i soldati colla
baionetta in canna. Pagata poi la somma, ciascun credette di tornare
a casa sua; ma il capitano, prima di lasciar libero il parlamento,
esigette lo sborso di una somma eguale; e contata anche questa due
giorni dopo, intimò che dentro otto giorni si dovessero pagare altre
cento mila lire. E procedette più innanzi: fatti imprigionare molti
ecclesiastici e secolari, fu il priore di consiglio di reggenza, con
altri personaggi graduati, rinchiuso nel palazzo del generale, il cui
proprietario non potè trattenersi dal dirgli: _V. E. non mantiene la
parola data ai deputati, che i cittadini avrebbero salve la vita e la
roba; _rimprovero che il punse tanto nel vivo che minacciò delle forche
chi glielo faceva.
Siffatte asprezze e molte altre ancora spaventarono ed irritarono
talmente i Sanremani, che la maggior parte ritiraronsi nelle vicine
montagne dette delle Langhe, feudi imperiali sotto il dominio del re
di Sardegna, quivi, in numero di due mille cinquecento, campeggiando
alla meglio sotto tende e baracche, non rimasti quasi in città se
non i vecchi, le femmine ed i fanciulli. Corse allora opinione che
un pugno di gente ridotta a tanto estremo, non avrebbe tardato molto
a sottomettersi a qualunque legge volesse imporgli la repubblica di
Genova; ma assai male conosceva gli uomini e le storie chi in tal modo
pensava. I Sanremani spedirono lor deputati a Vienna a chieder contro
la repubblica giustizia dall'imperadore Francesco, qual da signore
diretto di quel feudo, e segretamente implorarono la protezione del
re di Sardegna. O che la repubblica ignorasse quei maneggi, oppure,
cosa più verisimile, fingesse d'ignorarli, per finire le cose senza
ulteriori strepiti e disturbi, fece pubblicare un editto nel quale,
dopo avere esposto con tutta l'enfasi il peso e l'enormità del delitto,
di cui erasi resa colpevole quella popolazione, tuttavia, per effetto
di somma clemenza, prometteva un perdono generale a tutti, prefiggendo
un termine discreto al ritorno di coloro ch'eransene fuggiti, soli
eccettuati quattordici dei principali sediziosi.
Ma i fuorusciti delusero le aspettative comuni, che, invece di tornarne
alle case loro sottomessi ed umiliati, cercarono ricovero in Oneglia,
terra del re di Sardegna, e l'ottennero da quel principe, che senza
punto ingerirsi nelle querele loro colla repubblica, credette di non
poter negare ad essi un asilo che il diritto di natura e quel delle
genti non consentono che a verun rifugiato si nieghi. Genova si scosse
alla novella, ma viemmaggiormente fu commossa allorchè intese che i
deputati di San Remo avevano a Vienna ottenuto che fossero ricevuti
dal consiglio aulico i loro ricorsi e fattane poi la relazione
all'imperadore. Nè basta; venne altresì la repubblica assicurata che
l'imperadore aveva fatto spedire un rescritto, in cui ordinava alla
medesima di dovere intorno a fatti esposti dai Sanremani informare nel
termine di due mesi; rescritto di cui si sparsero molte copie negli
Stati della repubblica, in S. Remo e nella stessa Genova.
Quanto moto si desse la repubblica contro queste imperiali
disposizioni, ciascuno se l'immagina, e basterà dire che per altro
tornarono tutti i suoi passi infruttuosi. Ma non si poteva che lo
stabilimento dei Sanremani sulle terre del re di Sardegna, e molto più
il favore da essi trovato presso la corte di Vienna, non accrescessero
le male disposizioni d'animo dei Genovesi contro di loro. Laonde il
commissario che a San Remo per la repubblica dimorava, si credette
giustificato di trattarli con modi poco cortesi, spingendo anche le
parole e le vie di fatto contro il vescovo di Albenga, il quale in
questi commovimenti si trovò troppo propenso ai sollevati, e fu poi
costretto a ritirarsi cogli altri ad Oneglia.
Nel mezzo tempo molto più gravi erano le cure e più decisive le
operazioni della repubblica di Genova per la ribellione della Corsica,
ch'era già presso il terzo lustro. Abbiamo già veduto a svanire i
bei disegni e le lusinghiere speranze del marchese di Cursay, che
di tanti pensieri e tanti maneggi si ebbe a guiderdone la prigionia
in Antibo, benchè poi si purgasse dalle accuse che la repubblica gli
avea poste addosso, e così fosse liberato. Il colonnello di Curcì, che
gli succedette nel comando dell'armi franzesi nell'isola, scorgendo
l'insuperabile avversione dei Corsi al già divisato regolamento,
formava nuovi progetti; ma, ignaro della mente del suo sovrano
riguardo i Corsi, si affaticava indarno. I Corsi bensì che non solo
prevedevano, ma erano quasi certi della vicina partenza delle milizie
franzesi, dimentichi affatto di tutta quella buona armonia ch'era con
esse passata, e non riguardandole se non come gli strumenti de' quali
erasi la repubblica servita per soggiogarli, non ebbero ribrezzo ad
attaccarle in modi crudelissimi, giungendo a spogliar nudi affatto
quelli che cadevano loro in mano e in quello stato rimandandoli ai loro
compagni, fra gli orrori del verno, per mezzo alle nevi; crudeltà che
crebbero a dismisura allorchè nel mese di febbraio giunse in Corsica
un uffiziale franzese cogli ordini della corte di far tosto ritirare
dall'isola le truppe. Gravi furono i pensieri del comandante per
preservarsi dagl'insulti e dal danno nella ritirata, e sagge le misure
da lui prese all'importantissimo fine; ma tutte le sue precauzioni non
riuscivano felicemente.
I Corsi vegliavano sopra tutti i movimenti ed accorrevano da per
tutto. Divisi in piccioli manipoli, bloccavano i Franzesi nelle torri e
negli altri posti, impedivano loro le munizioni da guerra e da bocca,
finalmente protestavano che avrebbero strozzati tutti i Franzesi, se
nell'abbandonare le piazze ed i luoghi da essi occupati, a loro non
li consegnassero; ed erano tali da tener la parola. Nè le attenzioni
vere o simulate del principale capo Gian Pietro Gaffori avevan forza di
trattenere i Corsi, sì che da ogni parte continuassero ad attaccare i
Franzesi che erano in cammino per unirsi al loro capo: e guai a quelli
che per istanchezza o cagione altra qualunque rimanevano indietro o
si scostavano alcun poco dai compagni! Soli i distaccamenti di là dei
monti furono meno inquietati, e si ridussero tutti sani e salvi in
Aiaccio.
Intanto ogni cosa era ormai disposta per la partenza, nè altro mancava
che di ottenere da Gaffori e dagli altri Corsi la restituzione de'
soldati da essi tenuti prigionieri. Ma fu impossibile indurgli a tanto,
finchè con una specie di capitolazione il comandante franzese non si
obbligò di consegnar loro la piazza di San Fiorenzo; promessa che però
ei non fu in poter di mantenere per la costante opposizione che vi fece
la repubblica. Nel qual fatto delusi i Corsi, tennero immediatamente
un congresso nel convento di Oletta, in cui unanimi determinarono di
non voler più sentire a parlare di soggezione verso qualsiasi potenza,
ma sì bene governarsi da sè medesimi coi magistrati proprii e colle
proprie leggi.
Sul principio di primavera, giunte le navi che trasportare doveano
le truppe franzesi, abbandonarono esse finalmente, dopo cinque anni
di soggiorno la Corsica, seco non portando altro frutto delle loro
fatiche, fuorchè un'idea giusta del valore e dell'entusiasmo de' Corsi,
i quali, pratici dei siti, fieri per carattere, ostinati per impegno,
avrebbero disputato a chiunque il possesso della loro isola, e se si
fossero formata di sè la giusta idea che la Francia in quella occasione
e la maggior parte de' sovrani ne avevano concepita, forse si sarebbero
formata una sorte migliore; ma allora badavano più alle private
passioni che al ben comune.
Appena partiti i Franzesi, si vide una manifesta prova di questo loro
modo di pensare. Imperciocchè, essendosi di bel nuovo adunati per
consultare intorno al modo del governarsi ed ai mezzi di mettersi
del tutto in libertà, insorsero fiere dissensioni fra loro, e dalla
discordia dei capi provennero amarissime conseguenze. Gaffori, capo
principale de' malcontenti, di severità eccessiva, non avea difficoltà
alcuna, per lievi motivi, o per sospetti, di far arrestare le persone
più cospicue e qualificate, come appunto, fece in questo tempo di
un Giuliano, il primo certo fra i Corsi dopo di lui; ed a quattro
pievi ch'erano entrate in negoziazioni col commissario Grimaldi per
sottomettersi di bel nuovo alla repubblica, fece patire una esecuzione
militare, che, invece di atterrire, irritò gli animi di tutti.
Il Grimaldi era a giorno di tutto, e d'ogni cosa cercava destramente
d'approfittare. Dopo di avere accolto favorevolmente i deputati
delle dette quattro pievi, e fatto ad essi sperare sommi favori, per
invogliare così altre comunità ad imitarne l'esempio, e dopo fomentate
le discordie dei malcontenti, di tutto informò la repubblica. Allora
non differì essa di far pubblicare un editto di perdono generale e di
obblio del passato per quelli che, deponendo l'armi, fossero ritornati
all'antica ubbidienza; ed a questo passo ne tenne dietro un altro
dello stesso commissario, in cui dimostrava ai Corsi non rimaner loro
altro partito che di attendere gli effetti della clemenza di Genova;
poichè e un grosso rinforzo militare che dovea fra poco essergli
spedito, e gli ordini dati dai re di Spagna, Francia, Inghilterra,
Napoli e Sardegna per vietare rigorosamente alle navi de' loro
sudditi di poter trasportare nell'isola nessuna sorte di munizioni,
da guerra specialmente, e il cattivo stato della Corsica, ed il vicino
cambiamento di sentimenti nella repubblica verso di essi, gli avrebbe
poi ridotti a pentirsi invano di non aver saputo approfittare di
circostanze sì favorevoli per essi.
Convien dire che qualche impressione facessero sull'animo de' Corsi
le parole del Grimaldi, poichè essendosi i capi radunati insieme più
volte, fu stesa una scrittura in ventidue articoli, ne' quali stavano
le condizioni, colle quali si sarebbero rimessi nella soggezione della
repubblica; e sebbene non fosse espressa in termini convenienti, come
lo stesso Grimaldi, cui fu presentata, fece ai deputati vedere, la
spedì egli a Genova, e si trattò fra' Corsi di eleggere persona saggia
e prudente, cui affidare la cura di quel dilicato maneggio.
I voti comuni raccoglievansi nella persona del cavaliere Gian Francesco
Brerio, illustre Corso, degno per le sue qualità della confidenza della
sua nazione, e abilissimo all'uopo, per l'esperienza acquistata nel
trattar gli affari di molte potenze, presso le quali era estimato e
lodato; quando, giunti da Balagna due deputati del canonico Orticoni,
famoso raggiratore, di fresco ripatriato dopo luogo esilio, chiedendo
in nome di lui che gli fosse affidata l'importante commissione,
mandarono a vuoto il partito presso a conchiudersi.
Se non che un avvenimento molto più grave terminò di rovinare ogni
cosa: l'assassinio di Gaffori. Lasciate dall'un de' lati le molte cose
immaginate e dette intorno ai motivi ed a' segreti autori del misfatto,
basterà dire che quel capo erasi fra' suoi fatti molti nemici, e che il
commissario genovese vedeva in lui il più potente ostacolo ai desiderii
della repubblica. Uscito per tanto un giorno il Gaffori a passeggiare
o in un giardino alla campagna o sulla pubblica strada, fu d'improvviso
colto da più colpi di moschetto sparati contro di lui, e che lo stesero
morto a terra con un suo parente che stavagli a lato e che spirò pochi
momenti dopo di lui.
Tal fine ebbe questo capo de' Corsi, che ne avea titolo di governatore
e capitano generale. Uomo pieno di coraggio e di zelo per la patria,
ma violento e vendicativo, e forse dominato troppo dalla passione di
comandare. Ma quello che destar deve maggior orrore si è che un suo
fratello medesimo venia fra' congiurati alla sua morte. Arrestato
costui con molti altri complici, fu con trentasette voti contro
tredici condannato ad esser rotto vivo in prigione, e prima di
morire confessò tutta la congiura. Altri complici furono giustiziati,
altri alla pena si sottrassero colla fuga. Fatti all'estinto Gaffori
solenni funerali, ne' quali offiziò il canonico Orticoni, gli fu pur
recitata funebre orazione. Terminate le quali lugubri funzioni, si
radunò di bel nuovo la nazione, e quivi pronunziò la pena della morte,
dell'infamia e della devastazione dei beni contro qualunque Corso
avesse osato parlare di riconciliazione con Genova. Quasi universale
intanto prevaleva in Corsica la persuasione che l'assassinio di Gaffori
fosse seguito per seduzione e ad istigazione della medesima e del
suo commissario Grimaldi, tanto più che fu divulgato come cosa certa
essersi all'arrestato fratello trovate due lettere, nelle quali se gli
prometteva il premio di due mila lire per l'esecrabile fratricidio.
Anno di CRISTO MDCCLV. Indizione III.
BENEDETTO XIV papa 16.
FRANCESCO I imperadore 11.
Mentre la guerra continuava a travagliarsi con varii ma deboli
accidenti, in Corsica, venne surrogato dalla signoria genovese al
commissario Grimaldi il marchese Giuseppe Doria, il quale, come giunse
in Bastia, mise innanzi ragionamenti di concordia, e procurò di indurre
i popoli all'obbedienza colla dolcezza; ma la dolcezza del Doria non
valse più dell'acerbità del Grimaldi.
La sperienza ammoniva i Corsi che dopo la morte del Gaffori niuno
restava a cui con animi concordi la nazione concorresse, e che potesse
stagliare quei gruppi di tante fazioni. Pure sapevano che la discordia
mena a servitù. Di Matra poco si fidavano, che anzi un fiero sospetto
era venuto loro in cuore, ed era, che avesse partecipato nella congiura
per dar morte a Gaffori. Degli altri capi, nessuno avea tanto credito
che riunire potesse in un sol volere ed in un solo sforzo e chi
dissentiva e chi tiepido se ne stava. Volsero gli occhi in Corsica, li
volsero fuori, per iscoprire se uomo al mondo vivesse, il quale fosse e
sicuro per desiderio di libertà, e capace per ingegno, ed ammaestrato
per esperienza di cose militari, onde di lui tanto promettere si
potessero che divenisse liberatore e salvatore della patria. Sovvenne
loro che vivea in Napoli, ai servigi militari di quella corona col
grado di colonnello, Giacinto Paoli, antico loro capitano, che,
disperate le cose dell'isola nel 1739 pei successi guerrieri di
Maillebois, si era in quel regno ritirato. Aveva con sè allora il suo
figliuolo Pasquale, che nella milizia napolitana occupava il grado
di tenente, e nel quale, sebbene ancora nella giovane età di ventidue
anni, risplendevano segni di animo libero ed invitto.
Qual fosse questo Pasquale, lo dice un autore anonimo, che scrisse
con verità e senza adulazione ed odio per nissuna delle parti le cose
di Corsica. Avuta il padre di lui favorevole accoglienza alla corte
di Napoli, si pose in grado di dare al figlio la migliore educazione
di cui potesse far copia quella città. Quivi fatti adunque Pasquale i
suoi studii, tra' quali quelli di etica sotto Antonio Genovesi, senza
dubbio uno de' principali ornamenti d'Italia, a ciò non si stette; ma
risoluto di portare più oltre i passi nel sapere, quantunque entrasse
al servizio militare assai per tempo, la sua grande ambizione fu
d'informarsi a fondo degli antichi Stati di Grecia e Roma. Così ei si
pose perfettamente in possesso Tucidide, Polibio, Livio e Tacito; nè
per ostentazione, ma per uso, imperciocchè si studiasse di far sue
proprie le loro cognizioni, ed ei medesimo confessasse essere sua
speranza di formare sè stesso sui modelli d'uomini tali quali furono
Cimone ed Epaminonda. E, a vero dire, egli si era loro avvicinato
quant'è mai possibile nell'eleganza della condotta e nell'amore delle
lettere, egualmente che in un appassionato desiderio di servire la sua
patria. Trovossi in procinto di avere un reggimento, e lo tenne sempre
come la più grande sventura che gli potesse accadere, come quella che
gli dovea impedire di andar a liberare la sua patria dai Genovesi, come
ebbe sempre in pensiero.
Ad una nazione incolta stava apprestando la provvidenza un uomo colto,
ad uomini furibondi un uomo di pacato ingegno, a guerrieri, che meglio
sapevano combattere le battaglie che non prepararle, un guerriero,
in cui l'arte eguagliava il valore. E per frenare un'incomposta e
disordinata furia, Paoli era molto accomodato; poichè, sebbene da Corso
odiasse i Genovesi, d'indole sedata era, ed in lui l'operare procedeva
piuttosto da fortezza abituale che da impeto passeggiero e facile
a svanire. In somma, vero e sincero parto del secolo decimottavo fu
Paoli, ma però prima che il secolo dagli abbaiatori e dagli ambiziosi
si guastasse. A Pasquale Paoli pertanto pensarono i Corsi, e lui
delle necessità della patria ammonirono, e a lei il pregarono che
soccorresse.
Il dabbene e forte giovane vide qual difficile impresa gli si
apprestava. La ferocia e l'ostinazione delle parti erano malagevoli,
e forse impossibili, a domarsi; Genova ricca e forte in paragone
della Corsica, per peggiore sua sorte notata di ribelle; le ambizioni
degli antichi capi, massimamente quella del giovane Mario Matra, più
ambizioso di tutti; nè ignorava che i capi de' Corsi, se infelici
nell'amministrare la guerra, perdeano con essi la causa; se felici,
erano a tradimento ammazzati: i casi di Sampiero e di Gaffori erano
tali da spaventare qualunque più intrepido amatore della sua patria.
Ma vinse in Paoli il desiderio della gloria, vinse il desiderio della
libertà: rispose adunque essere parato, accingersi volentieri all'alto
proposito, tutto dare sè stesso alla salute della patria.
Navigato felicemente, prese Pasquale Paoli terra a foce di Golo a dì 29
aprile; e soffermatosi alquanto d'ora al vescovato, volse poi i passi a
Rostino, dove era nato. Come prima si sparse il grido essere arrivato
il figliuolo di Giacinto, figliuolo degno di degno padre, concorsero
i popoli bramosamente a vederlo, sperando che, se la somma delle cose
loro reggesse, conservare potrebbero il nome e la libertà corsa.
Nel mese di luglio fecesi, per mezzo de' capi eletti, un parlamento
di tutta la nazione a Sant'Antonio di Casabianca, paese della pieve
d'Ampugnani. Paoli, trovato ne' cittadini riscontro ai suoi desiderii,
v'intervenne. Fu con consentimento unanime chiamato generale delle armi
e capo della parte economica e politica del regno, con autorità piena
e libera, fuorchè nei casi ne' quali si trattasse di materie di Stato,
sopra cui deliberare non potesse senza l'intervento di due consiglieri
di Stato e dei rispettivi rappresentanti di ciascuna provincia. Legossi
per fede, e giurò, in cospetto della nazione a parlamento adunata, che
fedelmente ed in benefizio della libertà le potestà userebbe che la
patria gli dava.
In sul limitare stesso del preso magistrato poco mancò che Paoli non
perisse. L'invidia degli emuli gli fu subito addosso. Mario Matra,
sopra tutti, giovane, siccome si è osservato più sopra, ambizioso
e feroce, e per nascita nobile e per sostanze dovizioso, con grave
sdegno aveva sentita l'esaltazione del capitano generale, ed ogni
mezzo andava macchinando ed ogni via cercando per torgli quella
superiorità, cui cotanto egli odiava. Immenso odio in sè medesimo
annidando, dovunque vedeva un uomo odiatore di Paoli; od in qualunque
modo amatore di risse e di scandali, tosto a lui ricorreva, il tentava,
e contro l'emulo lo spingeva. E pretesseva anche parole di libertà,
accusando il capitano generale del volersi servirò dell'autorità
datagli per istabilire la tirannide. Sommovitrici parole sono sempre
queste pe' popoli, più sospettosi di perdere la libertà, che savii per
conservarla. Ma i popoli corrono dietro, come pecore, agli ambiziosi
che gridano tirannide, quando c'è libertà. Matra gridava e chiamava
Paoli tiranno; non pochi si lasciavano sollevare dagli umori torbidi
di questo commovitore, intorno a cui si faceva concorso. Ai sospetti,
alle maldicenze si aggiunsero alcuni privati sdegni. Il vecchio vizio,
vogliam dire l'amore della vendetta, tuttavia predominava, e per quanto
avessero fatto i governi precedenti per estirpare questa velenosa
pianta, nuovi rampolli ella sempre mandava fuori, se non peggiori,
almeno altrettanto maligni dei primi. Solo aveva tregua il feroce
talento quando i popoli andavano alle battaglie contro i Genovesi; ma
finite le battaglie, i Corsi si ammazzavano partigianamente fra loro.
Paoli, che intendeva non solamente a libertà, ma ancora a civiltà,
applicò tosto l'animo a sanare questa peste. Cominciò colle
persuasioni, cui davano peso il suo nome, l'amore dei popoli, la
fresca autorità; che non mai dal collo si leverebbero Genova, se con le
proprie mani continuassero a distruggersi; fare loro, insanguinandosi
nel sangue corso, ciò appunto che i loro nemici desideravano; non le
mani raffreddate dalla morte, ma le vive alcuna cosa potere contro
gli oppressori, nè mai esservi di mani vive troppa copia contro di
chi tanto può. Quindi, dalle parole venendo ai fatti, stabilì in
ciascuna provincia, ed in altri luoghi che gli parvero opportuni,
certi magistrati con facoltà di giustizia pronta e sommaria a terrore
de' feritori e degli omicidi. La giustizia sempre è più rispettata
quando ella è più imparziale, e si esercita egualmente senza eccezione
di persone, quali esse sieno e di qual nome si chiamino. Ora accadde
che un parente di Paoli, trovato reo di omicidio, fu sentenziato a
morte; i parenti pregavano per la grazia; i popoli stavano a vedere
che si facesse. Comandò che si facesse giustizia, il reo fu passato
per l'armi: fruttifero esempio. Da allora in poi divennero rari gli
loro difesa le galee maltesi, ridotte a convertire l'oggetto primario
della loro istituzione in quello di procacciar alimenti agli abitatori
dell'isola loro.
Vero è che il gran maestro erasi rivolto alle corti di Vienna, di
Francia, di Spagna e di Portogallo, pregandole d'interporre i loro
buoni ufficii in questo affare; ma preoccupate da alcuni riguardi,
e specialmente da quello di non pregiudicare alla gloria del re
Carlo, intaccando i diritti e le prerogative della sua corona,
ristrinsero le sollecitazioni principalmente a far rivocare da Sua
Maestà siciliana ii suo decreto, lasciando le cose nello stato in cui
erano precedentemente. Non condiscese la corte di Napoli al proposto
temperamento; ma, insistendo il pontefice nelle paterne sue istanze
presso la medesima, ambe le parti accordaronsi in questo, di rimettere
ogni cosa nelle mani del Lambertini. Il quale, come vicario di Gesù
Cristo, scrisse di proprio pugno una lettera al re don Carlo, in
cui con l'eloquenza che gli era propria, lo pregava di ridonare la
sua buona grazia alla sacra religione di Malta, ed a non negargli il
contento di una favorevole risposta.
Don Carlo, che sul trono delle Due Sicilie, come poi su quello di
Madrid, presentò alle genti nella sua persona il modello di tutte le
virtù, che fu sul soglio reale quale, se nato suddito, avrebbe bramato
il proprio sovrano; pieno di umanità e di religione; avverso alle
guerre e persuaso che la felicità de' popoli al suo governo affidati
non dall'arte dipendesse di sterminare i suoi simili, ma dalla probità,
dalla buona fede e dalla purità dei costumi in chi governa; affezionato
in particolar modo a Benedetto XIV; don Carlo, ricevuta ch'ebbe la
lettera, gli rispose, essersi commosso dalle vivissime istanze di Sua
Santità in proposito delle differenze con l'ordine di Malta, sentito
disposto ad avere ogni riguardo ad una intercessione cui doveva per
tanti titoli riverire; avere perciò dato ordine perchè fosse riaperto
il commercio dei suoi Stati coll'isola di Malta, e levato il sequestro
de' beni della stessa religione; confidarsi però che, come Sua
Santità nella sua lettera lo assicurava, la risoluzione così presa non
produrrebbe la benchè minima ombra di pregiudizio a' suoi diritti, ma
anzi, all'incontro, quelli che possedea nell'isola e sopra la chiesa
di Malta, qualunque fossero, rimarrebbero in tutta la loro forza e in
pieno vigore.
Anno di CRISTO MDCCLIV. Indizione II.
BENEDETTO XIV papa 15.
FRANCESCO I imperadore 10.
All'inaspettata alleanza, anzi alla futura parentela nell'anno
precedente convenuta tra la casa d'Este e quella d'Austria, che invece
di consolidare parea ad alcuni che metter dovesse in pericolo la quiete
dell'Italia; al pacifico concordato della corte di Spagna con quella
di Roma; alle moleste sì, ma non sanguinose differenze insorte tra
Roma, Genova e Napoli, e tra questa corte e la religione di Malta,
che peraltro avrebbero potuto turbare l'italiana tranquillità appena
nata; successe quest'anno sulla riviera occidentale di Genova un caso
che parea dover produrre un grave incendio. Sollevaronsi i popoli
di S. Remo e di Campofreddo. O sia che la piccola comunità di Cola,
dipendente da S. Remo, si fosse richiamata alla repubblica di Genova
per la gravezza delle taglie che le si faceano portare, o sia che
insorgesse la discordia per qualche novità intorno a' confini voluti
stabilire, oppure per entrambi cotali motivi; fatto è che il popolo di
S. Remo, facendo risuonare voci di libertà, di cui credeva di dover
godere a fronte del sovrano dominio della repubblica, dato di piglio
alle armi, si mostrò disposto a scuoterne intieramente il giogo.
Informato il governo di Genova che quegli abitanti eransi assicurati
della persona del commissario Doria e delle truppe state colà spedite
per metter fine alle dissensioni tra S. Remo e la comunità di Cola,
mandò tre galee, una bombarda e vari bastimenti da trasporto carichi
di truppe sotto il comando del generale Agostino Pinelli. Ora, avendo
il generale fatto incontanente avanzare una scialuppa con tamburo
che intimasse agli abitanti di consegnare fra due ore la persona del
commissario Doria e la sua famiglia alle truppe della repubblica,
in pena del ferro e del fuoco e di essere passati a fil di spada; la
scialuppa stette due ore alla spiaggia, e poscia condusse due deputati,
i quali dissero al generale che, dipendendo quanto egli domandava dalla
volontà del popolo, non era possibile dargli soddisfazione dentro il
poco tempo prescritto.
A tale dichiarazione il generale ordinò le ostilità contro i ribelli;
quindi le galee e la bombarda fecero un fuoco che durò tutta la notte;
i ribelli dal canto loro rispondendo con alcuni cannoni da campagna che
trovavansi a loro disposizione. Sul far del giorno le truppe sbarcarono
in una spiaggia distante due miglia dalla città, senza incontrare
opposizione di sorta; ma di mano in mano che i granatieri verso la
città avanzavano, i contadini, dalle case, dalle muraglie, dagli ulivi,
facevan loro fuoco addosso, sostenuti da altri che eransi in varii siti
appostati. A fronte di tale resistenza, i granatieri, fatti forti da
alcuni corpi di milizia alamanni, procedettero arditamente contro i
ribelli e si impadronirono de' posti più importanti delle vicinanze di
S. Remo.
Mentre il generale Pinelli dava le disposizioni necessarie per compire
l'impresa, vennero a lui da parte del popolo due nuovi deputati per
sottomettersi a patto d'aver salva la vita, l'onore ed i beni. Rispose
il generale che bisognava subito consegnargli il commissario Doria,
come avea precedentemente domandato, e ritenendo i messi, permise loro
di far sapere in iscritto le sue intenzioni ai ribelli. Si prevalsero
questi adunque della accordata permissione, ed in fatti poco stante
capitò il commissario Doria, e con esso altri quattro deputati per
supplicare il generale di annuire alla grazia già prima implorata.
Rimandolli egli con isdegno, soggiungendo che dovessero consegnare
tutte le armi, ed appartener poi alla repubblica, alla cui clemenza si
avevano a rimettere, il conceder quello di che pregavano; nè valsero
preghi o lagrime dei deputati a commuovere quel capitano dell'armi
genovesi. Ebbesi però un armistizio, ed il giorno appresso la città si
arrese a discrezione.
La prima notte ed il giorno appresso stettero le cose in calma; ma
la seconda notte il generale fece arrestare nel proprio letto molte
persone, e chiamati il consiglio di reggenza ed il parlamento, ingiunse
loro di pagare in termine di due ore ottanta mila lire; e come nel
prefinito spazio non avea potuto essere consegnato il denaro, fece
arrestare e il parlamento e la reggenza, guardandoli i soldati colla
baionetta in canna. Pagata poi la somma, ciascun credette di tornare
a casa sua; ma il capitano, prima di lasciar libero il parlamento,
esigette lo sborso di una somma eguale; e contata anche questa due
giorni dopo, intimò che dentro otto giorni si dovessero pagare altre
cento mila lire. E procedette più innanzi: fatti imprigionare molti
ecclesiastici e secolari, fu il priore di consiglio di reggenza, con
altri personaggi graduati, rinchiuso nel palazzo del generale, il cui
proprietario non potè trattenersi dal dirgli: _V. E. non mantiene la
parola data ai deputati, che i cittadini avrebbero salve la vita e la
roba; _rimprovero che il punse tanto nel vivo che minacciò delle forche
chi glielo faceva.
Siffatte asprezze e molte altre ancora spaventarono ed irritarono
talmente i Sanremani, che la maggior parte ritiraronsi nelle vicine
montagne dette delle Langhe, feudi imperiali sotto il dominio del re
di Sardegna, quivi, in numero di due mille cinquecento, campeggiando
alla meglio sotto tende e baracche, non rimasti quasi in città se
non i vecchi, le femmine ed i fanciulli. Corse allora opinione che
un pugno di gente ridotta a tanto estremo, non avrebbe tardato molto
a sottomettersi a qualunque legge volesse imporgli la repubblica di
Genova; ma assai male conosceva gli uomini e le storie chi in tal modo
pensava. I Sanremani spedirono lor deputati a Vienna a chieder contro
la repubblica giustizia dall'imperadore Francesco, qual da signore
diretto di quel feudo, e segretamente implorarono la protezione del
re di Sardegna. O che la repubblica ignorasse quei maneggi, oppure,
cosa più verisimile, fingesse d'ignorarli, per finire le cose senza
ulteriori strepiti e disturbi, fece pubblicare un editto nel quale,
dopo avere esposto con tutta l'enfasi il peso e l'enormità del delitto,
di cui erasi resa colpevole quella popolazione, tuttavia, per effetto
di somma clemenza, prometteva un perdono generale a tutti, prefiggendo
un termine discreto al ritorno di coloro ch'eransene fuggiti, soli
eccettuati quattordici dei principali sediziosi.
Ma i fuorusciti delusero le aspettative comuni, che, invece di tornarne
alle case loro sottomessi ed umiliati, cercarono ricovero in Oneglia,
terra del re di Sardegna, e l'ottennero da quel principe, che senza
punto ingerirsi nelle querele loro colla repubblica, credette di non
poter negare ad essi un asilo che il diritto di natura e quel delle
genti non consentono che a verun rifugiato si nieghi. Genova si scosse
alla novella, ma viemmaggiormente fu commossa allorchè intese che i
deputati di San Remo avevano a Vienna ottenuto che fossero ricevuti
dal consiglio aulico i loro ricorsi e fattane poi la relazione
all'imperadore. Nè basta; venne altresì la repubblica assicurata che
l'imperadore aveva fatto spedire un rescritto, in cui ordinava alla
medesima di dovere intorno a fatti esposti dai Sanremani informare nel
termine di due mesi; rescritto di cui si sparsero molte copie negli
Stati della repubblica, in S. Remo e nella stessa Genova.
Quanto moto si desse la repubblica contro queste imperiali
disposizioni, ciascuno se l'immagina, e basterà dire che per altro
tornarono tutti i suoi passi infruttuosi. Ma non si poteva che lo
stabilimento dei Sanremani sulle terre del re di Sardegna, e molto più
il favore da essi trovato presso la corte di Vienna, non accrescessero
le male disposizioni d'animo dei Genovesi contro di loro. Laonde il
commissario che a San Remo per la repubblica dimorava, si credette
giustificato di trattarli con modi poco cortesi, spingendo anche le
parole e le vie di fatto contro il vescovo di Albenga, il quale in
questi commovimenti si trovò troppo propenso ai sollevati, e fu poi
costretto a ritirarsi cogli altri ad Oneglia.
Nel mezzo tempo molto più gravi erano le cure e più decisive le
operazioni della repubblica di Genova per la ribellione della Corsica,
ch'era già presso il terzo lustro. Abbiamo già veduto a svanire i
bei disegni e le lusinghiere speranze del marchese di Cursay, che
di tanti pensieri e tanti maneggi si ebbe a guiderdone la prigionia
in Antibo, benchè poi si purgasse dalle accuse che la repubblica gli
avea poste addosso, e così fosse liberato. Il colonnello di Curcì, che
gli succedette nel comando dell'armi franzesi nell'isola, scorgendo
l'insuperabile avversione dei Corsi al già divisato regolamento,
formava nuovi progetti; ma, ignaro della mente del suo sovrano
riguardo i Corsi, si affaticava indarno. I Corsi bensì che non solo
prevedevano, ma erano quasi certi della vicina partenza delle milizie
franzesi, dimentichi affatto di tutta quella buona armonia ch'era con
esse passata, e non riguardandole se non come gli strumenti de' quali
erasi la repubblica servita per soggiogarli, non ebbero ribrezzo ad
attaccarle in modi crudelissimi, giungendo a spogliar nudi affatto
quelli che cadevano loro in mano e in quello stato rimandandoli ai loro
compagni, fra gli orrori del verno, per mezzo alle nevi; crudeltà che
crebbero a dismisura allorchè nel mese di febbraio giunse in Corsica
un uffiziale franzese cogli ordini della corte di far tosto ritirare
dall'isola le truppe. Gravi furono i pensieri del comandante per
preservarsi dagl'insulti e dal danno nella ritirata, e sagge le misure
da lui prese all'importantissimo fine; ma tutte le sue precauzioni non
riuscivano felicemente.
I Corsi vegliavano sopra tutti i movimenti ed accorrevano da per
tutto. Divisi in piccioli manipoli, bloccavano i Franzesi nelle torri e
negli altri posti, impedivano loro le munizioni da guerra e da bocca,
finalmente protestavano che avrebbero strozzati tutti i Franzesi, se
nell'abbandonare le piazze ed i luoghi da essi occupati, a loro non
li consegnassero; ed erano tali da tener la parola. Nè le attenzioni
vere o simulate del principale capo Gian Pietro Gaffori avevan forza di
trattenere i Corsi, sì che da ogni parte continuassero ad attaccare i
Franzesi che erano in cammino per unirsi al loro capo: e guai a quelli
che per istanchezza o cagione altra qualunque rimanevano indietro o
si scostavano alcun poco dai compagni! Soli i distaccamenti di là dei
monti furono meno inquietati, e si ridussero tutti sani e salvi in
Aiaccio.
Intanto ogni cosa era ormai disposta per la partenza, nè altro mancava
che di ottenere da Gaffori e dagli altri Corsi la restituzione de'
soldati da essi tenuti prigionieri. Ma fu impossibile indurgli a tanto,
finchè con una specie di capitolazione il comandante franzese non si
obbligò di consegnar loro la piazza di San Fiorenzo; promessa che però
ei non fu in poter di mantenere per la costante opposizione che vi fece
la repubblica. Nel qual fatto delusi i Corsi, tennero immediatamente
un congresso nel convento di Oletta, in cui unanimi determinarono di
non voler più sentire a parlare di soggezione verso qualsiasi potenza,
ma sì bene governarsi da sè medesimi coi magistrati proprii e colle
proprie leggi.
Sul principio di primavera, giunte le navi che trasportare doveano
le truppe franzesi, abbandonarono esse finalmente, dopo cinque anni
di soggiorno la Corsica, seco non portando altro frutto delle loro
fatiche, fuorchè un'idea giusta del valore e dell'entusiasmo de' Corsi,
i quali, pratici dei siti, fieri per carattere, ostinati per impegno,
avrebbero disputato a chiunque il possesso della loro isola, e se si
fossero formata di sè la giusta idea che la Francia in quella occasione
e la maggior parte de' sovrani ne avevano concepita, forse si sarebbero
formata una sorte migliore; ma allora badavano più alle private
passioni che al ben comune.
Appena partiti i Franzesi, si vide una manifesta prova di questo loro
modo di pensare. Imperciocchè, essendosi di bel nuovo adunati per
consultare intorno al modo del governarsi ed ai mezzi di mettersi
del tutto in libertà, insorsero fiere dissensioni fra loro, e dalla
discordia dei capi provennero amarissime conseguenze. Gaffori, capo
principale de' malcontenti, di severità eccessiva, non avea difficoltà
alcuna, per lievi motivi, o per sospetti, di far arrestare le persone
più cospicue e qualificate, come appunto, fece in questo tempo di
un Giuliano, il primo certo fra i Corsi dopo di lui; ed a quattro
pievi ch'erano entrate in negoziazioni col commissario Grimaldi per
sottomettersi di bel nuovo alla repubblica, fece patire una esecuzione
militare, che, invece di atterrire, irritò gli animi di tutti.
Il Grimaldi era a giorno di tutto, e d'ogni cosa cercava destramente
d'approfittare. Dopo di avere accolto favorevolmente i deputati
delle dette quattro pievi, e fatto ad essi sperare sommi favori, per
invogliare così altre comunità ad imitarne l'esempio, e dopo fomentate
le discordie dei malcontenti, di tutto informò la repubblica. Allora
non differì essa di far pubblicare un editto di perdono generale e di
obblio del passato per quelli che, deponendo l'armi, fossero ritornati
all'antica ubbidienza; ed a questo passo ne tenne dietro un altro
dello stesso commissario, in cui dimostrava ai Corsi non rimaner loro
altro partito che di attendere gli effetti della clemenza di Genova;
poichè e un grosso rinforzo militare che dovea fra poco essergli
spedito, e gli ordini dati dai re di Spagna, Francia, Inghilterra,
Napoli e Sardegna per vietare rigorosamente alle navi de' loro
sudditi di poter trasportare nell'isola nessuna sorte di munizioni,
da guerra specialmente, e il cattivo stato della Corsica, ed il vicino
cambiamento di sentimenti nella repubblica verso di essi, gli avrebbe
poi ridotti a pentirsi invano di non aver saputo approfittare di
circostanze sì favorevoli per essi.
Convien dire che qualche impressione facessero sull'animo de' Corsi
le parole del Grimaldi, poichè essendosi i capi radunati insieme più
volte, fu stesa una scrittura in ventidue articoli, ne' quali stavano
le condizioni, colle quali si sarebbero rimessi nella soggezione della
repubblica; e sebbene non fosse espressa in termini convenienti, come
lo stesso Grimaldi, cui fu presentata, fece ai deputati vedere, la
spedì egli a Genova, e si trattò fra' Corsi di eleggere persona saggia
e prudente, cui affidare la cura di quel dilicato maneggio.
I voti comuni raccoglievansi nella persona del cavaliere Gian Francesco
Brerio, illustre Corso, degno per le sue qualità della confidenza della
sua nazione, e abilissimo all'uopo, per l'esperienza acquistata nel
trattar gli affari di molte potenze, presso le quali era estimato e
lodato; quando, giunti da Balagna due deputati del canonico Orticoni,
famoso raggiratore, di fresco ripatriato dopo luogo esilio, chiedendo
in nome di lui che gli fosse affidata l'importante commissione,
mandarono a vuoto il partito presso a conchiudersi.
Se non che un avvenimento molto più grave terminò di rovinare ogni
cosa: l'assassinio di Gaffori. Lasciate dall'un de' lati le molte cose
immaginate e dette intorno ai motivi ed a' segreti autori del misfatto,
basterà dire che quel capo erasi fra' suoi fatti molti nemici, e che il
commissario genovese vedeva in lui il più potente ostacolo ai desiderii
della repubblica. Uscito per tanto un giorno il Gaffori a passeggiare
o in un giardino alla campagna o sulla pubblica strada, fu d'improvviso
colto da più colpi di moschetto sparati contro di lui, e che lo stesero
morto a terra con un suo parente che stavagli a lato e che spirò pochi
momenti dopo di lui.
Tal fine ebbe questo capo de' Corsi, che ne avea titolo di governatore
e capitano generale. Uomo pieno di coraggio e di zelo per la patria,
ma violento e vendicativo, e forse dominato troppo dalla passione di
comandare. Ma quello che destar deve maggior orrore si è che un suo
fratello medesimo venia fra' congiurati alla sua morte. Arrestato
costui con molti altri complici, fu con trentasette voti contro
tredici condannato ad esser rotto vivo in prigione, e prima di
morire confessò tutta la congiura. Altri complici furono giustiziati,
altri alla pena si sottrassero colla fuga. Fatti all'estinto Gaffori
solenni funerali, ne' quali offiziò il canonico Orticoni, gli fu pur
recitata funebre orazione. Terminate le quali lugubri funzioni, si
radunò di bel nuovo la nazione, e quivi pronunziò la pena della morte,
dell'infamia e della devastazione dei beni contro qualunque Corso
avesse osato parlare di riconciliazione con Genova. Quasi universale
intanto prevaleva in Corsica la persuasione che l'assassinio di Gaffori
fosse seguito per seduzione e ad istigazione della medesima e del
suo commissario Grimaldi, tanto più che fu divulgato come cosa certa
essersi all'arrestato fratello trovate due lettere, nelle quali se gli
prometteva il premio di due mila lire per l'esecrabile fratricidio.
Anno di CRISTO MDCCLV. Indizione III.
BENEDETTO XIV papa 16.
FRANCESCO I imperadore 11.
Mentre la guerra continuava a travagliarsi con varii ma deboli
accidenti, in Corsica, venne surrogato dalla signoria genovese al
commissario Grimaldi il marchese Giuseppe Doria, il quale, come giunse
in Bastia, mise innanzi ragionamenti di concordia, e procurò di indurre
i popoli all'obbedienza colla dolcezza; ma la dolcezza del Doria non
valse più dell'acerbità del Grimaldi.
La sperienza ammoniva i Corsi che dopo la morte del Gaffori niuno
restava a cui con animi concordi la nazione concorresse, e che potesse
stagliare quei gruppi di tante fazioni. Pure sapevano che la discordia
mena a servitù. Di Matra poco si fidavano, che anzi un fiero sospetto
era venuto loro in cuore, ed era, che avesse partecipato nella congiura
per dar morte a Gaffori. Degli altri capi, nessuno avea tanto credito
che riunire potesse in un sol volere ed in un solo sforzo e chi
dissentiva e chi tiepido se ne stava. Volsero gli occhi in Corsica, li
volsero fuori, per iscoprire se uomo al mondo vivesse, il quale fosse e
sicuro per desiderio di libertà, e capace per ingegno, ed ammaestrato
per esperienza di cose militari, onde di lui tanto promettere si
potessero che divenisse liberatore e salvatore della patria. Sovvenne
loro che vivea in Napoli, ai servigi militari di quella corona col
grado di colonnello, Giacinto Paoli, antico loro capitano, che,
disperate le cose dell'isola nel 1739 pei successi guerrieri di
Maillebois, si era in quel regno ritirato. Aveva con sè allora il suo
figliuolo Pasquale, che nella milizia napolitana occupava il grado
di tenente, e nel quale, sebbene ancora nella giovane età di ventidue
anni, risplendevano segni di animo libero ed invitto.
Qual fosse questo Pasquale, lo dice un autore anonimo, che scrisse
con verità e senza adulazione ed odio per nissuna delle parti le cose
di Corsica. Avuta il padre di lui favorevole accoglienza alla corte
di Napoli, si pose in grado di dare al figlio la migliore educazione
di cui potesse far copia quella città. Quivi fatti adunque Pasquale i
suoi studii, tra' quali quelli di etica sotto Antonio Genovesi, senza
dubbio uno de' principali ornamenti d'Italia, a ciò non si stette; ma
risoluto di portare più oltre i passi nel sapere, quantunque entrasse
al servizio militare assai per tempo, la sua grande ambizione fu
d'informarsi a fondo degli antichi Stati di Grecia e Roma. Così ei si
pose perfettamente in possesso Tucidide, Polibio, Livio e Tacito; nè
per ostentazione, ma per uso, imperciocchè si studiasse di far sue
proprie le loro cognizioni, ed ei medesimo confessasse essere sua
speranza di formare sè stesso sui modelli d'uomini tali quali furono
Cimone ed Epaminonda. E, a vero dire, egli si era loro avvicinato
quant'è mai possibile nell'eleganza della condotta e nell'amore delle
lettere, egualmente che in un appassionato desiderio di servire la sua
patria. Trovossi in procinto di avere un reggimento, e lo tenne sempre
come la più grande sventura che gli potesse accadere, come quella che
gli dovea impedire di andar a liberare la sua patria dai Genovesi, come
ebbe sempre in pensiero.
Ad una nazione incolta stava apprestando la provvidenza un uomo colto,
ad uomini furibondi un uomo di pacato ingegno, a guerrieri, che meglio
sapevano combattere le battaglie che non prepararle, un guerriero,
in cui l'arte eguagliava il valore. E per frenare un'incomposta e
disordinata furia, Paoli era molto accomodato; poichè, sebbene da Corso
odiasse i Genovesi, d'indole sedata era, ed in lui l'operare procedeva
piuttosto da fortezza abituale che da impeto passeggiero e facile
a svanire. In somma, vero e sincero parto del secolo decimottavo fu
Paoli, ma però prima che il secolo dagli abbaiatori e dagli ambiziosi
si guastasse. A Pasquale Paoli pertanto pensarono i Corsi, e lui
delle necessità della patria ammonirono, e a lei il pregarono che
soccorresse.
Il dabbene e forte giovane vide qual difficile impresa gli si
apprestava. La ferocia e l'ostinazione delle parti erano malagevoli,
e forse impossibili, a domarsi; Genova ricca e forte in paragone
della Corsica, per peggiore sua sorte notata di ribelle; le ambizioni
degli antichi capi, massimamente quella del giovane Mario Matra, più
ambizioso di tutti; nè ignorava che i capi de' Corsi, se infelici
nell'amministrare la guerra, perdeano con essi la causa; se felici,
erano a tradimento ammazzati: i casi di Sampiero e di Gaffori erano
tali da spaventare qualunque più intrepido amatore della sua patria.
Ma vinse in Paoli il desiderio della gloria, vinse il desiderio della
libertà: rispose adunque essere parato, accingersi volentieri all'alto
proposito, tutto dare sè stesso alla salute della patria.
Navigato felicemente, prese Pasquale Paoli terra a foce di Golo a dì 29
aprile; e soffermatosi alquanto d'ora al vescovato, volse poi i passi a
Rostino, dove era nato. Come prima si sparse il grido essere arrivato
il figliuolo di Giacinto, figliuolo degno di degno padre, concorsero
i popoli bramosamente a vederlo, sperando che, se la somma delle cose
loro reggesse, conservare potrebbero il nome e la libertà corsa.
Nel mese di luglio fecesi, per mezzo de' capi eletti, un parlamento
di tutta la nazione a Sant'Antonio di Casabianca, paese della pieve
d'Ampugnani. Paoli, trovato ne' cittadini riscontro ai suoi desiderii,
v'intervenne. Fu con consentimento unanime chiamato generale delle armi
e capo della parte economica e politica del regno, con autorità piena
e libera, fuorchè nei casi ne' quali si trattasse di materie di Stato,
sopra cui deliberare non potesse senza l'intervento di due consiglieri
di Stato e dei rispettivi rappresentanti di ciascuna provincia. Legossi
per fede, e giurò, in cospetto della nazione a parlamento adunata, che
fedelmente ed in benefizio della libertà le potestà userebbe che la
patria gli dava.
In sul limitare stesso del preso magistrato poco mancò che Paoli non
perisse. L'invidia degli emuli gli fu subito addosso. Mario Matra,
sopra tutti, giovane, siccome si è osservato più sopra, ambizioso
e feroce, e per nascita nobile e per sostanze dovizioso, con grave
sdegno aveva sentita l'esaltazione del capitano generale, ed ogni
mezzo andava macchinando ed ogni via cercando per torgli quella
superiorità, cui cotanto egli odiava. Immenso odio in sè medesimo
annidando, dovunque vedeva un uomo odiatore di Paoli; od in qualunque
modo amatore di risse e di scandali, tosto a lui ricorreva, il tentava,
e contro l'emulo lo spingeva. E pretesseva anche parole di libertà,
accusando il capitano generale del volersi servirò dell'autorità
datagli per istabilire la tirannide. Sommovitrici parole sono sempre
queste pe' popoli, più sospettosi di perdere la libertà, che savii per
conservarla. Ma i popoli corrono dietro, come pecore, agli ambiziosi
che gridano tirannide, quando c'è libertà. Matra gridava e chiamava
Paoli tiranno; non pochi si lasciavano sollevare dagli umori torbidi
di questo commovitore, intorno a cui si faceva concorso. Ai sospetti,
alle maldicenze si aggiunsero alcuni privati sdegni. Il vecchio vizio,
vogliam dire l'amore della vendetta, tuttavia predominava, e per quanto
avessero fatto i governi precedenti per estirpare questa velenosa
pianta, nuovi rampolli ella sempre mandava fuori, se non peggiori,
almeno altrettanto maligni dei primi. Solo aveva tregua il feroce
talento quando i popoli andavano alle battaglie contro i Genovesi; ma
finite le battaglie, i Corsi si ammazzavano partigianamente fra loro.
Paoli, che intendeva non solamente a libertà, ma ancora a civiltà,
applicò tosto l'animo a sanare questa peste. Cominciò colle
persuasioni, cui davano peso il suo nome, l'amore dei popoli, la
fresca autorità; che non mai dal collo si leverebbero Genova, se con le
proprie mani continuassero a distruggersi; fare loro, insanguinandosi
nel sangue corso, ciò appunto che i loro nemici desideravano; non le
mani raffreddate dalla morte, ma le vive alcuna cosa potere contro
gli oppressori, nè mai esservi di mani vive troppa copia contro di
chi tanto può. Quindi, dalle parole venendo ai fatti, stabilì in
ciascuna provincia, ed in altri luoghi che gli parvero opportuni,
certi magistrati con facoltà di giustizia pronta e sommaria a terrore
de' feritori e degli omicidi. La giustizia sempre è più rispettata
quando ella è più imparziale, e si esercita egualmente senza eccezione
di persone, quali esse sieno e di qual nome si chiamino. Ora accadde
che un parente di Paoli, trovato reo di omicidio, fu sentenziato a
morte; i parenti pregavano per la grazia; i popoli stavano a vedere
che si facesse. Comandò che si facesse giustizia, il reo fu passato
per l'armi: fruttifero esempio. Da allora in poi divennero rari gli
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