Annali d'Italia, vol. 8 - 03

dire che fu tanto singolare in quest'uomo la morte, come disse
Benedetto XIV, quanto erano state la fortuna, l'ingegno, l'età e la
fama. Di tutti i suoi beni, che faceansi ascendere ad un milione
di scudi romani, lasciò erede il seminario di San Lazzaro, da lui
eretto e fondato con ispesa gravissima fuori di Piacenza; fondazione
che sola avrebbe bastato ad immortalare un altro nome. Di quest'uomo
molto e variamente fu parlato e scritto, e nel corso della rapida
sua elevazione e poi della sua caduta, dopo la quale, quantunque
paresse interamente staccato dogli affari politici, pur non lasciava
di avere molta influenza in quelli che trattavansi in Europa. Tenendo
corrispondenze in tutte le corti ed in tutti gli Stati, i più celebrati
ministri lo hanno consultato; e siccome possedeva in grado eminente
l'arte delle combinazioni politiche unita a penetrazione profonda ed a
sano giudizio, così prevedeva quasi sempre l'esito de' grandi affari, e
raro fu che il successo non corrispondesse alle sue conghietture.
Tre mesi circa prima dell'Alberoni, passò di questa vita il doge
di Venezia Pietro Grimani. Già ambasciatore della patria a Londra
ed a Vienna, se colà guadagnossi la stima dell'inglese nazione e
fu ascritto alla reale società, legato ancora d'amicizia col primo
uomo che allora fosse al mondo, con Isacco Newton, quivi destramente
maneggiò gl'interessi del veneto senato, concertando coll'imperadore
Carlo VI la sacra lega a danni del comun nemico del nome cristiano.
Tornato da sì splendide legazioni in patria, fu insignito della dignità
di procuratore di San Marco, e poi, nel 1741, collocato sul trono
ducale. Culto letterato e filosofo sublime, gloriosamente regnò dieci
anni ed otto mesi, ferma tenendo la repubblica nella saggezza del suo
divisamento di starne lontana da straniere guerre. Ma se di grave
cordoglio fu per questo conto la sua perdita a tutta la città, che
conosceva il pregio d'un tal principe, gli uomini di lettere rimasero
altamente contristati, in lui perdendo, più che il mecenate, un amico
ed un compagno. Gli fu sostituito Francesco Loredano, cittadino di rara
pietà e fornito di virtù morali e civili, tra le quali risplendeano
egregie la liberalità e la beneficenza; consumato sino dalla gioventù
ne' politici maneggi, ed occupato lungo tempo nel posto di savio
grande, che val come chi dicesse nella carica di ministro di Stato.
Nel mezzo tempo i corsari africani tenevano, secondo il solito, in
apprensione le potenze europee colle continue loro scorrerie sul
Mediterraneo, danneggiandone principalmente il commercio. Mentre
pertanto alcune con esorbitanti tributi, sotto lo specioso titolo di
regali, compravano la mal sicura amicizia delle africane reggenze,
due squadre, di Napoli una, l'altra di Malta, segnalaronsi in due
diversi incontri. In quella prima, i prodi capitani di due sciabecchi,
Martinez e Gratto, andando in traccia di quattro sciabecchi algerini
che infestavano le coste della Calabria presso il mare Adriatico,
ne trovarono uno, chiamato il Gran Leone, tra l'isole di Zante e
di Cefalonia. Era il maggiore di tutti, e montato dal comandante.
Lo investirono con sommo coraggio; si difese l'algerino con non
minore intrepidezza per due interi giorni, ma vedendosi oltramodo
maltrattato dal cannone degli assalitori, fece forza di vele per
salvarsi. Il capitano Martinez, temendo non forse potesse ripararsi
in qualche spiaggia o porto del dominio ottomano, ove non gli fosse
dato d'assalirlo, determinossi ad andarne all'arrambaggio, ed eseguì
con tanta energia il suo disegno, pur secondato dal capitano Gratto,
che gli riuscì d'impadronirsene e di fare cento ventiquattro prigioni,
dalle catene liberando molti cristiani. Era intenzione de' comandanti
napoletani di togliere quanto in quella nave era; ma scorgendola
tutta forata dalle cannonate, e sì che faceva acqua da ogni lato,
si appigliarono al partito di affondarla, senza che si prevalesse a
salvarne se non le ancore e qualche sartiame. I regi sciabecchi non
ebbero che dodici uomini uccisi e da venticinque feriti, tra' quali i
due capitani Martinez e Grotto, che furono, come gli altri uffiziali,
proporzionatamente ai meriti, rimunerati. Giusta le deposizioni degli
Algerini presi, il numero loro era di ducento e trenta, ed il loro
bastimento bene armato portava sedici cannoni e dodici petriere,
allestito a spese del re d'Algeri, che ne avea dato il comando al rais
Ismachid Nalif, nativo di Candia.
Ma più fiero e sanguinoso fu il combattimento tra le galee di Malta
ed altri due sciabecchi algerini; conflitto seguito alle alture di
Gallizia, dov'è una torre difesa da cannoni e da presidio tunisino, a
poca distanza dal capo Bon, tra Tunisi e Maometta. Affinchè non potesse
loro fuggire di mano, le galee maltesi si posero tra la torre e i
due bastimenti nemici. Menando quindi le mani, se fu straordinario il
valore de' cristiani nel combattere, non minore si rimase la resistenza
degl'infedeli nel difendersi. Nel famoso combattimento segnalossi il
coraggio di tre soldati maltesi, i quali, nell'atto che una galea tentò
d'impadronirsi d'uno dei legni turchi, e andolle fallito il colpo,
v'erano saltati dentro. Tagliato a pezzi il primo, l'altro, quantunque
ferito, troncò il capo all'Algerino che gli stava a fronte, ed indi,
gettandosi in mare, ebbe la ventura di salvarsi ad una delle galee; ed
il terzo, parimente slanciatosi in acqua, in mezzo al fuoco ed a' remi
dei barbari, ebbe una sorte eguale. Due ore durò la pugna, ma infine
ambi i sciabecchi rimasero presi, ad onta della disperata foga del
rais comandante del più grosso, che, coperto di sangue che uscivagli
da diciotto ferite, tra le quali quattro gravissime, non apparia modo
di costringerlo. Tra i cavalieri di Malta che spiegarono in queste
pruove estremo valore, contaronsi il cavaliere di Valenza, colonnello
del reggimento di Bearn al servigio della Francia, il cavaliere
Aldobrandini, il cavaliere di Pennes, il cavaliere di Elvemont; ma
ben direbbe chi nominasse per tal conto tutti gli uffiziali e soldati
maltesi, la perdita de' quali fu di tredici morti e quarantasette
feriti, compresi i sopraddetti cavalieri Pennes ed Elvemont.
Il ritorno de' vincitori coi vinti legni e coi prigionieri a Malta
fu una specie di trionfo. Nè il solo gran maestro ed i cavalieri, ma
tutti in Italia fecer plauso al valor loro, ed il giubilo fu tanto
maggiore, in quanto che quei due sciabecchi erano i primi bastimenti
algerini che fossero caduti in potere dell'ordine gerosolimitano da
che i Turchi aveano incominciato a far uso di legni di tal sorta. In
uno si trovarono mille ottocento zecchini, prezzo d'una tartana da quei
corsari pochi giorni prima venduta.


Anno di CRISTO MDCCLIII. Indizione I.
BENEDETTO XIV papa 14.
FRANCESCO I imperadore 9.

Per la stabilità e felice esito del trattato di Madrid, o d'Aranjuez
che vogliam dirlo, stipulato nell'anno precedente, occuparonsi
seriamente nel principio di quest'anno i ministri delle potenze
contraenti onde comporre e terminare le differenze che sussistevano
tuttavia intorno alla successione de' beni della famiglia de Medici,
de' quali era attualmente in possesso l'imperadore Francesco, come
granduca di Toscana. Venne perciò proposto che la Spagna rinunziasse
alle sue pretese su questo punto, purchè l'imperadrice regina facesse
anch'essa dal canto suo eguale rinunzia per tutte le ragioni che
pretendeva di avere sopra i ducati di Parma, Piacenza e Guastalla,
dei quali erasi quella sovrana riservato il regresso nel trattato
d'Aquisgrana. Due difficoltà però rimanevano a superarsi, l'una col
re di Sardegna, con quello di Napoli l'altra; non potendo quel primo,
che nel trattato d'Aquisgrana erasi riservato il regresso sulla città
e territorio di Piacenza, risolversi a farne la cessione, prima che si
fosse trovato il modo di compensarnelo; ed il re di Napoli, facendo
tuttavia valere i suoi diritti sui beni allodiali della famiglia de
Medici, ai quali non intendeva di avere in alcun modo rinunziato a
favore del duca di Lorena, allora imperadore e granduca di Toscana.
Non sembrava difficile trovar qualche temperamento onde appianare le
difficoltà promosse dal re di Sardegna; ma così non era riguardo a
don Carlo re di Napoli, che spedì a Parigi il marchese Caraccioli per
impegnare quel gabinetto a sostenere le sue ragioni.
Teneva allora quel gabinetto gli occhi aperti sopra un oggetto di
maggiore importanza riguardo alle sorti dell'Italia, cioè sui maneggi
alla corte di Vienna impresi dai ministri del duca di Modena. Il
conte Beltrame Cristiani, gran cancelliere del ducato di Milano,
vedeva, e forse da gran tempo aveva tra sè e sè meditato, un gran
colpo, moltissimo vantaggioso all'imperadrice regina sua sovrana ed
alla casa d'Austria, se fosse riuscito a legarla a quella d'Este con
vincoli tali, che gli Stati di questa si fossero uniti al milanese
ducato. Sortendo buon fine il divisamento del conte Cristiani, la casa
d'Austria avrebbe in Italia dominato all'incirca sovra la maggior parte
de' paesi che formavano un tempo lo Stato degli antichi re d'Italia,
cioè la Toscana, il ducato di Milano, il Modenese, il Mantovano
ed una porzione del Monferrato. E la fortuna secondò i disegni del
gran cancelliere. Era, ne' primi giorni dell'anno, nato al principe
ereditario di Modena un figlio, il quale, assicurando la posterità
mascolina dell'estense famiglia, potea, se vissuto fosse, far prendere
misure ben diverse da quelle cui miravano gl'impresi maneggi; ma quel
figlio, pochi mesi dopo il suo nascimento, morì, e colpo tale conchiuse
alla corte di Vienna il negozio giusta l'intendimento de' ministri
modenesi.
Fatto pubblico il trattato in cui stipulossi il matrimonio
dell'arciduca Leopoldo, allora terzogenito, colla figlia del principe
ereditario di Modena, e si dichiararono lo stesso arciduca governatore
dello Stato di Milano, ed il duca di Modena amministratore e capitano
generale del medesimo Stato, insieme stabilendo che i presidii delle
piazze modenesi dovessero essere formati di truppe austriache, e
vicendevolmente le milizie del duca di Modena prendessero posto nelle
piazze milanesi; non solo i gabinetti di Francia e di Spagna, ma
tutti universalmente rimasero oltremodo maravigliati. Non si lasciò
quindi di pubblicare, che il duca di Modena, in questo fatto, oltre
all'allontanarsi dai noti principii de' suoi maggiori, unendosi
all'Austria in confronto della Francia, aveva operato contro le
massime della buona politica, dando mano ad un tanto ragguardevole
ingrandimento di Stati e di potenza in Italia alla detta casa
d'Austria, il che avrebbe col tempo potuto recare gravissimi
pregiudizii alla quiete della penisola.
Procurò il duca di Modena di giustificare il nuovo partito da lui
preso, facendo da' suoi ministri dichiarare alle corti straniere,
averlo gl'interessi del suo ducale casato costretto a trattare colla
corte di Vienna; essere scopo principale cui proponevasi quello di
provvedere alla tranquillità de' suoi Stati, in caso che venisse
ad estinguersi la sua linea mascolina; aver parimente in mira il
mantenimento della pace d'Italia, e la necessità di prevenire le
turbolenze che potessero insorgere in proposito della successione
agli Stati della casa d'Este; lusingarsi lui finalmente che siccome
gl'impegni per esso incontrati non recavano danno ad alcuno, nissuna
potenza volesse adombrarne, e quelle che considerassero la cosa
imparzialmente, convenissero nulla esservi che conforme non fosse
all'interesse d'Italia in generale e alle ragioni di convenienza che
tenere doveano i principi di questa parte dell'Europa svegliati per
allontanare dagli Stati loro ogni occasione di turbolenze.
Qualunque interpretazione dar si volesse a cotali dichiarazioni del
duca di Modena, il colpo era fatto con somma soddisfazione delle
due corti; e furono in conseguenza mandati ordini da Vienna a tutti
i comandanti e governatori delle piazze di Toscana e Lombardia,
di trattare i sudditi di Modena e Massa-Carrara con ogni sorta di
riguardi e di prestar loro tutta l'assistenza possibile sì riguardo
al commercio, sì in tutte le altre vertenze od atti giuridici che aver
potessero da regolare co' sudditi imperiali d'Italia.
Ad onta del trattato d'Aranjuez conchiuso col laudevol motivo di
conservare la tranquillità nell'Italia, ad onta delle proteste del duca
di Modena di non aver avuto in mira che questo prezioso oggetto nella
parentela ed unione contratte con la casa d'Austria, da molti credevasi
che totalmente contrarii alle parole potessero seguire gli effetti; le
quali speculazioni derivavano originariamente dalla condizione attuale
della Spagna e da un avvenimento semplicissimo seguito in Napoli ed in
Roma.
È noto che dopo la pace di Aquisgrana, la corte di Spagna, a principal
cura del marchese dell'Ensenada, andava incarnando alcuni suoi disegni:
gli arsenali tutti in continuo movimento poneano la marineria spagnuola
in grado di mandar navi in America, altre tenerne in corso contro i
barbareschi, ed unire a un bisogno una flotta capace di misurarsi
colle potenze d'Europa; cominciavano a prosperare le fabbriche e
manifatture nazionali, malgrado i rigori in Olanda ed in Inghilterra
usati per vietare ai sudditi loro che, allettati da privilegii e
vantaggi singolari, in Ispagna non passassero coll'industria loro e
cogl'istrumenti relativi; la nazione, naturalmente proclive all'inerzia
ed all'infingardaggine, già destavasi; terre, che da secoli non aveano
sentito zappa nè aratro, aprivano il seno alle benefiche ferite, e
largamente premiavano gl'insoliti sudori dell'agricoltore novello: si
fortificavano le piazze frontiere, ingrandivansi i porti principali,
dentro e fuori d'Europa moltiplicavansi i cantieri; introdotti nelle
truppe gli esercizii all'uso franzese o al prussiano; impiegata buona
parte de' tesori, dopo la pace del nuovo mondo, a comprar merci da
rimandarvi; istituiti grossi banchi nelle principali città commercianti
del regno, e sino in Italia, a nome e profitto del regio erario.
Cotali vigorose e non mai interrotte operazioni e sollecitudini della
corte di Madrid facevano universalmente conghietturare che nudrisse
l'idea di turbare la calma d'Europa e dell'Italia in particolare;
conghiettura che prese maggior piede quando si seppe che, partita da
Cadice una nave, era approdata a Napoli scaricandovi un milione e mezzo
di scudi, non mancando chi affermasse, essere la somma destinata a
porre il re delle Due Sicilie in istato di aumentare le proprie truppe
secondo il disegno tra le due corti fermato. Però gli autori di queste
novelle guerriere trovaronsi non poco sconcertati; chè il picciol
tesoro americano sbarcato a Napoli, quivi non si fermò, ma sopra
cinquanta muli, coperti coll'arme e cogli stemmi della corona di Spagna
entrò in Roma, e, depositato nel palazzo Farnese, pochi giorni dopo da
quella casa, appartenente al re di Napoli, fu trasportato nel castel
Sant'Angelo.
Tuttavia non perciò vollero i politici del giorno mutar opinione o
linguaggio; pretendevano che fosse destinato a circolare nel commercio
sul nuovo banco eretto dal monarca Cattolico in Roma stessa, ed
ostinaronsi a sostenere che si avesse poscia ad impiegarlo in acquisti
ed usi militari, collocato intanto in sì cospicua fortezza per maggior
cautela. Ma la destinazione vera del denaro fu poco stante saputa:
passato dal Messico a Cadice, da Cadice a Napoli, e di colà a Roma,
apparteneva alla santa Sede, e le fu spedito in forza di un trattato
conchiuso tra le due corti, ampliativo del giuspadronato regio sopra i
benefizii ecclesiastici della Spagna, e segretissimamente maneggiato.
Importava il trattato, diviso in otto articoli: che il re di Spagna
ed i suoi successori, oltre la nomina agli arcivescovadi, vescovadi,
monasteri e benefizii concistoriali tanto in Europa come nelle Indie,
avessero perpetuo il diritto universale di nominare e di presentare
indistintamente in tutte le chiese metropolitane, cattedrali,
collegiate e diocesi alle dignità maggiori _post pontificalem_;
che i sommi pontefici avessero in perpetuo la libera collazione di
cinquantadue benefizii, acciò non mancassero del modo di provvedere e
premiare quegli ecclesiastici spagnuoli che meritevoli se ne rendessero
per probità e illibatezza di costumi, per letteratura, o per servigii
prestati alla santa Sede. E siccome pel padronato e pei diritti ai re
di Spagna dalla santa Sede ceduti, e per l'abolizione delle pensioni,
la dateria e la cancelleria apostolica restavano prive degli utili
provenienti dalle annate, con grave danno dell'erario pontificio,
così il re di Spagna fece depositare in Roma un capitale di un milione
cento trentatrè mille trecento trenta scudi a libera disposizione del
papa, e nel tempo stesso assegnaronsi in Madrid, pur a disposizione di
lui e sopra il prodotto della crociata, scudi cinque mila annui per
mantenimento e sussistenza de' nunzii apostolici. Con tali esborsi
il re di Spagna assodava molto più la sua autorità sopra il clero
rendendolo dependente da lui solo nel conseguimento dei benefizii, e
poteva quindi sopra i beni ecclesiastici, liberati dalle pensioni e
dalle annate, imporre quei pesi che le circostanze dalla sua saviezza
esigessero. E la camera apostolica, coi frutti della sopraddetta
somma in Roma depositata e coi cinque mila scudi assegnati a Madrid,
veniva ad essere risarcita dalle perdite, cui per le fatte concessioni
soggiaceva.
Altro accidente di quest'anno merita di essere notato.
L'infante di Spagna don Luigi, ultimo figlio di Filippo V e di
Elisabetta Farnese, era stato, in età di 8 anni, creato da Clemente
XII cardinale, e poscia fatto anche amministratore delle chiese di
Toledo e Siviglia. Ora, giunto ch'ei fu all'età virile, sentì una
assoluta ripugnanza a rimanere nello stato ecclesiastico, fattogli
abbracciare mentre non era in istato di esaminare e di conoscere
la sua vocazione, e comunicata al re Ferdinando VI suo fratello la
risoluta sua determinazione di abbandonare cotale istituto di vita, ed
approvò questi la risoluzione dell'infante, e spedironsi al cardinale
Portocarrero, incaricato degli affari di Spagna alla corte di Roma,
istruzioni e plenipotenza per trattarsi la rinuncia di don Luigi al
cappello cardinalizio, con una lettera di lui, nella quale spiegava i
motivi che a tornarne allo stato secolare lo determinavano.
Impreso dal cardinale Portocarrero il maneggio, fu l'affare discusso
in una congregazione particolare, tenuta in presenza del pontefice,
e si conchiuse che le domande del cardinale infante poteano essere
esaudite quanto sia alla rinunzia, ma non riguardo alla pensione di
cento cinquanta mila scudi che volea riservarsi sopra le rendite delle
due chiese di Toledo e di Siviglia, all'amministrazione delle quali
rinunziava. Nullaostante, avendo fatto tacere le ragioni in contrario
le fortissime ragioni di Stato e di convenienza nella condizione
corrente delle cose che vennero allegate, appoggiato eziandio da
esempli precedenti di concessioni consimili, fu risoluto di compiacere
in tutto e per tutto la corte di Madrid, ed, unita alla favorevole
risposta, le fu spedita la formola, secondo la quale seguir doveva
la rinunzia del cardinalato, praticando ciò che stato era osservato
nel 1709 col cardinale de Medici. Un concistoro segreto, intimato
dal pontefice, approvò poi, lui esponente, quanto era stato fatto,
ed il cappello cardinalizio così rinunziato venne, ad istanza del re
di Spagna, concesso a don Luigi Ferdinando di Cordova, decano della
metropolitana di Toledo, indi arcivescovo.
Tutta l'Europa parve allora disposta a considerare questo passaggio
dell'infante dallo stato ecclesiastico al secolare, come prodotto da
motivo politico. Alle quali supposizioni aggiugneva gran peso il vedere
che il re aveva assegnato al principe suo fratello, oltre i cento mila
scudi come infante di Spagna ed i cento cinquanta mila di riserva sopra
le chiese di Toledo e di Siviglia, altri cinquecento mila come grande
ammiraglio di Castiglia. Parlavasi adunque da per tutto, e da per
tutto davasi per conchiuso un trattato di matrimonio tra il principe
secolarizzato e la principessa Marianna infanta di Portogallo. Ma
tale matrimonio, ancorchè allora stato maneggiato, non ebbe effetto, e
l'infante più di venti anni dopo sposossi con una dama privata, da cui
ebbe prole di ambi i sessi.
Altro serio affare, però di natura diversa, ebbe subito dopo a trattare
il papa col re delle Due Sicilie, fratello dell'infante sopraddetto.
Insorta rissa nel porto di Civitavecchia tra i marinari di un
bastimento genovese e le ciurme di alcune tartane di Gaeta, si accesero
per tal modo gli animi, che, dalle parole venendo ai fatti, rimasero da
ambe le parti uccisi alcuni e moltissimi feriti, nonostante che accorso
fosse immantinente il presidio della città a fermare il disordine,
che potea divenir generale per la parte che mostrava di prendere la
plebe a favore dei Genovesi. Ma avendo la piccola artiglieria ceduto il
luogo alla più grossa, fecero le tartane di Gaeta così bene giuocare
i cannoni che, presto affondarono il genovese bastimento, e poi,
salpate l'ancore, uscirono in alto mare, sebbene, costrette dal tempo
burrascoso a tornarne in porto, non ne partissero poi che alquanti
giorni dopo.
Furono immediatamente chiamati a Roma il governatore della città ed il
comandante dell'armi a render conto del fatto e delle direzioni da essi
tenute. Niuno domandi però se la repubblica di Genova tardasse molto a
chieder giustizia e soddisfazione del torto e dell'insulto fatto alla
sua bandiera in un porto amico, ed in pregiudizio della pubblica fede
e sicurezza. Quantunque sospesi dalle loro funzioni i due uffiziali
superiori di Civitavecchia ed aspramente ripresi in Roma, dov'erano
stati richiamati; avendo la repubblica insistito sopra le sue prime
rimostranze, fu da Roma stessa espressamente comandato al luogotenente
di quella marittima piazza di far levare il timone a qualunque
bastimento napolitano entrasse nel suo porto. Ed infatti, essendone
comparsi tre da lì a non molto, il luogotenente eseguì appuntino gli
ordini che avea dal suo principe ricevuti.
Ma la corte di Napoli, la quale al primo avviso dell'accaduto a
Civitavecchia avea fatto arrestare i padroni delle tartane rissose, ed
ordinatone il processo, sentendo adesso che, per dare soddisfazione a'
Genovesi, quella di Roma avea sospeso dall'impiego il governatore della
città e fatti pure arrestare i tre navigli napolitani che si è detto,
diede suoi ordini perchè si fermassero tutti i bastimenti di bandiera
pontifizia nei porti delle Due Sicilie, facendo dal suo ministro in
Roma chieder soddisfazione del torto fatto ai legni de' suoi sudditi.
Se non che, postosi in trattative l'affare, rimase amichevolmente
composto, e dopo reciproche spiegazioni delle tre corti, rimesso, con
comune soddisfazione delle medesime, il governatore di Civitavecchia
nel suo uffizio.
Benedetto XIV fu un pontefice che, mostrando sempre animo veramente
sacerdotale, conosceva però egregiamente le differenze dei tempi, e
come fosse da concedere alle domande o alle preghiere dei principi
tutto ciò che al dogma ed alla sostanza della religione non si
appartenesse. Così accomodò egli amichevolmente la vertenza in
quest'anno insorta col re di Napoli per la pensione di sei mila
scudi concessa al terzogenito di lui sopra il vacante ricchissimo
arcivescovato di Montereale in Sicilia; così con fermezza diè termine
all'altra sopravvenuta col re stesso, e con quelli di Sardegna e di
Polonia riguardo alla promozione al cardinalato dei nunzii pontifizii
appo quelle tre corti.
Altra occasione ebbe il Lambertini in questo anno di esercitare l'animo
suo conciliativo calmando le differenze insorte fra il gran maestro di
Malta ed il re delle Due Sicilie. La discordia avea già sparso il suo
veleno: i due principi erano in piena rottura, ed il più debole de' due
contendenti già ne sentiva i funesti effetti. Ma per ben intendere le
cagioni della contesa è giuoco forza farsi dall'origine.
Quando l'imperadore Carlo V donò l'isola di Malta a' cavalieri
gerosolimitani, da Solimano re de' Turchi stati nel 1323 scacciati
dall'isola di Rodi, che aveano per più di due secoli posseduta, vi pose
egli la condizione che la tenessero in qualità di feudo dipendente da
lui come sovrano delle Due Sicilie; che dovessero pagargli annualmente
il giorno di tutti i Santi un falcone; che il vescovato di Malta
restasse, qual era, giuspadronato suo e de' suoi successori, sì che,
in caso di vacanza della sedia vescovile, il gran maestro avesse
a presentargli tre soggetti idonei, tra' quali scegliere il nuovo
vescovo.
Trascorsi più di due secoli, ne' quali il regno delle Due Sicilie era
stato provincia della Spagna, e per un tratto parimente provincia
della casa d'Austria, senza che si fosse pensato a far valere
quest'ultimo diritto principalmente, stimò il re don Carlo di avere
ragioni sufficienti per esercitarlo; quindi ordinando al vescovo di
Siracusa, come metropolitano, di passare a Malta e farvi una visita
pastorale. Ubbidì il vescovo e mandò innanzi i suoi visitatori; i quali
presentatisi sopra un bastimento napolitano a vista dell'isola, non
osarono poi di mettervi il piede, per l'opposizione che ragionevolmente
previdero di dover incontrare per parte degli abitanti, che, avvisati
del motivo della loro comparsa, eransi affollati alla spiaggia,
dichiarando sè non soffrire in verun modo che si facesse mai tra di
loro una simile visita. Appigliaronsi dunque i visitatori al prudente
partito di abbandonar l'isola e tornarne in Sicilia.
Il gran maestro della religione stimò bene di dar parte dell'attentato
al pontefice non meno che a tutte le altre potenze d'Europa, e nel
tempo stesso spedì a Napoli il balì Duegos per esporre a quella
corte non contrastarsele il diritto nella sua origine, ma doversi
assolutamente riputare, se non estinto e nullo, almeno inefficace
e invalido per lungo tratto di tempo in cui rimase disusato.
Il pontefice, al primo avviso di cotale differenza, tenne una
congregazione di cardinali e prelati, e scrisse al re di Napoli per
persuaderlo a desistere da un'impresa ch'egli giudicava inopportuna
e senza fondamento. Ma il re, non avendo creduto di condiscendere
all'opinione del papa, fece sapere che se continuavasi a ricusare
i visitatori che sarebbero mandati a Malta, farebbe sequestrare le
rendite delle commende che i cavalieri Gerosolimitani ne' suoi Stati
possedevano. Ed il gran maestro dal canto suo dichiarò che, qualora le
cose giungessero a tale estremo, egli terrebbesi giustificato di far
sequestrare le rendite che godevano in altri Stati i commendatori nati
sudditi del re delle Due Sicilie, e richiamò da Napoli il balì Duegos.
Sciolto per tal modo ogni trattato, la corte di Napoli, in conseguenza
della risoluzione presa di mantenere il vescovo di Siracusa nel gius
di far la visita nel vescovato di Malta, colà mandò lo stesso prelato
in persona: ma nè il suo viaggio fu più felice di quello dei suoi
deputati, avendo dovuto tornarsene addietro senza aver posto piede in
terra. Presentatovisi poi una seconda volta, il gran maestro mandogli
incontro una barca per avvisarlo, che, persistendo nell'intenzione
di scendere a Malta, si sarebbe fatto fuoco sopra il suo vascello per
costringerlo ad allontanarsi; laonde il vescovo, voltato bordo, tornò
alla sua chiesa.
Avvisata la corte di Napoli del nuovo rifiuto, mandò ad effetto le sue
minaccie: interdisse ogni commercio fra i porti delle Due Sicilie e
l'isola di Malta; proibì a' suoi sudditi di colà trasportare derrate o
provvisioni di qualunque altro genere; e sequestrò tutte le commende
dell'ordine che trovavansi ne' suoi dominii. Il gran maestro, in
rappresaglia, dopo ordinato a' sudditi suoi di rivolgersi alla Sardegna
ed alle reggenze di Barbaria per le provvisioni che prima traevano
dalle Due Sicilie, sequestrò anch'egli le commende che i cavalieri
napolitani godevano in altri paesi. Inasprivano gli animi; il commercio
s'interrompeva: ed i popoli, vittime innocenti di una discordia che
non potea interessarli, ne gemevano al peso. Il Mediterraneo coperto
di legni barbareschi; le coste meridionali dell'Italia e le pontifizie