Annali d'Italia, vol. 8 - 02
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al partito di vietare a' suoi di approssimarsi ai presidii genovesi.
D'uopo è notare che mentre i Corsi sostenevano una lotta accanita
coi Genovesi, le diverse corti, e quelle specialmente di Francia e di
Spagna, gelose erano a vicenda, e timorose sempre che l'isola cadesse
in dominio dell'una o dell'altra; dal che derivava che mentre si
ostentava talvolta di prestare aiuto ai Genovesi, e di voler ricondurre
la pace, non si lasciava di fomentare in qualche modo la sollevazione e
di favoreggiare l'indipendenza di quella nazione.
Intanto la discordia, che regnava tra' Franzesi e Genovesi, riaccese
quella delle comunità del regno, senza che il generale franzese, il
quale procurava di sopirla, o almen frenarla con la dolcezza e con
l'autorità, prevalesse a ristabilire la quiete, spesso interrotta da
vie di fatto funeste e sanguinose.
Informata la repubblica di Genova di quanto era accaduto ed accadeva in
Corsica tra il marchese di Cursay ed il suo comandante, tra le milizie
di ambedue le parti e tra le comunità del regno, elesse subito il
marchese Giacomo Grimaldi, uomo di gran merito e di molta estimazione,
per mandarlo nuovo commissario in Corsica a trattare col comandante
franzese un aggiustamento di tutte quelle vertenze; inviando al suo
ministro a Parigi ampie istruzioni onde giustificare presso quella
corte il modo di operare suo e de' suoi.
Ma anche il marchese di Cursay avea già di tempo in tempo portate alla
sua corte le proprie doglianze, e da ultimo l'aveva ragguagliata delle
recenti contese; senza nel frattempo tralasciar l'esecuzione degli
ordini ricevuti dal cavaliere di Chauvelin, plenipotenziario del re a
Genova, di convocare pei 10 del mese di giugno un'assemblea generale
del regno, onde farvi l'elezione di cinque deputati, che, unitamente
con lui, col plenipotenziario suddetto e coi commissarii del senato di
Genova, dovevano trasferirsi a Tolone, per regolarvi diffinitivamente
in una specie di congresso tutte le bisogna della Corsica.
L'adunanza non ebbe luogo, perchè la Francia, disgustata grandemente,
per le relazioni del Cursay, e de' Genovesi e de' Corsi, venne in
determinazione di richiamare dalla Corsica le sue genti, lasciando
in balia di sè stessi non meno quegli abitanti che la repubblica di
Genova; e già tutto era apparecchiato per la partenza.
Sensibilissima riuscì alla repubblica e del pari ai capi de' Corsi
l'imminente partenza delle truppe franzesi dall'isola, perciò che
lasciavanla esse in un abisso di disordini, de' quali non poteasi
sperare allora nè rimedio nè fine. Fecero dunque lor pruove ambe le
parti per sospendere l'effetto della presa risoluzione, il senato
di Genova dando ordine a' suoi deputati in Parigi di sottomettersi
a qualunque soddisfazione che il gabinetto di Versaglies esigesse, e
promettendo i Corsi di ricevere con intera sommissione quei regolamenti
che al re piacesse di fare intorno agli affari loro.
Corse allora voce che qualche bella soddisfazione venisse data da'
Genovesi a Luigi XV, ma niuno poi seppe dire in che consistesse. Si
seppe bensì tosto che, calmato quel monarca, avea dato ordine al suo
ministro Chauvelin di proporre ai Corsi il chiesto regolamento, facendo
loro intendere che Sua Maestà, mossa dalla idea delle calamità che per
la partenza delle sue truppe sarebbero toccate ai Corsi, era discesa
a sospendere l'esecuzione de' suoi ordini, onde terminare un'opera ad
essi favorevole, come era quella di restituir loro la pace e far che
godessero d'un dolce reggimento e permanente.
In conseguenza de' quali ordini, passato nell'isola lo stesso de
Chauvelin, il marchese di Cursay intimò di bel nuovo una generale
adunanza; alla quale essendosi portati i deputati corsi, dopo
comunicate ad essi le condizioni dal re di Francia procurate per
assicurar loro uno stato felice e tranquillo, furono anche chiamati a
conoscere che felicità e tranquillità, mediante un moderato e giusto
governo, non poteano ottenere se non se da quella potenza che avesse
sopra di essi una legittima e sovrana autorità, come appunto era la
repubblica di Genova; nello stesso tempo dichiarando che Sua Maestà
Cristianissima, per un effetto della sua naturale bontà, addossavasi
la malleveria di tutto ciò che fosse loro concesso, e di cooperare
all'esecuzione. Tutti i deputati ad una voce fecero sapere che si
sottomettevano rispettosamente a quanto Luigi XV richiedeva, ed anzi
sottoscrissero un atto, col quale giurarono sopra l'Evangelio di volere
da allora in poi riconoscere la repubblica di Genova per sola legittima
loro sovrana, tornando sotto la sua obbedienza, e rinunziando ad ogni
passo od atto in contrario. Laonde fu letto e dato loro a sottoscrivere
il regolamento, contenente le condizioni che il re di Francia aveva
per essi conseguite dalla repubblica, e comprese in otto articoli,
tutti risguardanti al generale governo dell'isola, senza parola da cui
argomentare che seguire ne dovesse essenziale mutazione di reggimento.
A questi passi, un altro i Corsi ne mandarono dietro. Quattro fra i
deputati recaronsi a Bastia, e a nome di tutta la nazione rinnovarono
al già detto commissario Grimaldi le sicurezze della loro sommissione
e del sincero loro ritorno sotto il dominio dell'antico legittimo
Sovrano, presentandogli in pari tempo, ed alla presenza del cavaliere
de Chauvelin, una lettera, nella quale, riconoscendo la repubblica
per loro sola e legittima sovrana, protestavano che la principal cura
dei padri di famiglia e de' capi delle comunità sarebbe stata quella
di avvezzare i popoli al dovere ed alla subordinazione, e nel tempo
stesso imploravano dal commissario che volesse presso la Repubblica
interporsi, affinchè ottenesse dal re di Francia che tuttavia in
Corsica restassero le sue truppe, mezzo valevole, forse e unico per
assodare quella tranquillità che per esse si era veduta a rinascere.
A simile domanda furono i Corsi indotti per un fine politico:
sudditi, essi non potevano chiedere al re l'ulteriore soggiorno delle
sue milizie; sembrava inconveniente che lo facesse la repubblica
riguardo ad un paese pacificato e messo sotto la sua obbedienza;
il re di Francia di suo moto proprio nol dovea. Dall'altro canto a
tutti conveniva, o per interesse o per decoro, che quegli armati si
rimanessero. Fu dunque trovato l'espediente della lettera, che togliea
di mezzo tutti gli scrupoli e delicatezze.
Se non che non tardò molto a manifestarsi la necessità di quelle
truppe. I deputati che aveano firmata la pacificazione della Corsica
furono disapprovati da' loro committenti di là dai monti, che si
sollevarono, e se di qua il fuoco non iscoppiò nè così presto nè con
tanto impeto, covava sotto la cenere, ed anzi si credette che di qui
partissero le scintille che appiccarono l'incendio dall'altra parte.
Gli abitanti di Niolo, considerati sempre come i meno trattabili
dell'isola tutta, furono i primi a tumultuare contro il regolamento,
perchè non procacciasse i vantaggi ch'eransi fatti sperare, non
parlando esso punto de' privilegii della nazione, che pur erano
l'argomento principale della gran lite co' Genovesi, e per tal modo
rimanevano, come per l'addietro, soggetti all'autorità dispotica
della Repubblica e de' suoi uffiziali. Nè a persuadere i Niolesi e
gli altri abitanti di parecchie pievi della parte oltramontana, che
ne avevano seguito l'esempio, valsero le parole dell'abbate Olivetto,
ecclesiastico molto stimato da quelle genti, ed il medesimo che per
esse avea scritto alla corte di Francia promettendo a loro nome tutta
la sommessione, perchè si lasciassero nell'isola le truppe che il
re ne avea richiamate: prese di bel nuovo l'armi, posero ogni cosa
in disordine tale, che forse potea dirsi peggiore di quel di prima.
Se non che, recatosi sui luoghi il marchese di Cursay con buona mano
di soldati, giunse a calmare gli animi ed i ribelli, deposte l'armi,
gli diedero anche statici per sicurezza della loro fede: vedremo in
appresso che calma e che sommissione fossero quelle.
I corsari africani, che in quest'anno ricomparvero baldanzosi sulle
acque della Corsica, ed ogni dì faceano udire il suono di qualche
novella preda, e minacciavano di sbarco le coste dell'Italia, senza che
a reprimerne l'insolenza valessero una squadra napolitana e le galee di
Malta e del pontefice, furono cagione di grave querela tra la corte di
Napoli e quella di Vienna.
Avendo le galee pontificie e napoletane data la caccia a due galeotte
tunisine, ne catturarono una; ma l'altra riuscì a ripararsi sotto il
cannone della torre del Giglio, situata all'altura degli Stati de'
presidii, sulle terre all'imperadore spettanti nella sua qualità di
granduca di Toscana. Allora le galee pontifizie, cessando l'impresa,
diedero di volta; ma le napoletane, niente curando i segnali del
comandante della torre, che avvisava trovarsi la galeotta in paese
sicuro, l'incalzarono sì, che costrinsero i Turchi a salvarsi in terra,
dove pure sbarcati, gli attaccarono più volte, finchè li videro in
luogo di sicurezza, e quindi condussero seco il legno nemico ed una
barca napolitana poc'anzi da quello predata, in tutta questa fazione
lavorando col cannone gagliardamente con qualche danno eziandio della
torre, che continuava a protestare ed a far fuoco per far rispettare i
suoi diritti.
Informata la corte imperiale, allora residente a Presburgo,
dell'accaduto, lo imperadore, come granduca di Toscana, considerandosi
altamente offeso per la violenza praticata a quel corsaro sotto la sua
protezione, chiese alla corte di Napoli pronta e solenne soddisfazione
colla restituzione immediata del bastimento predato. Alle quali
rimostranze re Carlo rispose, aver lui fatto più volte rappresentare
alla reggenza di Firenze non potersi avere riguardo alcuno alla pretesa
neutralità della corte di Toscana, però che di questa i Barbareschi
prevalevansi per impunemente e come da sicuro asilo assaltare le navi
napoletane con incredibile danno de' suoi sudditi e del loro commercio;
nè dovere quindi parere strano se il duca di San Martino, comandante
delle galee napoletane, non avea avuto difficoltà di assalire il legno
tunisino, trovatosi appunto nel caso per cui state erano mosse quelle
doglianze e proteste. O sia che cotale risposta fosse riconosciuta
concludente, o che altri motivi a ciò consigliassero, l'affare rimase
allora sopito.
Tuttavia, a mettere qualche rimedio al sommo pregiudizio che
generalmente recava al commercio d'Italia, quel ricovero che ne'
porti di Toscana trovavano i Barbareschi, per la pace da Francesco I
imperadore, quale granduca, colle reggenze africane conchiusa; mosse
calde lagnanze alla corte di Vienna dal papa, dal re di Sardegna e
dalle repubbliche di Genova e di Lucca; l'imperadore stesso, sul cui
animo avere doveano maggior forza le ragioni giustissime di quattro
italiane potenze che non qualunque trattato o impegno in cui fosse
entrato coi governi di Barbaria, s'indusse finalmente a permettere alla
reggenza di Firenze di servirsi delle due navi da guerra recentemente
a Porto Ferraio tornate dal Levante, per tener lontani dalle coste di
Toscana i corsari, non permettendo loro di accostarsi, se non ne' casi
di disgrazia, che furono specificati. Alla quale permissione imperiale
fu allora creduto che maggiormente avessero contribuito i lamenti de'
negozianti di Livorno per le ingiustizie ed avanie che le loro navi
pativano da coloro, a' quali la fede de' trattati era lieve freno per
trattenerli dal commettere mille estorsioni ed iniquità.
A questa provvidenza giusta e salutare, diretta ad assicurare
possibilmente il commercio italiano dalla rapacità e malafede degli
Africani, un'altra ne mandò dietro Benedetto XIV, e come capo della
religione e come principe temporale, molto più dilicata di sua natura,
ed assai più importante nelle sue conseguenze, riguardo ai così detti
Liberi Muratori. Già da circa venti anni diffusa e clandestinamente
dilatata ne' paesi cattolici, e più ancora in quelli che fuor del
cattolicismo viveano, teneva questa società in continuo sospetto
i principi ed i governi. Chi le ha dato per progenitori coloro che
edificarono la torre di Babele, chi quelli del tempio di Salomone;
altri, più sistematici, vollero riconoscerne padri i cavalieri
Templari. Amava le tenebre, ed in seno dell'oscurità andava ampliando
il numero de' suoi confratelli. Sulla porta di quelle stanze che le
serviano di notturno ricetto non vedevi impressi caratteri materiali;
eppure era scritto: _Lungi, o profani; è questo il regno della luce
ed il tempio della verità._ Riti misteriosi ne accompagnavano le
iniziazioni. Non diversità di patria, non differenza di governo, non
disparità di culto era di ostacolo o ragion di ripulsa a chi chiedea
d'entrare. Nel regno della luce, nel tempio della verità ammetteansi
egualmente, e come cittadini e come adoratori, i fedeli di Cristo, i
discendenti di Abramo, i seguaci di Calvino o di Lutero, di Maometto
e di Confucio. La differenza stessa della nascita, del grado, delle
fortune quivi spariva; chè l'opulento ed il misero, il dignitario
e l'artigiano, principi e sudditi, dotti ed indotti trovavansi
indistintamente registrati sulla lista dei Liberi Muratori, e non
rado un uomo, cui per le vene scorreva un sangue per trenta o quaranta
generazioni purificato, siedeva fra due compagni lordi ancora di quel
fango ond'erano usciti nascendo. Soave giocondità presiedeva alle
notturne loro adunanze, e parea un'innocente allegria fosse il nume
geniale de' loro banchetti. Uno spirito di fratellanza, di benevolenza
generale, mentre congiungeva le destre, ne annodava i cuori. I
soccorsi, che una mano benefattrice porgea a chi avea bisogno, erano
sempre tanto spontanei quanto copiosi; ed il fratello beneficato, lungi
dal vedere nel suo benefattore, come suole troppo di sovente, chi della
sua superiorità approfitta per farsi dipendente e schiavo un infelice,
vedevasi appena obbligato al tacito tributo dell'intima riconoscenza.
Come dunque una congregazione di uomini, sì innocente nel suo vantato
istituto, sì benefica ne' pretesi suoi effetti, che proponeasi di
mettere in pratica quelle sante massime che, proposte dal Vangelo
colla promessa di non terminature ricompense, trovano nondimeno tra i
cristiani sì scarso numero di cultori, come mai farsi potè sospetta ai
governi, tirarsene addosso lo sdegno, e meritar in fine d'esser punita?
Facile a conciliarsi è l'apparente contraddizione. La società dei
Liberi Muratori è tutta fondata sul più rigoroso secreto. Coloro che
vi sono ammessi non entrano a parte del mistero, e nulladimeno si esige
da essi sotto i più terribili giuramenti di starne fedeli al silenzio.
Se la società ha per oggetto del suo istituto la virtù, a che tanta
precauzione per tenere celata la sostanza delle sue massime e delle
sue dottrine? Perchè non far vedere agl'iniziati il codice della loro
associazione? A che tanta diffidenza, a che tanta gelosia?
Tutti questi segreti, tutti questi misteri, che all'illustre Annalista
d'Italia sembrarono _inezie_, e ad altri parve che contenessero
l'_enigma e non l'arcano_, divennero sospetti non solo alla podestà
ecclesiastica, per credere che si macchinassero insidie alla religione,
ma eziandio alla stessa secolare podestà, prevedendo che potesse
turbarsene la quiete civile. Quindi in poco tempo si videro a circolar
per tutta l'Europa editti sopra editti contro i Liberi Muratori. Prima
a comparire nella lista delle potenze che proscrissero la società
fu la Francia, nel 1727. L'Olanda nello stesso anno, e molto più
rigorosamente nel 1755, manifestò il suo sdegno contro i supposti
discendenti dei Templari. Tre anni dopo lo stesso fecero la Fiandra e
la Svezia. La Polonia nel 1739, la Spagna ed il Portogallo nel 1740, il
governo di Malta nel 1741, e la regina d'Ungheria nel 1743 fulminarono
gli apostoli della verità e gli angeli della luce, come furono poi
proscritti, nel 1748, negli Svizzeri, dal cantone di Berna.
Tredici anni erano scorsi da che Clemente XII, stato informato che il
mostro, varcate le Alpi, avea posto in Italia il piede, gli scagliò
contro gli anatemi del Vaticano. (Ved. sopra all'anno 1736; tomo VII,
col. 429 e seg.) Se non che alcuni divulgavano che le censure fulminate
della Chiesa, per non essere la bolla di Clemente stata dall'attuale
pontefice confermata, non aveano più vigore alcuno. Si volse adunque
Benedetto XIV a distruggere sì pernizioso errore, e nel giorno 18
maggio del presente anno comunicò a tutto il mondo cattolico i suoi
sentimenti e le risolute sue determinazioni in tale proposito con una
bolla, nella quale sei motivi adduceva, pei quali aveasi la società
a riguardare come direttamente contraria al bene della religione e
dello Stato. Unirsi, diceva, in siffatte adunanze persone di ogni
religione e di tutte le sette; occultarsi con istretto costante impegno
di segretezza le cose che in dette conventicole si fanno: asserendo
essere colpevole il giuramento con cui si obbligano ad inviolabilmente
osservare il segreto, come se fosse lecito ad alcuno di premunirsi del
pretesto di qualche promessa o giuramento per esimersi dal manifestare
le cose tutte, intorno alle quali fosse dalla legittima podestà
interrogato; opporsi società simili alle leggi civili non meno che
alle ecclesiastiche, essendo dal gius civile vietati tutti i collegi
e corporazioni tutte formate senza pubblica autorità; essere in molti
paesi state proscritte dalle leggi di principi cotali società ed
aggregazioni; cadere esse mai sempre in sospetto degli uomini saggi,
riputati perversi coloro che vi si aggregavano.
Quantunque in Napoli più che altrove si guardasse con sospetto
qualunque adunanza od unione di genti, per le ripetute rivoluzioni
alle quali andò quel regno suggetto, così teneasi che colà e nelle
altre napoletane provincie si fossero assai moltiplicate le logge di
Muratori. Appena dunque venuta in luce la costituzione di Benedetto
XIV, il zelo di molti ecclesiastici fece sì che tuonassero, sul
fondamento delle voci che correano, contro la setta dei Liberi
Muratori; e quindi il popolo a credere di veder sempre chi portasse in
fronte i contrassegni del fulmine pontificale; a mormorare che la corte
in sì delicato argomento si tenesse in silenzio. Intanto i settatori,
benchè con tutta giustizia perseguitati, e quantunque conoscer
dovessero il proprio torto, osservavano gelosamente quel segreto
ch'era l'anima della loro istituzione, guardavano un rigoroso silenzio
sulla sostanza delle loro massime e sulla natura dei dogmi loro, non
meno che intorno al nome dei consocii, e continuavano a radunarsi
clandestinamente. Ma, per quanto occultamente adoperassero, non valeano
a sottrarsi affatto alle suspizioni. Potea il disordine crescere da una
parte, crescer dall'altra lo scandalo. Laonde il re, risoluto d'andare
alla radice del male, condiscendendo ancora alle istanze del sommo
pontefice, elesse cinque giudici particolari, uno per ciascun ordine di
persone, onde fossero processati e puniti tutti coloro che alla setta
de' Muratori si trovassero aggregati. Ma perchè tali regie disposizioni
forse non bastavano, se anche la nazione tutta non fosse senza equivoco
e perfettamente istrutta della sovrana volontà, il re Carlo emanò un
severo editto, in cui proibì assolutamente ne' suoi dominii i Liberi
Muratori, da dover essere puniti come perturbatori della pubblica
tranquillità e rei di crimenlese.
Anno di CRISTO MDCCLII. Indiz. XV.
BENEDETTO XIV papa 13.
FRANCESCO I imperadore 8.
La convenzione nell'anno scorso da noi mentovata, tra le corti di
Vienna, Madrid e Torino, fu nell'anno presente ridotta a solenne
trattato, reso poi celebre sotto il nome di trattato di Madrid, o
di Aranjuez, dal luogo in cui fu stipulato, ed il quale in sostanza
non era che una pura rinnovazione della convenzione sopraccennata,
le sole mutazioni fatte consistendo negli aiuti scambievoli promessi
da' tre sovrani in caso di aggressione ai loro Stati in Italia, e
nell'alternativa di dare in vece di soldati uno stabilito sussidio in
denaro contante. Alla diffinitiva conclusione di siffatto accordo molto
cooperò il re d'Inghilterra, siccome quegli a cui stava molto a cuore
la perfetta esecuzione del trattato di Aquisgrana e della convenzione
di Nizza, che ne furono come la base ed il principal fondamento. Ed
al totale ristabilimento della pubblica tranquillità concorsero quasi
tutte le italiane potenze, con sì buona intelligenza e concordia,
che in brevissimo tempo, per mezzi del tutto amichevoli e pacifici,
congressi, maneggi, concordati, furono accomodate tutte le questioni
e vertenze insorte necessariamente per le perturbazioni delle guerre,
intorno ai confini ed alle giurisdizioni tra il regno di Napoli e lo
Stato pontificio, tra questo e la Toscana, tra esso granducato ed il
duca di Modena, tra il Milanese e gli Stati del re di Sardegna, tra
questi e la repubblica di Genova, tra il Mantovano ed il Tirolo colla
repubblica di Venezia.
Le sollecitudini de' principi contraenti nel detto trattato ebbero
per quaranta e più anni un effetto salutare. E forse anche più durato
avrebbe il suo beneficio, senza quel turbine che dalla Francia proruppe
a disordinare ogni meglio connesso edifizio, verso la fine del secolo,
come a suo luogo verremo a mano a mano descrivendo. Ma intanto ci è
d'uopo ripigliare il filo delle cose di Corsica, che tenevano allora
desta l'attenzione generale dell'Italia non solo, ma di tutta l'Europa.
Guardavansi di mal occhio i due primarii personaggi che allora
reggevano la isola, il commissario genovese marchese Grimaldi ed il
marchese di Corsay comandante franzese, e tanto innanzi procedute
erano le cose, che quel primo dalla Bastia erasi ritirato in Aiaccio,
per isfuggire le contese quotidianamente insorgenti per l'autorità
che questi arrogavasi, in gran parte contraria alla sovranità della
repubblica. Ora ad accrescere le discordie accadde che una squadra
franzese, tornando da' lidi dell'Africa, dov'erasi portata a minacciare
i Tripolini, bombardandone il porto, comparve sulle coste della Corsica
e diede fondo nel porto d'Aiaccio, senza che i Genovesi sapessero
che pensarsi di quella comparsa, e con grave scontentezza de' Corsi,
tra' quali corse come sicura la voce che fosse venuta per opporsi ad
altra squadra inglese, che dovea liberar l'isola dalla schiavitù e
dall'oppressione. Come il senato di Genova avea già significato al
suo commissario che gli chiedea il modo del contenersi, la squadra,
dopo rinfrescato, veleggiò per Tolone; ma in quell'occasione il senato
stesso avea pur fatto intendere al Grimaldi come stata fosse ottima
cosa che se la passasse con miglior accordo col comandante franzese,
in pari tempo lagnandosi alla corte di Francia delle costui procedure.
E a tali insinuazioni del senato il Grimaldi replicò con sentimenti
di buono e zelante repubblicano, lui chiedere piuttosto di essere
richiamato, di quello che rimanere in un impiego in cui fosse obbligato
a riconoscere autorità altra qualunque fuor di quella della repubblica.
Ma l'impossibilità di trovare suggetto capace da sostituire al Grimaldi
nel posto di commissario generale in Corsica, il non poterglisi
rimproverare altro che un troppo vivo zelo nel sostenere il decoro e
gl'interessi della sua patria, determinarono il senato a non aderire
alle domande del suo cittadino.
Nè solamente le gelosie e le reciproche diffidenze de' due generali
in Corsica tenevano molto occupati i Genovesi ed inquietavano la corte
di Francia; ma il regolamento stesso comunicato l'anno scorso ai capi
dei sollevati dal marchese di Cursay per parte del re di Francia,
di cui quei popoli non eransi mostrati troppo contenti, non appagava
neppure interamente i Genovesi; sì che si rese necessario concertare
col cavaliere di Chauvelin, ministro franzese, che di Francia venisse
una riforma, la quale e questi e quelli appagasse. Ma nè anche giovò
la riforma creduta opportuna dal gabinetto di Versaglies, poichè, per
lo contrario, non appena fu comunicata ai capi delle pievi, che destò
uno straordinario ed universale impeto di furore, tutti protestando di
non accettare quel regolamento, benchè modificato, nè sottomettervisi
in verun modo, altro scopo esso non avendo che rimettere loro sul collo
l'abborrito giogo della repubblica. Indarno furono chiamati a nuovo
congresso. Ripigliate l'armi, obbligaronsi con fortissimo giuramento
di trattare da nemico chiunque ardisse di parlare d'accomodarvisi.
Scriveva il marchese di Cursay al cavaliere Chauvelin, non esservi in
quello stato di cose che due soli partiti da prendere: o abbandonare la
Corsica al suo destino, o far uso della forza contro la medesima. Ma,
invece di risposta, si vide il marchese posto in arresto, guardato a
vista, indi trasportato in Antibo, e colà custodito come prigioniero di
Stato.
Tra le accuse che allora si sparsero contro il detto comandante,
la principal era quella di un'eccessiva ambizione, per appagare la
quale avea voluto rendersi come necessario ad ambe le parti. In fatti
un'autorità quasi illimitata erasi egli acquistata, specialmente
facendo con una saggia amministrazione godere a quei popoli una
vera felicità; temperato per lui il furore dei partiti, le leggi
erano rispettate, divenuti rarissimi i delitti, e tutta la nazione
tornata per un pezzo in dolce concordia. Fondata egli aveva perfino
un'accademia in Bastia, la quale, sebbene lungo tempo non durasse,
aveva tuttavia risvegliato tra' Corsi il gusto delle lettere.
Arrestato il Cursay, le truppe franzesi rimasero sotto il comando
d'un signor di Curci, il quale, facendo suo pro dell'esempio del
predecessore, fu dal Grimaldi, e tutto si proferse a' suoi desiderii.
Ma intanto le fazioni, le risse, le discordie, le diffidenze
continuavano, accompagnate da incendii, violenze e spargimento di
sangue; ed i Corsi di là dai monti, a segnalare di bel nuovo l'odio
loro contro la repubblica, si elessero de' capi, e questi pubblicarono
un editto rigorosissimo contro chiunque avesse avuto l'ardimento
di fare qualsiasi proposizione a nome di Genova, e facevano inoltre
arrestare ed impiccare senza formalità di processi coloro che erano, o
si parea, sospetti di segrete intelligenze co' Genovesi.
In mezzo alla universal pace, ogni lieve commovimento diventava
osservabile, e tal fu l'attentato sedizioso di quei di Subiaco, grossa
terra della Campagna di Roma, che tanto nel temporale come nello
spirituale dipendeva dall'abbate commendatario di Santa Scolastica.
Questi pastori, che tali sono per la maggior parte, irritati per aver
perduto nella Rota di Roma una lite co' Benedettini di quella badia
circa i pascoli di certa montagna, invece di rispettare il giudizio,
o prevalersi contro d'esso de' rimedii legali, dato di mano all'armi,
investirono il convento, costrinsero priore e frati a fuggirsene per
le finestre, fugarono quanti accorsero in aiuto de' monaci, ed ucciso
uno sbirro, trassero dalle carceri dell'abbadia diversi loro compagni.
Giunto l'avviso del caso a Roma, furono mandate truppe, il cui solo
aspetto sedò immantinenti il tumulto; parte dei principali autori
fuggiti, parte arrestati, e tornati i Benedettini al loro convento. Ma,
per non lasciare impunito un fatto di tanta conseguenza, fu comandato a
quella popolazione di portare l'armi a Roma, il che fu subito eseguito.
Formato intanto il processo ai capi della sedizione, dieci, che erano
stati trasferiti nelle carceri di Roma, furono esiliati per sempre
dalle terre dello Stato ecclesiastico; ed altri undici, già fuggiti,
si sentirono fulminati in contumacia dalla condanna di morte. Quindi in
poi il pontefice colse ogni occasione, per isfuggire simili disordini,
di separare dalla spirituale la giurisdizione temporale in tutte quelle
badie e governi, nei quali erano prima congiunte, assoggettandoli tutti
all'immediata direzione della sacra consulta.
Accadde in quest'anno in Piacenza la morte del celeberrimo cardinale
Giulio Alberoni, che tanta parte ebbe nelle bisogna della Spagna e
dell'Europa tutta. Ne era stata la vita in forse qualche tempo prima;
ma colto avendolo, nel 24 giugno, fieri dolori seguiti da deliquio,
tornarono vani tutti i soccorsi dell'arte, e due giorni dopo spirò,
conservando sino all'ultimo una somma presenza di spirito; potendosi
D'uopo è notare che mentre i Corsi sostenevano una lotta accanita
coi Genovesi, le diverse corti, e quelle specialmente di Francia e di
Spagna, gelose erano a vicenda, e timorose sempre che l'isola cadesse
in dominio dell'una o dell'altra; dal che derivava che mentre si
ostentava talvolta di prestare aiuto ai Genovesi, e di voler ricondurre
la pace, non si lasciava di fomentare in qualche modo la sollevazione e
di favoreggiare l'indipendenza di quella nazione.
Intanto la discordia, che regnava tra' Franzesi e Genovesi, riaccese
quella delle comunità del regno, senza che il generale franzese, il
quale procurava di sopirla, o almen frenarla con la dolcezza e con
l'autorità, prevalesse a ristabilire la quiete, spesso interrotta da
vie di fatto funeste e sanguinose.
Informata la repubblica di Genova di quanto era accaduto ed accadeva in
Corsica tra il marchese di Cursay ed il suo comandante, tra le milizie
di ambedue le parti e tra le comunità del regno, elesse subito il
marchese Giacomo Grimaldi, uomo di gran merito e di molta estimazione,
per mandarlo nuovo commissario in Corsica a trattare col comandante
franzese un aggiustamento di tutte quelle vertenze; inviando al suo
ministro a Parigi ampie istruzioni onde giustificare presso quella
corte il modo di operare suo e de' suoi.
Ma anche il marchese di Cursay avea già di tempo in tempo portate alla
sua corte le proprie doglianze, e da ultimo l'aveva ragguagliata delle
recenti contese; senza nel frattempo tralasciar l'esecuzione degli
ordini ricevuti dal cavaliere di Chauvelin, plenipotenziario del re a
Genova, di convocare pei 10 del mese di giugno un'assemblea generale
del regno, onde farvi l'elezione di cinque deputati, che, unitamente
con lui, col plenipotenziario suddetto e coi commissarii del senato di
Genova, dovevano trasferirsi a Tolone, per regolarvi diffinitivamente
in una specie di congresso tutte le bisogna della Corsica.
L'adunanza non ebbe luogo, perchè la Francia, disgustata grandemente,
per le relazioni del Cursay, e de' Genovesi e de' Corsi, venne in
determinazione di richiamare dalla Corsica le sue genti, lasciando
in balia di sè stessi non meno quegli abitanti che la repubblica di
Genova; e già tutto era apparecchiato per la partenza.
Sensibilissima riuscì alla repubblica e del pari ai capi de' Corsi
l'imminente partenza delle truppe franzesi dall'isola, perciò che
lasciavanla esse in un abisso di disordini, de' quali non poteasi
sperare allora nè rimedio nè fine. Fecero dunque lor pruove ambe le
parti per sospendere l'effetto della presa risoluzione, il senato
di Genova dando ordine a' suoi deputati in Parigi di sottomettersi
a qualunque soddisfazione che il gabinetto di Versaglies esigesse, e
promettendo i Corsi di ricevere con intera sommissione quei regolamenti
che al re piacesse di fare intorno agli affari loro.
Corse allora voce che qualche bella soddisfazione venisse data da'
Genovesi a Luigi XV, ma niuno poi seppe dire in che consistesse. Si
seppe bensì tosto che, calmato quel monarca, avea dato ordine al suo
ministro Chauvelin di proporre ai Corsi il chiesto regolamento, facendo
loro intendere che Sua Maestà, mossa dalla idea delle calamità che per
la partenza delle sue truppe sarebbero toccate ai Corsi, era discesa
a sospendere l'esecuzione de' suoi ordini, onde terminare un'opera ad
essi favorevole, come era quella di restituir loro la pace e far che
godessero d'un dolce reggimento e permanente.
In conseguenza de' quali ordini, passato nell'isola lo stesso de
Chauvelin, il marchese di Cursay intimò di bel nuovo una generale
adunanza; alla quale essendosi portati i deputati corsi, dopo
comunicate ad essi le condizioni dal re di Francia procurate per
assicurar loro uno stato felice e tranquillo, furono anche chiamati a
conoscere che felicità e tranquillità, mediante un moderato e giusto
governo, non poteano ottenere se non se da quella potenza che avesse
sopra di essi una legittima e sovrana autorità, come appunto era la
repubblica di Genova; nello stesso tempo dichiarando che Sua Maestà
Cristianissima, per un effetto della sua naturale bontà, addossavasi
la malleveria di tutto ciò che fosse loro concesso, e di cooperare
all'esecuzione. Tutti i deputati ad una voce fecero sapere che si
sottomettevano rispettosamente a quanto Luigi XV richiedeva, ed anzi
sottoscrissero un atto, col quale giurarono sopra l'Evangelio di volere
da allora in poi riconoscere la repubblica di Genova per sola legittima
loro sovrana, tornando sotto la sua obbedienza, e rinunziando ad ogni
passo od atto in contrario. Laonde fu letto e dato loro a sottoscrivere
il regolamento, contenente le condizioni che il re di Francia aveva
per essi conseguite dalla repubblica, e comprese in otto articoli,
tutti risguardanti al generale governo dell'isola, senza parola da cui
argomentare che seguire ne dovesse essenziale mutazione di reggimento.
A questi passi, un altro i Corsi ne mandarono dietro. Quattro fra i
deputati recaronsi a Bastia, e a nome di tutta la nazione rinnovarono
al già detto commissario Grimaldi le sicurezze della loro sommissione
e del sincero loro ritorno sotto il dominio dell'antico legittimo
Sovrano, presentandogli in pari tempo, ed alla presenza del cavaliere
de Chauvelin, una lettera, nella quale, riconoscendo la repubblica
per loro sola e legittima sovrana, protestavano che la principal cura
dei padri di famiglia e de' capi delle comunità sarebbe stata quella
di avvezzare i popoli al dovere ed alla subordinazione, e nel tempo
stesso imploravano dal commissario che volesse presso la Repubblica
interporsi, affinchè ottenesse dal re di Francia che tuttavia in
Corsica restassero le sue truppe, mezzo valevole, forse e unico per
assodare quella tranquillità che per esse si era veduta a rinascere.
A simile domanda furono i Corsi indotti per un fine politico:
sudditi, essi non potevano chiedere al re l'ulteriore soggiorno delle
sue milizie; sembrava inconveniente che lo facesse la repubblica
riguardo ad un paese pacificato e messo sotto la sua obbedienza;
il re di Francia di suo moto proprio nol dovea. Dall'altro canto a
tutti conveniva, o per interesse o per decoro, che quegli armati si
rimanessero. Fu dunque trovato l'espediente della lettera, che togliea
di mezzo tutti gli scrupoli e delicatezze.
Se non che non tardò molto a manifestarsi la necessità di quelle
truppe. I deputati che aveano firmata la pacificazione della Corsica
furono disapprovati da' loro committenti di là dai monti, che si
sollevarono, e se di qua il fuoco non iscoppiò nè così presto nè con
tanto impeto, covava sotto la cenere, ed anzi si credette che di qui
partissero le scintille che appiccarono l'incendio dall'altra parte.
Gli abitanti di Niolo, considerati sempre come i meno trattabili
dell'isola tutta, furono i primi a tumultuare contro il regolamento,
perchè non procacciasse i vantaggi ch'eransi fatti sperare, non
parlando esso punto de' privilegii della nazione, che pur erano
l'argomento principale della gran lite co' Genovesi, e per tal modo
rimanevano, come per l'addietro, soggetti all'autorità dispotica
della Repubblica e de' suoi uffiziali. Nè a persuadere i Niolesi e
gli altri abitanti di parecchie pievi della parte oltramontana, che
ne avevano seguito l'esempio, valsero le parole dell'abbate Olivetto,
ecclesiastico molto stimato da quelle genti, ed il medesimo che per
esse avea scritto alla corte di Francia promettendo a loro nome tutta
la sommessione, perchè si lasciassero nell'isola le truppe che il
re ne avea richiamate: prese di bel nuovo l'armi, posero ogni cosa
in disordine tale, che forse potea dirsi peggiore di quel di prima.
Se non che, recatosi sui luoghi il marchese di Cursay con buona mano
di soldati, giunse a calmare gli animi ed i ribelli, deposte l'armi,
gli diedero anche statici per sicurezza della loro fede: vedremo in
appresso che calma e che sommissione fossero quelle.
I corsari africani, che in quest'anno ricomparvero baldanzosi sulle
acque della Corsica, ed ogni dì faceano udire il suono di qualche
novella preda, e minacciavano di sbarco le coste dell'Italia, senza che
a reprimerne l'insolenza valessero una squadra napolitana e le galee di
Malta e del pontefice, furono cagione di grave querela tra la corte di
Napoli e quella di Vienna.
Avendo le galee pontificie e napoletane data la caccia a due galeotte
tunisine, ne catturarono una; ma l'altra riuscì a ripararsi sotto il
cannone della torre del Giglio, situata all'altura degli Stati de'
presidii, sulle terre all'imperadore spettanti nella sua qualità di
granduca di Toscana. Allora le galee pontifizie, cessando l'impresa,
diedero di volta; ma le napoletane, niente curando i segnali del
comandante della torre, che avvisava trovarsi la galeotta in paese
sicuro, l'incalzarono sì, che costrinsero i Turchi a salvarsi in terra,
dove pure sbarcati, gli attaccarono più volte, finchè li videro in
luogo di sicurezza, e quindi condussero seco il legno nemico ed una
barca napolitana poc'anzi da quello predata, in tutta questa fazione
lavorando col cannone gagliardamente con qualche danno eziandio della
torre, che continuava a protestare ed a far fuoco per far rispettare i
suoi diritti.
Informata la corte imperiale, allora residente a Presburgo,
dell'accaduto, lo imperadore, come granduca di Toscana, considerandosi
altamente offeso per la violenza praticata a quel corsaro sotto la sua
protezione, chiese alla corte di Napoli pronta e solenne soddisfazione
colla restituzione immediata del bastimento predato. Alle quali
rimostranze re Carlo rispose, aver lui fatto più volte rappresentare
alla reggenza di Firenze non potersi avere riguardo alcuno alla pretesa
neutralità della corte di Toscana, però che di questa i Barbareschi
prevalevansi per impunemente e come da sicuro asilo assaltare le navi
napoletane con incredibile danno de' suoi sudditi e del loro commercio;
nè dovere quindi parere strano se il duca di San Martino, comandante
delle galee napoletane, non avea avuto difficoltà di assalire il legno
tunisino, trovatosi appunto nel caso per cui state erano mosse quelle
doglianze e proteste. O sia che cotale risposta fosse riconosciuta
concludente, o che altri motivi a ciò consigliassero, l'affare rimase
allora sopito.
Tuttavia, a mettere qualche rimedio al sommo pregiudizio che
generalmente recava al commercio d'Italia, quel ricovero che ne'
porti di Toscana trovavano i Barbareschi, per la pace da Francesco I
imperadore, quale granduca, colle reggenze africane conchiusa; mosse
calde lagnanze alla corte di Vienna dal papa, dal re di Sardegna e
dalle repubbliche di Genova e di Lucca; l'imperadore stesso, sul cui
animo avere doveano maggior forza le ragioni giustissime di quattro
italiane potenze che non qualunque trattato o impegno in cui fosse
entrato coi governi di Barbaria, s'indusse finalmente a permettere alla
reggenza di Firenze di servirsi delle due navi da guerra recentemente
a Porto Ferraio tornate dal Levante, per tener lontani dalle coste di
Toscana i corsari, non permettendo loro di accostarsi, se non ne' casi
di disgrazia, che furono specificati. Alla quale permissione imperiale
fu allora creduto che maggiormente avessero contribuito i lamenti de'
negozianti di Livorno per le ingiustizie ed avanie che le loro navi
pativano da coloro, a' quali la fede de' trattati era lieve freno per
trattenerli dal commettere mille estorsioni ed iniquità.
A questa provvidenza giusta e salutare, diretta ad assicurare
possibilmente il commercio italiano dalla rapacità e malafede degli
Africani, un'altra ne mandò dietro Benedetto XIV, e come capo della
religione e come principe temporale, molto più dilicata di sua natura,
ed assai più importante nelle sue conseguenze, riguardo ai così detti
Liberi Muratori. Già da circa venti anni diffusa e clandestinamente
dilatata ne' paesi cattolici, e più ancora in quelli che fuor del
cattolicismo viveano, teneva questa società in continuo sospetto
i principi ed i governi. Chi le ha dato per progenitori coloro che
edificarono la torre di Babele, chi quelli del tempio di Salomone;
altri, più sistematici, vollero riconoscerne padri i cavalieri
Templari. Amava le tenebre, ed in seno dell'oscurità andava ampliando
il numero de' suoi confratelli. Sulla porta di quelle stanze che le
serviano di notturno ricetto non vedevi impressi caratteri materiali;
eppure era scritto: _Lungi, o profani; è questo il regno della luce
ed il tempio della verità._ Riti misteriosi ne accompagnavano le
iniziazioni. Non diversità di patria, non differenza di governo, non
disparità di culto era di ostacolo o ragion di ripulsa a chi chiedea
d'entrare. Nel regno della luce, nel tempio della verità ammetteansi
egualmente, e come cittadini e come adoratori, i fedeli di Cristo, i
discendenti di Abramo, i seguaci di Calvino o di Lutero, di Maometto
e di Confucio. La differenza stessa della nascita, del grado, delle
fortune quivi spariva; chè l'opulento ed il misero, il dignitario
e l'artigiano, principi e sudditi, dotti ed indotti trovavansi
indistintamente registrati sulla lista dei Liberi Muratori, e non
rado un uomo, cui per le vene scorreva un sangue per trenta o quaranta
generazioni purificato, siedeva fra due compagni lordi ancora di quel
fango ond'erano usciti nascendo. Soave giocondità presiedeva alle
notturne loro adunanze, e parea un'innocente allegria fosse il nume
geniale de' loro banchetti. Uno spirito di fratellanza, di benevolenza
generale, mentre congiungeva le destre, ne annodava i cuori. I
soccorsi, che una mano benefattrice porgea a chi avea bisogno, erano
sempre tanto spontanei quanto copiosi; ed il fratello beneficato, lungi
dal vedere nel suo benefattore, come suole troppo di sovente, chi della
sua superiorità approfitta per farsi dipendente e schiavo un infelice,
vedevasi appena obbligato al tacito tributo dell'intima riconoscenza.
Come dunque una congregazione di uomini, sì innocente nel suo vantato
istituto, sì benefica ne' pretesi suoi effetti, che proponeasi di
mettere in pratica quelle sante massime che, proposte dal Vangelo
colla promessa di non terminature ricompense, trovano nondimeno tra i
cristiani sì scarso numero di cultori, come mai farsi potè sospetta ai
governi, tirarsene addosso lo sdegno, e meritar in fine d'esser punita?
Facile a conciliarsi è l'apparente contraddizione. La società dei
Liberi Muratori è tutta fondata sul più rigoroso secreto. Coloro che
vi sono ammessi non entrano a parte del mistero, e nulladimeno si esige
da essi sotto i più terribili giuramenti di starne fedeli al silenzio.
Se la società ha per oggetto del suo istituto la virtù, a che tanta
precauzione per tenere celata la sostanza delle sue massime e delle
sue dottrine? Perchè non far vedere agl'iniziati il codice della loro
associazione? A che tanta diffidenza, a che tanta gelosia?
Tutti questi segreti, tutti questi misteri, che all'illustre Annalista
d'Italia sembrarono _inezie_, e ad altri parve che contenessero
l'_enigma e non l'arcano_, divennero sospetti non solo alla podestà
ecclesiastica, per credere che si macchinassero insidie alla religione,
ma eziandio alla stessa secolare podestà, prevedendo che potesse
turbarsene la quiete civile. Quindi in poco tempo si videro a circolar
per tutta l'Europa editti sopra editti contro i Liberi Muratori. Prima
a comparire nella lista delle potenze che proscrissero la società
fu la Francia, nel 1727. L'Olanda nello stesso anno, e molto più
rigorosamente nel 1755, manifestò il suo sdegno contro i supposti
discendenti dei Templari. Tre anni dopo lo stesso fecero la Fiandra e
la Svezia. La Polonia nel 1739, la Spagna ed il Portogallo nel 1740, il
governo di Malta nel 1741, e la regina d'Ungheria nel 1743 fulminarono
gli apostoli della verità e gli angeli della luce, come furono poi
proscritti, nel 1748, negli Svizzeri, dal cantone di Berna.
Tredici anni erano scorsi da che Clemente XII, stato informato che il
mostro, varcate le Alpi, avea posto in Italia il piede, gli scagliò
contro gli anatemi del Vaticano. (Ved. sopra all'anno 1736; tomo VII,
col. 429 e seg.) Se non che alcuni divulgavano che le censure fulminate
della Chiesa, per non essere la bolla di Clemente stata dall'attuale
pontefice confermata, non aveano più vigore alcuno. Si volse adunque
Benedetto XIV a distruggere sì pernizioso errore, e nel giorno 18
maggio del presente anno comunicò a tutto il mondo cattolico i suoi
sentimenti e le risolute sue determinazioni in tale proposito con una
bolla, nella quale sei motivi adduceva, pei quali aveasi la società
a riguardare come direttamente contraria al bene della religione e
dello Stato. Unirsi, diceva, in siffatte adunanze persone di ogni
religione e di tutte le sette; occultarsi con istretto costante impegno
di segretezza le cose che in dette conventicole si fanno: asserendo
essere colpevole il giuramento con cui si obbligano ad inviolabilmente
osservare il segreto, come se fosse lecito ad alcuno di premunirsi del
pretesto di qualche promessa o giuramento per esimersi dal manifestare
le cose tutte, intorno alle quali fosse dalla legittima podestà
interrogato; opporsi società simili alle leggi civili non meno che
alle ecclesiastiche, essendo dal gius civile vietati tutti i collegi
e corporazioni tutte formate senza pubblica autorità; essere in molti
paesi state proscritte dalle leggi di principi cotali società ed
aggregazioni; cadere esse mai sempre in sospetto degli uomini saggi,
riputati perversi coloro che vi si aggregavano.
Quantunque in Napoli più che altrove si guardasse con sospetto
qualunque adunanza od unione di genti, per le ripetute rivoluzioni
alle quali andò quel regno suggetto, così teneasi che colà e nelle
altre napoletane provincie si fossero assai moltiplicate le logge di
Muratori. Appena dunque venuta in luce la costituzione di Benedetto
XIV, il zelo di molti ecclesiastici fece sì che tuonassero, sul
fondamento delle voci che correano, contro la setta dei Liberi
Muratori; e quindi il popolo a credere di veder sempre chi portasse in
fronte i contrassegni del fulmine pontificale; a mormorare che la corte
in sì delicato argomento si tenesse in silenzio. Intanto i settatori,
benchè con tutta giustizia perseguitati, e quantunque conoscer
dovessero il proprio torto, osservavano gelosamente quel segreto
ch'era l'anima della loro istituzione, guardavano un rigoroso silenzio
sulla sostanza delle loro massime e sulla natura dei dogmi loro, non
meno che intorno al nome dei consocii, e continuavano a radunarsi
clandestinamente. Ma, per quanto occultamente adoperassero, non valeano
a sottrarsi affatto alle suspizioni. Potea il disordine crescere da una
parte, crescer dall'altra lo scandalo. Laonde il re, risoluto d'andare
alla radice del male, condiscendendo ancora alle istanze del sommo
pontefice, elesse cinque giudici particolari, uno per ciascun ordine di
persone, onde fossero processati e puniti tutti coloro che alla setta
de' Muratori si trovassero aggregati. Ma perchè tali regie disposizioni
forse non bastavano, se anche la nazione tutta non fosse senza equivoco
e perfettamente istrutta della sovrana volontà, il re Carlo emanò un
severo editto, in cui proibì assolutamente ne' suoi dominii i Liberi
Muratori, da dover essere puniti come perturbatori della pubblica
tranquillità e rei di crimenlese.
Anno di CRISTO MDCCLII. Indiz. XV.
BENEDETTO XIV papa 13.
FRANCESCO I imperadore 8.
La convenzione nell'anno scorso da noi mentovata, tra le corti di
Vienna, Madrid e Torino, fu nell'anno presente ridotta a solenne
trattato, reso poi celebre sotto il nome di trattato di Madrid, o
di Aranjuez, dal luogo in cui fu stipulato, ed il quale in sostanza
non era che una pura rinnovazione della convenzione sopraccennata,
le sole mutazioni fatte consistendo negli aiuti scambievoli promessi
da' tre sovrani in caso di aggressione ai loro Stati in Italia, e
nell'alternativa di dare in vece di soldati uno stabilito sussidio in
denaro contante. Alla diffinitiva conclusione di siffatto accordo molto
cooperò il re d'Inghilterra, siccome quegli a cui stava molto a cuore
la perfetta esecuzione del trattato di Aquisgrana e della convenzione
di Nizza, che ne furono come la base ed il principal fondamento. Ed
al totale ristabilimento della pubblica tranquillità concorsero quasi
tutte le italiane potenze, con sì buona intelligenza e concordia,
che in brevissimo tempo, per mezzi del tutto amichevoli e pacifici,
congressi, maneggi, concordati, furono accomodate tutte le questioni
e vertenze insorte necessariamente per le perturbazioni delle guerre,
intorno ai confini ed alle giurisdizioni tra il regno di Napoli e lo
Stato pontificio, tra questo e la Toscana, tra esso granducato ed il
duca di Modena, tra il Milanese e gli Stati del re di Sardegna, tra
questi e la repubblica di Genova, tra il Mantovano ed il Tirolo colla
repubblica di Venezia.
Le sollecitudini de' principi contraenti nel detto trattato ebbero
per quaranta e più anni un effetto salutare. E forse anche più durato
avrebbe il suo beneficio, senza quel turbine che dalla Francia proruppe
a disordinare ogni meglio connesso edifizio, verso la fine del secolo,
come a suo luogo verremo a mano a mano descrivendo. Ma intanto ci è
d'uopo ripigliare il filo delle cose di Corsica, che tenevano allora
desta l'attenzione generale dell'Italia non solo, ma di tutta l'Europa.
Guardavansi di mal occhio i due primarii personaggi che allora
reggevano la isola, il commissario genovese marchese Grimaldi ed il
marchese di Corsay comandante franzese, e tanto innanzi procedute
erano le cose, che quel primo dalla Bastia erasi ritirato in Aiaccio,
per isfuggire le contese quotidianamente insorgenti per l'autorità
che questi arrogavasi, in gran parte contraria alla sovranità della
repubblica. Ora ad accrescere le discordie accadde che una squadra
franzese, tornando da' lidi dell'Africa, dov'erasi portata a minacciare
i Tripolini, bombardandone il porto, comparve sulle coste della Corsica
e diede fondo nel porto d'Aiaccio, senza che i Genovesi sapessero
che pensarsi di quella comparsa, e con grave scontentezza de' Corsi,
tra' quali corse come sicura la voce che fosse venuta per opporsi ad
altra squadra inglese, che dovea liberar l'isola dalla schiavitù e
dall'oppressione. Come il senato di Genova avea già significato al
suo commissario che gli chiedea il modo del contenersi, la squadra,
dopo rinfrescato, veleggiò per Tolone; ma in quell'occasione il senato
stesso avea pur fatto intendere al Grimaldi come stata fosse ottima
cosa che se la passasse con miglior accordo col comandante franzese,
in pari tempo lagnandosi alla corte di Francia delle costui procedure.
E a tali insinuazioni del senato il Grimaldi replicò con sentimenti
di buono e zelante repubblicano, lui chiedere piuttosto di essere
richiamato, di quello che rimanere in un impiego in cui fosse obbligato
a riconoscere autorità altra qualunque fuor di quella della repubblica.
Ma l'impossibilità di trovare suggetto capace da sostituire al Grimaldi
nel posto di commissario generale in Corsica, il non poterglisi
rimproverare altro che un troppo vivo zelo nel sostenere il decoro e
gl'interessi della sua patria, determinarono il senato a non aderire
alle domande del suo cittadino.
Nè solamente le gelosie e le reciproche diffidenze de' due generali
in Corsica tenevano molto occupati i Genovesi ed inquietavano la corte
di Francia; ma il regolamento stesso comunicato l'anno scorso ai capi
dei sollevati dal marchese di Cursay per parte del re di Francia,
di cui quei popoli non eransi mostrati troppo contenti, non appagava
neppure interamente i Genovesi; sì che si rese necessario concertare
col cavaliere di Chauvelin, ministro franzese, che di Francia venisse
una riforma, la quale e questi e quelli appagasse. Ma nè anche giovò
la riforma creduta opportuna dal gabinetto di Versaglies, poichè, per
lo contrario, non appena fu comunicata ai capi delle pievi, che destò
uno straordinario ed universale impeto di furore, tutti protestando di
non accettare quel regolamento, benchè modificato, nè sottomettervisi
in verun modo, altro scopo esso non avendo che rimettere loro sul collo
l'abborrito giogo della repubblica. Indarno furono chiamati a nuovo
congresso. Ripigliate l'armi, obbligaronsi con fortissimo giuramento
di trattare da nemico chiunque ardisse di parlare d'accomodarvisi.
Scriveva il marchese di Cursay al cavaliere Chauvelin, non esservi in
quello stato di cose che due soli partiti da prendere: o abbandonare la
Corsica al suo destino, o far uso della forza contro la medesima. Ma,
invece di risposta, si vide il marchese posto in arresto, guardato a
vista, indi trasportato in Antibo, e colà custodito come prigioniero di
Stato.
Tra le accuse che allora si sparsero contro il detto comandante,
la principal era quella di un'eccessiva ambizione, per appagare la
quale avea voluto rendersi come necessario ad ambe le parti. In fatti
un'autorità quasi illimitata erasi egli acquistata, specialmente
facendo con una saggia amministrazione godere a quei popoli una
vera felicità; temperato per lui il furore dei partiti, le leggi
erano rispettate, divenuti rarissimi i delitti, e tutta la nazione
tornata per un pezzo in dolce concordia. Fondata egli aveva perfino
un'accademia in Bastia, la quale, sebbene lungo tempo non durasse,
aveva tuttavia risvegliato tra' Corsi il gusto delle lettere.
Arrestato il Cursay, le truppe franzesi rimasero sotto il comando
d'un signor di Curci, il quale, facendo suo pro dell'esempio del
predecessore, fu dal Grimaldi, e tutto si proferse a' suoi desiderii.
Ma intanto le fazioni, le risse, le discordie, le diffidenze
continuavano, accompagnate da incendii, violenze e spargimento di
sangue; ed i Corsi di là dai monti, a segnalare di bel nuovo l'odio
loro contro la repubblica, si elessero de' capi, e questi pubblicarono
un editto rigorosissimo contro chiunque avesse avuto l'ardimento
di fare qualsiasi proposizione a nome di Genova, e facevano inoltre
arrestare ed impiccare senza formalità di processi coloro che erano, o
si parea, sospetti di segrete intelligenze co' Genovesi.
In mezzo alla universal pace, ogni lieve commovimento diventava
osservabile, e tal fu l'attentato sedizioso di quei di Subiaco, grossa
terra della Campagna di Roma, che tanto nel temporale come nello
spirituale dipendeva dall'abbate commendatario di Santa Scolastica.
Questi pastori, che tali sono per la maggior parte, irritati per aver
perduto nella Rota di Roma una lite co' Benedettini di quella badia
circa i pascoli di certa montagna, invece di rispettare il giudizio,
o prevalersi contro d'esso de' rimedii legali, dato di mano all'armi,
investirono il convento, costrinsero priore e frati a fuggirsene per
le finestre, fugarono quanti accorsero in aiuto de' monaci, ed ucciso
uno sbirro, trassero dalle carceri dell'abbadia diversi loro compagni.
Giunto l'avviso del caso a Roma, furono mandate truppe, il cui solo
aspetto sedò immantinenti il tumulto; parte dei principali autori
fuggiti, parte arrestati, e tornati i Benedettini al loro convento. Ma,
per non lasciare impunito un fatto di tanta conseguenza, fu comandato a
quella popolazione di portare l'armi a Roma, il che fu subito eseguito.
Formato intanto il processo ai capi della sedizione, dieci, che erano
stati trasferiti nelle carceri di Roma, furono esiliati per sempre
dalle terre dello Stato ecclesiastico; ed altri undici, già fuggiti,
si sentirono fulminati in contumacia dalla condanna di morte. Quindi in
poi il pontefice colse ogni occasione, per isfuggire simili disordini,
di separare dalla spirituale la giurisdizione temporale in tutte quelle
badie e governi, nei quali erano prima congiunte, assoggettandoli tutti
all'immediata direzione della sacra consulta.
Accadde in quest'anno in Piacenza la morte del celeberrimo cardinale
Giulio Alberoni, che tanta parte ebbe nelle bisogna della Spagna e
dell'Europa tutta. Ne era stata la vita in forse qualche tempo prima;
ma colto avendolo, nel 24 giugno, fieri dolori seguiti da deliquio,
tornarono vani tutti i soccorsi dell'arte, e due giorni dopo spirò,
conservando sino all'ultimo una somma presenza di spirito; potendosi
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