Annali d'Italia, vol. 8 - 01
ANNALI
D'ITALIA
DAL PRINCIPIO DELL'ERA VOLGARE
SINO ALL'ANNO 1750
_COMPILATI_
DA L. ANTONIO MURATORI
E CONTINUATI SINO A' GIORNI NOSTRI
_Quinta Edizione Veneta_
VOLUME OTTAVO
VENEZIA
DALL'I. R. PRIVILEGIATO STAB. NAZIONALE
DI GIUSEPPE ANTONELLI ED.
1847
CONTINUAZIONE
AGLI ANNALI D'ITALIA
DI LOD. ANT. MURATORI
Chiunque abbia letto sin qui gli Annali d'Italia compilati da Lodovico
Antonio Muratori avrà veduto quale immensa tela sia venuto intessendo
l'illustre autore per discorrere l'italiana istoria di questi dieciotto
secoli, senza che dalla necessità di balzare ogni anno da un punto
all'altro della penisola sia derivato al suo lavoro interrompimento
o disordine; ed avrà insieme ammirato in che giudizioso modo sia
egli riuscito a mettere in tutto il loro lume i veri motivi che
preparato hanno i più notabili cambiamenti e le conseguenze che gli
accompagnarono; a fissare i luoghi e i tempi precisi che sono stati il
teatro, o l'epoca degli innumerevoli avvenimenti narrati; a disgombrare
ogni incertezza dall'ignoranza, dalla malizia, dalla inavvertenza
o precipitazione degli antichi scrittori passata negli scrittori
susseguenti; a sceverare dalle favole la verità; a rendere la dovuta
giustizia a quei personaggi che le passioni aveano indebitamente o
encomiati o biasimati, e, se dato non era raggiugnere la certezza, ad
accennarne almeno ciò che più alla probabilità ed alla verisimiglianza
si atteneva; ad interessare infine i lettori con un quadro
svariatissimo in cui i trionfi o i danni della virtù contrastano colle
alternate vicende del vizio, talvolta fortunato, ma quasi sempre punito
o almeno smascherato e fatto segno al dispregio ed all'odio universale.
Spesa la maggior parte della vita a scorrere il vasto campo della
erudizione, indagando, discutendo ed illustrando le antichità
dell'Italia, il Bibliotecario modonese, divenuto per tal guisa
possessore d'immensi tesori, o sconosciuti o generalmente poco noti, si
aprì la strada alla grande impresa, cui il fino suo discernimento giovò
ad appianare e ad imprimere di quella profonda ragione storica che
spicca in tutti gli altri suoi scritti.
Esattezza somma e precisione riguardo ai luoghi, ai tempi ed alle
cose accadute principalmente dal cominciare del quinto secolo sino al
principio del decimosesto; sagacità e gran fondo di sana critica per
determinare la vera cronologia, nè ammettere ciecamente il maraviglioso
d'una fantasia riscaldata, nè i pravi giudizii della malignità o
i delirii d'una puerile superstizione; esposizione sincera delle
più strepitose rivoluzioni, se pur non abbia a dirsi delle calamità
dell'Italia, purificata da quella tinta bugiarda che il genio, il
partito, il timore o la speranza, la disperazione o il dolore aveano
consigliato agli scrittori contemporanei; ecco il frutto delle
estesissime cognizioni in fatto di storia acquistate coi diuturni suoi
studii dal nostro Muratori, il quale, non taciuti i vizii ed i difetti,
ma nè anche per avventura le virtù degli Attila, degli Alarico, degli
Odoacre, degli Alboino, de' due Pippino, dei Carlo Magno, narra poi
con ordine, con chiarezza e con tutta la imparzialità le fazioni dei
Guelfi e dei Ghibellini, i travagli dei romani pontefici, le intestine
discordie delle città, le mutazioni dei reggimenti, le rivalità delle
provincie ed il contendere dei varii popoli, i fasti e le sciagure di
questa, bella e troppo sventurata parte dell'Europa.
Se non che, ad esercitare le precipue virtù dello storico, il proprio
giudizio e la sincerità, grandemente libero campo gli lasciava la
lontananza dei tempi dei quali tenea parola; laonde potea rendere
omaggio al merito, al valore ed alla virtù senza che nissuna gelosia
si accendesse, e giustamente notare d'infamia il demerito, la viltà
ed il vizio senza tema di dispiacere ad alcuno. Imperocchè, estinti
interamente o in molto gl'interessi del momento, raffreddato lo
spirito di parte, cessate le nemicizie e le rivalità, ed in tutto o
parzialmente sanate le piaghe ad una nazione cagionate da disgrazie
e da politici o guerrieri flagelli, può lo scrittore farsi sicuro di
non incorrere sì di leggieri la taccia di maligno, di bugiardo, di
adulatore, d'entusiasta, e sottrarre si può al pericolo di essere male
interpretato, come se la sua fantasia preoccupata gli avesse fatto
invadere il dominio della fredda ragione, o se il preteso suo zelo
animato si fosse con danno di qualche altra passione.
Ma ben altramente procede la bisogna per chi imprenda a parlare di cose
correnti e vicine: non v'ha cautela che basti. Sia pure e debba pur
essere la verità l'anima dello storico, debba pur tutto subordinarsi
alla sua legge, ognuno però conviene che grande riservatezza è mestieri
nel maneggiare questa verità della storia che ignuda non può sempre
comparire mentre ancor durano e sono in fermento gl'interessi ed i
partiti, gli odii e gli affetti degli uomini, le cui azioni formano il
tema della narrazione, e, peggio ancora, mentre questi uomini vivono
non solo, ma eziandio tengono in mano la forza ed il potere.
Così il Muratori, allorchè, proseguendo la continuazione de' suoi
Annali dopo il secolo XV, giunse a descrivere le cose d'Italia avvenute
dopo il XVII secolo, tenne quel giusto mezzo che a saggio scrittore
conviensi, per non sagrificare la verità nè sè stesso; riferendo
esattamente i fatti de' quali era stato in qualche modo il testimonio
e spettatore, ma rado pronunziando suo giudizio assoluto e positivo, se
pur non faceasi interprete ed araldo del sentimento universale. E così
dovrà adoperare chi prende ad annodare le ultime fila del suo lavoro,
protraendole fino a' giorni nostri, tempi quant'altri mai, spezialmente
per un periodo intermedio di circa vent'anni, pieni di maravigliose
vicissitudini, pur troppo funeste all'Italia, e tali che qualunque sia
il nostro proponimento, qualunque la pacatezza dell'animo nostro, forse
non sarà sempre possibile non uscire in piuttosto concitate che gravi
parole.
Ad ogni modo, narreremo ogni cosa, e narreremo senza amore e senz'ira,
procacciandoci di mantenere quel coraggioso sangue freddo che non ci
farà mai sagrificare la verità alle preoccupazioni, l'imparzialità ai
lamenti ed ai motteggi degli appassionati e dei malevoli. Niuno però
voglia istituir un confronto tra il classico autore, al cui lavoro
apponiamo queste continuazioni, e noi. Senza l'ingegno, altissimo
in lui, in noi molto modesto, differentissime sono le condizioni
ed i tempi. Mancava, o almeno scarseggiava il Muratori di memorie e
documenti, e dovea trar fuori il suo racconto per la maggior parte
dalla polvere delle biblioteche e degli archivii; abbonda adesso
strabocchevolmente la suppellettile, ed eccede le forze dell'uomo
il tutte librarne le parti sopra giusta lance, per discernere,
nella frequentissima loro contraddizione, nel vario atteggiamento,
nel diverso procedere, il vero dal falso, e far capitale di quello,
questo rigettando. I tempi remoti si lasciavano esaminare, ponderare
quetamente; i vicini tempi non consentono tutta calma; strascinano
seco impetuosi chi si pone a descriverli, nè lasciano quella libertà
di esporre, di giudicare, di sentenziare che avrebbe chi i fatti
raccontasse dell'antica Grecia o di Roma, ai quali ciascheduno
presta quella parte di compassione che alle vicende de' suoi simili
generalmente concede, non quell'altra intimamente sentita, profonda,
prepotente, che nelle cose proprie forzatamente, necessariamente,
avvien che riponga.
Per le quali considerazioni tutte, bandito il paragone che dicevamo, ne
conforta la coscienza di aver fatto il meglio che per noi si potesse,
nei ristretti limiti che pur ci vengono prefissi.
ANNALI D'ITALIA
DALL'ANNO 1750 FINO AI GIORNI NOSTRI
Anno di CRISTO MDCCL. Indiz. XIII.
BENEDETTO XIV papa 11.
FRANCESCO I imperadore 6.
Narrata dall'illustre Muratori, alla fine dell'immortale opera sua,
la pace anche all'Italia donata col famoso trattato d'Aquisgrana del
1748, posto in esecuzione nell'anno susseguente in una colle condizioni
convenute nel congresso di Nizza nello stesso anno concluso; ed esposto
dal lodato autore la situazione in cui, al cadere del 1749, veniva per
ciò a trovarsi l'Italia; si può da questo punto incominciare la nuova
carriera per vedere le varie perturbazioni, benchè minime e quasi
innocenti, che ne avvennero in appresso, finchè poi verso la fine
del secolo scorso ed al principio del presente fu tutta sconvolta e
trasformata.
Ripigliando pertanto il filo della narrazione, ci faremo da Roma e
dalle circostanze del presente anno 1750, ch'era l'anno santo.
Aperta con le consuete cerimonie auguste nel tempio di San Pietro
quella porta che per venticinque anni era stata chiusa, esultavano
i fedeli come se si fosse ad essi in certo modo spalancata quella
del cielo. In ogni ora di qualunque giorno vedevasi lo spettacolo
d'un popolo infinito che, od unito in compagnie, o separatamente,
procedeva alla visita delle aperte basiliche; ma lo spettacolo che
più d'ogni altro edificava era appunto Benedetto XIV. Quei pellegrini
e quei forastieri quasi innumerabili che a Roma concorsero in tale
occasione, verificate cogli occhi proprii le mirabili cose che nei
loro paesi aveano udito a raccontare della sua pietà, della virtù sua
e dell'immensa sua dottrina, tenevano quello stesso linguaggio che in
lontanissimi tempi tenne di Salomone la regina Saba. Il pontefice,
in età più che settuagenaria, in mezzo alle infinite bisogna e cure
dello Stato e della religione, attendeva a tutte le solenni funzioni
ordinarie e alle altre colle quali bramava di dare maggiore risalto al
suo giubileo.
Ma tanta sua ed altrui compiacenza fu in gran parte amareggiata da
un'inaspettata disgrazia, accaduta in Roma nel termine dell'anno
stesso. Per le dirotte pioggie continuate ingrossato il Tevere, uscì
dal letto con furore eguale a quello onde avea traripato ai tempi
d'Augusto, cagionando un'orribile innondazione non solo nelle vicine
campagne, dove in alcuni punti coverse fino le cime degli alberi, ma
in molte principali contrade della città, nelle quali non si potea
praticare se non con barchette. Nell'universale spavento e nella
terribile calamità non mancò il governo di apprestare le più opportune
provvidenze, e di far eseguire tutto ciò che potea ridondare in
vantaggio del pubblico; e Benedetto, con tenerissimo paterno affetto,
gemendo per quelli che le acque impedivano di uscire a procacciarsi
il vitto, ordinò che per mezzo di barche fosse ad essi gratuitamente
somministrato il bisognevole.
Ed a viemmaggiormente funestare l'animo del pontefice, altre disgrazie
amare si aggiunsero. Una pretesa di violazione dei privilegii e diritti
della chiesa e del seminario di San Giacomo degli Spagnuoli avea messo
in aperto disgusto la corte di Spagna con quella di Roma. Volea il re
di Sardegna che nella promozione de' cardinali fosse inchiuso monsignor
Merlini, nunzio alla sua corte, e che colla vendita delle più ricche
badie del Piemonte fosse formato un appannaggio al duca di Savoia, a
similitudine dell'infante don Luigi di Spagna. Faceva grande rumore
nell'imperio, tra' principi della casa di Hohenlohe, il ristabilimento
di certi consistori e ministri luterani nelle incumbenze dalle quali
avea il conte cattolico di Hohenlohe trovato il modo di spogliarsi; e
tutti i nunzii pontifizii nelle corti di Germania, considerando questo
dissidio di gran rilievo per la religione e per la corte di Roma, ne
aveano dato parte al papa. Una fiera persecuzione dei cristiani alla
China, rinovando contro i medesimi i più rigorosi editti di sangue, e
della quale rimasti erano vittime generose quattro Domenicani, oltre al
vescovo di Mauricastro, facea giustamente temere non in quelle contrade
si risvegliasse contro i fedeli un odio simile a quello che un secolo
prima gli avea percossi al Giapone. Ma tra tutte le perturbazioni che
toccavano l'animo del pontefice, quella che diede maggiormente allora
a parlare fu la disputa insorta tra la repubblica di Venezia e la casa
d'Austria pel patriarcato d'Aquileia.
Aquileia rispettata e famosa al tempo di Augusto e degli altri
imperadori romani; Aquileia considerata, dopo Roma, la prima città
d'Italia, barbaramente disfatta da Attila, distruttore di tante
altre città e provincie d'Europa, seppellendo sotto le sue rovine
l'antica sua magnificenza, trovossi in quella catastrofe al punto di
vedervi sepolto anche il nome. Se non soggiacque, ne andò debitrice
al per altro funesto scisma dell'Istria, pel quale, sospesa i vescovi
di quella provincia ogni comunicazione colle quattro antiche sedi
patriarcali, conferirono essi diritto e nome di patriarca al loro
metropolitano, ch'era appunto il vescovo di Aquileia, ed il quale,
estinto lo scisma, pur ritenne il conferitogli titolo, e fu da Leone
VIII, Giovanni XX ed Alessandro II considerato primo metropolitano di
tutta l'Italia, come tenutone universalmente per il prelato più ricco.
Divenuti poscia i patriarchi d'Aquileia anche principi temporali per
donazioni lor fatte dai re longobardi, da Carlo Magno, dagl'imperadori
franzesi e tedeschi, pensarono a ristabilire l'antico splendore
dell'abbattuta città. Ma tutte le cure loro non andarono piene di
effetto; imperocchè Aquileia, già distrutta dalla forza dell'armi
d'Attila, soggiacere dovette ad una forza ancor più assoluta ed una
forza ancor più assoluta ed imperiosa, al mare. Abbandonando le acque
a poco a poco gli antichi termini all'estremità occidentale del golfo
Adriatico, dove prima approdavano le triremi di Roma, lento lento
formossi un paludoso terreno, sì che Aquileia, la quale per tanti
secoli avea, come Ravenna, sentito a romoreggiare sotto le sue mura i
marosi, si vide circondata da povere capanne peschereccie, alla purità
d'un aere sano e delizioso succedute esalazioni pestifere e mortali.
Tanta rivoluzione di clima sforzò i patriarchi a tramutare la sede
loro quando in Gemona, quando in Cormons, ora in Cividal del Friuli,
ora in Udine stessa; ed il principe prelato, che pensò di surrogare
quest'ultima città all'antica, costituendola siede del suo dominio e
metropoli della provincia friulana, si fu il patriarca Bertoldo, nel
1251. Passato per altro due secoli dopo, per la forza delle armi, il
Friuli in mano de' Veneziani, e spogliato il patriarca del dominio
temporale, per una transazione conchiusa tra il prelato medesimo e la
repubblica, confermata dal papa Nicolò V e dall'imperadore Federigo
III, assegnaronsi al patriarca di Aquileia le terre di San Vito e San
Daniele, colla costituzione d'una dote ecclesiastica corrispondente.
Da quel tempo i patriarchi furono sempre veneziani; e continuando
a risiedere in Udine, esercitarono, dopo la lega di Cambrai, la
giurisdizione ecclesiastica non solo sopra Aquileia, ch'era passata nel
Friuli austriaco, ma eziandio nella parte della diocesi compresa ne'
dominii della casa d'Austria, giurisdizione che mai sempre dispiacque
ai principi di quella casa. Si convenne pertanto tra gli arciduchi
d'Austria ed i Veneziani che le due potenze godessero alternativamente
del diritto di nominare a questo patriarcato. Ma la convenzione si
ridusse alle parole; poichè gli Austriaci non giunsero mai a godere
del diritto, per l'attenzione sempre posta da' patriarchi d'Aquileia,
veneziani, a scegliersi veneziani coadiutori, loro concessi dal senato,
e muniti di bolle pontificie per la futura successione. Richiamossi
l'imperadrice Maria Teresa contro questa usurpazione de' Veneziani,
pretendendo che la tolleranza de' suoi predecessori non avesse valso
a prescrivere il diritto che anch'essi avevano alla elezione del
patriarca; ed i Veneziani, fondando la loro pretensione sopra il non
essersi mai fatto da' principi della casa d'Austria uso del combattuto
diritto.
Da gran tempo e alla corte di Vienna e nel senato di Venezia agitavasi
la controversia; e alle proposizioni e proferte da una parte surgendo
dall'altra difficoltà e rifiuti, le cose tiravano in lungo senza
speranza di componimento. Finalmente concordarono le due potenze in
questo, di prendere il papa ad arbitro di una vertenza che in gran
parte era ecclesiastica e religiosa, facendo, più della dottrina e
della sapienza di Benedetto XIV, sperare giusta la pontificia decisione
il suo carattere equo e moderato. I Veneziani poi tanto più erano
concorsi di buon grado a sottomettersi al giudizio di lui, perchè,
oltre ad un breve di Giulio III, che ad essi confermava il diritto di
nominare il patriarca, non aveva la santa Sede nel progresso del tempo
tenuto in alcun conto l'alternativa, e perchè, generalmente parlando,
un lungo possesso non interrotto equivale ad un incontrastabile
diritto.
Ed in fatti Benedetto XIV conservò ai Veneziani il diritto di eleggere
soli il patriarca; ma, affine di togliere i sudditi dell'imperatore
dalla suggezione ad un vescovo straniero, nella parte austriaca di
quella diocesi stabilì un vicario apostolico. Spiacque oltremodo al
senato cotale decisione, e richiamò egli tosto i suoi ambasciatori
tanto da Roma quanto da Vienna. Al tempo stesso la repubblica accrebbe
di molto le sue armate di terra e di mare e si dispose alla guerra.
Il papa dichiarò che, qualunque potessero essere le conseguenze di
quella lotta, non credevasi egli mallevadore di quegli avvenimenti;
che stabilito aveva un vicario apostolico, le regole seguendo della
giustizia, e che alcun interesse non pigliando alle operazioni del
veneto senato, rimettevasi alla saviezza dell'imperadrice regina.
Il senato, all'incontro, manifestò a tutte le corti avere il papa
stabilito quel vicario in una parte del patriarcato di Aquileia, ed a
quella dignità inalzato il conte di Atimis, canonico di Basilea; grave
pregiudizio quindi venirne al diritto di padronato dalla repubblica
esercitato costantemente; essere perciò la repubblica stata costretta
a richiamare il suo ministro da Roma dopo le proteste fatte contra quel
breve; professare tuttavia, mentre gelosa era di conservare un diritto
col lasso di più secoli acquistato, alla santa Sede in tutt'altro
rispetto sentimenti di venerazione e di filiale obbedienza.
Il re di Sardegna si proferì mediatore nella contesa, ma dal senato
veneto non ottenne se non un rendimento di grazie. Fu proposto di
smembrare il patriarcato, e di formarne due vescovadi, da stabilirsi
l'uno ad Udine, l'altro a Gorizia; ma anche siffatta proposizione
fu dal senato rigettata; ed il nuovo vicario apostolico, recatosi ad
Aquileia, il possesso pigliò di quella dignità, malgrado le opposizioni
de' Veneziani. Vollero questi ancora qualche tempo resistere; ma,
troppo deboli forse per opporsi alle forze dell'Austria, acconsentirono
finalmente alla proposta divisione: fu però stabilito che abolito
sarebbe il titolo di patriarca d'Aquileia, e ripartita la diocesi in
due vescovadi, dei quali la nomina apparterrebbe per l'uno al senato,
per l'altro ai sovrani dell'Austria.
Il chiudimento della santa porta segnò in Roma il termine dell'anno
1750, nel quale furono celebrate nella corte di Torino le nozze tra il
duca di Savoia Vittorio Amedeo, figlio del re Carlo Emmanuele III, e
l'infante Maria Antonia, sorella di Ferdinando VI re di Spagna.
Manifestossi intanto in Parma un mal umore, perchè quel novello
sovrano, Spagnuolo di nazione, avesse conferito le principali cariche
del ducato, e particolarmente quelle della pubblica economia, agli
Spagnuoli; e furon pubblicati viglietti, co' quali avvertivasi
quel principe di ricordarsi delle istruzioni avute dal re suo padre
Filippo V, cioè di reggere con dolce freno i suoi popoli. Tentando
d'infrenare l'umor sedizioso col rigore, l'espediente non giovò; sicchè
bisognò cambiare i ministri e scemare le tasse. Delle quali benefiche
disposizioni contento il popolo, dimostrò la sincera sua riconoscenza
verso il principe quando giunse di Francia in quello Stato la reale sua
sposa, figlia di Luigi XV.
Anno di CRISTO MDCCLI. Indiz. XIV.
BENEDETTO XIV papa 12.
FRANCESCO I imperadore 7.
A mantenere il benefizio della pace, di cui già da un anno erasi
incominciato a godere in Italia, aveano il massimo interesse le due
corti di Vienna e di Madrid; avvegnachè, se l'imperadore Francesco
I possedeva i dominii della casa de Medici, due principi della casa
regnante di Spagna teneano il regno delle Due Sicilie, e l'eredità
della casa Farnese. Il conte Esterazi adunque, ministro cesareo alla
corte di Madrid, in varie conferenze avute col signor di Carvaial
e Lancastro, e col marchese dell'Ensenada, principali ministri del
gabinetto spagnuolo, propose che, per allontanare il pericolo di nuove
turbolenze, e stabilire la pace sulla base degli antichi trattati, il
re Cattolico s'impegnasse di non prendere parte, nè direttamente nè
indirettamente, in qualunque guerra che insorger potesse in Italia, nel
caso che, contra ogni aspettativa, se ne accendesse alcuna che fosse
prodotta da una causa straniera agli interessi di Sua Maestà Cattolica
e della sua famiglia; che l'imperadrice regina, dal canto suo, per
cooperare al medesimo fine, guarentisse nella più solenne forma gli
Stati de' quali era in possesso il re delle Due Sicilie, non meno
che quelli posseduti dall'infante don Filippo in vigore del trattato
di Aquisgrana; che la stessa malleveria si facesse dall'imperadore
nella sua qualità di granduca di Toscana; che finalmente, in forza di
tale accordo, rimanesse estinta e diffinita ogni scambievole pretesa,
oppure, se alcuna ne restasse, sopra la quale le due corti non si
fossero acconciate, si avesse diffinire amichevolmente.
Intanto che il conte Esterazi adoperava in tal modo alla corte di
Madrid, un altro abile ministro della corte di Vienna, il conte
Beltrame Cristiani, gran cancelliere di Milano, prevaleasi del suo
soggiorno a Torino, dove erasi trasferito per regolare i punti di
commercio tra gli Stati del re di Sardegna e la Lombardia austriaca,
onde disporre l'animo di quel sovrano ad entrare nella convenzione
meditata e stabilita tra l'imperadrice regina Maria Teresa e Ferdinando
VI re di Spagna. Riusciti felicemente ne' loro maneggi ambedue i detti
ministri, in brevissimo tempo venne fra le corti di Vienna, Madrid e
Torino stipulato un trattato, di cui questa era la sostanza. Nel caso
che le truppe nemiche invadessero gli Stati del re di Sardegna, dovesse
l'imperadrice regina somministrargli un aiuto di sei mila uomini;
fornisse ella lo stesso numero di gente per difesa del re delle Due
Sicilie, dell'infante duca di Parma e del duca di Modena, allorchè gli
Stati di questi principi si trovassero nello stesso caso; ad uguale
sussidio fosse tenuto il re di Sardegna, nel caso che fossero attaccati
i dominii posseduti in Italia dalla imperadrice regina, e ad egual
impegno verso di essa fosse vincolato anche il re di Spagna; facesse
Sua Maestà Cattolica il medesimo riguardo al re di Sardegna, e questi
verso la Maestà Sua; in ognuno di questi casi il re delle Due Sicilie
somministrasse cinque mila uomini di truppe ausiliarie, e tre mila
per ciascheduno l'infante duca di Parma ed il duca di Modena; dovesse
finalmente ciascuna delle parti stare mallevadrice pei dominii dalle
altre rispettivamente posseduti in Italia, nello stato medesimo in cui
allora si trovavano.
In questa convenzione, intesa a mantenere la quiete d'Italia, non
erano, come si vede, compresi gli altri principati italiani, cioè
il papa, e le tre repubbliche, di Venezia, di Genova e di Lucca, nè
poteano esserlo. I sommi pontefici, e specialmente Benedetto XIV,
sicuri di conservare quegli Stati che dalla pietà e munificenza
de' principi avea la santa Sede ottenuti, non poteva pensare mai a
dilatarli per ambizione o per avidità d'imperio nè temere poteva
di esserne, se non dalla violenza e dalla ingiustizia spogliato.
Contenta la repubblica di Venezia de' suoi possessi nel continente e
fuori, già da più d'un secolo avea rinunziato all'idea di meschiarsi
nelle dissensioni dei principi in Italia, e faceva professione d'una
rigida neutralità. Quella di Lucca, limitata alla ristrettezza del suo
pacifico dominio, compreso e quasi incastrato nella Toscana, attendeva
al commercio ed alle arti della pace, e stimavasi felice di non entrare
per nulla in bilancia a fissare l'equilibrio della penisola. Quanto
alla repubblica di Genova, che tanta parte aveva avuta nell'ultima
guerra, non era stata nominata, perchè le direzioni da essa tenute
a suo riguardo aveano disgustato la corte di Vienna; perchè le altre
potenze, allora belligeranti e rivali della casa di Austria, non aveano
trovato vantaggio nissuno dall'amicizia di lei; e perchè finalmente
tutte le repubbliche, se non sieno potenti, interessare non possono
nella loro sorte i sovrani assoluti, mancando quei vincoli di sangue o
di affinità che devono o almeno possono talora stringere i principi fra
loro.
Ma la genovese repubblica, che da venti anni teneva a sè conversi gli
sguardi dell'Europa per quella ribellione della Corsica, che, dopo la
tanto decantata dei Paesi Bassi al tempo di Filippo II, non avea avuta
ne' secoli moderni l'eguale o per l'energia de' suoi sforzi, o per la
costanza nelle disgrazie o per l'accorgimento, trovossi nel presente
anno in non troppo felici contingenze.
Si è veduto a suo luogo (all'anno 1745) come la città di Bastia,
capitale dell'isola, già smantellata pel furibondo fulminare di bombe
e cannoni d'una squadra inglese, fosse dal suo governatore genovese
abbandonata in mano del colonnello Rivarola, che con tre mila Corsi
sollevati se le faceva sotto.
Non vogliamo qui lasciar di notare, perchè da nessuno storico riferito,
ma pure consegnato nelle memorie d'un insigne naturalista franzese, che
un ministro della corte di Francia, vedendo lo spirito sempre inquieto
e tumultuante di quelle popolazioni, propose di far tagliare tutti gli
alberi de' castagni di quell'isola, che il nutrimento per alcuni mesi
fornivano agli abitanti, affinchè costretti fossero a coltivare nelle
lor montagne i grani e per ciò distratti dalle guerriere imprese; senza
avvedersi che in quelle selve montane mai non si sarebbero seminate le
biade, e che il popolo, privo d'un mezzo ad esso fornito dalla natura,
ne sarebbe più feroce divenuto ed indomabile.
Poichè pertanto il congresso d'Aquisgrana non avea fatto nessun conto
della supplica colla quale i Corsi in commoventi termini esponevano
le cagioni della loro insurrezione, ed imploravano l'assistenza delle
corti europee onde non rimanere più oltre sottoposti alla oppressione
de' Genovesi, quegl'isolani continuarono a coraggiosamente combattere
per la loro indipendenza. Già la Francia, che, per tornare i ribelli
all'ubbidienza del senato genovese avea, dopo il conte di Boisseux,
spedito in Corsica il marchese di Maillebois, il quale disse ai Corsi
come Sua Maestà Cristianissima prendesse la loro isola sotto la sua
tutela e protezione, venuta era in determinazione di sostituire a
questo comandante generale il marchese di Cursay. Ora, comandando
questi da vicerè, contribuì molto a rendere sempre più odioso il
governo antico ed attuale della repubblica di Genova; e la grande
autorità che arrogavasi fece insiememente nascere puntigli e serie
contese tra lui ed i comandanti generali, che volevano sostenere il
decoro ed i diritti della genovese repubblica.
Cotali disordini presero gran piede nei primi mesi di quest'anno in
molte occasioni, e principalmente per certa paglia niegata da alcuni
luoghi al marchese di Cursay, che volea pagarla, ed a lui invece
fornita da' Corsi sollevati senza verun pagamento. Da ciò insorte nuove
questioni tra le truppe franzesi e le genovesi, unite a' Corsi fedeli,
sì che vennero più volte alle mani, quel comandante dovette appigliarsi
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