Annali d'Italia, vol. 7 - 45

molto lungi di là l'esercito de' collegati; ma il maresciallo, che
ben situato copriva l'assedio, non si sentiva voglia di accettare
l'esibizion d'una battaglia. Fino al dì 20 del suddetto mese fece
resistenza la città di Namur, e quella guernigione ne accordò la resa,
per ritirarsi alla difesa del castello, sotto cui fu immediatamente
aperta la trincea. Non andò molto che la breccia fatta consigliò a
que' difensori nel dì 30 del settembre suddetto di prevenire i maggiori
pericoli, con proporre la resa della piazza, ma senza potersi esentare
dal rimaner prigioniera di guerra.
Le apparenze erano, che, terminata sì felice impresa, prenderebbero
riposo l'armi franzesi; e tanto più perchè in questi tempi rondava una
potente flotta inglese, con animo di qualche irruzione sulle coste di
Francia, alla difesa delle quali parea che avesse da accorrere parte
della franzese armata. Così non fu. Il maresciallo _conte di Sassonia_,
dopo avere colla presa di Namur ridotti i Paesi Bassi austriaci in
potere del re Cristianissimo, sentendosi molto superior di forze
all'oste de' collegati, meditava pur qualche altro colpo di mano contra
de' medesimi. Per coprire Liegi dagl'insulti de' Franzesi, s'era in
varii siti ben postata l'armata d'essi alleati fra Mastricht e quella
città. Spedì il maresciallo un forte distaccamento verso lo stesso
Mastricht, affinchè se il _principe Carlo di Lorena_, che in quelle
vicinanze avea fissato il quartiere con grosso corpo di gente, volesse
accorrere in difesa de' suoi, egli potesse assalirlo per fianco.
Ciò fatto nel dì 7 d'ottobre a bandiere spiegate marciò contro l'ala
sinistra de' collegati, comandata dal _principe di Waldech_, generale
degli Olandesi, in vicinanza di Liegi. Per più ore durò il fiero
combattimento. Fu detto che due reggimenti di cavalleria olandese, come
se bruciasse l'erba sotto i loro piedi, si ritirassero dal conflitto.
Certo è che in fine gli alleati, senza potere ricevere soccorso dal
principe di Lorena, piegarono, e ritirandosi, come poterono il meglio,
lasciarono il campo di battaglia ai vincitori Franzesi. Si sparse voce
che quattro mila collegati vi avessero perduta la vita, e che in mano
de' Franzesi restassero molti cannoni, bandiere e stendardi, con grosso
numero di prigionieri tra sani e feriti. Pretesero altri che non più di
mille fossero da quella parte gli estinti; nè si seppe quanto costasse
a' Franzesi la loro vittoria. Passarono poscia i vincitori, divisi in
varie parti, a godere i quartieri del verno.
Altra guerra fu nell'anno presente tra i Franzesi e gl'Inglesi. Riuscì
a questi ultimi di torre agli altri, nell'America settentrionale,
capo Bretone, posto di somma importanza, e riputato dagl'Inglesi
d'incredibil utilità per la pesca di quei contorni. All'incontro i
Franzesi, siccome accennammo nel precedente anno, colla spedizione
del cattolico principe di Galles _Carlo Odoardo Stuardo_, aveano
attaccato il fuoco nella Scozia, e con quella diversione facilitati a
sè i progressi nei Paesi Bassi austriaci. Trovò quel principe fra que'
popoli gran copia di aderenti alla real sua casa, che presero l'armi,
e sparsero il terrore sino nel cuore dell'Inghilterra; perciocchè
venne a lui fatto di dare una rotta alle truppe inglesi a Preston, e
poi nel di 28 di gennaio a Falkirk, di prendere Carlisle, Inverness,
e di fare altre conquiste nei confini della stessa Inghilterra. Per
dubbio che qualche cattivo umore si potesse covare in Londra stessa,
prese il re _Giorgio II_ la precauzione di tenere alla guardia d'essa
città e della real corte un buon sussidio di soldatesche: ed inviò
il suo secondogenito _Guglielmino Augusto duca di Cumberland_ con
gagliarde forze contra del principe Stuardo. Varie furono le vicende
di quella guerra; ma si venne a conoscere che gl'Inglesi non amavano
di mutar regnante, e si mostravano zelanti della conservazion della
real casa di Brunsvich. All'incontro non s'udiva che imbarco di
soccorsi franzesi spediti di tanto in tanto al principe suddetto;
e pur egli, a riserva di alquanti ufficiali irlandesi e di poche
milizie franzesi, non ricevette mai rinforzo alcuno di gente bastante
a continuare la buona fortuna dell'armi sue. Troppe navi inglesi
battevano il mare, e custodivano le coste, per impedire ogni sbarco
di truppe straniere. Andarono finalmente a fare naufragio tutte le
speranze del principe Stuardo in un fatto d'armi accaduto nel dì 27
di aprile presso d'Inverness, dove l'esercito suo rimase disfatto.
Peggiorarono poi da lì innanzi i di lui affari; molti anche della
primaria nobiltà di Scozia ed anche lordi suoi seguaci, caddero in mano
del duca di Cumberland, ed alquanti di loro lasciarono poi la vita
sopra un catafalco in Londra. Le avventure dello sventurato principe
per salvar la sua vita, mentre da tutte le parti si facea la caccia di
sua persona, tali furono dipoi, che di più curiose non ne inventarono
i romanzi. Contuttociò ebbe la fortuna di giugnere felicemente nelle
spiagge di Francia sano e salvo nel mese di ottobre; e passato alla
corte di Versaglies, si vide colle maggiori finezze ed onori accolto,
come principe di gran valore e senno, dal re Cristianissimo _Luigi XV_.
Sbrigati che furono gl'Inglesi da questo fiero temporale, pensarono
anch'essi alla vendetta; e a questo fine allestirono un possente stuolo
di navi con più migliaia di truppe da sbarco. Non era un mistero questo
lor disegno, e però si misero in buona guardia le coste della Francia.
Sul fine appunto del mese di settembre comparve la flotta inglese alle
vicinanze di Porto-Luigi in Bretagna, sperando di mettere a sacco
il porto di Oriente, dove si conservano i magazzini della compagnia
dell'Indie, ricchi di più milioni. Ne era già stato trasportato il
meglio. Sbarcarono gl'Inglesi; fecero del danno alla compagnia; ma
invece di superar quel porto, ne furono rispinti colla perdita di molta
gente, e di alcuni pochi pezzi di cannone. Quattro lor navi ancora,
rapite da vento furioso, andarono a trovar la loro rovina in quegli
scogli. Tornarono essi da lì a non molto a fare un altro sbarco, e non
ebbero miglior fortuna; se non che lasciarono in varii luoghi de' vivi
monumenti della lor rabbia, collo aver dato alle fiamme alcune ville
e conventi di religiosi nella suddetta provincia di Bretagna. Gran
tesoro costò loro quella spedizione, e non ne riportarono che danno e
pentimento.


Anno di CRISTO MDCCXLVII. Indizione X.
BENEDETTO XIV papa 8.
FRANCESCO I imperadore 3.

Furono alquanto lieti i principii dell'anno presente, perchè gli
accorti monarchi fecero vedere in lontananza agli afflitti lor
popoli un'iride di pace come vicina. Imperciocchè si mirò destinata
Bredà in Olanda per luogo del congresso, e spediti plenipotenzarii
per trattarne, e convenire delle condizioni. La gente, credula alle
tante menzogne delle gazzette, si figurava già segretamente accordati
Franzesi, Spagnuoli ed Inglesi nei preliminari; e a momenti aspettava
la dichiarazione di un armistizio, cioè un foriere dello smaltimento
delle minori difficoltà, per istabilire una piena concordia. Ma poco
si stette a conoscere, che tante belle sparate di desiderar la pace
ad altro non sembravano dirette che a rovesciare sulla parte contraria
la colpa di volere continuata la guerra, onde presso i proprii popoli
restasse giustificata la continuazion degli aggravii, e tollerati i
danni procedenti dal maneggio di tante armi. Trovaronsi in effetto
inciampi sul primo gradino. Cioè si misero in testa i Franzesi di non
ammettere al congresso i plenipotenziarii dell'imperadore, perchè non
riconosciuto tale da essi; nè della regina d'Ungheria, per non darle
il titolo a lei dovuto d'imperatrice; nè del re di Sardegna, perchè
non v'era guerra dichiarata contra di lui. Tuttavia non avrebbe tal
pretensione impedito il progresso della pace, se veramente sincera
voglia di pace fosse allignata in cuore di que' potentati; perchè
avrebbero (come in fatti si pretese) potuto i ministri di Francia,
Inghilterra ed Olanda comunicar tutte le proposizioni e negoziati
ai ministri non intervenienti; e convenuto che si fosse dei punti
massicci, ognun poscia avrebbe fatta la sua figura nelle sessioni. Ma
costume è dei monarchi, i quali tuttavia si sentono bene in forze,
di cercar anche la pace per isperanza di guadagnar più con essa che
coll'incerto avvenimento dell'armi. Alte perciò erano le pretensioni di
ciascuna delle parti, e in vece di appressarsi, parve che sempre più si
allontanassero quei gran politici. Ciò che di poi cagionò maraviglia,
fu il vedere che nè pure al signor di Mancanas, plenipotenziario di
Spagna, fu conceduto l'accesso ai congressi, quando le apparenze
portavano, che le corti di Versaglies e Madrid passassero di
concerto, e fosse tornata fra loro una perfetta armonia. Veramente il
cannocchiale degl'Italiani non arrivava in questi tempi a discernere le
mire ed intenzioni arcane del gabinetto di Madrid. Le truppe di quella
corona seguitavano a fermarsi in Aix di Provenza, senza che apparisse
se le medesime si unissero mai daddovero colle franzesi, benchè si
scrivesse che le spalleggiassero, allorchè, siccome diremo, obbligarono
i nemici a retrocedere. Ne fu poi ordinata una non lieve riforma, e
il resto andò a svernare in Linguadoca, con prendere riposo l'infante
_don Filippo_ e il _duca di Modena_ in Mompellieri. Nel medesimo
tempo si attendeva forte in Madrid al risparmio per rimettere, come si
diceva, in migliore stato l'impoverito regno, annullando spezialmente
le tante pensioni concedute dal re defunto; e pur dicevasi, farsi leva
di nuove milizie per ispedirle in Provenza. Fluttuava del pari anche
la repubblica d'Olanda fra due opposti desiderii, cioè quello di non
entrare in guerra dichiarata contro la Francia, minacciante oramai i di
lei confini; e l'altro di mettere una volta freno dopo tante conquiste
agli ulteriori progressi di quella formidabil potenza. La conclusione
intanto fu, che ognun depose per ora il pensier della pace; giacchè
quei soli daddovero la chieggono che son depressi, e non si sentono più
in lena per continuare la guerra.
Passarono il gennaio in Provenza gli Austriaco-Sardi, ma in cattiva
osteria, combattendo più co' disagi che co' Franzesi, i quali andavano
schivando le zuffe, sperando poi di rifarsi allorchè fossero giunte
le numerose brigate di Fiandra. Bisognava che quell'armata aspettasse
la sussistenza sua in maggior parte dal mare, venendo spedite le
provvisioni per uomini, cavalli e muli da Livorno, Villafranca e
Sardegna. Ma il mare è una bestia indiscreta, massimamente in tempo di
verno. Però, tardando alle volte l'arrivo de' viveri, uomini e cavalli
rimanevano in gravi stenti; e giorno vi fu che convenne passarlo senza
pane. Tutto il commestibile costava un occhio non osando i paesani
di portarne, o facendolo pagar carissimo, se ne portavano. Soffiarono
talvolta sì orridi venti, che i soldati sull'alto della montagna nè pur
poteano accendere o tener acceso il fuoco. Trovavansi anche non pochi
di loro senza scarpe e camicie, da che s'erano perduti i magazzini di
Genova. Ora tanti patimenti cagion furono che entrò nell'esercito un
fiero influsso di diserzione, fuggendo chi potea alla volta di Tolone,
dove speravano miglior trattamento. Tanti ne arrivarono colà, che il
comandante della città non volle più ammetterli entro d'essa per saggia
sua precauzione. Caddero altri infermi, e conveniva trasportarli fino a
Nizza, per dar luogo ad essi negli spedali della Riviera. Per quindici
dì que' cavalli e muli non videro fieno o paglia, campando massimamente
con pane e biada, e questa anche scarsa alle volte. Chi spacciò che
furono forzati a cibarsi delle amare foglie degli ulivi, dovette
figurarsi che i cavalli fossero capre. Arrivò la buona gente fino a
credere che que' cavalli per la soverchia fame mangiassero la minuta
ghiaia del lido del mare, senza avvedersi che queste erano iperboli o
finzioni di chi si prende giuoco della stolta credulità altrui. Quel
che è certo, non pochi furono i cavalli e muli che quivi lasciarono le
lor ossa, e gli altri notabilmente patirono, e parte restarono inabili
al mestier della guerra. Intanto a questo gran movimento d'armi non
succedea progresso alcuno di conseguenza. Ridevasi il forte di Antibo
dei Croati lasciati a quel blocco, che non poteano rispondere alle
cannonate, se non con gl'inutili loro fucili. Però fu spediente di
trarre da Savona con licenza del re sardo quanta artiglieria grossa
occorreva per battere quella Rocca; e in quel frattempo le navi inglesi
la travagliarono con gran copia di bombe, le quali recarono qualche
danno alla terra, senza nondimeno intimorir punto i difensori di quel
forte. Giunsero finalmente i grossi cannoni, ma giunsero troppo tardi.
Imperciocchè si cominciò ad ingrossare l'esercito franzese co'
corpi di gente, che dalla Fiandra pervenuti a Lione, senza dilazione
andavano di mano in mano ad unirsi col campo del _maresciallo duca di
Bellisle_. Avea questi raunate alcune migliaia di miliziotti armati; e
da che si trovò rinforzato dalla maggior parte delle truppe regolate,
divisò tosto la maniera di liberar la Provenza dalla straniera
armata. Scarseggiava forte anch'egli di viveri e foraggi, perchè
venne a militare in luoghi dove niun magazzino si trovò preparato, e
difficilmente ancora non si potea preparare per mancanza di giumenti.
Fiera strage anche in que' paesi avea fatto la mortalità de' buoi.
Ebbe nondimeno il contento di udire che le truppe spedite di Fiandra,
ancorchè stanche e malconcie, nulla più sospiravano che di essere a
fronte de' nemici, e chiedevano di venire alle mani. La prima impresa
ch'ei fece, fu di spedire alla sordina un distaccamento d'alquante
brigate de' suoi alla volta di Castellana, dove stava di quartiere
il generale austriaco conte di Neuhaus con dodici o quattordici
battaglioni. Dopo gagliarda difesa toccò a questi di cedere a chi
era superiore di forze, con lasciar quivi alcune centinaia di morti
e prigioni, e si contò fra gli ultimi lo stesso generale ferito
con buon numero d'altri uffiziali. Non gli sarebbe accaduta questa
disavventura se avesse fatto più conto del parere del giovane marchese
d'Ormea che si trovò a quel conflitto. Di meglio non succedette in
alcuni altri luoghi agli Austriaco-Sardi: laonde il generale _conte
di Broun_, all'avviso delle tanto cresciute forze nemiche, fatto
sciogliere l'assedio di Antibo e rimbarcare l'artiglieria, si andò poi
ritirando a Grasse. Quindi, fatte tutte le più savie disposizioni, sul
principio di febbraio cominciò la sua cavalleria a ripassare il Varo,
e fu poi seguitata dalla fanteria, senza che nel passaggio occorresse
sconcerto o danno alcuno notabile, ancorchè non lasciasse qualche corpo
di Franzesi d'insultarli. Penuriavano di tutto, come dissi, anche i
Franzesi in quel desolato paese; e però non poterono operare di più.
Ecco dove andò a terminare la strepitosa invasione della Provenza.
Assaissimi danni recò ben essa a que' poveri abitanti; ma pagarono
caro gli Austriaco-Sardi il gusto dato alla corte di Londra; perchè,
oltre ai non lievi patimenti ivi sofferti, fu creduto che l'esercito
loro tornasse indietro sminuito almeno d'un terzo; e la lor bella
cavalleria per la maggior parte si rovinò, talchè nè pel numero nè per
la qualità si riconosceva più per quella che andò. Restò alla medesima
anche un altro disagio, cioè di dover passare in tempo di verno e
di nevi per le alte montagne di Tenda: sì, se volle venir a cercare
riposo in Lombardia, dove ancora per un gran tratto di via l'accompagnò
la fame a cagion della mancanza de' foraggi. Quanto ai Provenziali,
non lievi furono, ma non indiscrete le contribuzioni loro imposte.
La necessità di scaldarsi, di far bollire la marmitta, cagion fu che
dovunque si fermarono le truppe nemiche restarono condannate tutte le
case a perdere i loro tetti. Non ha per lo più quella bella costiera di
montagne, che si stende dal Varo verso Marsiglia, se non ulivi, fichi e
viti. Ordine andò del generale Broun che si risparmiassero, per quanto
mai fosse possibile, gli ulivi, onde si ricavano olii sì preziosi,
non so ben dire, se per solo motivo di generosa carità, o perchè la
provincia si esibisse di fornirlo in altra maniera di legna. Ben so
che, a riserva d'un mezzo miglio intorno all'accampamento di Cannes,
dove tutte quelle piante andarono a terra, e di qualche altro luogo,
dove non si potè di meno nella ritirata, rimasero intatti gli ulivi; e
che esso conte di Broun riportò in Italia il lodevole concetto di molta
moderazione, pregio che di rado si osserva in generali ed armate che
giungono a danzare in paese nemico. Per questo, e in considerazione
molto più del suo valore e prudenza, venne egli dipoi eletto general
comandante dell'armi cesareo-regie in Italia. Quel che è da stupire,
non ebbe già sì buon mercato la città e territorio di Nizza, tuttochè
dominio del re di Sardegna. Quivi legna da bruciare non si truova, e
v'è portata dalla Sardegna, o si provvede dalla vicina Provenza. Pel
bisogno di tanta gente, che quivi o nella venuta o nel ritorno ebbe a
fermarsi, si portò poco rispetto agli ulivi, cioè alla rendita maggiore
di quegli abitanti: danno incredibile, considerato il corso di tanti
anni che occorre per ripararlo. Prima di questi tempi trovandosi in
Nizza il re di Sardegna bene ristabilito in salute, benchè le montagne
di Tenda fossero assai guernite di neve, pure volle restituirsi alla
sua capitale. Giunse pertanto a Torino nel dì 15 di gennaio, e somma
fu la consolazione e il giubilo di que' cittadini in rivedere il loro
amato e benigno sovrano.
Che breccia avesse fatto nel cuore degli Augusti austriaci regnanti
la rivoluzione di Genova, sel può pensare ognuno. D'altro non si
parlava in Vienna che dell'enorme tradimento dei Genovesi. Questi
dichiarati spergiuri e mancatori di fede; questi ingrati, da che l'armi
vittoriose dell'imperadrice regina, che avrebbero potuto occupare il
governo di quella repubblica e disarmare il popolo, s'erano contentate
d'una sola contribuzione di danaro, non eccessiva per sì doviziosa
città. Crebbero le rabbiose dicerie, da che si conobbe che cattive
conseguenze ridondarono dipoi sopra l'impresa di Provenza. Riflettendo
alla grave perdita de' magazzini e di tanti bagagli dei cesarei
uffiziali, ma sopra tutto all'onore dell'armi imperiali leso da quel
popolo, maggiormente si esaltava la bile, e si eccitavano i pensieri
e desiderii di vendetta. Poterono allora accorgersi i ministri di
quella gran corte che i buoni uffizii fatti passare da chi è padre
comune de' fedeli, cioè dal regnante pontefice _Benedetto XIV_,
per ottenere la diminuzion dell'imposta contribuzione ai Genovesi,
tendevano bensì al sollievo di quella nazione, ma anche alla gloria
delle loro maestà, e alla maggior sicurezza de' loro interessi. E
certamente se l'imperadrice regina fosse stata informata della trista
situazione a cui i suoi ministri ed uffiziali con tante estorsioni ed
abusi della buona fortuna aveano ridotta quella repubblica, siccome
principessa d'animo grande ed inclinata alla clemenza, si può credere
che avrebbe colla benignità e indulgenza prevenuto quel precipizio di
cose. Ora in Vienna fra gli altri consigli dettati dallo spirito di
vendetta, si appigliò la corte a quello di confiscare tutti i beni,
crediti ed effetti spettanti a qualsivoglia Genovese in tutti gli
Stati dell'austriaca monarchia, ascendenti a milioni e milioni. Si
maravigliavano i saggi al trovare nell'editto pubblicato per questo,
che vi si parlava di ribellione, di delitto di lesa maestà, e che
si usavano altri termini non corrispondenti al diritto naturale e
delle genti. Nei monti di Vienna, di Milano e d'altri luoghi stavano
allibrate immense somme di danaro genovese, per la cui sicurezza era
impegnata la sovrana e pubblica fede, anche in caso di ribellione
e d'ogni altro maggiore pensato o non pensato avvenimento. Come
calpestare sì chiari patti? E come condannare tanti innocenti privati,
e tanti che abitavano fuori del Genovesato, e se ne erano ritirati dopo
quella spezie di cattività? Il fallimento poi de' Genovesi si sarebbe
tirato dietro quello di tante altre nazioni. Perchè verisimilmente
dovettero essere fatti dei forti richiami, e meglio esaminato l'affare,
se ne toccò con mano l'ingiustizia. Smontò dipoi la corte imperiale
da questa pretenzione, e con altro editto solamente pretese che i
frutti e le rendite annue degli effetti de' Genovesi pervenissero al
fisco, non essendo di dovere che servissero per far guerra alla maestà
sua imperiale e regale. Di grandi grida ci furono anche per questo,
pretendendo la gente che si avessero a tenere in deposito; altrimenti
quella corte in altri bisogni farebbe la penitenza della non mantenuta
fede. Nello stesso tempo seriamente si pensò alle maniere militari da
far pentire i Genovesi del loro attentato; e a questo fine s'inviarono
in Italia in gran copia le reclute, e dei nuovi corpi di Croati.
Giacchè il _generale Broun_ sinceramente scrisse alla corte, quanto
difficil impresa sarebbe l'assedio di Genova, in vece sua fu eletto il
generale _conte di Schulemburg_. Spedito intanto dai Genovesi ad essa
corte imperiale il padre Visetti gesuita, siccome ben informato dei
passati avvenimenti, par addurre le discolpe del loro governo, non solo
non fu ammesso, ma venne anche obbligato a tornarsene frettolosamente
in Italia. Durante tuttavia il verno, non volle l'esercito austriaco
marcire nell'ozio. Esso ripigliò la Bocchetta con isloggiarne i
Genovesi. La dimora in quel luogo spelato e freddo costò agli Austriaci
gran perdita di gente. Rallentato poi che fu il verno, calarono varie
partite di Croati al basso verso Genova per bottinare ed inquietare
gli abitanti del paese. Contaronsi allora alcune crudeltà di quella
gente che facevano orrore. Ne restò così irritato il popolo di Genova,
che fece sapere ai comandanti cesarei, che se non mutavano registro,
andrebbono a tagliare a pezzi tutti gli uffiziali di lor nazione
prigionieri.
Sì a Versaglies che a Madrid aveano portate i Genovesi le loro più vive
istanze e preghiere per ottener soccorsi nel gravissimo loro bisogno.
L'obbligo della coscienza e dell'onore esigeva dalle due corone
un'emenda d'avere sì precipitosamente abbandonata al voler dei nemici
quella repubblica. Perorava ancora l'interesse, affinchè sì potente
città non cadesse in mano dell'austriaca potenza; e molto più avea
forza presso de' Franzesi il debito della gratitudine, non potendo essi
non riconoscere dall'animosa risoluzion de' Genovesi l'esenzion delle
catene che s'erano preparate alla Provenza. Però amendue le corti,
e massimamente quella di Francia, promisero protezione e soccorso;
ordini anche andarono per la spedizione di un convoglio di truppe e
munizioni all'afflitta e minacciata città. Precorse intanto colà il
lieto avviso, e la sicurezza dell'impegno preso dalle due corone in suo
favore: nuova che sparse l'allegrezza in tutto quel popolo, e raddoppiò
il coraggio in cuore di ognuno. Allora fu che il governo nobile
cominciò pubblicamente ad intendersi ed affrattellarsi col popolare,
per procedere tutti di buon concerto alla difesa della patria. Erasi
già, all'arrivo del generale Sculemburgo, messa in moto parte delle
soldatesche austriache, cioè Croati, Panduri e Varasdini, con riuscir
loro di occupare varii siti non solamente nelle alture delle montagne,
ma anche nel basso verso Bagnasco, Campo-Morone e Pietra-Lavezzara, con
iscacciare da alcuni postamenti i Genovesi, e con esserne anche essi
vicendevolmente ricacciati. Non potè questo succedere, spezialmente nel
dì 16 di febbraio, senza spargimento di sangue. Si diedero all'incontro
i Genovesi ad accrescere maggiormente le fortificazioni esteriori della
loro città; a disporre le artiglierie per tutti gli occorrenti siti; a
ridurre in moneta le argenterie contribuite ora più di buon cuore da'
cittadini, che ne' giorni addietro. Ottennero in oltre da lì a qualche
tempo licenza da Roma di potersi valere di quelle delle chiese, con
obbligo di restituirne il valore nel termine di alquanti anni, e di
pagarne intanto il frutto annuo in ragione del due per cento. Furono
poscia dalla corte del re Cristianissimo spediti a poco a poco a
quella repubblica un milione e ducento mila franchi; ed in oltre fatto
ad essa un assegno di ducentocinquanta mila per mese: danaro che fu
poi puntualmente pagato. Non si sa che dal cielo di Spagna scendesse
sui Genovesi alcuna di queste rugiade. Succedette intanto l'arrivo
di alquanti ingegneri e cannonieri franzesi; e nella stessa città si
andarono formando assaissime compagnie urbane, ben vestite all'uniforme
e ben armate, parte composte di nobili cadetti, parte di mercatanti
e persone del secondo ordine, e molte più delle varie arti di quella
città, animandosi ciascuno a difendere la patria, e gridando: _O morte,
o libertà_. Cotal fidanza nella protezione della Vergine santissima
era entrata in cuore di ognuno, che si tenevano oramai per invincibili,
attribuendo a miracolo ogni buon successo de' piccioli conflitti che di
mano in mano andavano succedendo contra degli Austriaci, o cacciati, o
uccisi, o fatti prigioni.
Ad accrescere il comune coraggio serviva non poco l'accennato promesso
soccorso delle due corone, e il sapersi che erano già imbarcati sei
mila fanti in Marsilia e Tolone in più di sessanta barche e tartane,
oltre ad altre vele che conducevano provvisioni da bocca e da guerra,
altro non bramando da esse, se non che si abbonacciasse il mare, e
desse loro le ali un vento favorevole. Venuto oramai il tempo propizio,
circa la metà di marzo fecero vela. Rondava per quei mari il vice
ammiraglio Medley con più vascelli e fregate inglesi, aspettando con
divozione i movimenti di quel convoglio, per farne la caccia. E in
fatti, per quanto potè, la fece. Fioccarono più del solito le bugie
intorno all'esito di quella spedizione. All'udir gli uni, buona parte
di que' legni e truppe gallispane era rimasta preda degl'Inglesi;
disperso il restante, parte avea fatto ritorno a Tolone, parte si era
rifugiato in Corsica e a Monaco. Sostenevano gli altri che una fortuna
di mare avea sparpagliati tutti que' navigli; e ciò non ostante,
non esservi stato neppure uno d'essi che non giugnesse a salvamento,
approdando chi a Porto-Fino, chi alla Spezia e Sestri di Levante, e chi
a dirittura a Genova stessa, dove certamente pervenne la Flora, nave da
guerra franzese, la quale sbarcò il signor di Mauriach, comandante di
quelle milizie, e buon numero di uffiziali, granatieri e cannonieri.
Ventilate da' saggi non parziali tanto alterate notizie, fu conchiuso
che circa quattro mila Gallispani per più vie arrivassero a Genova;
più di mille cadessero in man degli Inglesi; e qualche bastimento si
ricoverasse in Monaco, dove fu poi bloccato da essi Inglesi, ma senza
frutto. Con immenso giubilo venne accolto da' Genovesi questo soccorso,
spezialmente perchè caparra d'altri maggiori; e in fatti si intese che
altro convoglio s'allestiva in Tolone e Marsilia, parimente destinato
in loro aiuto. Ma neppure dall'altro canto perdonavano a diligenza
alcuna gli Austriaci, con preparar magazzini, artiglierie grosse e
minori, mortai da bombe, ed altri attrezzi e munizioni da guerra, più
che mai facendo conoscere di voler dare un esemplare gastigo, se veniva
lor fatto, alla stessa città di Genova. Giacchè sì sovente nelle armate
austriache il valore non è accompagnato da tutti que' mezzi de' quali
abbisogna il mestier della guerra: il che poi rende indisciplinate e
di ordinario troppo pesanti le loro milizie ovunque alloggiano: alcune
città del cotanto smunto Stato di Milano (giacchè mancava d'attiraglio
quell'esercito) furono costrette a provvedere cinquecento carrette, con
quattro cavalli e un uomo per ciascuna, per condurre le provvisioni
al destinato campo. Le braccia di migliaia di poveri villani vennero
anch'esse impiegate a rendere carreggiabili le strade della montagna,
affin di condurre per esse le artiglierie. Con tutto questo apparato
nondimeno non poche erano le savie persone credenti che non si
potesse o volesse tentar quell'impresa, come molto pericolosa, per
varii riguardi che non importa riferire. Ed avendo veduto che dopo un
gran consiglio de' primarii uffiziali fu spedito a Vienna il general
Coloredo, molti si avvisarono che altra mira non avessero i suoi