Annali d'Italia, vol. 7 - 44
in tutti que' dì le pioggie; pure nulla poteva ritenerli dal fare
ogni opportuno preparamento per quell'impresa; nè loro mancò qualche
sperto ingegnere che suggerì i mezzi più adattati al bisogno. Si
videro a folla uomini, donne, ragazzi, e massimamente i facchini,
tutti a gara portare chi fascine, chi palle, chi polve da fuoco e
granate, chi formar palizzate e gabbioni, e chi colle sole braccia
strascinar per istrade sommamente erte cannoni, mortai e bombe. Ne
trassero fino alle alture di _Prea_, o sia _Pietra minuta_: il che
parrebbe inverisimile, mirando quel sito. Parimente postò il popolo
varie altre batterie di cannoni in siti che dominavano San Benigno,
in strada Balbi, all'arsenale e altrove, dove maggiormente conveniva
per offendere i nemici. Non mancavano armi, palle e polve ad alcuno.
Mal digeriva il popolo le dilazioni che andava prendendo il generale
suddetto, e tanto più perchè già si sentivano giunti in Bisagno circa
settecento Tedeschi, ed esserne assai più in moto. Gli fu dunque dato
un termine perentorio sino alle ore 16 del di 10 di dicembre. 0 sia che
in quello spazio di tempo non venisse risposta, o che venisse quale
non si voleva; o sia, come pretesero altri, che l'impaziente popolo
la rompesse prima di quell'ora: certo è, ch'esso diede all'armi, da
che si udì sonar campana a martello nella cattedrale di San Lorenzo,
il cui esempio da tutte l'altre campane della città fu immediatamente
imitato. In concordi altissime voci fu intonato il grido di battaglia,
cioè _viva Maria_, il cui santo nome ispirava coraggio nei petti di
ognuno. Cominciarono con gran fracasso le artiglierie a giocare contro
la commenda di San Giovanni, ed atterrato quel campanile con altre
rovine, fu obbligato quel presidio tedesco a rendersi prigioniere. La
batteria superiore di Prea-minuta bersagliava le porte e l'altura de'
Filippini, scagliando anche bombe e granate sulla piazza del principe
Doria fuori della città dove erano schierate alcune centinaia di
cavalleria nemica. Come stesse il cuore ai Tedeschi all'udir tante
grida di quel numeroso infuriato popolo, e insieme il suono ferale di
tante campane della città, di maggiore efficacia che quel dei tamburi,
io nol so dire. La verità si è, che il generale marchese Botta, già
credendo assai giustificata la sua risoluzione in sì brutto frangente,
fece dar segno di tregua; e, cessato il fuoco, mandò pel padre Visetti
a significare al governo che avrebbe ceduto le porte se gliene fosse
fatta la dimanda. Accettò il governo, e fece il decreto di richiederle.
Ma il popolo rispose di non voler più riconoscere per limosina ciò che
non potea mancare alla propria industria e valore.
Ricominciate dunque le offese, più che mai fieramente continuarono,
finchè gli Austriaci forzati abbandonarono la porta ed altri posti
vicini, siccome ancora la porta di Lanterna e il posto di San Benigno.
Colà, subentrati i popolari, cominciarono dal parapetto delle mura
a fare un fuoco continuo sopra i nemici, e caricato a cartocci il
cannone, tolto loro dinanzi, più volte Io spararono, e non mai in
fallo. Andarono a poco a poco rinculando i Tedeschi dalle alture e da
tutti gli occupati posti, ed uniti poi con gli altri, abbandonarono
anche la piazza del principe Doria, ad altro non pensando che a
ritirarsi verso la Bocchetta e Lombardia. Fu scritto, che giunti alla
chiesa de' trinitarii, arrivarono loro addosso i popolari, e trovandoli
disordinati e intenti a fuggire, ne fecero macello. La verità si
è, che niun combattimento vi succedette. Forse non furono più di
venticinque i Tedeschi uccisi, non più di dodici gli uccisi Genovesi;
e a pochissimi si ridusse il numero de' feriti. Andavano gli Alemanni
accompagnati da varie bombe e da molte cannonate della città; ed avendo
que' della Cava ravvisato il general Botta, appuntarono contro di lui
un cannone, la cui palla a canto a lui sventrò il cavallo del cavalier
Castiglioni, e una scheggia di un muro percosso andò a leggiermente
ferire in una guancia lo stesso generale. Ritiraronsi dunque, venuta la
notte, gli Austriaci con gran fretta e disordine verso la Bocchetta:
posto che prudentemente il generale suddetto avea per tempo fatto
preoccupare sull'incertezza di quell'avvenimento. E buon per loro, che
i Polceverini non si mossero per inseguirli o tagliar loro la strada:
ne potea loro succedere gran male. Fu creduto che quella brava gente
non facesse in tal congiuntura insulto ai fuggitivi, perchè ubbidiente
all'ordine del governo di non prendere l'armi. Si figurarono altri che
il generale austriaco regalasse il capitano della Valle, e gli facesse
credere seguito un aggiustamento: il che non sembra verisimile, stante
l'essere appena cessato lo strepito di tante armi e cannoni, quando
si vide per quella lunga salita andarsene frettolosa la piccola armata
tedesca. Eransi rifugiati più di settecento Alemanni in tre palagi di
Albaro; ma quivi bloccati dai Bisagnini, ed infestati da una frequente
moschetteria, e poscia da un cannone tirato da Genova, furono costretti
ad arrendersi, con venire nel dì 14 di dicembre condotti prigioni alla
città. Altri poi ne furono presi in San Pier d'Arena e in altri luoghi,
di modo che conto si fece che più di quattro mila Austriaci rimasero
nelle forze de' Genovesi, e fra loro circa cento cinquanta uffiziali.
Molti dei primi, perchè non si potè mai riscattarli, vennero meno
di malattie e di stento. E perciocchè quegli uffiziali sparlavano,
pretendendosi non obbligati alla parola data, perchè presi da gente
vile e non decorata del cingolo della milizia, e molto più perchè
gli ostaggi dati dai Genovesi furono mandati nel castello di Milano:
vennero in Genova trasportate ad altro monistero le monache dello
Spirito Santo, e nel chiostro d'esse rinserrati e posti a far orazioni
e meditazioni quegli uffiziali sotto buona guardia. Quegli Alemanni che
restarono in quelle focose azioni feriti riceverono nello spedale della
città ogni più caritativo trattamento.
Tale fu il fine della tragedia del dì 10 di dicembre, terminata la
quale, il popolo vincitore nel dì seguente corse a San Pier d'Arena a
raccogliere le spoglie della felice giornata. Vi si trovarono grossi
magazzini di grano, di panni, di armi e di munizioni da guerra.
Quivi ancora venne alle lor mani non lieve numero di Tedeschi feriti
o malati; buona parte de' bagagli non solo dei poco dianzi fuggiti
uffiziali, ma degli altri ancora che erano passati in Provenza. Furono
eziandio sorprese non poche barche nel porto cariche di grano e d'ogni
altra provvisione per l'armata della suddetta Provenza. Parimente
in Bisagno restarono preda di quel popolo gli equipaggi d'altri
Alemanni. In una parola, ascese ben alto il valore del copiosissimo
bottino, ma non giù a quei tanti milioni che la fama decantò: corse
anche voce che fossero presi cinque muli carichi della pecunia dianzi
pagata da' Genovesi; ma questo danaro non vi fu chi lo vedesse. Per
sì fortunati successi tutta era in festa la città; ma non già que'
forestieri, per qualche ragione aderenti agli Austriaci, che non
poteano fuggire, perchè durante questa terribil crisi non ischivarono
di essere svaligiati. Fu anche messa solennemente a sacco dal popolo
la posta di Milano, ultimamente piantata in quella città. Fin dentro
ai monisteri delle monache andò l'avido popolo a ricercare quanto vi
aveano rifugiato i Tedeschi. All'incontro, l'inviato di Francia, a
cui non si farà già torto in credere che soffiasse non poco in questo
fuoco, ed impiegasse anche buona somma di danaro, spedì tosto per mare
due felucche a Tolone o Marsiglia, dando cento doble a cadauno de'
padroni d'esse, e promettendone altre cento a chi di loro il primo
arrivasse colà, per ragguagliare il _maresciallo duca di Bellisle_ di
sì importante metamorfosi di cose. E se non allora, certamente poco
dipoi spedì anche il governo di Genova lettere premurose al generale
medesimo, e delle altre supplichevoli al re Cristianissimo, implorando
soccorsi. Dopo il fatto declamarono forte i Tedeschi, perchè il loro
generale non avesse tolte l'armi a quella città, non avesse occupato
Belvedere e tutte le porte, ed avesse permesso ai ministri di Francia,
Spagna e Napoli il continuar ivi la loro dimora. Ciò sarebbe stato
contro la capitolazione; ma non importa. Così la discorrevano essi.
Altri poi (e con buon fondamento) asseriscono, che se gli Austriaci
avessero saputo trattar bene quel popolo, e promettergli lo sgravio
di alcuni dazi e gabelle, nulla era più facile che il far proclamare
l'augusta imperadrice signora di quella nobil città. Ma, acciecati dal
lieve guadagno presente, nulla pensarono all'avvenire.
Con rapido volo intanto portò la fama per tutta la Riviera di Levante
l'avviso della liberata città; avviso, che siccome riempiè di terrore
le schiere austriache sparse in Sarzana, Chiavari, Spezia ed altri
luoghi, così colmò di allegrezza quegli abitanti. La gente saggia
d'essi paesi, per evitare ogni maggiore inconveniente, quella fu che
amichevolmente persuase a quelle truppe di andarsene con Dio; e se ne
andarono, ma col cuor palpitante, finchè giunsero di qua dall'Apennino.
Loro furono somministrate vetture, e conceduto lo spazio d'otto giorni
pel trasporto de' loro spedali e bagagli. Un gran dire fu per tutta
Europa dell'avere i Genovesi con risoluzione sì coraggiosa spezzati i
loro ceppi; ed anche chi non gli amava, li lodò. Fu poi comunemente
preteso, che se il ministro austriaco con più moderazione fosse
proceduto in questa contingenza, maggior gloria di clemenza sarebbe
provenuta all'imperadrice regina, ed avrebbono le sue armi sfuggito
questo disgustoso rovescio di fortuna. Non si potè cavar di testa
agli Austriaci, e dura tuttavia, anzi durerà sempre in loro la ferma
persuasione che il governo di Genova manipolasse lo scotimento del
giogo, e sotto mano se l'intendesse col popolo; fingendo il contrario
ne' pubblici atti. Non si può negare: molti giorni prima gran bollore
appariva negli abitanti di Genova, e si tenevano varie combriccole:
del che fu anche avvisata la corte di Vienna, senza che nè essa nè
gli uffiziali dell'armata ne facessero alcun conto, per la soverchia
idea delle proprie forze e dell'altrui debolezza. Pure altresì è vero
che in una repubblica, composta di tanti nobili, ciascun de' quali ha
degl'interessi ed affetti particolari, e fra' quali e il popolo non
passa grande intrinsichezza, sembra che non si potesse ordire una tela
di tante fila, senza che in qualche guisa ne traspirasse il concerto.
Non è capace di segreto un popolo; di tutti i moti della medesima
plebe il governo andò sempre ragguagliando il generale austriaco. Si sa
ancora che niuno de' nobili pubblicamente s'unì col popolo, se non dopo
la liberazione della città. Vero è che il governo comunicò al popolo
la risposta data al generale di non poter pagare un soldo di più, e
si fece correr voce di gravi soprastanti malanni; ma non per questo si
mosse mai il governo contro gli Austriaci.
Rimettendo io a migliori giudizii la decisione di questo punto,
dirò solamente quel poco che da persone assennate e ben istruite di
quegli affari ho inteso. Cioè: che i nobili del governo senza mai
tramare rivolta alcuna, sempre onoratamente trattarono col comandante
austriaco. Ma essere altresì vero che non era loro ignoto meditarsi
dal popolo qualche rivoluzione. Questa poi scoppiò prima del tempo,
e per l'accidente di quel mortaio, cioè quando non erano peranche
all'ordine tutte le ruote. Quali poi fossero le conseguenze di quella
strepitosa mutazion di cose, andiamo a vederlo. Avea bensì il _conte
della Rocca_, comandante l'assedio della cittadella di Savona, avanzati
i lavori sotto la medesima; tuttavia non potè mai, se non all'entrar
di dicembre, procedere con braccio forte: tanta difficoltà si provò
a trar colà tutte le artiglierie e gli ordigni di guerra. Solamente
dunque allora cominciò a battere in breccia quella fortezza: quando
eccoti giugnere l'avviso delle novità occorse in Genova, città distante
non più di trenta miglia. Conobbesi ben tosto che penserebbe quella
repubblica al soccorso di Savona; e però ordine fu dato che dal
Mondovì, da Asti e da altri luoghi del Piemonte colà frettolosamente
passassero alcuni battaglioni di truppe regolate e molte migliaia di
miliziotti, per rinforzare quell'assedio, ed accelerare un sì rilevante
conquisto. In fatti non trascurarono i Genovesi di spignere a quella
volta per mare un grosso convoglio di gente e di munizioni da bocca e
da guerra, scortato da tre galere. Inviarono anche per terra un corpo
di forse tre o quattro mila volontarii pagati nondimeno dal pubblico;
ma inviarono tutto indarno. Veleggiavano per quel mare le navi inglesi,
che avrebbero ingoiato il convoglio, forzato perciò a retrocedere;
e per terra esso conte della Rocca con forze molto superiori venne
incontro alle brigate genovesi di terra; laonde queste giudicarono
meglio di riserbare ad altre occasioni la loro bravura. Continuarono
pertanto le ostilità e gli assalti, ne' quali perì qualche centinaio
di Piemontesi, talchè la guernigione del castello di Savona composta
di mille e cento uomini, perduta ogni speranza di soccorso, dovette
nel dì 19 di dicembre rendersi prigioniera e cedere la piazza: colpo
ben sensibile ai Genovesi, sì per la qualità del luogo, dove il porto
da essi interrito se risorgesse, siccome uno dei migliori e più sicuri
porti del Mediterraneo, darebbe un gran tracollo al commercio della
stessa Genova, e sì perchè la real casa di Savoia su quella città,
per cessione fattane dai marchesi del Carretto, ha sempre mantenuto
vive le sue ragioni; e queste, colla giunta del possesso, venivano ad
acquistare un incredibil vigore. Trovossi in quella fortezza gran copia
di cannoni di bronzo.
Non provò già un'egual felicità l'impresa di Provenza. Sì perniciosa
influenza ebbero le novità di Genova sopra i disegni degli
Austriaco-Sardi in quelle contrade, che tutti andarono a voto. Da
Genova aveano da venire i grossi cannoni e i mortai per vincere il
forte d'Antibo, e procedere poscia alle offese di Tolone. Di là ancora
si dovea muovere buona parte delle vettovaglie necessarie al campo,
e delle munizioni da guerra. Ebbe il generale _conte di Broun_ un bel
aspettare: s'era cangiato di troppo il sistema delle cose di Genova.
Sicchè tutte le prodezze di quell'esercito si ridussero a fare degli
inutili giocolini sotto Antibo, e a liberamente passeggiare per quella
parte di Provenza, tanto per esigere contribuzioni, quanto per tirarne
foraggi e viveri da far sussistere l'armata. Era giunta, siccome
dissi, l'ala sinistra d'essi fino a Castellana, luogo comodo per far
contribuire le diocesi di Digne, Sanez e Riez dell'alta Provenza.
Niun ostacolo aveano trovato ai lor passi, giacchè il _marchese di
Mirepoix_, troppo smilzo di truppe, andava saltellando qua e là alla
difesa delle rive de' fiumi, ma senza voglia alcuna di affrontarsi co'
nemici. Arrivò poscia al comando dell'armi franzesi in Provenza il
maresciallo _duca di Bellisle_, ed era in cammino a quella volta il
gran distaccamento d'armati mosso dalla Fiandra, per somministrargli
i mezzi di frenare il corso de' nemici, ed anche per obbligarli alla
ritirata. Corrieri sopra corrieri spediva egli per affrettare il loro
arrivo; ma più l'affrettavano i desiderii e le orazioni a Dio de'
Provenzali, che o provavano di fatto o sentivano accostarsi l'oste
nemica. Intanto il _generale Botta_, tenendo forte la Rocchetta, piantò
il suo quartier generale a Novi, e fu rinforzato di nuova gente; ma
perciocchè da gran tempo andava egli chiedendo alla corte di Vienna la
permissione di passare alla sua patria Pavia, per cagione d'alcuni suoi
abituali incomodi di salute, maggiormente rinforzò le suppliche sue per
ottenere questa licenza, e in fine l'ottenne.
Nè si dee tacere che nel di 15 d'agosto dell'anno presente un colpo
di apoplessia portò all'altra vita _Giuseppe Maria Gonzaga_, duca
di Guastalla, principe a cui furono sì familiari le alienazioni
di mente, che stette sempre in mano della duchessa _Maria Eleonora
di Holstein_ sua moglie, e de' ministri il governo di quel popolo:
popolo ben trattato e felice in tal tempo, e popolo che sommamente
deplorò la perdita di lui. Essendo egli mancato senza prole, terminò
quell'illustre ramo della casa Gonzaga, e restò vacante il ducato di
Guastalla, quello di Sabbioneta e il principato di Bozzolo. Al feudo
della sola Guastalla era chiamato il conte di Paredes spagnuolo della
nobil casa della Cerda, in vigore delle imperiali investiture, siccome
discendente da una Gonzaga di quella linea. Sugli allodiali giuste e
incontrastabili ragioni competevano al duca di Modena. Il bello fu che
l'imperadrice regina fece prendere il possesso di tutti quegli Stati e
beni, quasichè fossero dipendenze dello stato di Milano o del ducato di
Mantova: del che fece querele il consiglio dell'imperadore consorte,
con pretenderli spettanti alla sola giurisdizione sua. Fu intorno a
questi tempi che gli Austriaci usarono una prepotenza, la qual certo
non fece onore nè alla nazione alemanna, nè all'augusta imperadrice,
a cui pure stava cotanto a cuore il pregio della giustizia e della
clemenza. Cioè inviarono nel Ferrarese a fare un'esecuzione militare
sugli allodiali della serenissima casa d'Este, benchè spettanti, in
vigore di donazione paterna, in usufrutto alle principesse _Benedetta_
ed _Amalia_ sorelle del duca di Modena, intimando per essi una grossa
contribuzione di danari e di naturali, fiancheggiata dalle minaccie
di vendere tutte le razze de' cavalli, bestie bovine, grani e foraggi
di quelle tenute. Operarono essi nello Stato di Ferrara con autorità
non minore, come se si trattasse di un paese di conquista, e ciò con
detestabil dispregio della sovranità pontifizia. Per non vedere la
rovina di que' beni, forza fu di accordar loro quanto vollero in gran
somma di danaro. Impiegarono poscia il nunzio pontifizio ed anche
l'inviato del re di Sardegna i lor caldi uffizii presso le loro cesaree
maestà, rappresentando il grave torto fatto ad innocenti principesse,
e l'obbligo di rifondere almeno il denaro indebitamente percetto.
Si ha tuttavia da vedere il frutto delle loro istanze, e lo scarico
dell'imperiale coscienza. Nè fu men grande l'altra prepotenza, con
cui trattarono il ducato di Massa di Carrara, non di altro reo, se
non perchè quella duchessa _Maria Teresa Cibò_, sovrano sola di tale
Stato, era congiunta in matrimonio col _principe ereditario_ di Modena.
Da esso popolo ancora colle minaccie di ogni più fiero trattamento
estorsero una rigorosa contribuzione, tuttochè questa non fosse guerra
d'imperio. In che libri mai (convien pur dirlo) studiano talvolta i
potenti cristiani? Certo non sempre in quei del Vangelo. Ma ho fallato.
Doveva io dir ciò non dei principi, che tutti oggidì son buoni, ma di
que' ministri adulatori e senza religione, che tutto fanno lecito al
principe, per maggiormente guadagnarsi l'affetto e la grazia di lui.
Sullo spirare dell'anno presente gran romore ancora cagionò in Napoli
l'affare della sacra inquisizione. Ognun sa quale avversione abbia
sempre mantenuto e professato quel popolo a sì fatto tribunale. Ma
perciocchè la conservazion della religione esige che vi sia pure chi
abbia facoltà di frenare o gastigare chi nutrisce sentimenti e dottrine
contrarie alla medesima; e questo diritto in Italia è radicato almeno
ne' vescovi, aveano gli arcivescovi di Napoli col tacito consenso dei
piissimi regnanti introdotta una spezie di inquisizione, con avere
carceri apposta, consultori, notai e sigillo proprio, per formare
segreti processi, e catturare i delinquenti. Quivi anche si leggeva
scolpito in marmo il nome del _santo uffizio_. Trovò lo zelantissimo
e dignissimo _cardinale Spinelli_, arcivescovo di quella metropoli
così disposte le cose; ed anch'egli teneva in quelle carceri quattro
delinquenti solenni, processati per materia di fede, da due dei quali
fu anche fatta una semipubblica abiura. Però egli pretese di non aver
fatta novità; ma fu poscia preteso il contrario dalla corte. Ne fece
grave doglianza il popolo, commosso da chi più degli altri mirava di
mal occhio come introdotta sotto altro verso l'inquisizione; laonde
l'eletto d'esso popolo, con rappresentare al re turbate le leggi
del regno, e vilipese le antiche e recenti grazie regali in questo
particolare concedute ai suoi sudditi, ebbe maniera d'indurre il re
a pubblicare un editto, in cui annullò e vietò tutto quell'apparato
di novità, bandì due canonici, ed ordinò che da lì avanti la curia
ecclesiastica procedesse solamente per la via ordinaria, e colla
comunicazion de' processi alla secolare, con altri articoli che non
importa riferire; ma con tali formalità, che si potea tenere come
renduta inutile in questo particolare la giurisdizione episcopale.
Giudicò bene la corte di Roma d'inviare a Napoli il _cardinale Landi_,
arcivescovo di Benevento, personaggio di sperimentata saviezza, per
trattare di qualche temperamento all'editto. Qual esito avesse l'andata
di lui, non si riseppe. Solamente fu detto, che affacciatisi alla
di lui carrozza alcuni di quegli arditi popolari, gli minacciarono
fin la perdita della vita, se non si partiva dalla città. Meritossi
il re per quell'alto dal popolo un regalo di trecento mila ducati
di quella moneta. Vuolsi anche aggiugnere, che durando i mali umori
nella Corsica, nè potendo i Genovesi accudire a quegli interessi,
perchè distratti da più importante impegno, le più forti case di
quell'isola tumultuarono di nuovo, discontente del governo di Genova,
quasichè non mantenesse le promesse de' capitoli stabiliti, e insieme
disingannata che altre potenze non davano che parole: s'impadronirono
della città e del castello di Calvi, della fortezza di San Fiorenzo e
di altri luoghi. Avendo poscia chiamati ad una dieta generale i capi
delle pievi, stabilirono una democrazia e reggenza, che da lì innanzi
governasse il paese. Fu detto che dopo avere il popolo in Genova prese
le redini, e ripigliata la libertà, implorasse l'aiuto dei Corsi, con
promettere loro il godimento di qualsiasi antico privilegio. Ma fatta
questa esposizione a gente che più non si fidava, niun buon effetto
produsse. A tanti guai, che renderono quest'anno di troppo lagrimevole
in Lombardia, si aggiunse il flagello dell'epidemia e mortalità
de' buoi, che fece strage in Piemonte e Milanese, e passò anche nel
Reggiano, Modenese e Carpignano, e toccò alquante ville del Bolognese
e Ferrarese. Povere lasciò molte famiglie, e cessò dipoi nel verno.
E tale fu il corso delle bellicose imprese ed avventure di quest'anno
in Italia; alle quali si vuol aggiugnere, che nel dì 29 di giugno la
santità di _papa Benedetto XIV_ con gran solennità celebrò in Roma
la canonizzazione di cinque santi. Fu anche dal medesimo pontefice,
correndo il mese d'aprile approvato un nuovo ordine religioso,
intitolato la congregazione de' _Cherici Scalzi della passion_ di Gesù
Cristo il cui istituto è di promuovere la divozion de' fedeli verso la
stessa passione con le missioni ed altri pii esercizii.
Quanto alle guerre oltramontane, non potè nè pure il verno trattener
l'armi franzesi da nuovi acquisti. Sul principio di febbraio, al
dispetto de' freddi, delle pioggie e dei fanghi, il prode maresciallo
di Francia _conte di Sassonia_, raunato un esercito di quaranta mila
persone, dopo aver preso alcuni forti, all'improvviso si presentò sotto
la riguardevol città di Brusselles, e senza dimora eresse batterie
e minacciò la scalata. Non passò il di 20 di detto mese, che quella
numerosa guernigione di truppe olandesi rendè la città e sè stessa
prigioniera di guerra. Gran treno d'artiglieria quivi si trovò. Immenso
danno e tristezza cagionò nei dì 25 del seguente marzo a tutta la
Francia un orribile incendio, succeduto (non si seppe se per poca
cautela, o per malizia degli uomini) nel gran magazzino della compagnia
dell'Indie, situato nel porto d'Oriente sulle coste marittime della
Bretagna. A più e più milioni si fece montare il danno recato da quelle
fiamme, tanto alla regia camera, che alla compagnia suddetta. D'altro
in questi tempi non risonavano i caffè che di vicina pace, quando tutti
questi aerei castelli svanirono al vedere che il re Cristianissimo
_Luigi XV_ partitosi da Versaglies nel dì 4 di maggio, entrò in
Brusselles, e poscia in Malines, e mise in un gran moto le divisioni
della sua potentissima armata. Conobbesi allora che guerra e non pace
avea anche nell'anno presente a far gemere la Fiandra e l'Italia. Dove
tendessero le mire de' Franzesi, si fece poi palese ad ognuno nel dì
20 del suddetto mese, essendosi presentato un gran corpo d'essi sotto
la nobil ed importante città d'Anversa; ancorchè fosse preveduto questo
colpo, tuttavia gli alleati, siccome troppo inferiori di forze, dovendo
accudire a molti luoghi non l'aveano rinforzata di sufficiente nerbo
di gente per sostenerla. V'entrarono dunque pacificamente i Franzesi,
e tosto si applicarono a formar l'assedio di quella cittadella,
guernita d'un presidio di due mila persone. Non son più quei tempi che
gli assedii durano mesi ed anni. Ai Franzesi spezialmente, che han
raffinata l'arte di prender le piazze, costa poco tempo il forzarle
a capitolare. In fatti, nel dì ultimo di maggio il comandante della
cittadella suddetta giudicò meglio di cederla agli assedianti, con
ottener delle convenevoli condizioni, ma insieme con lasciare ai
Franzesi anche i forti esistenti lungo la Schelda.
Dopo sì glorioso acquisto se ne tornò il re Cristianissimo a
Versaglies, per assistere al parto della delfina; e il principe di
Conty, a cui fu confidato il supremo comando dell'armi in Fiandra,
imprese nel dì 17 di giugno l'assedio della città di Mons. Incamminossi
intanto verso la Fiandra il principe _Carlo di Lorena_, per assumere
il comando dell'armata collegata, nel mentre che lentamente marciava
dalla Germania un copioso corpo di milizie austriache a rinforzarla.
Ma vi arrivò ben tardi, e non mai giunsero l'armi d'essi alleati
a tal nerbo da poter impedire i progressi delle milizie franzesi.
L'aver dovuto accorrere gl'Inglesi, ed anche gli Olandesi, alla guerra
bollente in Iscozia, sconcertò di troppo le lor misure in Fiandra, ed
agevolò ai Franzesi il buon esito d'ogni loro impresa. In fatti, la
sì forte città di Mons, dopo una vigorosa difesa nel dì 12 di luglio
dovette soccombere alla forza dei Franzesi, e la guernigione di circa
cinque mila collegati non potè esentarsi dal restar prigioniera di
guerra. La medesima fortuna corse dipoi la fortezza di san Ghislain,
al cui presidio nel dì 24 di luglio altra condizione non fu accordata
che quella di Mons. Ciò fatto, passarono i Franzesi all'assedio di
Charleroy, piazza che nel dì 2 d'agosto si trovò costretta a mutar
padrone, con restar prigioni di guerra i suoi difensori. Inutili
erano riusciti fin qui tutti i maneggi fatti dalle cesaree maestà per
far dichiarare guerra dell'imperio la presente, avendo i principi e
le città della Germania, fomentate spezialmente dal re di Prussia,
ricusato di far sua la causa dell'augusta casa d'Austria. Nè la corte
di Francia avea mancato di divertir la dieta Germanica dall'entrare
in verun impegno, con assicurarla che dal canto suo non s'inferirebbe
molestia alcuna alle terre dell'imperio. Questo contegno fece credere
a molti che la nazion germanica coll'ultima mutazion di cose si
fosse alquanto emancipata: il che da altri veniva riprovato, sul
riflesso, che il lasciare la briglia al sempre maggiore ingrandimento
della Francia era un preparar catene col tempo alla Germania stessa.
In fatti, non ostante le lor belle promesse, allorchè i Franzesi
s'avvidero di poter fare un bel colpo, non sentirono scrupolo a rompere
i confini delle terre germaniche, e ad impossessarsi nel dì 21 di
agosto di Huy, appartenente al principato di Liegi, e di fortificarlo,
tuttochè sia da credere che assicurassero il cardinale principe di
nulla voler usurpare del suo dominio. L'occupazione di quel posto
avea per mira di obbligare l'esercito collegato a ripassar la Mosa
per la penuria de' viveri, siccome appunto avvenne. Allora fu che il
maresciallo conte di Sassonia si appigliò a formare l'assedio di Namur,
piazza fortissima, se pur alcuna di forte v'ha contro i Franzesi; e
nel dì 11 di settembre cominciarono a far fuoco le batterie. Non era
ogni opportuno preparamento per quell'impresa; nè loro mancò qualche
sperto ingegnere che suggerì i mezzi più adattati al bisogno. Si
videro a folla uomini, donne, ragazzi, e massimamente i facchini,
tutti a gara portare chi fascine, chi palle, chi polve da fuoco e
granate, chi formar palizzate e gabbioni, e chi colle sole braccia
strascinar per istrade sommamente erte cannoni, mortai e bombe. Ne
trassero fino alle alture di _Prea_, o sia _Pietra minuta_: il che
parrebbe inverisimile, mirando quel sito. Parimente postò il popolo
varie altre batterie di cannoni in siti che dominavano San Benigno,
in strada Balbi, all'arsenale e altrove, dove maggiormente conveniva
per offendere i nemici. Non mancavano armi, palle e polve ad alcuno.
Mal digeriva il popolo le dilazioni che andava prendendo il generale
suddetto, e tanto più perchè già si sentivano giunti in Bisagno circa
settecento Tedeschi, ed esserne assai più in moto. Gli fu dunque dato
un termine perentorio sino alle ore 16 del di 10 di dicembre. 0 sia che
in quello spazio di tempo non venisse risposta, o che venisse quale
non si voleva; o sia, come pretesero altri, che l'impaziente popolo
la rompesse prima di quell'ora: certo è, ch'esso diede all'armi, da
che si udì sonar campana a martello nella cattedrale di San Lorenzo,
il cui esempio da tutte l'altre campane della città fu immediatamente
imitato. In concordi altissime voci fu intonato il grido di battaglia,
cioè _viva Maria_, il cui santo nome ispirava coraggio nei petti di
ognuno. Cominciarono con gran fracasso le artiglierie a giocare contro
la commenda di San Giovanni, ed atterrato quel campanile con altre
rovine, fu obbligato quel presidio tedesco a rendersi prigioniere. La
batteria superiore di Prea-minuta bersagliava le porte e l'altura de'
Filippini, scagliando anche bombe e granate sulla piazza del principe
Doria fuori della città dove erano schierate alcune centinaia di
cavalleria nemica. Come stesse il cuore ai Tedeschi all'udir tante
grida di quel numeroso infuriato popolo, e insieme il suono ferale di
tante campane della città, di maggiore efficacia che quel dei tamburi,
io nol so dire. La verità si è, che il generale marchese Botta, già
credendo assai giustificata la sua risoluzione in sì brutto frangente,
fece dar segno di tregua; e, cessato il fuoco, mandò pel padre Visetti
a significare al governo che avrebbe ceduto le porte se gliene fosse
fatta la dimanda. Accettò il governo, e fece il decreto di richiederle.
Ma il popolo rispose di non voler più riconoscere per limosina ciò che
non potea mancare alla propria industria e valore.
Ricominciate dunque le offese, più che mai fieramente continuarono,
finchè gli Austriaci forzati abbandonarono la porta ed altri posti
vicini, siccome ancora la porta di Lanterna e il posto di San Benigno.
Colà, subentrati i popolari, cominciarono dal parapetto delle mura
a fare un fuoco continuo sopra i nemici, e caricato a cartocci il
cannone, tolto loro dinanzi, più volte Io spararono, e non mai in
fallo. Andarono a poco a poco rinculando i Tedeschi dalle alture e da
tutti gli occupati posti, ed uniti poi con gli altri, abbandonarono
anche la piazza del principe Doria, ad altro non pensando che a
ritirarsi verso la Bocchetta e Lombardia. Fu scritto, che giunti alla
chiesa de' trinitarii, arrivarono loro addosso i popolari, e trovandoli
disordinati e intenti a fuggire, ne fecero macello. La verità si
è, che niun combattimento vi succedette. Forse non furono più di
venticinque i Tedeschi uccisi, non più di dodici gli uccisi Genovesi;
e a pochissimi si ridusse il numero de' feriti. Andavano gli Alemanni
accompagnati da varie bombe e da molte cannonate della città; ed avendo
que' della Cava ravvisato il general Botta, appuntarono contro di lui
un cannone, la cui palla a canto a lui sventrò il cavallo del cavalier
Castiglioni, e una scheggia di un muro percosso andò a leggiermente
ferire in una guancia lo stesso generale. Ritiraronsi dunque, venuta la
notte, gli Austriaci con gran fretta e disordine verso la Bocchetta:
posto che prudentemente il generale suddetto avea per tempo fatto
preoccupare sull'incertezza di quell'avvenimento. E buon per loro, che
i Polceverini non si mossero per inseguirli o tagliar loro la strada:
ne potea loro succedere gran male. Fu creduto che quella brava gente
non facesse in tal congiuntura insulto ai fuggitivi, perchè ubbidiente
all'ordine del governo di non prendere l'armi. Si figurarono altri che
il generale austriaco regalasse il capitano della Valle, e gli facesse
credere seguito un aggiustamento: il che non sembra verisimile, stante
l'essere appena cessato lo strepito di tante armi e cannoni, quando
si vide per quella lunga salita andarsene frettolosa la piccola armata
tedesca. Eransi rifugiati più di settecento Alemanni in tre palagi di
Albaro; ma quivi bloccati dai Bisagnini, ed infestati da una frequente
moschetteria, e poscia da un cannone tirato da Genova, furono costretti
ad arrendersi, con venire nel dì 14 di dicembre condotti prigioni alla
città. Altri poi ne furono presi in San Pier d'Arena e in altri luoghi,
di modo che conto si fece che più di quattro mila Austriaci rimasero
nelle forze de' Genovesi, e fra loro circa cento cinquanta uffiziali.
Molti dei primi, perchè non si potè mai riscattarli, vennero meno
di malattie e di stento. E perciocchè quegli uffiziali sparlavano,
pretendendosi non obbligati alla parola data, perchè presi da gente
vile e non decorata del cingolo della milizia, e molto più perchè
gli ostaggi dati dai Genovesi furono mandati nel castello di Milano:
vennero in Genova trasportate ad altro monistero le monache dello
Spirito Santo, e nel chiostro d'esse rinserrati e posti a far orazioni
e meditazioni quegli uffiziali sotto buona guardia. Quegli Alemanni che
restarono in quelle focose azioni feriti riceverono nello spedale della
città ogni più caritativo trattamento.
Tale fu il fine della tragedia del dì 10 di dicembre, terminata la
quale, il popolo vincitore nel dì seguente corse a San Pier d'Arena a
raccogliere le spoglie della felice giornata. Vi si trovarono grossi
magazzini di grano, di panni, di armi e di munizioni da guerra.
Quivi ancora venne alle lor mani non lieve numero di Tedeschi feriti
o malati; buona parte de' bagagli non solo dei poco dianzi fuggiti
uffiziali, ma degli altri ancora che erano passati in Provenza. Furono
eziandio sorprese non poche barche nel porto cariche di grano e d'ogni
altra provvisione per l'armata della suddetta Provenza. Parimente
in Bisagno restarono preda di quel popolo gli equipaggi d'altri
Alemanni. In una parola, ascese ben alto il valore del copiosissimo
bottino, ma non giù a quei tanti milioni che la fama decantò: corse
anche voce che fossero presi cinque muli carichi della pecunia dianzi
pagata da' Genovesi; ma questo danaro non vi fu chi lo vedesse. Per
sì fortunati successi tutta era in festa la città; ma non già que'
forestieri, per qualche ragione aderenti agli Austriaci, che non
poteano fuggire, perchè durante questa terribil crisi non ischivarono
di essere svaligiati. Fu anche messa solennemente a sacco dal popolo
la posta di Milano, ultimamente piantata in quella città. Fin dentro
ai monisteri delle monache andò l'avido popolo a ricercare quanto vi
aveano rifugiato i Tedeschi. All'incontro, l'inviato di Francia, a
cui non si farà già torto in credere che soffiasse non poco in questo
fuoco, ed impiegasse anche buona somma di danaro, spedì tosto per mare
due felucche a Tolone o Marsiglia, dando cento doble a cadauno de'
padroni d'esse, e promettendone altre cento a chi di loro il primo
arrivasse colà, per ragguagliare il _maresciallo duca di Bellisle_ di
sì importante metamorfosi di cose. E se non allora, certamente poco
dipoi spedì anche il governo di Genova lettere premurose al generale
medesimo, e delle altre supplichevoli al re Cristianissimo, implorando
soccorsi. Dopo il fatto declamarono forte i Tedeschi, perchè il loro
generale non avesse tolte l'armi a quella città, non avesse occupato
Belvedere e tutte le porte, ed avesse permesso ai ministri di Francia,
Spagna e Napoli il continuar ivi la loro dimora. Ciò sarebbe stato
contro la capitolazione; ma non importa. Così la discorrevano essi.
Altri poi (e con buon fondamento) asseriscono, che se gli Austriaci
avessero saputo trattar bene quel popolo, e promettergli lo sgravio
di alcuni dazi e gabelle, nulla era più facile che il far proclamare
l'augusta imperadrice signora di quella nobil città. Ma, acciecati dal
lieve guadagno presente, nulla pensarono all'avvenire.
Con rapido volo intanto portò la fama per tutta la Riviera di Levante
l'avviso della liberata città; avviso, che siccome riempiè di terrore
le schiere austriache sparse in Sarzana, Chiavari, Spezia ed altri
luoghi, così colmò di allegrezza quegli abitanti. La gente saggia
d'essi paesi, per evitare ogni maggiore inconveniente, quella fu che
amichevolmente persuase a quelle truppe di andarsene con Dio; e se ne
andarono, ma col cuor palpitante, finchè giunsero di qua dall'Apennino.
Loro furono somministrate vetture, e conceduto lo spazio d'otto giorni
pel trasporto de' loro spedali e bagagli. Un gran dire fu per tutta
Europa dell'avere i Genovesi con risoluzione sì coraggiosa spezzati i
loro ceppi; ed anche chi non gli amava, li lodò. Fu poi comunemente
preteso, che se il ministro austriaco con più moderazione fosse
proceduto in questa contingenza, maggior gloria di clemenza sarebbe
provenuta all'imperadrice regina, ed avrebbono le sue armi sfuggito
questo disgustoso rovescio di fortuna. Non si potè cavar di testa
agli Austriaci, e dura tuttavia, anzi durerà sempre in loro la ferma
persuasione che il governo di Genova manipolasse lo scotimento del
giogo, e sotto mano se l'intendesse col popolo; fingendo il contrario
ne' pubblici atti. Non si può negare: molti giorni prima gran bollore
appariva negli abitanti di Genova, e si tenevano varie combriccole:
del che fu anche avvisata la corte di Vienna, senza che nè essa nè
gli uffiziali dell'armata ne facessero alcun conto, per la soverchia
idea delle proprie forze e dell'altrui debolezza. Pure altresì è vero
che in una repubblica, composta di tanti nobili, ciascun de' quali ha
degl'interessi ed affetti particolari, e fra' quali e il popolo non
passa grande intrinsichezza, sembra che non si potesse ordire una tela
di tante fila, senza che in qualche guisa ne traspirasse il concerto.
Non è capace di segreto un popolo; di tutti i moti della medesima
plebe il governo andò sempre ragguagliando il generale austriaco. Si sa
ancora che niuno de' nobili pubblicamente s'unì col popolo, se non dopo
la liberazione della città. Vero è che il governo comunicò al popolo
la risposta data al generale di non poter pagare un soldo di più, e
si fece correr voce di gravi soprastanti malanni; ma non per questo si
mosse mai il governo contro gli Austriaci.
Rimettendo io a migliori giudizii la decisione di questo punto,
dirò solamente quel poco che da persone assennate e ben istruite di
quegli affari ho inteso. Cioè: che i nobili del governo senza mai
tramare rivolta alcuna, sempre onoratamente trattarono col comandante
austriaco. Ma essere altresì vero che non era loro ignoto meditarsi
dal popolo qualche rivoluzione. Questa poi scoppiò prima del tempo,
e per l'accidente di quel mortaio, cioè quando non erano peranche
all'ordine tutte le ruote. Quali poi fossero le conseguenze di quella
strepitosa mutazion di cose, andiamo a vederlo. Avea bensì il _conte
della Rocca_, comandante l'assedio della cittadella di Savona, avanzati
i lavori sotto la medesima; tuttavia non potè mai, se non all'entrar
di dicembre, procedere con braccio forte: tanta difficoltà si provò
a trar colà tutte le artiglierie e gli ordigni di guerra. Solamente
dunque allora cominciò a battere in breccia quella fortezza: quando
eccoti giugnere l'avviso delle novità occorse in Genova, città distante
non più di trenta miglia. Conobbesi ben tosto che penserebbe quella
repubblica al soccorso di Savona; e però ordine fu dato che dal
Mondovì, da Asti e da altri luoghi del Piemonte colà frettolosamente
passassero alcuni battaglioni di truppe regolate e molte migliaia di
miliziotti, per rinforzare quell'assedio, ed accelerare un sì rilevante
conquisto. In fatti non trascurarono i Genovesi di spignere a quella
volta per mare un grosso convoglio di gente e di munizioni da bocca e
da guerra, scortato da tre galere. Inviarono anche per terra un corpo
di forse tre o quattro mila volontarii pagati nondimeno dal pubblico;
ma inviarono tutto indarno. Veleggiavano per quel mare le navi inglesi,
che avrebbero ingoiato il convoglio, forzato perciò a retrocedere;
e per terra esso conte della Rocca con forze molto superiori venne
incontro alle brigate genovesi di terra; laonde queste giudicarono
meglio di riserbare ad altre occasioni la loro bravura. Continuarono
pertanto le ostilità e gli assalti, ne' quali perì qualche centinaio
di Piemontesi, talchè la guernigione del castello di Savona composta
di mille e cento uomini, perduta ogni speranza di soccorso, dovette
nel dì 19 di dicembre rendersi prigioniera e cedere la piazza: colpo
ben sensibile ai Genovesi, sì per la qualità del luogo, dove il porto
da essi interrito se risorgesse, siccome uno dei migliori e più sicuri
porti del Mediterraneo, darebbe un gran tracollo al commercio della
stessa Genova, e sì perchè la real casa di Savoia su quella città,
per cessione fattane dai marchesi del Carretto, ha sempre mantenuto
vive le sue ragioni; e queste, colla giunta del possesso, venivano ad
acquistare un incredibil vigore. Trovossi in quella fortezza gran copia
di cannoni di bronzo.
Non provò già un'egual felicità l'impresa di Provenza. Sì perniciosa
influenza ebbero le novità di Genova sopra i disegni degli
Austriaco-Sardi in quelle contrade, che tutti andarono a voto. Da
Genova aveano da venire i grossi cannoni e i mortai per vincere il
forte d'Antibo, e procedere poscia alle offese di Tolone. Di là ancora
si dovea muovere buona parte delle vettovaglie necessarie al campo,
e delle munizioni da guerra. Ebbe il generale _conte di Broun_ un bel
aspettare: s'era cangiato di troppo il sistema delle cose di Genova.
Sicchè tutte le prodezze di quell'esercito si ridussero a fare degli
inutili giocolini sotto Antibo, e a liberamente passeggiare per quella
parte di Provenza, tanto per esigere contribuzioni, quanto per tirarne
foraggi e viveri da far sussistere l'armata. Era giunta, siccome
dissi, l'ala sinistra d'essi fino a Castellana, luogo comodo per far
contribuire le diocesi di Digne, Sanez e Riez dell'alta Provenza.
Niun ostacolo aveano trovato ai lor passi, giacchè il _marchese di
Mirepoix_, troppo smilzo di truppe, andava saltellando qua e là alla
difesa delle rive de' fiumi, ma senza voglia alcuna di affrontarsi co'
nemici. Arrivò poscia al comando dell'armi franzesi in Provenza il
maresciallo _duca di Bellisle_, ed era in cammino a quella volta il
gran distaccamento d'armati mosso dalla Fiandra, per somministrargli
i mezzi di frenare il corso de' nemici, ed anche per obbligarli alla
ritirata. Corrieri sopra corrieri spediva egli per affrettare il loro
arrivo; ma più l'affrettavano i desiderii e le orazioni a Dio de'
Provenzali, che o provavano di fatto o sentivano accostarsi l'oste
nemica. Intanto il _generale Botta_, tenendo forte la Rocchetta, piantò
il suo quartier generale a Novi, e fu rinforzato di nuova gente; ma
perciocchè da gran tempo andava egli chiedendo alla corte di Vienna la
permissione di passare alla sua patria Pavia, per cagione d'alcuni suoi
abituali incomodi di salute, maggiormente rinforzò le suppliche sue per
ottenere questa licenza, e in fine l'ottenne.
Nè si dee tacere che nel di 15 d'agosto dell'anno presente un colpo
di apoplessia portò all'altra vita _Giuseppe Maria Gonzaga_, duca
di Guastalla, principe a cui furono sì familiari le alienazioni
di mente, che stette sempre in mano della duchessa _Maria Eleonora
di Holstein_ sua moglie, e de' ministri il governo di quel popolo:
popolo ben trattato e felice in tal tempo, e popolo che sommamente
deplorò la perdita di lui. Essendo egli mancato senza prole, terminò
quell'illustre ramo della casa Gonzaga, e restò vacante il ducato di
Guastalla, quello di Sabbioneta e il principato di Bozzolo. Al feudo
della sola Guastalla era chiamato il conte di Paredes spagnuolo della
nobil casa della Cerda, in vigore delle imperiali investiture, siccome
discendente da una Gonzaga di quella linea. Sugli allodiali giuste e
incontrastabili ragioni competevano al duca di Modena. Il bello fu che
l'imperadrice regina fece prendere il possesso di tutti quegli Stati e
beni, quasichè fossero dipendenze dello stato di Milano o del ducato di
Mantova: del che fece querele il consiglio dell'imperadore consorte,
con pretenderli spettanti alla sola giurisdizione sua. Fu intorno a
questi tempi che gli Austriaci usarono una prepotenza, la qual certo
non fece onore nè alla nazione alemanna, nè all'augusta imperadrice,
a cui pure stava cotanto a cuore il pregio della giustizia e della
clemenza. Cioè inviarono nel Ferrarese a fare un'esecuzione militare
sugli allodiali della serenissima casa d'Este, benchè spettanti, in
vigore di donazione paterna, in usufrutto alle principesse _Benedetta_
ed _Amalia_ sorelle del duca di Modena, intimando per essi una grossa
contribuzione di danari e di naturali, fiancheggiata dalle minaccie
di vendere tutte le razze de' cavalli, bestie bovine, grani e foraggi
di quelle tenute. Operarono essi nello Stato di Ferrara con autorità
non minore, come se si trattasse di un paese di conquista, e ciò con
detestabil dispregio della sovranità pontifizia. Per non vedere la
rovina di que' beni, forza fu di accordar loro quanto vollero in gran
somma di danaro. Impiegarono poscia il nunzio pontifizio ed anche
l'inviato del re di Sardegna i lor caldi uffizii presso le loro cesaree
maestà, rappresentando il grave torto fatto ad innocenti principesse,
e l'obbligo di rifondere almeno il denaro indebitamente percetto.
Si ha tuttavia da vedere il frutto delle loro istanze, e lo scarico
dell'imperiale coscienza. Nè fu men grande l'altra prepotenza, con
cui trattarono il ducato di Massa di Carrara, non di altro reo, se
non perchè quella duchessa _Maria Teresa Cibò_, sovrano sola di tale
Stato, era congiunta in matrimonio col _principe ereditario_ di Modena.
Da esso popolo ancora colle minaccie di ogni più fiero trattamento
estorsero una rigorosa contribuzione, tuttochè questa non fosse guerra
d'imperio. In che libri mai (convien pur dirlo) studiano talvolta i
potenti cristiani? Certo non sempre in quei del Vangelo. Ma ho fallato.
Doveva io dir ciò non dei principi, che tutti oggidì son buoni, ma di
que' ministri adulatori e senza religione, che tutto fanno lecito al
principe, per maggiormente guadagnarsi l'affetto e la grazia di lui.
Sullo spirare dell'anno presente gran romore ancora cagionò in Napoli
l'affare della sacra inquisizione. Ognun sa quale avversione abbia
sempre mantenuto e professato quel popolo a sì fatto tribunale. Ma
perciocchè la conservazion della religione esige che vi sia pure chi
abbia facoltà di frenare o gastigare chi nutrisce sentimenti e dottrine
contrarie alla medesima; e questo diritto in Italia è radicato almeno
ne' vescovi, aveano gli arcivescovi di Napoli col tacito consenso dei
piissimi regnanti introdotta una spezie di inquisizione, con avere
carceri apposta, consultori, notai e sigillo proprio, per formare
segreti processi, e catturare i delinquenti. Quivi anche si leggeva
scolpito in marmo il nome del _santo uffizio_. Trovò lo zelantissimo
e dignissimo _cardinale Spinelli_, arcivescovo di quella metropoli
così disposte le cose; ed anch'egli teneva in quelle carceri quattro
delinquenti solenni, processati per materia di fede, da due dei quali
fu anche fatta una semipubblica abiura. Però egli pretese di non aver
fatta novità; ma fu poscia preteso il contrario dalla corte. Ne fece
grave doglianza il popolo, commosso da chi più degli altri mirava di
mal occhio come introdotta sotto altro verso l'inquisizione; laonde
l'eletto d'esso popolo, con rappresentare al re turbate le leggi
del regno, e vilipese le antiche e recenti grazie regali in questo
particolare concedute ai suoi sudditi, ebbe maniera d'indurre il re
a pubblicare un editto, in cui annullò e vietò tutto quell'apparato
di novità, bandì due canonici, ed ordinò che da lì avanti la curia
ecclesiastica procedesse solamente per la via ordinaria, e colla
comunicazion de' processi alla secolare, con altri articoli che non
importa riferire; ma con tali formalità, che si potea tenere come
renduta inutile in questo particolare la giurisdizione episcopale.
Giudicò bene la corte di Roma d'inviare a Napoli il _cardinale Landi_,
arcivescovo di Benevento, personaggio di sperimentata saviezza, per
trattare di qualche temperamento all'editto. Qual esito avesse l'andata
di lui, non si riseppe. Solamente fu detto, che affacciatisi alla
di lui carrozza alcuni di quegli arditi popolari, gli minacciarono
fin la perdita della vita, se non si partiva dalla città. Meritossi
il re per quell'alto dal popolo un regalo di trecento mila ducati
di quella moneta. Vuolsi anche aggiugnere, che durando i mali umori
nella Corsica, nè potendo i Genovesi accudire a quegli interessi,
perchè distratti da più importante impegno, le più forti case di
quell'isola tumultuarono di nuovo, discontente del governo di Genova,
quasichè non mantenesse le promesse de' capitoli stabiliti, e insieme
disingannata che altre potenze non davano che parole: s'impadronirono
della città e del castello di Calvi, della fortezza di San Fiorenzo e
di altri luoghi. Avendo poscia chiamati ad una dieta generale i capi
delle pievi, stabilirono una democrazia e reggenza, che da lì innanzi
governasse il paese. Fu detto che dopo avere il popolo in Genova prese
le redini, e ripigliata la libertà, implorasse l'aiuto dei Corsi, con
promettere loro il godimento di qualsiasi antico privilegio. Ma fatta
questa esposizione a gente che più non si fidava, niun buon effetto
produsse. A tanti guai, che renderono quest'anno di troppo lagrimevole
in Lombardia, si aggiunse il flagello dell'epidemia e mortalità
de' buoi, che fece strage in Piemonte e Milanese, e passò anche nel
Reggiano, Modenese e Carpignano, e toccò alquante ville del Bolognese
e Ferrarese. Povere lasciò molte famiglie, e cessò dipoi nel verno.
E tale fu il corso delle bellicose imprese ed avventure di quest'anno
in Italia; alle quali si vuol aggiugnere, che nel dì 29 di giugno la
santità di _papa Benedetto XIV_ con gran solennità celebrò in Roma
la canonizzazione di cinque santi. Fu anche dal medesimo pontefice,
correndo il mese d'aprile approvato un nuovo ordine religioso,
intitolato la congregazione de' _Cherici Scalzi della passion_ di Gesù
Cristo il cui istituto è di promuovere la divozion de' fedeli verso la
stessa passione con le missioni ed altri pii esercizii.
Quanto alle guerre oltramontane, non potè nè pure il verno trattener
l'armi franzesi da nuovi acquisti. Sul principio di febbraio, al
dispetto de' freddi, delle pioggie e dei fanghi, il prode maresciallo
di Francia _conte di Sassonia_, raunato un esercito di quaranta mila
persone, dopo aver preso alcuni forti, all'improvviso si presentò sotto
la riguardevol città di Brusselles, e senza dimora eresse batterie
e minacciò la scalata. Non passò il di 20 di detto mese, che quella
numerosa guernigione di truppe olandesi rendè la città e sè stessa
prigioniera di guerra. Gran treno d'artiglieria quivi si trovò. Immenso
danno e tristezza cagionò nei dì 25 del seguente marzo a tutta la
Francia un orribile incendio, succeduto (non si seppe se per poca
cautela, o per malizia degli uomini) nel gran magazzino della compagnia
dell'Indie, situato nel porto d'Oriente sulle coste marittime della
Bretagna. A più e più milioni si fece montare il danno recato da quelle
fiamme, tanto alla regia camera, che alla compagnia suddetta. D'altro
in questi tempi non risonavano i caffè che di vicina pace, quando tutti
questi aerei castelli svanirono al vedere che il re Cristianissimo
_Luigi XV_ partitosi da Versaglies nel dì 4 di maggio, entrò in
Brusselles, e poscia in Malines, e mise in un gran moto le divisioni
della sua potentissima armata. Conobbesi allora che guerra e non pace
avea anche nell'anno presente a far gemere la Fiandra e l'Italia. Dove
tendessero le mire de' Franzesi, si fece poi palese ad ognuno nel dì
20 del suddetto mese, essendosi presentato un gran corpo d'essi sotto
la nobil ed importante città d'Anversa; ancorchè fosse preveduto questo
colpo, tuttavia gli alleati, siccome troppo inferiori di forze, dovendo
accudire a molti luoghi non l'aveano rinforzata di sufficiente nerbo
di gente per sostenerla. V'entrarono dunque pacificamente i Franzesi,
e tosto si applicarono a formar l'assedio di quella cittadella,
guernita d'un presidio di due mila persone. Non son più quei tempi che
gli assedii durano mesi ed anni. Ai Franzesi spezialmente, che han
raffinata l'arte di prender le piazze, costa poco tempo il forzarle
a capitolare. In fatti, nel dì ultimo di maggio il comandante della
cittadella suddetta giudicò meglio di cederla agli assedianti, con
ottener delle convenevoli condizioni, ma insieme con lasciare ai
Franzesi anche i forti esistenti lungo la Schelda.
Dopo sì glorioso acquisto se ne tornò il re Cristianissimo a
Versaglies, per assistere al parto della delfina; e il principe di
Conty, a cui fu confidato il supremo comando dell'armi in Fiandra,
imprese nel dì 17 di giugno l'assedio della città di Mons. Incamminossi
intanto verso la Fiandra il principe _Carlo di Lorena_, per assumere
il comando dell'armata collegata, nel mentre che lentamente marciava
dalla Germania un copioso corpo di milizie austriache a rinforzarla.
Ma vi arrivò ben tardi, e non mai giunsero l'armi d'essi alleati
a tal nerbo da poter impedire i progressi delle milizie franzesi.
L'aver dovuto accorrere gl'Inglesi, ed anche gli Olandesi, alla guerra
bollente in Iscozia, sconcertò di troppo le lor misure in Fiandra, ed
agevolò ai Franzesi il buon esito d'ogni loro impresa. In fatti, la
sì forte città di Mons, dopo una vigorosa difesa nel dì 12 di luglio
dovette soccombere alla forza dei Franzesi, e la guernigione di circa
cinque mila collegati non potè esentarsi dal restar prigioniera di
guerra. La medesima fortuna corse dipoi la fortezza di san Ghislain,
al cui presidio nel dì 24 di luglio altra condizione non fu accordata
che quella di Mons. Ciò fatto, passarono i Franzesi all'assedio di
Charleroy, piazza che nel dì 2 d'agosto si trovò costretta a mutar
padrone, con restar prigioni di guerra i suoi difensori. Inutili
erano riusciti fin qui tutti i maneggi fatti dalle cesaree maestà per
far dichiarare guerra dell'imperio la presente, avendo i principi e
le città della Germania, fomentate spezialmente dal re di Prussia,
ricusato di far sua la causa dell'augusta casa d'Austria. Nè la corte
di Francia avea mancato di divertir la dieta Germanica dall'entrare
in verun impegno, con assicurarla che dal canto suo non s'inferirebbe
molestia alcuna alle terre dell'imperio. Questo contegno fece credere
a molti che la nazion germanica coll'ultima mutazion di cose si
fosse alquanto emancipata: il che da altri veniva riprovato, sul
riflesso, che il lasciare la briglia al sempre maggiore ingrandimento
della Francia era un preparar catene col tempo alla Germania stessa.
In fatti, non ostante le lor belle promesse, allorchè i Franzesi
s'avvidero di poter fare un bel colpo, non sentirono scrupolo a rompere
i confini delle terre germaniche, e ad impossessarsi nel dì 21 di
agosto di Huy, appartenente al principato di Liegi, e di fortificarlo,
tuttochè sia da credere che assicurassero il cardinale principe di
nulla voler usurpare del suo dominio. L'occupazione di quel posto
avea per mira di obbligare l'esercito collegato a ripassar la Mosa
per la penuria de' viveri, siccome appunto avvenne. Allora fu che il
maresciallo conte di Sassonia si appigliò a formare l'assedio di Namur,
piazza fortissima, se pur alcuna di forte v'ha contro i Franzesi; e
nel dì 11 di settembre cominciarono a far fuoco le batterie. Non era
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