Annali d'Italia, vol. 7 - 42
Era già pervenuta a Voghera l'armata gallispana, ridotta, per quanto
si potè congetturare, a quattordici mila Spagnuoli e sei mila Franzesi,
inseguita sempre e molestata nel viaggio da Usseri e Schiavoni. Giacchè
i Piemontesi non aveano voluto aspettare in Novi l'arrivo di tanti
nemici, e s'era perciò aperta la comunicazione de' Gallispani con
Genova, ed inoltre un corpo di circa otto mila tra Franzesi e Genovesi,
condotto dal _marchese di Mirepoix_, scendendo dalla Bocchetta, era
venuta sino a Gavi, per darsi mano con gli altri: venne dal maresciallo
di Maillebois e dal generale conte di Gages, nel consiglio tenuto
col reale infante e col duca di Modena, fissata l'idea di far alto in
essa Voghera; ed ordinato a questo fine che si facesse per tre giorni
un general foraggio per quelle campagne. Ma ecco improvvisamente
arrivar per mare da Antibo il _marchese della Mina_, o sia _de las
Minas_, spedito per le poste da Madrid, che giunto a Voghera, dopo
aver baciate le mani all'infante _don Filippo_, presentò le regie
patenti, in vigor delle quali, siccome generale più anziano del Gages,
assunse il comando dell'armi spagnuole in Lombardia, subordinato bensì
in apparenza ad esso infante, ma dispotico poi infatti. Ordinò egli
pertanto che tutte le truppe di Spagna si mettessero in viaggio a dì
14 d'agosto alla volta di Genova. Per quanto si opponessero con varie
ragioni i Franzesi, non si mutò parere; laonde anch'essi, scorgendo
rovesciate tutte le già prese misure, per non restar soli indietro, si
videro forzati alla ritirata medesima. Marciava questa armata verso
la Bocchetta, e già scendeva alla volta di Genova, facendosi ognuno
le meraviglie per non sapere intendere come que' generali pensassero
a mantenere migliaia di cavalli fra le angustie e le sterili montagne
di quella capitale: quando in fine si venne a svelar l'intenzione
del generale della Mina, o, per dir meglio, gli ordini segreti a lui
dati dal gabinetto della sua corte, cioè di prender la strada verso
Nizza, e di menar le sue genti fuori d'Italia. Di questa risoluzione,
che fece trasecolare ognuno, si videro in breve gli effetti; perchè
egli, dopo avere spedito per mare tutto quel che potè di artiglierie,
bagagli ed attrezzi, senza ascoltar consigli, senza curar le querele
altrui, cominciò ad inviare parte delle sue truppe per le sommamente
disastrose vie della riviera di Ponente verso la Provenza. L'infante
don Filippo e il duca di Modena, rodendo il freno per così impensata
e disgustosa mutazione di scena, si videro anch'essi forzati dopo
qualche tempo a tener quella medesima via, non sapendo spezialmente il
primo comprendere come s'accordassero con tal novità le proteste del
fratello re Ferdinando, di avere cotanto a cuore i di lui interessi. Fu
allora che non pochi Italiani delle brigate spagnuole non sentendo in
sè voglia di abbandonare il proprio cielo, seppero trovar la maniera di
risparmiare a sè stessi il disagio di quelle marcie sforzate. Il _conte
di Gages_ e il _marchese di Castellar_ s'inviarono innanzi per passare
in Ispagna. Era il Castellar richiamato colà. Al Gages fu lasciato
l'arbitrio di andare o di restar nell'armata; ma anch'egli andò.
Pareva intanto che gli Austriaco-Sardi facessero i ponti d'oro a
quella gente fuggitiva, quasichè non curassero più di pungerla o
di affrettarla, come era seguito a Rottofreddo, e bastasse loro di
vedere sgravata dalle lor armi la Lombardia. Ma tempo vi volle per
ben assicurarsi delle determinazioni de' nemici. Chiarita la ritirata
d'essi alla volta di Genova, allora passato il Po, andarono il
_generale Broun_ e il _principe di Carignano_ con dodici mila armati
ad unirsi a San Giovanni col _generale Botta_. Mossosi poi di là da
Po anche il re di Sardegna, si avanzò sino a Voghera e Rivalta; dove
concorsi tutti i generali, tenuto fu consiglio di guerra, e presa
la risoluzione di procedere avanti contro di Genova. Opponevasi ai
loro passi primieramente Tortona e poi Gavi. Perchè nella prima era
restata una gagliarda guernigione di Spagnuoli e Genovesi, e gran
tempo sarebbe costato l'espugnazion di quella piazza, solamente si
pensò a strignerla con un blocco. A questa impresa furono destinati
alquanti battaglioni, la metà austriaci e la metà savoiardi, che si
postarono sulla collina contro la cittadella; al piano si stese un
corpo di cavalleria. E perciocchè il più della lor gente a cavallo non
occorreva per quell'impresa, e molto meno per la meditata di Genova, fu
inviata a prendere riposo nel Cremonese, Modenese e Guastallese. Nel 19
d'agosto arrivò la vanguardia tedesca col generale Broun a Novi, bella
terra del Genovesato, ma terra troppo bersagliata nelle congiunture
presenti e sottoposta di nuovo ad una contribuzione più rigorosa delle
precedenti. Il castello di Serravalle assalito dagli Austriaco-Sardi, e
perseguitato con due mortari a bombe, non tenne forte che una giornata,
e tornò all'ubbidienza del re di Sardegna. Fattesi poi le necessarie
disposizioni, si prepararono gli Austriaci per inoltrarsi verso Genova,
e nello stesso tempo il suddetto re colla maggior parte delle sue
forze s'inviò verso le valli di Bormida ed Orba, per penetrare nella
riviera genovese di Ponente verso Savona e Finale, a fine d'incomodar
la ritirata de' nemici. Incredibil numero di cavalli perderono gli
Spagnuoli nella precipitosa loro marcia per quelle strade piene di
passi stretti, balze e dirupi. Tuttochè Gavi, vecchia fortezza, fosse
mal provveduta di fortificazioni esteriori, però teneva tal presidio
e treno d'artiglieria, che poteva incomodar di troppo i passaggi degli
Austriaci, e la lor comunicazione colla Lombardia; fu perciò incaricato
il _generale Piccolomini_ di formarne l'assedio; al qual fine da
Alessandria furono spediti cannoni e bombe. Intanto verso il fine
d'agosto s'inoltrò il grosso dell'armata austriaca per Voltaggio alla
volta della Bocchetta, passo fortificato dai Genovesi, e guernito di
alquante compagnie d'essi e di Franzesi. Dopo aver fatto i due generali
Botta e Broun prendere le superiori eminenze del giogo, inviarono
all'assalto di quel sito tre diversi staccamenti di granatieri e
fanti; e, se si ha da prestar fede alle relazioni loro, col sacrifizio
di soli trecento de' loro uomini forzarono i Genovesi a prendere la
fuga coll'abbandono de' cannoni e munizioni che quivi si trovarono.
Pretesero all'incontro i Genovesi di avere sostenuto con vigore, e
renduto vano il primo assalto degli Austriaci, e si preparavano a far
più lunga resistenza, quando furono all'improvviso richiamati dal loro
generale i Franzesi. Non avea mancato in questi tempi il _maresciallo
di Maillebois_ d'incoraggire il governo di Genova, con fargli sapere
l'assistenza delle truppe di suo comando, ed una risoluzione diversa da
quella degli Spagnuoli, che tutti in fine erano marciati verso ponente.
Ma non durò gran tempo la sua promessa, perchè, vago anch'egli di
mettere in salvo sè stesso e tutta la sua gente, la fece sfilare verso
la Francia, lasciando in grave costernazione l'abbandonata infelice
città di Genova. Il tempo fece dipoi conoscere che dalla corte di
Versaglies non dovette essere approvata la di lui condotta, perchè,
richiamato a Parigi, fu posto a sedere, e dato il comando di quella
molto sminuita armata al duca di Bellisle. Se crediamo a' Genovesi
il loro comandante rimasto alla Bocchetta dopo l'abbandonamento de'
Franzesi scrisse tosto al governo, per ricevere ordini più precisi,
esibendosi di poter sostenere quel posto anche per qualche giorno.
L'ordine che venne, fu ch'egli si ritirasse colla sua gente; laonde
non durarono poi gli Austriaci ulteriore fatica per impadronirsene,
con inseguir anche e pizzicare i fuggitivi Genovesi. Liberata da
questo ostacolo l'oste austriaca, non trovò più remora a' suoi passi,
e potè francamente calare buona parte d'essa sino a San Pier d'Arena a
bandiere spiegate, dove nel dì 4 di settembre si vide piantato il suo
quartier generale.
Se battesse il cuore ai cittadini di Genova al trovarsi in così
pericoloso emergente, ben facile e giusto è l'immaginarlo. Fin quando
si vide l'esercito gallispano muovere i passi dalla Lombardia verso
la loro città, ben s'era avveduto quel senato della brutta piega che
prendevano i proprii interessi; e però furono i saggi d'avviso che si
spedissero tosto quattro nobili alle corti di Vienna, Parigi Madrid
e Londra, per quivi cercar le maniere di schivar qualche temuto anzi
preveduto naufragio. Ma guai a quegl'infermi che, presi da micidial
parosismo, aspettano la lor salute da' medici troppo lontani! Il
perchè, peggiorando sempre più i loro affari, que' savii signori,
già convinti d'essere abbandonati da ognuno, ed esposti ai più gravi
pericoli, altra migliore risoluzione in così terribil improvvisata non
seppero prendere, che di trattare d'accordo coi generali della regnante
imperadrice. Non mancavano certamente, se alle apparenze si bada,
forze a quel senato per difendere la città guernita di buone mura,
anzi di doppie mura, di copiosa artiglieria e di grossi magazzini di
grano, ed altri beni quivi lasciati dagli Spagnuoli, e con presidio di
non poche migliaia di truppe regolate. Nè già avea lasciato in quella
strettezza di tempo il governo di distribuir le guardie e milizie
dovunque occorreva, e di disporre le artiglierie ne' siti più proprii
per la difesa della città. Contuttociò battuti dalla parte di terra da'
Tedeschi, angustiati per mare dalle navi inglesi, e perduta la speranza
d'ogni soccorso, che altro potevano aspettar in fine, se non lo
smantellamento delle lor suntuose case e delizie di campagna, ed anche
la propria rovina e schiavitù? Nè pur sapeano essi ciò che si potessero
promettere del numeroso bensì e vivace popolo di quella capitale,
perchè popolo già mal contento, per essergli mancato il guadagno,
e cresciuto lo stento, mentre da tanto tempo, sì dalla banda della
Lombardia, che da quella del mare, veniva difficoltato il trasporto
della legna, carbone, carni e varii altri commestibili; e forse popolo
che declamava contro l'impegno di guerra preso dal consiglio di alcuni
più prepotenti de' nobili. Aggiungasi che fra la dominante nobiltà
ed esso popolo passava bensì in tempo di quiete la corrispondenza
convenevole dell'ubbidienza e del comando, ma non già assai commercio
di amore, stante l'altura con cui trattavano que' signori il minuto
popolo, già degradato dagli antichi onori e privilegii; talmente che
non si potea sperare che alcun d'essi volesse sacrificar le proprie
vite per mantenere in trono tanti principi, che sembravano non curar
molto di farsi amare da' loro sudditi. E se i nemici fossero giunti a
salutar la città colle bombe, potea la poca armonia degli animi far
nascere disegni e desiderii di novità in quella gran popolazione.
Finalmente si trovava la città sì sprovveduta di farine, che la
fame fra pochi dì avrebbe sconcertate tutte le misure. Saggiamente
perciò da quel consiglio fu preso lo spediente di non resistere, e di
comperar più tosto coi meno svantaggiosi patti che fosse possibile la
riconciliazione coll'imperadrice e coi suoi alleati, che di azzardarsi
ad un giuoco in cui poteano perdere tutto.
Eransi già accampate le truppe austriache alle spiaggie del mare,
vagheggiando i movimenti di quello dai più d'essi non prima veduto
elemento. Spezialmente sull'asciutte sponde della Polcevera non pochi
reggimenti d'essi s'erano adagiati; nè sarebbe mai passato per mente
a que' buoni Alemanni che quel picciolo torrente potesse, per così
dire, in un istante cangiarsi in un terribil gigante. Ma nel dì 6 del
suddetto settembre ecco alzarsi per aria un fiero temporale gravido
di fulmini con impetuoso vento e pioggia dirotta, per cui scese sì
gonfia di acque ed orgogliosa essa Polcevera, che trascinò in mare
circa secento persone tra soldati, famigli ed anche alcuni uffiziali,
assaissimi cavalli, muli e bagagli. Guai se questo accidente arrivava
di notte, la terza parte dell'armata periva. Nel giorno stesso dei 4
in cui parte dell'esercito austriaco cominciò a giugnere a San Pier
d'Arena, furono deputati dal consiglio di Genova alcuni senatori
che andassero a riverire il _generale Broun_, condottiere di quel
corpo di gente. Introdotti alla sua udienza, rappresentarono la somma
venerazione della repubblica verso l'augusta imperadrice, mantenuta
anche in questi ultimi tempi, nei quali aveano protestato e tuttavia
protestavano di non aver guerra contro della maestà sua; e che essendo
le di lei milizie entrate nel dominio della repubblica, il governo
inviava ad offrire tutti i più sicuri attestati di amicizia ai di lei
ministri, mettendosi intanto sotto la protezione e in braccio alla
clemenza della cesarea reale maestà sua. Intendeva molto bene il Broun
la lingua italiana; ma non arrivò mai a capire ciò che volesse dire
quella protesta di non aver fatta guerra contro l'augusta sua sovrana.
Pure, senza fermarsi in questo, rispose ai deputati, che stante la
lor premura di godere della cesarea clemenza e protezione, e di non
provare i disordini che potrebbe produrre l'avvicinamento dell'armi
imperiali, egli manderebbe le guardie alle porte della città, affinchè
si prevenisse ogni molestia e sconcerto nel di dentro e al di fuori
d'essa. E perciocchè risposero i deputati, che a ciò ostavano le leggi
fondamentali dello Stato, il generale alterato replicò loro, che non
sapeva di leggi e di statuti, con altre parole brusche, colle quali li
licenziò. Arrivato poi nel giorno appresso il _marchese Botta Adorno_,
primario generale e comandante dell'esercito austriaco, si portarono
a riverirlo i deputati. In lui si trovò più cortesia di parole, ma
insieme ugual premura che fruttasse alla maestà dell'imperadrice la
fortuna presente delle sue armi. Proposero di nuovo que' senatori
la risoluzione della repubblica di mettersi sotto la protezione
d'essa imperadrice, a cui darebbono gli attestati della più riverente
amicizia, con ritirar da Tortona le loro genti; con far cessare le
ostilità del presidio di Gavi; con rimettere tutti i prigionieri, ed
anche i disertori, implorando nondimeno grazia per essi; col congedar
le milizie del paese, e quelle eziandio di fortuna, ritenendo solamente
le consuete per guardia della città, e con esibirsi di somministrare
tutto quanto fosse in lor potere per comodo e servigio dell'armi
austriache, rimettendosi in una totale neutralità per l'avvenire. Le
risposte del generale Botta furono, che darebbe gli ordini, affinchè
l'esercito cesareo reale desistesse da ogni ostilità, ed osservasse
un'esatta disciplina; ma essere necessaria una promessa nella
repubblica di stare agli ordini dell'augustissima imperadrice, dalla
cui clemenza per altro si poteva sperare un buon trattamento: e che,
per sicurezza della lor fede, conveniva dargli in mano una porta della
città; e che intanto si lascierebbe intatta l'autorità del governo, la
libertà e quiete della città. Portate al consiglio queste proposizioni,
furono accettate, e si consegnò al generale Botta la porta di San
Tommaso, sebben poscia egli pretese e volle anche l'altra della
Lanterna.
Nel giorno seguente 6 di settembre portossi personalmente esso marchese
in città per formare una capitolazion provvisionale, la quale sarebbe
poi rimessa all'arbitrio della maestà dell'imperadrice. Ne furono
ben gravose le condizioni; ma giacchè il riccio era entrato in tana,
convenne ricevere le leggi da chi le dava non come contrattante, ma
come vincitore; e furono: Che si consegnassero le porte della città
alle soldatesche dell'imperadrice regina: il che non ebbe poi effetto,
essendosi, come si può credere, tacitamente convenute le parti che
bastassero le due sole già consegnate. Che le truppe regolate, o sia
di fortuna, della repubblica s'intendessero prigioniere di guerra.
Che l'armi tutte della città, e le munizioni da bocca e da guerra
destinate per le milizie, si consegnassero agli uffiziali di sua
maestà. Che lo stesso si intendeva di tutti i bagagli ed effetti
delle truppe gallispane e napoletane, e delle loro persone ancora.
Che il presidio e fortezza di Gavi, se non era per anche renduta, si
rendesse tosto all'armi di essa imperadrice. Che il doge e sei primarii
senatori nel termine di un mese fossero tenuti di passare alla corte
di Vienna, per chiedere perdono dell'errore passato, e per implorare
la cesarea clemenza. Che gli uffiziali e soldati d'essa imperadrice
e de' suoi alleati si mettessero in libertà. Che subito si pagherebbe
la somma di cinquanta mila genovine all'esercito imperiale, a titolo
di rinfresco, e per ottenere il quieto vivere: del resto poi delle
contribuzioni dovea intendersi la repubblica col generale _conte di
Cotech_, autorizzato per tale incumbenza. Che quattro senatori intanto
passerebbero per ostaggi di tal convenzione a Milano. Finalmente che
questo accordo non sortirebbe il suo effetto, finchè non venisse
ratificato dalla corte di Vienna. Tralascio altri meno importanti
articoli. Non si sa che avesse effetto la consegna dell'armi e
munizioni da guerra della città; ma sibbene alle mani dei ministri
austriaci pervennero tutti i magazzini (erano ben molti) spettanti a'
Gallispani; con che quell'esercito, poco prima bisognoso di tutto,
si vide provveduto di tutto; e col ritorno dei disertori, ai quali
fu accordato il perdono, venne aumentato di due mila persone. Non si
tardò a sborsare le cinquanta mila genovine, il ripartimento delle
quali fra gli uffiziali e soldati ebbe l'attestato delle pubbliche
gazzette. Bisogno più non vi fu di trattare e disputare intorno al
resto delle contribuzioni; perciocchè il suddetto conte di Cotech,
commissario generale austriaco, il quale ne sapea più di Bartolo e
Baldo nel suo mestiere, inviò al _doge Brignole_ e senato di Genova una
intimazione scritta di buon inchiostro. In essa esponeva, che essendosi
la repubblica di Genova impegnata in una guerra manifestamente ingiusta
contro la maestà dell'imperadrice regina e de' suoi collegati,
ed aperto il varco a' suoi nemici per invadere gli Stati d'essa
imperadrice e del re di Sardegna; giusta cosa sarebbe stata l'esigere
da essa il rifacimento di tante spese e danni sofferti che ascendevano
a somme inestimabili. Ma che avendo essa repubblica riconosciuto
la mano dell'onnipotente, che l'avea fatta soccombere sotto l'armi
giuste e trionfanti della maestà sua cesarea e reale; ed essendosi
volontariamente offerta di soggiacere agli aggravii che le si doveano
imporre: perciò esso conte di Cotech perentoriamente le facea intendere
di dover pagare alla cassa militare austriaca la somma di _tre milioni
di genovine_ (cioè _nove milioni di fiorini_) in tanti scudi di
argento, e in tre pagamenti: cioè un milione dentro quarantott'ore; un
altro nello spazio di otto giorni; e il terzo nel termine di quindici
giorni: sotto pena di ferro, fuoco e saccheggio, non soddisfacendo
nei termini sopra intimati. Questa fu l'interpretazione che diede il
ministro alla clemenza dell'imperatrice regina, a cui s'era rimessa
quella repubblica.
Aveano gl'infelici Genovesi il coltello alla gola; inutile fu il
reclamare; necessario l'ubbidire. Concorsero dunque le famiglie
più benestanti al pubblico bisogno coll'inviare alla zecca le loro
argenterie; si trasse danaro contante da altri; convenne anche
ricorrere al banco di San Giorgio, depositario del danaro non solo de'
Genovesi, ma di molte altre nazioni; tanto che nel termine di cinque
giorni fu pagato il primo milione. Più tempo vi volle per isborsare
il secondo, non potendo la zecca battere se non partitamente sì
gran copia d'argento. Con parte di quel danaro furono non solamente
soddisfatti di molti mesi trascorsi gli uffiziali austriaci, ma anche
riconosciuto dalla generosità dell'augusta sovrana con proporzionato
regalo il buon servigio de' suoi uffiziali. Parte d'esso tesoro fu
condotto a Milano da riporsi in quel castello. A conto ancora del
pagamento suddetto andò la restituzion delle gioie e di altri arredi
della casa de Medici, impegnati in Genova dal regnante Augusto. Nè si
dee tacere che videsi ancor qui una delle umane vicende. Tanta cura
degl'industriosi Genovesi per raunar ricchezze andò a finire in una sì
trabocchevol tassa di contribuzioni, la quale, tuttochè imposta ad una
città cotanto diviziosa, pure a molti può fare ribrezzo. Non sarebbe ad
una città povera toccato un così indiscreto salasso. E vie più dovette
riuscire sensibile a quella nobil repubblica, perchè accaduto dappoichè
appena ella s'era rimessa dalla lunga febbre maligna della Corsica,
in cui non oso dire quanti milioni essi dicono di avere impiegato, ma
che certamente si può credere costata a lei un'immensità di danaro.
Fama corse che il re di Sardegna si lagnasse, perchè nè pure una
parola si fosse fatta di lui nella capitolazione, e nè pure si fosse
pensato a lui nell'imposta di tanto danaro e nella occupazione di tanti
magazzini. Pari doglianza fu detto che facesse l'ammiraglio inglese.
Ciò che in sì improvvisa e deplorabil rivoluzione dicessero, almen
sotto voce, gli afflitti e battuti Genovesi, non è giunto a mia
notizia. Quel che è certo, entro e fuori d'Italia accompagnata fu la
loro disavventura dal compatimento universale, e fino da chi dianzi
non avea buon cuore per essi. Però dappertutto si scatenarono voci
non men contra degli Spagnuoli che dei Franzesi, detestando i primi,
perchè principalmente da lor venne il precipizio de' Genovesi; e gli
altri, perchè mai non comparvero in Italia nell'anno presente quelle
tante lor truppe che si spacciavano in moto sulle gazzette, e che
avrebbero potuto esentare da sì gran tracollo gl'interessi proprii e
quei de' loro collegati. Aggiugnevano i politici, che quand'anche il
novello re di Spagna avesse preso idee diverse da quelle del padre,
richiedeva nondimeno l'onor della corona che non si sacrificassero
sì obbrobriosamente gli amici ed alleati; e in ogni caso poteva
almeno e doveva il comune esercito procacciare, per mezzo di qualche
capitolazione, condizioni men dure e dannose a chi avea da restare
in abbandono. Finalmente diceano doversi incidere in marmo questo
nuovo esempio, giacchè s'erano dimenticati i vecchi, per ricordo a'
minori potentati del grave pericolo a cui si espongono in collegarsi
co' maggiori; perchè facile è il trovar monarchi tanto applicati
al proprio interesse, che fanno servir gli amici inferiori al loro
vantaggio, con abbandonarli anche alla mala ventura, per risparmiare
a sè stessi l'incomodo di sostenerli. Chi più si figurava di sapere
gli arcani dei gabinetti, spacciò che fra la Spagna, Inghilterra e
Vienna era già conchiuso un segreto accordo, per cui la Spagna dovea
richiamar d'Italia le sue truppe; e gli Inglesi lasciar passare a
Napoli dieci mila Spagnuoli; e l'imperadrice regina fermare a' confini
del Tortonese i passi delle sue truppe: avere i primi soddisfatto
all'impegno, ed aver mancato alla sua parte l'austriaca armata. Di
qua poi essere avvenuto che la Spagna irritata poscia di nuovo s'unì
colla Francia. Tutti sogni di gente sfaccendata. Nè pur tempo vi era
stato per sì fatto maneggio e preteso accordo; e certo l'imperadrice
regina, principessa generosa e d'animo virile, non era capace di
obliar la propria dignità con tradire non solo gli Spagnuoli, ma anche
i mediatori Inglesi, cioè i migliori de' suoi collegati. La comune
credenza pertanto fu, che la Francia non pensò all'abbandono de'
Genovesi; e se il suo maresciallo si lasciò trascinare dall'esempio
degli Spagnuoli, non fu questo approvato dal re Cristianissimo.
Quanto poscia alla corte del re Cattolico, si tenne per fermo, che sui
principii cotanto prevalesse il partito contrario alla vedova _regina
Elisabetta_, che si giugnesse a quella precipitosa risoluzione a cui da
lì a non molto succedette il pentimento, essendo riuscito al gabinetto
di Francia di tener saldo nella lega il re novello di Spagna, ma dopo
essere cotanto peggiorati in Italia i loro affari, e con dover tornare
all'abici, qualora intendessero di calar un'altra volta in Italia. Per
conto poi de' Genovesi poco servì a minorare i loro danni ed affanni
l'altrui compatimento, e il cangiamento di massime nella corte del re
di Spagna. Contuttociò dicevano essi di trovar qualche consolazione in
pensando, che ognuno potea scorgere, non essere le loro disavventure
una conseguenza di qualche loro ambizioso disegno, ma una necessità di
difesa; nè potersi chiamar poco saggio il loro consiglio per l'aderenza
presa con due corone potentissime, le quali sole poteano preservarli
dai minacciati danni: giacchè a nulla aveano servito i tanti loro
ricorsi e richiami alle corti di Vienna, Inghilterra ed Olanda.
Ma lasciamo oramai i Genovesi, per seguitare _Carlo Emmanuele_ re
di Sardegna. Nè pur egli fu pigro a prendere la fortuna pel ciuffo.
Colla maggior diligenza possibile fece egli calar le sue truppe per
l'aspre montagne dell'Apennino sulla riviera di Ponente, a fin di
tagliare la strada, se gli veniva fatto, ai fuggitivi Franzesi; e
fama corse essere mancato poco che l'infante _don Filippo_ e il _duca
di Modena_ non fossero sorpresi nel viaggio. Ma la principal mira
d'esso re erano Savona e il Finale, paesi dietro ai quali s'erano
consumati tanti desiderii de' suoi antenati, e sui quali la real casa
di Savoia manteneva antiche ragioni o pretensioni. Giunsero colà le
sue milizie nel dì 8 di settembre; ed arrivò anche lo stesso re nel
dì seguente a Savona, incontrato dal vescovo e dai magistrati della
città, che andarono a presentargli le chiavi. Colà giunse ancora il
generale Gorani, spedito con alcuni battaglioni austriaci, per darsi
mano a sottomettere il castello assai forte d'essa Savona. Trovavasi
alla difesa di quello un comandante di casa Adorno nobile genovese,
il quale alla chiamata di rendersi diede quella risposta che conveniva
ad un coraggioso e fedele uffiziale; e tanto più perchè fu fatta essa
chiamata per parte del re di Sardegna. Raccontasi che egli dipoi, come
se quella piazza avesse da essere il sepolcro suo, distribuì ai soldati
varii effetti e danari di sua ragione, e nel testamento suo dichiarò
eredi suoi le mogli e i figli di quegli uffiziali che morrebbono nella
difesa: al che egli dipoi si accinse con tutto vigore. Si tardò ben
molto a cominciare le ostilità contra di quel castello, perchè non
poteano volare per le aspre montagne i mortai e l'artiglieria grossa
che occorreva a quell'assedio. Passarono le brigate austriaco-sarde
al Finale, e il forte di quella terra non si fece molto pregare a
capitolar la resa, con restar prigione il presidio, e coll'avere gli
uffiziali ottenuto buon trattamento per loro e per i loro equipaggi.
Giunse colà nel dì 15 di settembre il re di Sardegna; allora fu che,
non potendosi più ritenere l'antico abborrimento di quel popolo al
giogo genovese, scoppiò in segni d'incredibil allegrezza, e con sommo
applauso, ed applauso di cuore accolse il novello sovrano. Proseguì
poscia esso re colle milizie il viaggio, occupando di mano in mano i
posti e le terre che i Franzesi andavano abbandonando, finchè giunse
a Ventimiglia, Villafranca e Montalbano, all'assedio de' quali luoghi
egli fu forzato a dover fermare il piede. Dovunque passarono l'armi
sue vincitrici, segni ne restarono della singolar sua moderazione
e della savia sua maniera di trattare chiunque a lui si arrendeva.
Non la voleva egli contra la borsa di que' popoli; esatta disciplina
osservavano le sue truppe; solamente, per buona precauzione, levò
l'armi al conquistato paese. Impiegò egli in quei viaggi e nella
conquista della riviera di Ponente il resto di settembre e la metà
d'ottobre; nè altro considerabil avvenimento si contò, se non che il
generale austriaco Gorani, nel riconoscere il posto della Turbia, nel
dì 12 d'esso ottobre perdè la vita; i Franzesi nel dì 18 ripassarono
il Varo; il castello di Ventimiglia nel dì 23 si sottomise all'armi de'
Piemontesi.
Intanto la corte di Vienna, considerando il bell'ascendente dell'armi
sue in Lombardia e nel Genovesato, e già cacciati di là da' monti i
nemici tutti, vagheggiava il bel regno di Napoli, come un premio dovuto
al valore e alla buona fortuna dell'armi sue nell'anno presente. Niun
v'era de' ministri che, ricordevole delle tante pensioni e regali
procedenti una volta da quel fruttuoso paese, non inculcasse venuto
ormai il tempo di riacquistar giustamente ciò che s'era sì miseramente
si potè congetturare, a quattordici mila Spagnuoli e sei mila Franzesi,
inseguita sempre e molestata nel viaggio da Usseri e Schiavoni. Giacchè
i Piemontesi non aveano voluto aspettare in Novi l'arrivo di tanti
nemici, e s'era perciò aperta la comunicazione de' Gallispani con
Genova, ed inoltre un corpo di circa otto mila tra Franzesi e Genovesi,
condotto dal _marchese di Mirepoix_, scendendo dalla Bocchetta, era
venuta sino a Gavi, per darsi mano con gli altri: venne dal maresciallo
di Maillebois e dal generale conte di Gages, nel consiglio tenuto
col reale infante e col duca di Modena, fissata l'idea di far alto in
essa Voghera; ed ordinato a questo fine che si facesse per tre giorni
un general foraggio per quelle campagne. Ma ecco improvvisamente
arrivar per mare da Antibo il _marchese della Mina_, o sia _de las
Minas_, spedito per le poste da Madrid, che giunto a Voghera, dopo
aver baciate le mani all'infante _don Filippo_, presentò le regie
patenti, in vigor delle quali, siccome generale più anziano del Gages,
assunse il comando dell'armi spagnuole in Lombardia, subordinato bensì
in apparenza ad esso infante, ma dispotico poi infatti. Ordinò egli
pertanto che tutte le truppe di Spagna si mettessero in viaggio a dì
14 d'agosto alla volta di Genova. Per quanto si opponessero con varie
ragioni i Franzesi, non si mutò parere; laonde anch'essi, scorgendo
rovesciate tutte le già prese misure, per non restar soli indietro, si
videro forzati alla ritirata medesima. Marciava questa armata verso
la Bocchetta, e già scendeva alla volta di Genova, facendosi ognuno
le meraviglie per non sapere intendere come que' generali pensassero
a mantenere migliaia di cavalli fra le angustie e le sterili montagne
di quella capitale: quando in fine si venne a svelar l'intenzione
del generale della Mina, o, per dir meglio, gli ordini segreti a lui
dati dal gabinetto della sua corte, cioè di prender la strada verso
Nizza, e di menar le sue genti fuori d'Italia. Di questa risoluzione,
che fece trasecolare ognuno, si videro in breve gli effetti; perchè
egli, dopo avere spedito per mare tutto quel che potè di artiglierie,
bagagli ed attrezzi, senza ascoltar consigli, senza curar le querele
altrui, cominciò ad inviare parte delle sue truppe per le sommamente
disastrose vie della riviera di Ponente verso la Provenza. L'infante
don Filippo e il duca di Modena, rodendo il freno per così impensata
e disgustosa mutazione di scena, si videro anch'essi forzati dopo
qualche tempo a tener quella medesima via, non sapendo spezialmente il
primo comprendere come s'accordassero con tal novità le proteste del
fratello re Ferdinando, di avere cotanto a cuore i di lui interessi. Fu
allora che non pochi Italiani delle brigate spagnuole non sentendo in
sè voglia di abbandonare il proprio cielo, seppero trovar la maniera di
risparmiare a sè stessi il disagio di quelle marcie sforzate. Il _conte
di Gages_ e il _marchese di Castellar_ s'inviarono innanzi per passare
in Ispagna. Era il Castellar richiamato colà. Al Gages fu lasciato
l'arbitrio di andare o di restar nell'armata; ma anch'egli andò.
Pareva intanto che gli Austriaco-Sardi facessero i ponti d'oro a
quella gente fuggitiva, quasichè non curassero più di pungerla o
di affrettarla, come era seguito a Rottofreddo, e bastasse loro di
vedere sgravata dalle lor armi la Lombardia. Ma tempo vi volle per
ben assicurarsi delle determinazioni de' nemici. Chiarita la ritirata
d'essi alla volta di Genova, allora passato il Po, andarono il
_generale Broun_ e il _principe di Carignano_ con dodici mila armati
ad unirsi a San Giovanni col _generale Botta_. Mossosi poi di là da
Po anche il re di Sardegna, si avanzò sino a Voghera e Rivalta; dove
concorsi tutti i generali, tenuto fu consiglio di guerra, e presa
la risoluzione di procedere avanti contro di Genova. Opponevasi ai
loro passi primieramente Tortona e poi Gavi. Perchè nella prima era
restata una gagliarda guernigione di Spagnuoli e Genovesi, e gran
tempo sarebbe costato l'espugnazion di quella piazza, solamente si
pensò a strignerla con un blocco. A questa impresa furono destinati
alquanti battaglioni, la metà austriaci e la metà savoiardi, che si
postarono sulla collina contro la cittadella; al piano si stese un
corpo di cavalleria. E perciocchè il più della lor gente a cavallo non
occorreva per quell'impresa, e molto meno per la meditata di Genova, fu
inviata a prendere riposo nel Cremonese, Modenese e Guastallese. Nel 19
d'agosto arrivò la vanguardia tedesca col generale Broun a Novi, bella
terra del Genovesato, ma terra troppo bersagliata nelle congiunture
presenti e sottoposta di nuovo ad una contribuzione più rigorosa delle
precedenti. Il castello di Serravalle assalito dagli Austriaco-Sardi, e
perseguitato con due mortari a bombe, non tenne forte che una giornata,
e tornò all'ubbidienza del re di Sardegna. Fattesi poi le necessarie
disposizioni, si prepararono gli Austriaci per inoltrarsi verso Genova,
e nello stesso tempo il suddetto re colla maggior parte delle sue
forze s'inviò verso le valli di Bormida ed Orba, per penetrare nella
riviera genovese di Ponente verso Savona e Finale, a fine d'incomodar
la ritirata de' nemici. Incredibil numero di cavalli perderono gli
Spagnuoli nella precipitosa loro marcia per quelle strade piene di
passi stretti, balze e dirupi. Tuttochè Gavi, vecchia fortezza, fosse
mal provveduta di fortificazioni esteriori, però teneva tal presidio
e treno d'artiglieria, che poteva incomodar di troppo i passaggi degli
Austriaci, e la lor comunicazione colla Lombardia; fu perciò incaricato
il _generale Piccolomini_ di formarne l'assedio; al qual fine da
Alessandria furono spediti cannoni e bombe. Intanto verso il fine
d'agosto s'inoltrò il grosso dell'armata austriaca per Voltaggio alla
volta della Bocchetta, passo fortificato dai Genovesi, e guernito di
alquante compagnie d'essi e di Franzesi. Dopo aver fatto i due generali
Botta e Broun prendere le superiori eminenze del giogo, inviarono
all'assalto di quel sito tre diversi staccamenti di granatieri e
fanti; e, se si ha da prestar fede alle relazioni loro, col sacrifizio
di soli trecento de' loro uomini forzarono i Genovesi a prendere la
fuga coll'abbandono de' cannoni e munizioni che quivi si trovarono.
Pretesero all'incontro i Genovesi di avere sostenuto con vigore, e
renduto vano il primo assalto degli Austriaci, e si preparavano a far
più lunga resistenza, quando furono all'improvviso richiamati dal loro
generale i Franzesi. Non avea mancato in questi tempi il _maresciallo
di Maillebois_ d'incoraggire il governo di Genova, con fargli sapere
l'assistenza delle truppe di suo comando, ed una risoluzione diversa da
quella degli Spagnuoli, che tutti in fine erano marciati verso ponente.
Ma non durò gran tempo la sua promessa, perchè, vago anch'egli di
mettere in salvo sè stesso e tutta la sua gente, la fece sfilare verso
la Francia, lasciando in grave costernazione l'abbandonata infelice
città di Genova. Il tempo fece dipoi conoscere che dalla corte di
Versaglies non dovette essere approvata la di lui condotta, perchè,
richiamato a Parigi, fu posto a sedere, e dato il comando di quella
molto sminuita armata al duca di Bellisle. Se crediamo a' Genovesi
il loro comandante rimasto alla Bocchetta dopo l'abbandonamento de'
Franzesi scrisse tosto al governo, per ricevere ordini più precisi,
esibendosi di poter sostenere quel posto anche per qualche giorno.
L'ordine che venne, fu ch'egli si ritirasse colla sua gente; laonde
non durarono poi gli Austriaci ulteriore fatica per impadronirsene,
con inseguir anche e pizzicare i fuggitivi Genovesi. Liberata da
questo ostacolo l'oste austriaca, non trovò più remora a' suoi passi,
e potè francamente calare buona parte d'essa sino a San Pier d'Arena a
bandiere spiegate, dove nel dì 4 di settembre si vide piantato il suo
quartier generale.
Se battesse il cuore ai cittadini di Genova al trovarsi in così
pericoloso emergente, ben facile e giusto è l'immaginarlo. Fin quando
si vide l'esercito gallispano muovere i passi dalla Lombardia verso
la loro città, ben s'era avveduto quel senato della brutta piega che
prendevano i proprii interessi; e però furono i saggi d'avviso che si
spedissero tosto quattro nobili alle corti di Vienna, Parigi Madrid
e Londra, per quivi cercar le maniere di schivar qualche temuto anzi
preveduto naufragio. Ma guai a quegl'infermi che, presi da micidial
parosismo, aspettano la lor salute da' medici troppo lontani! Il
perchè, peggiorando sempre più i loro affari, que' savii signori,
già convinti d'essere abbandonati da ognuno, ed esposti ai più gravi
pericoli, altra migliore risoluzione in così terribil improvvisata non
seppero prendere, che di trattare d'accordo coi generali della regnante
imperadrice. Non mancavano certamente, se alle apparenze si bada,
forze a quel senato per difendere la città guernita di buone mura,
anzi di doppie mura, di copiosa artiglieria e di grossi magazzini di
grano, ed altri beni quivi lasciati dagli Spagnuoli, e con presidio di
non poche migliaia di truppe regolate. Nè già avea lasciato in quella
strettezza di tempo il governo di distribuir le guardie e milizie
dovunque occorreva, e di disporre le artiglierie ne' siti più proprii
per la difesa della città. Contuttociò battuti dalla parte di terra da'
Tedeschi, angustiati per mare dalle navi inglesi, e perduta la speranza
d'ogni soccorso, che altro potevano aspettar in fine, se non lo
smantellamento delle lor suntuose case e delizie di campagna, ed anche
la propria rovina e schiavitù? Nè pur sapeano essi ciò che si potessero
promettere del numeroso bensì e vivace popolo di quella capitale,
perchè popolo già mal contento, per essergli mancato il guadagno,
e cresciuto lo stento, mentre da tanto tempo, sì dalla banda della
Lombardia, che da quella del mare, veniva difficoltato il trasporto
della legna, carbone, carni e varii altri commestibili; e forse popolo
che declamava contro l'impegno di guerra preso dal consiglio di alcuni
più prepotenti de' nobili. Aggiungasi che fra la dominante nobiltà
ed esso popolo passava bensì in tempo di quiete la corrispondenza
convenevole dell'ubbidienza e del comando, ma non già assai commercio
di amore, stante l'altura con cui trattavano que' signori il minuto
popolo, già degradato dagli antichi onori e privilegii; talmente che
non si potea sperare che alcun d'essi volesse sacrificar le proprie
vite per mantenere in trono tanti principi, che sembravano non curar
molto di farsi amare da' loro sudditi. E se i nemici fossero giunti a
salutar la città colle bombe, potea la poca armonia degli animi far
nascere disegni e desiderii di novità in quella gran popolazione.
Finalmente si trovava la città sì sprovveduta di farine, che la
fame fra pochi dì avrebbe sconcertate tutte le misure. Saggiamente
perciò da quel consiglio fu preso lo spediente di non resistere, e di
comperar più tosto coi meno svantaggiosi patti che fosse possibile la
riconciliazione coll'imperadrice e coi suoi alleati, che di azzardarsi
ad un giuoco in cui poteano perdere tutto.
Eransi già accampate le truppe austriache alle spiaggie del mare,
vagheggiando i movimenti di quello dai più d'essi non prima veduto
elemento. Spezialmente sull'asciutte sponde della Polcevera non pochi
reggimenti d'essi s'erano adagiati; nè sarebbe mai passato per mente
a que' buoni Alemanni che quel picciolo torrente potesse, per così
dire, in un istante cangiarsi in un terribil gigante. Ma nel dì 6 del
suddetto settembre ecco alzarsi per aria un fiero temporale gravido
di fulmini con impetuoso vento e pioggia dirotta, per cui scese sì
gonfia di acque ed orgogliosa essa Polcevera, che trascinò in mare
circa secento persone tra soldati, famigli ed anche alcuni uffiziali,
assaissimi cavalli, muli e bagagli. Guai se questo accidente arrivava
di notte, la terza parte dell'armata periva. Nel giorno stesso dei 4
in cui parte dell'esercito austriaco cominciò a giugnere a San Pier
d'Arena, furono deputati dal consiglio di Genova alcuni senatori
che andassero a riverire il _generale Broun_, condottiere di quel
corpo di gente. Introdotti alla sua udienza, rappresentarono la somma
venerazione della repubblica verso l'augusta imperadrice, mantenuta
anche in questi ultimi tempi, nei quali aveano protestato e tuttavia
protestavano di non aver guerra contro della maestà sua; e che essendo
le di lei milizie entrate nel dominio della repubblica, il governo
inviava ad offrire tutti i più sicuri attestati di amicizia ai di lei
ministri, mettendosi intanto sotto la protezione e in braccio alla
clemenza della cesarea reale maestà sua. Intendeva molto bene il Broun
la lingua italiana; ma non arrivò mai a capire ciò che volesse dire
quella protesta di non aver fatta guerra contro l'augusta sua sovrana.
Pure, senza fermarsi in questo, rispose ai deputati, che stante la
lor premura di godere della cesarea clemenza e protezione, e di non
provare i disordini che potrebbe produrre l'avvicinamento dell'armi
imperiali, egli manderebbe le guardie alle porte della città, affinchè
si prevenisse ogni molestia e sconcerto nel di dentro e al di fuori
d'essa. E perciocchè risposero i deputati, che a ciò ostavano le leggi
fondamentali dello Stato, il generale alterato replicò loro, che non
sapeva di leggi e di statuti, con altre parole brusche, colle quali li
licenziò. Arrivato poi nel giorno appresso il _marchese Botta Adorno_,
primario generale e comandante dell'esercito austriaco, si portarono
a riverirlo i deputati. In lui si trovò più cortesia di parole, ma
insieme ugual premura che fruttasse alla maestà dell'imperadrice la
fortuna presente delle sue armi. Proposero di nuovo que' senatori
la risoluzione della repubblica di mettersi sotto la protezione
d'essa imperadrice, a cui darebbono gli attestati della più riverente
amicizia, con ritirar da Tortona le loro genti; con far cessare le
ostilità del presidio di Gavi; con rimettere tutti i prigionieri, ed
anche i disertori, implorando nondimeno grazia per essi; col congedar
le milizie del paese, e quelle eziandio di fortuna, ritenendo solamente
le consuete per guardia della città, e con esibirsi di somministrare
tutto quanto fosse in lor potere per comodo e servigio dell'armi
austriache, rimettendosi in una totale neutralità per l'avvenire. Le
risposte del generale Botta furono, che darebbe gli ordini, affinchè
l'esercito cesareo reale desistesse da ogni ostilità, ed osservasse
un'esatta disciplina; ma essere necessaria una promessa nella
repubblica di stare agli ordini dell'augustissima imperadrice, dalla
cui clemenza per altro si poteva sperare un buon trattamento: e che,
per sicurezza della lor fede, conveniva dargli in mano una porta della
città; e che intanto si lascierebbe intatta l'autorità del governo, la
libertà e quiete della città. Portate al consiglio queste proposizioni,
furono accettate, e si consegnò al generale Botta la porta di San
Tommaso, sebben poscia egli pretese e volle anche l'altra della
Lanterna.
Nel giorno seguente 6 di settembre portossi personalmente esso marchese
in città per formare una capitolazion provvisionale, la quale sarebbe
poi rimessa all'arbitrio della maestà dell'imperadrice. Ne furono
ben gravose le condizioni; ma giacchè il riccio era entrato in tana,
convenne ricevere le leggi da chi le dava non come contrattante, ma
come vincitore; e furono: Che si consegnassero le porte della città
alle soldatesche dell'imperadrice regina: il che non ebbe poi effetto,
essendosi, come si può credere, tacitamente convenute le parti che
bastassero le due sole già consegnate. Che le truppe regolate, o sia
di fortuna, della repubblica s'intendessero prigioniere di guerra.
Che l'armi tutte della città, e le munizioni da bocca e da guerra
destinate per le milizie, si consegnassero agli uffiziali di sua
maestà. Che lo stesso si intendeva di tutti i bagagli ed effetti
delle truppe gallispane e napoletane, e delle loro persone ancora.
Che il presidio e fortezza di Gavi, se non era per anche renduta, si
rendesse tosto all'armi di essa imperadrice. Che il doge e sei primarii
senatori nel termine di un mese fossero tenuti di passare alla corte
di Vienna, per chiedere perdono dell'errore passato, e per implorare
la cesarea clemenza. Che gli uffiziali e soldati d'essa imperadrice
e de' suoi alleati si mettessero in libertà. Che subito si pagherebbe
la somma di cinquanta mila genovine all'esercito imperiale, a titolo
di rinfresco, e per ottenere il quieto vivere: del resto poi delle
contribuzioni dovea intendersi la repubblica col generale _conte di
Cotech_, autorizzato per tale incumbenza. Che quattro senatori intanto
passerebbero per ostaggi di tal convenzione a Milano. Finalmente che
questo accordo non sortirebbe il suo effetto, finchè non venisse
ratificato dalla corte di Vienna. Tralascio altri meno importanti
articoli. Non si sa che avesse effetto la consegna dell'armi e
munizioni da guerra della città; ma sibbene alle mani dei ministri
austriaci pervennero tutti i magazzini (erano ben molti) spettanti a'
Gallispani; con che quell'esercito, poco prima bisognoso di tutto,
si vide provveduto di tutto; e col ritorno dei disertori, ai quali
fu accordato il perdono, venne aumentato di due mila persone. Non si
tardò a sborsare le cinquanta mila genovine, il ripartimento delle
quali fra gli uffiziali e soldati ebbe l'attestato delle pubbliche
gazzette. Bisogno più non vi fu di trattare e disputare intorno al
resto delle contribuzioni; perciocchè il suddetto conte di Cotech,
commissario generale austriaco, il quale ne sapea più di Bartolo e
Baldo nel suo mestiere, inviò al _doge Brignole_ e senato di Genova una
intimazione scritta di buon inchiostro. In essa esponeva, che essendosi
la repubblica di Genova impegnata in una guerra manifestamente ingiusta
contro la maestà dell'imperadrice regina e de' suoi collegati,
ed aperto il varco a' suoi nemici per invadere gli Stati d'essa
imperadrice e del re di Sardegna; giusta cosa sarebbe stata l'esigere
da essa il rifacimento di tante spese e danni sofferti che ascendevano
a somme inestimabili. Ma che avendo essa repubblica riconosciuto
la mano dell'onnipotente, che l'avea fatta soccombere sotto l'armi
giuste e trionfanti della maestà sua cesarea e reale; ed essendosi
volontariamente offerta di soggiacere agli aggravii che le si doveano
imporre: perciò esso conte di Cotech perentoriamente le facea intendere
di dover pagare alla cassa militare austriaca la somma di _tre milioni
di genovine_ (cioè _nove milioni di fiorini_) in tanti scudi di
argento, e in tre pagamenti: cioè un milione dentro quarantott'ore; un
altro nello spazio di otto giorni; e il terzo nel termine di quindici
giorni: sotto pena di ferro, fuoco e saccheggio, non soddisfacendo
nei termini sopra intimati. Questa fu l'interpretazione che diede il
ministro alla clemenza dell'imperatrice regina, a cui s'era rimessa
quella repubblica.
Aveano gl'infelici Genovesi il coltello alla gola; inutile fu il
reclamare; necessario l'ubbidire. Concorsero dunque le famiglie
più benestanti al pubblico bisogno coll'inviare alla zecca le loro
argenterie; si trasse danaro contante da altri; convenne anche
ricorrere al banco di San Giorgio, depositario del danaro non solo de'
Genovesi, ma di molte altre nazioni; tanto che nel termine di cinque
giorni fu pagato il primo milione. Più tempo vi volle per isborsare
il secondo, non potendo la zecca battere se non partitamente sì
gran copia d'argento. Con parte di quel danaro furono non solamente
soddisfatti di molti mesi trascorsi gli uffiziali austriaci, ma anche
riconosciuto dalla generosità dell'augusta sovrana con proporzionato
regalo il buon servigio de' suoi uffiziali. Parte d'esso tesoro fu
condotto a Milano da riporsi in quel castello. A conto ancora del
pagamento suddetto andò la restituzion delle gioie e di altri arredi
della casa de Medici, impegnati in Genova dal regnante Augusto. Nè si
dee tacere che videsi ancor qui una delle umane vicende. Tanta cura
degl'industriosi Genovesi per raunar ricchezze andò a finire in una sì
trabocchevol tassa di contribuzioni, la quale, tuttochè imposta ad una
città cotanto diviziosa, pure a molti può fare ribrezzo. Non sarebbe ad
una città povera toccato un così indiscreto salasso. E vie più dovette
riuscire sensibile a quella nobil repubblica, perchè accaduto dappoichè
appena ella s'era rimessa dalla lunga febbre maligna della Corsica,
in cui non oso dire quanti milioni essi dicono di avere impiegato, ma
che certamente si può credere costata a lei un'immensità di danaro.
Fama corse che il re di Sardegna si lagnasse, perchè nè pure una
parola si fosse fatta di lui nella capitolazione, e nè pure si fosse
pensato a lui nell'imposta di tanto danaro e nella occupazione di tanti
magazzini. Pari doglianza fu detto che facesse l'ammiraglio inglese.
Ciò che in sì improvvisa e deplorabil rivoluzione dicessero, almen
sotto voce, gli afflitti e battuti Genovesi, non è giunto a mia
notizia. Quel che è certo, entro e fuori d'Italia accompagnata fu la
loro disavventura dal compatimento universale, e fino da chi dianzi
non avea buon cuore per essi. Però dappertutto si scatenarono voci
non men contra degli Spagnuoli che dei Franzesi, detestando i primi,
perchè principalmente da lor venne il precipizio de' Genovesi; e gli
altri, perchè mai non comparvero in Italia nell'anno presente quelle
tante lor truppe che si spacciavano in moto sulle gazzette, e che
avrebbero potuto esentare da sì gran tracollo gl'interessi proprii e
quei de' loro collegati. Aggiugnevano i politici, che quand'anche il
novello re di Spagna avesse preso idee diverse da quelle del padre,
richiedeva nondimeno l'onor della corona che non si sacrificassero
sì obbrobriosamente gli amici ed alleati; e in ogni caso poteva
almeno e doveva il comune esercito procacciare, per mezzo di qualche
capitolazione, condizioni men dure e dannose a chi avea da restare
in abbandono. Finalmente diceano doversi incidere in marmo questo
nuovo esempio, giacchè s'erano dimenticati i vecchi, per ricordo a'
minori potentati del grave pericolo a cui si espongono in collegarsi
co' maggiori; perchè facile è il trovar monarchi tanto applicati
al proprio interesse, che fanno servir gli amici inferiori al loro
vantaggio, con abbandonarli anche alla mala ventura, per risparmiare
a sè stessi l'incomodo di sostenerli. Chi più si figurava di sapere
gli arcani dei gabinetti, spacciò che fra la Spagna, Inghilterra e
Vienna era già conchiuso un segreto accordo, per cui la Spagna dovea
richiamar d'Italia le sue truppe; e gli Inglesi lasciar passare a
Napoli dieci mila Spagnuoli; e l'imperadrice regina fermare a' confini
del Tortonese i passi delle sue truppe: avere i primi soddisfatto
all'impegno, ed aver mancato alla sua parte l'austriaca armata. Di
qua poi essere avvenuto che la Spagna irritata poscia di nuovo s'unì
colla Francia. Tutti sogni di gente sfaccendata. Nè pur tempo vi era
stato per sì fatto maneggio e preteso accordo; e certo l'imperadrice
regina, principessa generosa e d'animo virile, non era capace di
obliar la propria dignità con tradire non solo gli Spagnuoli, ma anche
i mediatori Inglesi, cioè i migliori de' suoi collegati. La comune
credenza pertanto fu, che la Francia non pensò all'abbandono de'
Genovesi; e se il suo maresciallo si lasciò trascinare dall'esempio
degli Spagnuoli, non fu questo approvato dal re Cristianissimo.
Quanto poscia alla corte del re Cattolico, si tenne per fermo, che sui
principii cotanto prevalesse il partito contrario alla vedova _regina
Elisabetta_, che si giugnesse a quella precipitosa risoluzione a cui da
lì a non molto succedette il pentimento, essendo riuscito al gabinetto
di Francia di tener saldo nella lega il re novello di Spagna, ma dopo
essere cotanto peggiorati in Italia i loro affari, e con dover tornare
all'abici, qualora intendessero di calar un'altra volta in Italia. Per
conto poi de' Genovesi poco servì a minorare i loro danni ed affanni
l'altrui compatimento, e il cangiamento di massime nella corte del re
di Spagna. Contuttociò dicevano essi di trovar qualche consolazione in
pensando, che ognuno potea scorgere, non essere le loro disavventure
una conseguenza di qualche loro ambizioso disegno, ma una necessità di
difesa; nè potersi chiamar poco saggio il loro consiglio per l'aderenza
presa con due corone potentissime, le quali sole poteano preservarli
dai minacciati danni: giacchè a nulla aveano servito i tanti loro
ricorsi e richiami alle corti di Vienna, Inghilterra ed Olanda.
Ma lasciamo oramai i Genovesi, per seguitare _Carlo Emmanuele_ re
di Sardegna. Nè pur egli fu pigro a prendere la fortuna pel ciuffo.
Colla maggior diligenza possibile fece egli calar le sue truppe per
l'aspre montagne dell'Apennino sulla riviera di Ponente, a fin di
tagliare la strada, se gli veniva fatto, ai fuggitivi Franzesi; e
fama corse essere mancato poco che l'infante _don Filippo_ e il _duca
di Modena_ non fossero sorpresi nel viaggio. Ma la principal mira
d'esso re erano Savona e il Finale, paesi dietro ai quali s'erano
consumati tanti desiderii de' suoi antenati, e sui quali la real casa
di Savoia manteneva antiche ragioni o pretensioni. Giunsero colà le
sue milizie nel dì 8 di settembre; ed arrivò anche lo stesso re nel
dì seguente a Savona, incontrato dal vescovo e dai magistrati della
città, che andarono a presentargli le chiavi. Colà giunse ancora il
generale Gorani, spedito con alcuni battaglioni austriaci, per darsi
mano a sottomettere il castello assai forte d'essa Savona. Trovavasi
alla difesa di quello un comandante di casa Adorno nobile genovese,
il quale alla chiamata di rendersi diede quella risposta che conveniva
ad un coraggioso e fedele uffiziale; e tanto più perchè fu fatta essa
chiamata per parte del re di Sardegna. Raccontasi che egli dipoi, come
se quella piazza avesse da essere il sepolcro suo, distribuì ai soldati
varii effetti e danari di sua ragione, e nel testamento suo dichiarò
eredi suoi le mogli e i figli di quegli uffiziali che morrebbono nella
difesa: al che egli dipoi si accinse con tutto vigore. Si tardò ben
molto a cominciare le ostilità contra di quel castello, perchè non
poteano volare per le aspre montagne i mortai e l'artiglieria grossa
che occorreva a quell'assedio. Passarono le brigate austriaco-sarde
al Finale, e il forte di quella terra non si fece molto pregare a
capitolar la resa, con restar prigione il presidio, e coll'avere gli
uffiziali ottenuto buon trattamento per loro e per i loro equipaggi.
Giunse colà nel dì 15 di settembre il re di Sardegna; allora fu che,
non potendosi più ritenere l'antico abborrimento di quel popolo al
giogo genovese, scoppiò in segni d'incredibil allegrezza, e con sommo
applauso, ed applauso di cuore accolse il novello sovrano. Proseguì
poscia esso re colle milizie il viaggio, occupando di mano in mano i
posti e le terre che i Franzesi andavano abbandonando, finchè giunse
a Ventimiglia, Villafranca e Montalbano, all'assedio de' quali luoghi
egli fu forzato a dover fermare il piede. Dovunque passarono l'armi
sue vincitrici, segni ne restarono della singolar sua moderazione
e della savia sua maniera di trattare chiunque a lui si arrendeva.
Non la voleva egli contra la borsa di que' popoli; esatta disciplina
osservavano le sue truppe; solamente, per buona precauzione, levò
l'armi al conquistato paese. Impiegò egli in quei viaggi e nella
conquista della riviera di Ponente il resto di settembre e la metà
d'ottobre; nè altro considerabil avvenimento si contò, se non che il
generale austriaco Gorani, nel riconoscere il posto della Turbia, nel
dì 12 d'esso ottobre perdè la vita; i Franzesi nel dì 18 ripassarono
il Varo; il castello di Ventimiglia nel dì 23 si sottomise all'armi de'
Piemontesi.
Intanto la corte di Vienna, considerando il bell'ascendente dell'armi
sue in Lombardia e nel Genovesato, e già cacciati di là da' monti i
nemici tutti, vagheggiava il bel regno di Napoli, come un premio dovuto
al valore e alla buona fortuna dell'armi sue nell'anno presente. Niun
v'era de' ministri che, ricordevole delle tante pensioni e regali
procedenti una volta da quel fruttuoso paese, non inculcasse venuto
ormai il tempo di riacquistar giustamente ciò che s'era sì miseramente
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