Annali d'Italia, vol. 7 - 41

di venire ad un fatto d'armi. Il perchè notte e giorno stettero in
armi i Tedeschi, per non essere colti sprovvisti, e fu chiamato da
Firenzuola il supremo comandante _principe di Lictenstein_, che colà
trasferitosi per cercare riposo alla sua indisposizione d'asma, avea
lasciata la direzion dell'armi, al _marchese Antoniotto Botta Adorno_,
cavaliere di Malta, generale di artiglieria, a cui per l'anzianità del
grado conveniva appunto quel comando. Fu anche richiamata al campo
la maggior parte della gente comandata dal generale Roth, che era
a Pizzighettone. Dappoichè nel dì 15 di giugno ebbero preso riposo
le truppe franzesi, e dopo avere il maresciallo di Maillebois, il
duca di Modena e il generale Gages nel consiglio di guerra tenuto
in camera del real infante don Filippo, stabilita la maniera di
procedere al meditato conflitto, sull'imbrunir della sera cominciarono
ad ordinare col maggior possibile silenzio le loro schiere; formando
tre principali colonne, per assalire da tre parti il campo tedesco.
Tale era il loro disegno. L'ala diritta, comandata dal Maillebois coi
Franzesi, rinforzati da alquanti battaglioni e squadroni spagnuoli,
dovea pervenire alla collina, e, dietro ad essa camminando, assalire
alla schiena il nemico accampamento, dove nè buoni trincieramenti, nè
preparamento di artiglierie si ritrovavano. Dovea fare altrettanto
l'ala sinistra, marciando al Po morto per le due vie, l'una maestra
e l'altra più breve, che da Piacenza guidano verso Cremona. Il
centro o sia corpo di battaglia, che era in faccia al seminario di
San Lazzaro sulla via maestra o sia Claudia, dovea tenere a bada ed
occupar l'altre forze degli Austriaci, la prima linea de' quali era
postata in vicinanze d'esso seminario, e la seconda non molto distante
dal fiume Nura. Conto si facea che l'oste austriaca ascendesse a
circa trentacinque o quaranta mila combattenti, e la gallispana a
quarantacinque mila; se non che voce comune correa fra essi Spagnuoli e
Franzesi d'esser eglino superiori di quindici mila persone ai nemici;
talmente che, attesa la decantata presunzione, che i più vincono i
meno, non si può dire con che allegria e coraggio uscissero di Piacenza
e fuori de' lor trincieramenti le truppe gallispane, parendo a ciascuno
di andare non ad un pericoloso cimento, ma ad un sicuro trionfo.
All'oste austriaca non mancarono sicuri avvisi di quanto meditavano i
nemici, e però si trovarono ben preparati a quella fiera danza.
Sulla mezza notte adunque precedente il dì 16 di giugno marciò
segretamente il maresciallo franzese Maillebois colle sue milizie,
e dopo aver occupato Gossolengo, credette di prendere il giro sotto
la collina; ma o perchè mal guidato, o perchè non fossero a lui noti
tutti i posti avanzati de' Tedeschi, andò ad urtare in alcune cascine
guernite dai medesimi, e quivi si cominciò a far fuoco, e a metter
l'all'armi in tutto il campo austriaco. Oltre alla strage di molti
Schiavoni, Usseri ed altri, che erano, o accorsero in quella parte,
fecero prigionieri circa quattrocento uomini, che tosto inviarono alla
città con due piccioli pezzi di cannone presi: il che fece credere in
Piacenza già sbaragliati i nemici. Tutti poi in galleria pel primo buon
successo, marciarono verso la strada di Quartizola, dove il generale
austriaco _conte di Broun_, che comandava l'ala sinistra, gli stava
aspettando con alquanti cannoni d'un ridotto carichi a cartoccio.
Non sì tosto si presentarono sul far del giorno i Franzesi ai
trincieramenti nemici, che furono salutati con lor grave danno da quei
bronzi. Ciò non ostante, a' fianchi e alla schiena assalirono i ridotti
degl'Austriaci, e il conflitto fu caldo, ma senza che essi potessero
superar i gran fossi della circonvallazione. Trovandosi all'incontro
esposti alle palle due o tre de' migliori reggimenti Tedeschi di
cavalleria, ed impazientatisi, chiesero più d'una volta al generale
Lucchesi di poter uscire in aperta campagna contra de' Franzesi.
Bisognò in fine di esaudirli. Stupore fu il vedere come questi
cavalli passarono un alto e largo fosso del canale di San Bonico, e
s'avventarono contro la fanteria franzese. Non aveva quivi seco il
Maillebois che circa cinquecento cavalli, essendo restato addietro
il maggior nerbo della sua cavalleria: del che può essere che fusse
a lui poscia fatto un reato di poco maestria di guerra nella corte di
Francia. Caricata dunque la fanteria franzese dall'urto della nemica
cavalleria, maraviglia non è, se cominciò a piegare e a ritirarsi il
meglio che potè, ma con grave sua perdita e danno. In meno di tre ore
terminò quivi il combattimento, e con ciò rimasta libera l'ala sinistra
degli Austriaci, potè somministrar poscia de' rinforzi alla destra, la
quale nello stesso tempo era stata assalita a' fianchi dagli Spagnuoli
condotti dal generale _conte di Gages_ e da altri lor generali.
Quivi fu il maggior calore delle azioni guerriere, e durò il fiero
combattimento fin quasi alla sera. Aveano essi Spagnuoli con gran
fatica passato il Po morto; dopo di che si scagliarono contro i ridotti
del campo nemico; alcuni ne presero, e s'impadronirono di qualche
batteria; ma vennero anche costretti dalla forza degli avversarii
a retrocedere. Per più volte rinovarono gli assalti e progressi con
far tali maraviglie di valore, spezialmente i soldati valloni, che
confessarono dipoi gli stessi Austriaci di essere stati più volte
sull'orlo di vedere dichiarata la fortuna per gli Spagnuoli. Ma così
forte resistenza fecero, e buon provvedimento diedero da quella parte
i generali _Berenclau_ e _Botta Adorno_, che furono in fine respinti
gli aggressori, e posto fine allo spargimento del sangue. Fu detto
che anche il centro di battaglia de' Gallispani s'inoltrasse verso il
seminario di San Lazzaro, e che ancora se ne impadronisse; ma che dal
conte Gorani fosse bravamente ricuperato quel sito. Altri v'ha che
niegano tal fatto. Bensì è certo che il general comandante _principe
di Lictenstein_ in questo terribil conflitto accudì a tutte le parti,
esponendo sè stesso anche ai maggiori pericoli; e da che gli fu ucciso
sotto un cavallo, allora prese la corazza. Sentimento ancora fu di
alcuni, che se gli Spagnuoli avessero condotta seco la provvision
necessaria di assoni e fascine, per passare i fossi profondi e pieni
d'acqua degli Austriaci, avrebbero probabilmente cantata la vittoria.
Comunque ciò fosse, convien confessare che non giuocarono a giuoco
eguale queste due armate. Tenevano i Tedeschi per tutto il campo loro
delle buone fortificazioni, de' fossi e contraffossi pieni d'acqua, e
dei ridotti ben guerniti di artiglierie. Negli stessi fossi sott'acqua
erano posti cavalli di Frisia, nei quali s'infilzava o imbrogliava
chi si metteva a passarli. Trovaronsi anche le truppe tedesche non
sorprese, ma ben preparate e disposte al combattimento. Il generale
_conte Pallavicini_ comandando la seconda linea, senza che fosse più
frastornato dai nemici, inviava di mano in mano rinforzi a chi ne
abbisognava. Questa vantaggiosa situazion di cose quanto giovò ad
essi, altrettanto pregiudicò agli sforzi de' Gallispani, obbligati ad
andare a petto aperto contro la tempesta dei cannoni e fucili nemici,
e fermati di tanto in tanto da' ridotti e fossi suddetti, per cagion
de' quali poco potè la lor cavalleria far mostra del suo valore.
Però avendo anch'essi provato che non si potea superare quella forte
barriera di uomini, cavalli, artiglierie e fortificazioni, finalmente
tanto essi che i Franzesi se ne tornarono in Piacenza con volto e voce
ben diversa da quella con cui ne erano usciti.
Non si potè mettere in dubbio che la vittoria restasse agli Austriaci,
e fossero giustamente cantati i loro _Te Deum_. Imperciocchè, oltre
all'esser eglino rimasti padroni del campo, guadagnarono qualche pezzo
di cannone, e più di venti fra bandiere e stendardi, e una gravissima
percossa diedero alla nemica armata. Fu creduto che intorno a cinque
mila fossero i morti dalla parte de' Gallispani, più di due mila i
prigionieri sani, e almeno due mila i feriti, che rimasti sul campo
furono anch'essi presi per prigioni, e rilasciati poscia ai nemici
uffiziali. Pretesero altri di gran lunga maggiore la loro perdita.
Spezialmente delle guardie vallone e di Spagna, e di due reggimenti
franzesi, pochi restarono in vita. Chi ancora dal canto di essi
volle disertare, seppe di questa occasione ben prevalersi, e furono
assaissimi. Quanto agli Austriaci, si sa che alcuni loro reggimenti
rimasero come disfatti; ma le relazioni d'essi appena fecero ascendere
il numero de' lor morti, feriti e prigionieri a quattro mila persone.
Sparsero voce all'incontro gli Spagnuoli di aver fatto prigioni in
tale occasione più di mille e cinquecento nemici. Se ne può dubitare.
Certo è che i Franzesi si dolsero degli Spagnuoli, ma questi ancora
molto più si lamentarono de' Franzesi, rovesciando gli uni su gli
altri la colpa della male riuscita impresa. Il più sicuro indizio
nondimeno degli esiti delle battaglie, e de' guadagni e delle perdite,
si suol prendere dai susseguenti fatti. Certo è che i Gallispani,
benchè tanto indeboliti, pure o per necessità, o per far credere che
un lieve incomodo avessero sofferto nella pugna suddetta, più vigorosi
che mai si fecero conoscere poco dipoi. Cioè quasichè nulla temessero,
anzi sprezzassero il campo nemico assediatore di Piacenza, da che
ebbero lasciato un sufficiente corpo di gente alla difesa delle loro
straordinarie fortificazioni, con più di dieci mila combattenti passato
sui loro ponti il Po, si stesero a Codogno, San Colombano ed altri
luoghi del Lodigiano. Un corpo ancora di Franzesi passò il Lambro, per
raccogliere foraggi dal Pavese. Trovossi allora la città di Lodi in
gravissimi affanni, perchè, entrativi gli Spagnuoli, richiesero a quel
popolo quindici mila sacchi di grano, altrettanti di avena o segala, e
sei mila di farina, e tutto nel termine di due giorni. Colà eziandio
comparvero più di tre mila muli per caricar tanto grano, e condurlo
al loro quartier generale di Fombio e a Piacenza: città divenuta in
questi tempi un teatro di miserie. Piene erano tutte le case di feriti;
per le strade abbondavano le braccia e gambe tagliate, e i cadaveri
de' morti; gran fetore dappertutto; e intanto il povero popolo faceva
le crocette per la scarsezza de' viveri. Buona parte de' religiosi
non potendo reggere in tali angustie, e non pochi ancora dei nobili
si ritirarono chi a Milano, chi a Crema, ed altri luoghi. Chiunque
non potè di meno, rimase esposto a molti involontarii digiuni. Nelle
precedenti guerre aveano le città di Piacenza e Parma goduto di molte
esenzioni e privilegii: ecco che secondo le umane vicende sopra di loro
piovvero a dismisura i disastri, ma più senza comparazione sulla prima
che sulla seconda. Fra Piacenza e Genova era in questi tempi interrotta
ogni comunicazione, attesa la permanenza delle soldatesche piemontesi
in Novi.
Ancorchè non desistessero gli Austriaci di tenersi forti e copiosi
nei loro trincieramenti sotto Piacenza, minacciando scalate ed altri
tentativi, pure il teatro della guerra parea trasportato di là da Po
sul Lodigiano sino al Lambro e all'Adda. Quivi gli Spagnuoli dall'un
canto e i Franzesi dall'altro faceano alla lunga e alla larga da
padroni coll'esterminio di quei poveri contadini ed abitanti, ai quali
nulla si lasciava di quello che serviva al bisogno del campo e alla
particolare avidità d'ogni soldato. Giugnevano i loro distaccamenti
a Marignano, e fino in vicinanza di Milano e Pavia, mettendo quel
paese tutto in contribuzione. Gran suggezione ancora recavano al
forte della Ghiara, anzi allo stesso Pizzighettone; giacchè aveano
gittato un ponte sull'Adda, e ricavavano da Crema co' loro danari molte
provvisioni, delle quali abbisognavano. Per ovviare a questi andamenti
degli Spagnuoli, furono spediti grossi rinforzi di gente al generale
Roth comandante in Pizzighettone, e si accrebbero le guernigioni di
Cremona e Guastalla. E perciocchè si prevedeva che, a lungo andare,
non avrebbero potuto sussistere i Gallispani in quel ristretto
territorio, senza più potere ricevere nè genti, nè munizioni da guerra
da Genova; corse sospetto che i medesimi potessero tentare di mettersi
in salvo col passare o di qua o di là dell'Adda verso il Cremonese
e Mantovano. Ma queste erano voci del solo volgo. Intanto il _re di
Sardegna_, seriamente pensando ai mezzi più pronti per procedere contro
i Gallispani, venne col nerbo maggiore delle sue forze verso la metà
di luglio alla Trebbia, e fece con tal diligenza gittare un ponte sul
Po a Parpaneso, e passare di là il generale _conte di Sculemburgo_ con
assai milizie, che si potè assicurarne la testa, ed essere in istato di
ripulsare i nemici, se fossero venuti per impedirlo, siccome seguì, ma
senza alcun profitto. Ciò eseguito, nel dì 16 di luglio gli Austriaci
accampati sotto Piacenza, dopo aver fatto spianare i loro ridotti e
batterie, e messe in viaggio tutte le artiglierie, munizioni e bagagli,
levarono il campo, e s'inviarono alla volta della Trebbia, abbandonando
in fine i contorni della misera città di Piacenza. Prima di mettersi
in viaggio, minarono il seminario di San Lazzaro, per farlo saltare
in aria; non ne seguì già il rovesciamento da essi preteso: tuttavia
qualche parte ne rovinò, e se ne risentirono tutte le muraglie maestre,
riducendosi quel grande edifizio ad uno stato compassionevole, benchè
non incurabile. Fermossi l'oste austriaca alla Trebbia, e i generali
_marchese Botta Adorno_, _conte Broun_ e di _Linden_, colla uffizialità
maggiore si portarono ad inchinare il re di Sardegna, il quale assunse
il comando supremo di tutta l'armata. Tennesi poi fra loro un consiglio
generale di guerra, a fine di determinar le ulteriori operazioni della
presente campagna. Per l'allontanamento de' Tedeschi ognun crederebbe
che si slargasse di molto il cuore agl'infelici Piacentini dopo tanti
patimenti sofferti in così lungo assedio. Ma appena poterono eglino
passeggiar liberamente per li contorni, che videro un orrido spettacolo
di miserie, nè trovarono se non motivi di pianto. Per più miglia
all'intorno quelle case che non erano diroccate affatto, minacciavano
almeno rovina; erano fuggiti i più de' contadini; perite le bestie;
si scorgeva immensa la strage degli alberi. E come vivere da lì
innanzi, essendo in buona parte mancato il raccolto presente, e tolta
la speranza di ricavarne nell'anno appresso, non restando maniera di
coltivar le terre? Molto oro, non si può negare, sparsero gli Spagnuoli
per le botteghe di quella città, per provvedersi massimamente di panni
e drapperie; ma il resto del popolo languiva per la povertà e penuria
de' grani. Per sopraccarico venuti i Franzesi, nè potendo ottenere
dagli Spagnuoli frumento o farine, richiesero, sotto pena della vita,
nota fedele di quanto se ne trovava presso dei cittadini; e ne vollero
la metà per loro. Non andarono esenti dalla militar perquisizione nè
pure i monisteri delle monache.
In questa positura erano gli affari della guerra in Lombardia, quando
eccoti portata da corrieri la nuova d'una peripezia che ognun conobbe
d'incredibile importanza per la Francia, e per chiunque avea sposato il
di lei partito. Il Cattolico monarca delle Spagne _Filippo V_ godeva
al certo buona salute; ma per la mente troppo affaticata in addietro
era divenuto, per così dire, una pura macchina. Assisteva a' consigli,
ma più per testimonio che per direttore delle risoluzioni. Queste
dipendevano dal senno de' suoi ministri, e più dai voleri della regina
consorte _Elisabetta Farnese_, i cui principali pensieri tendevano
sempre all'esaltazione de' proprii figli. Da molti anni in qua usava
il re di fare di notte giorno, costume preso allorchè soggiornò in
Siviglia. Nel dopo pranzo adunque del dì 9 di luglio, quando stava per
levarsi di letto, fu sorpreso da un mortale deliquio, alcuni dissero
di apoplessia, ed altri di rottura di vasi, che in sette minuti il
privò di vita. Mancò egli fra le braccia della real consorte in età
di anni sessantadue, sei mesi e giorni venti, essendo inutilmente
accorsi i medici e il confessore. Morto ancora il trovarono i reali
infanti. Lasciò questo monarca fama di valore, per avere ne' tanti
sconcerti passati del regno suo intrepidamente assistito in persona
alle militari imprese; maggiore nondimeno fu il concetto che restò
dell'incomparabile sua pietà e religione, in ogni tempo conservata,
con pari tenore di vita, talmente che fu creduto esente da qualunque
menoma colpa di piena riflessione. Tanto nondimeno i suoi popoli che
i suoi avversarii notarono in lui _peccata Caesaris_, per le tante
guerre non necessarie che impoverirono i suoi sudditi con arricchir
gli stranieri, e per la poca fermezza ne' suoi trattati. Ma son
soggetti anche i buoni regnanti alla disavventura di aver ministri
che sanno dar colore di giustizia ai consigli dell'ambizione, e far
credere la ragione di Stato una legge superiore a quella del Vangelo.
A così glorioso regnante succedette il real principe d'Asturias _don
Ferdinando_, figlio del primo letto, nato nell'anno 1713 a dì 23 di
settembre da _Maria Luisa Gabriella di Savoia_. Avea questo nuovo
monarca fin l'anno 1729 sposata l'infante _donna Maria Maddalena di
Portogallo_; e per quanto appariva agli occhi degli uomini, gareggiava
col padre, se non anche andava innanzi, nella pietà e religione. Gran
saggio diede egli immediatamente dell'animo suo eroico, col confermare
tutte le cariche (anche mutabili) conferite dal re suo genitore, e fin
quelle di chi avea poco curata, anzi disprezzata, la di lui persona
in qualità di principe ereditario. Vie più ancora si diede a conoscere
l'insigne generosità del suo cuore pel gran rispetto e per le finezze
ch'egli usò verso la regina sua matrigna, approvando per allora tutti i
lasciti a lei fatti dal re defunto, e non volendo ch'ella si ritirasse
in altra città, ma soggiornasse in Madrid; al qual fine la provvide
per lei e pel _cardinale infante_ di due magnifici palagi uniti, e di
tutti i convenevoli arredi del lutto. Osservossi eziandio in lui (cosa
ben rara) un tenero amore verso de' suoi reali fratelli, e massimamente
verso dell'infante _don Carlo_ re delle Due Sicilie. Per conto poi
d'essa real matrigna, e per varii assegnamenti fatti dal re defunto, si
presero col tempo delle alquanto diverse risoluzioni.
Arrivata la nuova di questo inaspettato avvenimento in Italia e in
tutti i gabinetti d'Europa, svegliò la gioia in alcuni, il timore in
altri, riflettendo ciascuno che poteano provenire mutazioni di massime,
essendo sopra tutto insorta opinione che questo principe, perchè nato
in Ispagna, tuttochè della real casa di Borbone, sarebbe re spagnuolo,
e non più franzese; e che la Spagna uscirebbe di minorità e tutela,
quasichè in addietro nel gabinetto di Madrid dominasse al pari che in
quello di Versaglies, la corte di Francia. Non passò certamente gran
tempo che gl'Inglesi, con rivolgersi al re di Portogallo, per mezzo
suo cominciarono a far gustare al nuovo re proposizioni di concordia e
pace. Men diligenti non furono al certo i Franzesi a mettere in ordine
le batterie della loro eloquenza, per contenerlo nella già contratta
alleanza: con qual esito, si andò poi a poco a poco scoprendo. Ma in
questi tempi un altro impensato accidente riempiè di duolo la corte
di Francia. Si era già sgravata col parto d'una principessa la moglie
del delfino di Francia _Maria Teresa_, sorella del nuovo monarca
spagnuolo; quando sopraggiunta una febbre micidiale, nel termine di
tre giorni troncò lo stame del di lei vivere nel dì 23 di luglio in età
di poco più di vent'anni. Andava intanto il re di Sardegna insieme co'
generali tedeschi meditando qualche efficace ripiego, per costringere i
Gallispani ad abbandonare la città e l'afflitto territorio di Lodi. Fu
perciò ordinato al generale conte di Broun di passare il Po a Parpaneso
con un grosso corpo d'armati, e di occupare la riva di là del Lambro.
Sul principio d'agosto anche lo stesso re sardo colle maggiori sue
forze passò colà a fine di ristrignere gli Spagnuoli non men da quella
parte che da quella di Pizzighettone. Uniti poscia i Piemontesi ed
Austriaci ebbero forza di passare sull'altra parte del Lambro, e di
piantare due ponti su quel fiume, alla cui sboccatura s'era fortificato
il _maresciallo di Maillebois_, stando a cavallo del medesimo. Furono
cagione tali movimenti che gli Spagnuoli si ritirarono dall'Adda.
Abbandonato anche Lodi, inviarono a Piacenza le loro artiglierie e
munizioni, raccogliendosi tutti a Codogno e Casal Pusterlengo. Precorse
intanto voce che per l'ordine del novello re di Spagna _Ferdinando
VI_ circa sei mila Spagnuoli, già mossi per passare in Italia,
non progredissero nel viaggio, e fosse anche fermata gran somma di
danaro, che s'era messo in cammino a questa volta: tutti preludii di
cangiamento d'idee in quella corte.
Non poteano in fine più lungamente mantenersi nel di là da Po i
Gallispani, troppo inferiori di forze ai loro avversarii, perchè
sempre più veniva meno il foraggio con altre provvisioni, nè adito
restava di procacciarsene senza pericolo. Stavano i curiosi aspettando
di vedere qual via essi eleggerebbono, cioè se quella di ritirarsi
verso Genova, o pure d'inviarsi alla volta di Parma; nè mancavano gli
Austriaco-Sardi di stare attenti a qualunque risoluzione che potesse
prendere la nemica armata; al qual fine il generale _marchese Botta
Adorno_ con più migliaia di Tedeschi s'era postato di qua dalla Trebbia
verso la collina, per accorrere, ove il chiamasse la ritirata de'
Gallispani. Fu anche spedito il conte Gorani con alcune compagnie di
granatieri e di cavalleria al ponte di Parpaneso per vegliare agli
andamenti de' nemici, caso che tentassero di voler passar il Po verso
la bocca del Lambro, e per dar loro anche dell'apprensione. Tennero
intanto i Gallispani consiglio segreto di guerra, per uscire di quelle
strettezze. Fu detto che fossero diversi i sentimenti del consiglio di
guerra, e fra gli altri del Gages e Maillebois, tra' quali passarono
parole assai calde. Proponeva il Gages di ridursi in Piacenza, dove
non mancavano provvisioni per due ed anche per tre settimane, persuaso
che i nemici per mancanza di foraggi non avrebbero potuto fermarsi
di là dalla Trebbia; nè a cagion del puzzo tornare sotto Piacenza:
sicchè sarebbe restato libero il ritirarsi a Tortona. Ma prevalse
in cuore del reale infante il parere del Maillebois, perchè creduto
migliore, o perchè parere franzese. Nella notte dunque precedente al
dì 9 di agosto i Gallispani, lasciate scorrere pel fiume Lambro nel
Po le tante barche da loro adunate, con somma diligenza si diedero
a formar due ponti sopra esso Po, e per tutto quel giorno attesero a
passare di qua coll'intera loro armata, cannoni e bagaglio; e nella
notte e dì seguente, dopo avere rotti i ponti, cominciarono a sfilare
alla volta di Castello San Giovanni. Ma essendo giunto l'avviso della
loro ritirata al suddetto generale marchese Botta, prese egli una
risoluzione non poco ardita, e che fu poi scusata per la felicità del
successo: cioè di portarsi ad assalire i nemici, tuttochè il corpo suo
forse non giugnesse a sedici mila armati; laddove quel de' nemici si
faceva ascendere a ventisette mila, computati quei che nello stesso
dì uscirono di Piacenza. Contro le istruzioni a lui date era prima
passato di qua dal Po pel ponte di Parpaneso il conte Gorani col suo
picciolo distaccamento. Per farsi onore, fu egli il primo a pizzicare
la retroguardia dei Gallispani, che era pervenuta a Rottofreddo in
vicinanza del picciolo fiume Tibone; e all'incontro di mano in mano
che andavano arrivando i battaglioni del generale Botta, entravano
in azione. Fu dunque obbligata la retroguardia suddetta a voltar
faccia, e a tenersi in guardia, colla credenza che ivi fosse tutto il
forte degli Austriaci, cioè senza avvedersi di combattere sulle prime
contra di pochi, che si poteano facilmente avviluppare o mettere in
rotta. Andò perciò sempre più crescendo il fuoco, finchè giunti tutti
i Tedeschi, divenne generale il conflitto. Fu spedito all'infante,
pervenuto già col duca di Modena e col corpo maggiore di sua gente
a Castello San Giovanni, acciocchè inviasse soccorso, siccome fece,
con alcuni reggimenti di cavalleria. Era allora alto il frumentone,
o sia grano turco; coperti da esso combattevano i fucilieri tedeschi.
Giocavano la artiglierie, e massimamente una batteria di quei cannoni
alla prussiana, che presto si caricano, nè occorre rinfrescarli
che dopo molti tiri, posta dagli Austriaci sopra un picciolo colle
caricata a sacchetti. Appena si accostarono alla scoperta le nemiche
schiere, che con orrida gragnuola si trovarono flagellate. Per più
ore durò il sanguinoso cimento; rispinta e più di una volta fu messa
in fuga la fanteria tedesca dalla cavalleria spagnuola; finchè giunto
a quella danza anche il _marchese di Castellar_, che seco conduceva
il presidio di Piacenza, consistente in cinque mila combattenti, gli
Austriaci si ritirarono, tanto che potè l'oste nemica continuare il
viaggio, e giugnere in secreto al suddetto castello di San Giovanni.
Si venne poscia ai conti, e fu creduto che restassero sul campo tra
morti e feriti quasi quattromila Gallispani, e che almeno mille e
ducento fossero i rimasti prigioni, senza contare quei che disertarono;
perciocchè abbondando l'oste spagnuola della ciurma di molte nazioni,
non mai succedeva fatto d'armi o viaggio, che non fuggisse buona copia
di essi. Restò il campo in poter dei Tedeschi con circa nove cannoni, e
undici tra bandiere e stendardi; ma in quel campo si contarono anche di
essi tra estinti e feriti circa quattro mila persone. Vi lasciò la vita
fra gli altri uffiziali il valoroso generale _barone di Berenclau_,
e tra i feriti furono i generali _Pallavicini, conte Serbelloni,
Voghtern, Andlau_ e _Gorani_. Di più non fecero i Gallispani, perchè
loro intenzione era non di decidere della sorte con una battaglia, ma
bensì di mettere in salvo i loro sterminati bagagli, e di ritirarsi. Fu
nondimeno creduto che se il conte di Gages avesse saputa l'inferiorità
delle forze nemiche, potuto avrebbe in quel giorno disfare l'armata
tedesca.
Non sì tosto ebbe fine l'atroce combattimento, che sull'avviso della
secreta partenza del marchese di Castellar da Piacenza un distaccamento
austriaco si presentò sotto quella città, e ne intimò immediatamente la
resa; e perchè non furono pronti i cittadini a spalancar le porte, per
aver dovuto passar di concerto coi Gallispani, ivi rimasti o malati o
feriti, si venne alle minaccie d'ogni più aspro trattamento. Uscirono
in fine i deputati della città, e dopo aver giustificati i motivi del
loro ritardo, fu conchiuso il pacifico ingresso de' Tedeschi nella
medesima sera, con rilasciare libero il bagaglio alla guernigione
gallispana tanto della città che del castello, la quale restò in numero
di ottocento uomini prigioniera di guerra. Vi si trovò dentro più di
cinque mila (altri scrissero fino ad otto mila) tra invalidi, feriti
ed infermi, compresi fra essi quei della precedente battaglia; più
di ottanta pezzi di grosso cannone, oltre ai minori; trenta mortari,
e quantità grande di palle, bombe, tende ed altri militari attrezzi,
con varii magazzini di panni e tele, di grano, riso e fieno entro e
fuori delle mura. Presero gli Austriaci il possesso di quella città;
ed ancorchè nei dì seguenti vi entrassero i ministri, e un corpo di
gente del re di Sardegna che ne ripigliò il civile e militare governo,
pure anch'essi continuarono ivi il loro soggiorno per guardia delle
artiglierie e de' magazzini, finchè si ultimasse la proposta divisione
di tutto, cioè della metà d'essi per ciascuna delle corti. Allora fu
che veramente sotto l'afflitta città di Piacenza ebbe fine il flagello
della guerra militare; ma un'altra vi cominciò non men lagrimevole
della prima. Gli stenti passati, il terrore, ma più di ogni altra
cosa il puzzore e gli aliti malefici di tanti cadaveri di uomini e di
bestie seppelliti (e non sempre colle debite forme) tanto in quella
città che nei contorni, cagionarono una grande epidemia negli uomini:
dura pensione provata tante altre volte dopo i lunghi assedii delle
città. Ne seguì pertanto la mortalità di molta gente, talmente che
in qualche villa non potendo i preti accorrere da per tutto; senza
l'accompagnamento loro si portavano i cadaveri alle chiese.