Annali d'Italia, vol. 7 - 37
poca gente alla custodia dell'Abbruzzo, riuscì al colonnello austriaco
conte Soro con un distaccamento di truppe di entrare nelle città
dell'Aquila, di Teramo e Penna. Si ebbero bene a pentire col tempo
quegli sconsigliati abitanti di avere accolti quei nuovi ospiti con
tanta festa, e di aver prese anche, se pur fu vero, l'armi in loro
favore. Videsi poi sparso per varii luoghi del regno un manifesto
della regina d'Ungheria, contenente le ragioni di aver mossa quella
guerra, coll'animare i popoli alla ribellione. In esso furono toccati
certi tasti che dispiacquero alla sacra corte di Roma; ed essendosene
ella doluta, protestò poi la regina di non aver avuta parte in esso
manifesto.
Stavano dunque a fronte, separate da una valle profonda, le due nemiche
armate, cercando cadauna di ben fortificare i suoi posti, e di occupar
quelli de' nemici. Specialmente nella Faiola e in Monte Spino si
afforzarono gli Austriaci e i Napolispani nel monte dei Cappuccini.
Fioccavano le cannonate dall'una parte e dall'altra. Ma nella notte
antecedente al dì 17 di giugno, avendo il conte di Gages da alcuni
disertori ricavato nome della guardia, ed appresa la situazion degli
Austriaci alla Faiola, sito onde era forte incomodata la regia armata,
con grosso corpo di gente si portò all'assalto di quel posto medesimo,
e se ne impadronì, con far prigioni, oltre agli uccisi, il generale
di battaglia baron Pestaluzzi, il colonnello e tenente colonnello
del reggimento Pallavicini, ed altri uffiziali con ducento sessanta
soldati; e gli servì poi quel sito per inquietar frequentemente
gli Austriaci nel loro campo. Fu cagione questa positura di cose,
cotanto penosa al territorio romano, che il pontefice _Benedetto
XIV_ per sicurezza e quiete di Roma chiamasse colà alcune migliaia
dei miliziotti di varie sue città. Durò poi la vicendevole sinfonia
delle cannonate e bombe sotto Velletri, con poco danno dell'una e
dell'altra parte, sino al dì 10 di agosto; quando il principe di
Lobcowitz, animato dalle notizie prese da un villano di Nemi e da
alcuni disertori, determinò di tentare una strepitosa impresa. Il
disegno suo era d'impadronirsi di Velletri, e di sorprendere ivi il
re delle Due Sicilie, il duca di Modena ed altri primarii uffiziali
della nemica armata. Nella notte adunque precedente al dì 11 del
mese suddetto fece marciare alla sordina due corpi di gente, l'uno di
quattro mila soldati e l'altro di due mila, per diverse vie. Il primo
era comandato ai tenenti generali Braun e Linden, e dai generali di
battaglia Novati e Dolon; e questi fecero un giro verso la sinistra
dell'accampamento napolispano, ed arrivati sul far del giorno al
sito dove erano postati i tre reggimenti di cavalleria della regina,
Sagunto e Borbon, con alcune brigate di fanteria, le quali, quantunque
prive di trinceramenti, non si aspettavano una visita sì fatta, e
tranquillamente dormivano; diedero loro addosso, con attaccar nello
stesso tempo il fuoco alle tende. Molti vi restarono uccisi, altri
rimasero prigionieri; chi ebbe buone gambe, e fu a tempo, si salvò.
Agli abbandonati cavalli furono tagliati i garretti, e per conseguente
tolta la maniera di più servire e vivere. La sola brigata de' valorosi
Irlandesi fece testa, finchè potè; ma sopraffatta dalle forze maggiori,
dopo grave danno, cercò di salvarsi in Velletri. Dietro ai fuggitivi
per quella medesima porta entrarono gli Austriaci nella città, e si
diedero ad incendiar varie case per accrescere il terrore. Presero
l'armi i poveri Velletrani, per difendere ognuno le abitazioni proprie,
ed alquanti vi lasciarono la vita. Avvisato per tempo il re di questa
sorpresa, balzò dal letto, e vestito in fretta si ritirò al posto dei
Cappuccini, ed era solamente in apprensione pel duca di Modena e per
l'ambasciatore di Francia. Ma anche il duca di Modena e l'ambasciatore
ebbero alcuni momenti favorevoli per tener dietro a sua maestà fra le
archibugiate de' nemici. Entrò il general Novali nel palazzo del duca;
furono presi e condotti via tutti i suoi cavalli. Dubbio non ci è, che
se gli Austriaci avessero atteso a perseguitare i Napolispani; e se
fosse giunto a tempo l'altro corpo di gente che dovea raggiugnerli,
restava la città di Velletri in loro potere. Ma, secondo il solito, più
vogliosi i soldati di bottinare che di combattere, si perderono attorno
agli equipaggi degli uffiziali e alle sostanze de' cittadini, con far
veramente un buon bottino, spezialmente dove abitava l'ambasciatore
di Francia, e i duchi di Castropignano e di Atrisco. Ciò diede campo
ad essi Napolispani di rincorarsi e di accorrere alla difesa; e
particolarmente con furore s'inoltrarono le guardie vallone per la
lunga strada di Velletri contra de' nemici. Sorpresero il general
Novati, che s'era perduto a scartabellare le scritture del duca di
Modena, e custodiva le di lui argenterie, che verisimilmente doveano
essere il premio delle sue fatiche, e il fecero prigione. Sopravvenuto
poi un rinforzo del conte di Gages, talmente furono incalzati gli
Austriaci, che chi non rimase o ucciso o prigione, fu forzato a
salvarsi fuori di Velletri, e di lasciar libera la città.
Mentre si facea questa sanguinosa danza in Velletri, il principe di
Lobcowitz con altri nove mila soldati dovea portarsi all'assalto dei
posti della collina fortificati da' nemici. Tardò troppo. Tuttavia gli
riuscì di occupar qualche sito del monte Artemisio. Ma così incessante
fu il fuoco degli Spagnuoli, che quanti si avanzavano, rotolavano
uccisi al fondo della valle, di maniera che dopo un ostinato conflitto
di alcune ore furono forzati anche quegli Austriaci a battere la
ritirata e ad abbandonare gli occupati posti. Terminata la scena,
ognuna delle parti esaltò a dismisura la perdita dell'altra. I più
saggi crederono che tra i morti e prigioni di Napolispani vi restassero
almen due mila persone, fra le quali di prigionieri si contarono circa
ottanta uffiziali, e fra gli altri il general conte Mariani, sorpreso
colla gotta in letto. Vi perderono anche, chi disse nove, e chi dodici
bandiere della brigata d'Irlanda. Dalla banda degli Austriaci rimasero
prigionieri, oltre al generale Novati, diciotto altri uffiziali, e
molti soldati colti in Velletri; e quantunque spacciassero di aver
lasciati morti sul campo solamente circa cinquecento uomini, pure gli
altri fecero ascendere la loro perdita a più di due mila persone.
La verità si è, che se mancò la felicità, non mancò già la gloria
di questo tentativo al principe di Lobcowitz, perchè in simili casi
nè si possono prevedere tutti gli accidenti, nè a tutto provvedere.
Ma certo è altresì che maggior fu la gloria de' Napolispani, i quali
in sì terribil improvvisata, e con tanto avanzamento de' nemici, non
solamente si seppero sostenere, ma anche rovesciarono valorosamente le
loro schiere, superando una tempesta che fece grande strepito entro e
fuori d'Italia. Dopo questo fallo, restate le due armate nei consueti
loro posti, continuarono a salutarsi coi reciproci spari di artiglierie
senza vantaggio degli uni e degli altri. Attese intanto l'infante
re _don Carlo_ a rimontare la sua cavalleria: al che concorsero
tutti i vassalli del regno di Napoli, ed anche quei di Sicilia.
Varii distaccamenti spediti dal re in Abbruzzo ne fecero in questi
tempi sloggiare il colonnello Soro coi suoi partitanti, e tornare
all'ubbidienza della maestà sua le già occupate città. Il rigore
usato contra di quegli abitanti dal comandante napoletano, fu detto
che venisse detestato dalla corte stessa, e tanto più da chi senza
parzialità pesava le azioni degli uomini.
Per tutto il settembre e per quasi tutto l'ottobre stettero in
quella positura ed inazione le due nemiche armate sotto Velletri,
quando si cominciò a scorgere che il principe di Lobcowitz meditava
di decampare, e di ritirarsi alla volta del Tevere, giacchè inviava
innanzi verso Cività Vecchia i suoi malati, e parte delle artiglierie,
munizioni e bagagli. Certamente durante la state non erano cessati
di giugnere nuovi rinforzi di gente al suo campo; ma di gran lunga
sempre maggiore si trovava il numero di coloro che cadevano infermi,
e andavano anche mancando di vita. I caldi di quel paese non si
confacevano colle complessioni tedesche, avvezze ai freddi, e l'aria
delle vicine paludi Pontine stendeva fin colà i perniciosi suoi
influssi, di modo che quanto si trovò in esso ottobre infievolito
lo esercito suo, altrettanto si vide il caso disperato di vincere
la pugna, e di obbligare i Napolispani a retrocedere. Non è già che
restasse esente da gravissimi guai anche l'oste napolispana, stante la
continua diserzione ch'essa patì, maggior di quella degli avversarii,
e la gran quantità de' suoi malati, e la difficoltà di ricevere i
viveri, che bisognava condurre con pericolo ben da lontano, essendosi
spezialmente per qualche tempo trovata in somme angustie per mancanza
di acqua da abbeverar uomini e cavalli. Pure tanta fu la costanza del
re e di tutti i suoi, che sofferirono più tosto ogni disagio, che darla
vinta ai vicini nemici. Pertanto sull'alba del dì primo di novembre il
principe di Lobcowitz levò il campo e in ordine di battaglia s'inviò
verso Ponte Molle, per cui, e per un ponte di barche già formato a
fin di far passare le artiglierie, nel dì seguente ridusse di qua
dal Tevere le genti sue. Perchè da Roma uscirono alcune centinaia
di persone arrolate dal _cardinale Acquaviva_, che infestarono il
loro passaggio, se ne vendicò poscia il principe con dare il sacco
ad alcune innocenti ville. Nello stesso dì primo di novembre anche
l'armata napolispana, trovandosi liberata dai ceppi di tanta durata,
con giubilo inesplicabile si mosse da Velletri per tener dietro ai
nemici, procedendo nondimeno con tanta lentezza, che ben si conobbe
non aver voglia di cimentarsi con loro, siccome quella che contava per
sufficiente vittoria il vederli slontanare da quelle contrade. Nel dì
2 framezzate dal Tevere, i cui ponti erano stati rotti, si fermarono
in faccia le due armate, salutandosi solamente l'una e l'altra con
varie cannonate. Quivi si trovava coll'oste sua il re delle Due Sicilie
_don Carlo_, e sospirando la consolazione di vedere il pontefice
_Benedetto XIV_, e di baciargli il piede, concertò pel dì seguente
l'entrata sua in Roma. Colà portossi la maestà sua, accompagnata dal
_duca di Modena_, dal _conte di Gages_, dal _duca di Castropignano_
e da numerosa altra uffizialità, e fra il rimbombo delle artigliere
di castello Santo Angelo, le quali gran dispetto e mormorazione
cagionarono nel campo tedesco, fu ricevuto con tenero affetto dal santo
padre, e per un'ora continua durò il loro abboccamento.
Confessò dipoi in una delle sue dotte pastorali il buon pontefice,
che fra le altre cose il re gli fece istanza di minorare il soverchio
numero delle feste di precetto (grazia già accordata da sua santità
a varie chiese di Spagna), atteso il detrimento che ne veniva ai
poveri e agli artisti, e ai lavoratori della campagna. Congedatosi
il re da sua Santità, passò dipoi a venerar nella Vaticana basilica
il sepolcro dei santi Apostoli, e a visitar le più rare cose del
vastissimo palazzo pontifizio, dove trovò insigni regali preparatigli
dal santo padre, siccome ancora un lautissimo pranzo per sè e per
tutto il suo gran seguito. Nell'inviarsi fuori di Roma visitò anche
la basilica Lateranense, lasciando da per tutto contrassegni della sua
gran pietà, affabilità e munificenza. Anche il duca di Modena ricevette
dipoi una benignissima e lunga udienza dal pontefice; e laddove il re
s'era incamminato per passare a Velletri e a Gaeta, egli se ne tornò
la sera al campo. Passò dipoi il vittorioso re a Napoli, accolto da
quel gran popolo con incessanti acclamazioni, sigillo della fedeltà ed
amore verso di lui mostrato in sì pericolosa congiuntura. Vedesi data
alla luce la descrizione del rinomato assedio di Velletri, composta
con elegante stile latino dal signor Castruccio Bonamici, uffiziale
militare del suddetto re delle Due Sicilie.
S'andò ritirando l'esercito austriaco su quel di Viterbo, e poscia
su quel di Perugia, inseguito, ma da lungi, dal Napolispano, che,
quantunque superiore di forze, mai non volle e non osò molestarlo.
E perciocchè il conte di Gages, arrivato a Foligno, serrò il
cammino conducente nella Marca; il Lobcowitz, se volle venir di qua
dall'Apennino, altro spediente non ebbe, che di prendere la via del
Furio, per cui passando con grave incomodo delle sue genti, andò
poi a distribuirle a quartieri in Rimino, Pesaro, Cesena, Forlì ed
Urbino. Fu posto il quartier generale in Imola. Vicendevolmente il
conte di Gages ritiratosi da Assisi, Foligno ed altri luoghi, stabilì
il suo quartiere in Viterbo, e mise a riposar la sua armata in que'
contorni, stendendola fin quasi a Cività Vecchia. E tale fu il fine di
questa spedizione pel meditato acquisto di Napoli, che diede occasione
al tribunale dei politici sfaccendati di proferir varie decisioni.
Proruppero i parziali del re delle Due Sicilie in encomii e plausi
per la savia condotta di lui e dei suoi generali, da che avea tenuto
lungi dai suoi confini il potente nemico esercito, e tiratolo nelle
angustie di Valletri, con averlo obbligato a star ivi per tanto tempo
racchiuso. Per lo contrario i ben affetti alla regina di Ungheria si
lasciarono scappar di bocca qualche disapprovazione dell'operato dal
comandante generale austriaco, non sapendo intendere perchè egli avesse
presa la ristrettissima strada di Velletri, e si fosse ostinato io
quella situazione, senza eleggere più tosto, o prima o dappoi, la via
di Sora, od altra per entrare nel regno, dove non era fuor di speranza
qualche mutazione, ed una battaglia potea decidere di tutto. Ma è
troppo avvezza la gente a misurar le lodi e il biasimo delle imprese
dal solo esito loro, quasichè il fine infelice di un'azione faccia
che il saggio non l'abbia con tutta prudenza sul principio intrapresa.
Disgrazia, e non colpa, è ordinariamente l'avvenimento sinistro delle
risoluzioni formate da chi è provveduto di senno. Intanto la misera
città di Velletri respirò dal peso di tanti armati; ma non restò già
esente da altri mali, perchè per gli stenti passati e pel fetore di
tanti cadaveri malamente seppelliti sorse una maligna epidemia in quel
popolo. Spedì il pontefice gente per farne lo spurgo, ed anche aiuto
di pecunia; ma non lasciò per questo di essere ben deplorabile la
lor fortuna. Mentre si facea la guerra fin qui accennata nel levante
dell'Italia, un'altra più fiera, che divampò e si dilatò in questo
medesimo anno nelle parti di ponente trasse a sè gli occhi di tutti.
Avendo finalmente la corte di Spagna ottenuto che il re Cristianissimo
seconderebbe con forze gagliarde i suoi tentativi contro gli stati del
re di Sardegna, si videro in moto alla metà di febbraio gli Spagnuoli,
per tornare dalla Savoia in Provenza. Quivi si accoppiarono poscia
l'infante _don Filippo_ e il _principe di Conty_, supremo comandante
dell'armi franzesi, e per tempo ognun s'avvide, essere le loro mire
dalla parte marittima di Nizza e Villafranca. Contro tanti nemici solo
si trovava il re di Sardegna _Carlo Emmanuele_, a cui fu in questi
tempi dato l'attuai possesso di Piacenza, di Vigevano e dell'altro
paese a lui accordato nella lega di Vormazia; ma nulla perciò egli
sgomentato, si studiò di ben munire di genti e ripari il paese suo
posto al mare.
Prima nondimeno che si desse fiato alle trombe in terra, avvenne una
gran battaglia in mare fra l'ammiraglio inglese _Matteus_ e la flotta
franzese e spagnuola, che s'erano unite in Tolone. Queste ultime la
fama amplificatrice delle cose le faceva ascendere sino a sessanta
vascelli di linea. Erano ben molto meno. Stava il Matteus co' suoi
legni nell'isole di Jeres, attento ai movimenti de' suoi avversarii,
quando, giuntogli l'avviso, nel dì 22 di febbraio, che usciti di
Tolone aveano messo alla vela, passò tosto ad assalire la vanguardia
condotta dalle navi spagnuole. Atrocissimo fu il combattimento verso
capo Cercelli; l'orribile ed incessante strepito di tante artiglierie
sparse il terrore per tutte le coste della Provenza, e corsero infinite
persone sulle alture delle montagne ad essere spettatrici di quella
scena infernale. Per confessione degli stessi nemici, fece maraviglie
di valore l'armata navale di Spagna, comandata dall'_ammiraglio
Navarro_; e tanto più perchè il signor di Court, comandante della
franzese, o non entrò mai veramente in battaglia, o, se v'entrò, poco
tardò a ritirarsi, per non vedere sconciati i suoi legni. Che peraltro
fu creduto che se i Franzesi avessero meglio soddisfatto al loro
dovere, probabilmente potea riuscir quel conflitto con isvantaggio
degl'Inglesi, stante il non essere accorso a tempo in aiuto del Matteus
il vice-ammiraglio Lestok, che fu poi processato per questo. La notte
pose fine a tanto furore; ma nel dì seguente si tornò alle vicendevoli
offese, quando il mare, stato anche nel dì innanzi assai burrascoso,
accresciuta la collera, separò affatto le nemiche armate, spignendole
un fierissimo vento amendue alla volta di Occidente. Perderono gli
Spagnuoli un vascello di sessantasei pezzi di cannone e di novecento
uomini di equipaggio, caduto in man degl'Inglesi sì maltrattato, che,
dopo averne essi estratto il capitano con ducento uomini rimasti in
vita, giudicarono meglio di darlo alle fiamme. Grande fu la copia
dei morti e feriti di essi Spagnuoli: rimasero anche i lor vascelli
talmente sconcertati, che ridotti a Barcellona ed Alicante, non si
sentirono più voglia di tornare in corso. Forse non fu minore il
numero dei morti e feriti dalla parte degli Inglesi, i quali anche per
l'insorta tempesta patirono assaissimo, e si ridussero a Porto Maone. I
soli Franzesi ebbero salve ed illese le lor navi e genti; se con loro
onore, da molti si dubitò. Perchè lo stesso _ammiraglio Matteus_ non
fece di più, fu anch'egli richiamato a Londra, e sottoposto ad un lungo
e rigoroso processo.
Intanto avea il re di Sardegna fatti gagliardi preparamenti di genti
e fortificazioni al fiume Varo, giacchè l'esercito terrestre de'
Gallispani minacciava un'irruzione da quella parte. Alle sboccature
parimente stavano ancorate alquante navi inglesi, per impedire il
passaggio colle loro artiglierie. A nulla servirono quei tanti ripari,
perchè senza difficoltà nel dì 2 di aprile comparve di qua dal Varo
la fanteria spagnuola; al quale avviso i cittadini di Nizza, mercè
della facoltà loro data dal real sovrano, affinchè non rimanessero
esposti a guai maggiori, andarono a presentar le chiavi di quella città
all'_infante don Filippo_. Riposte avea le principali sue speranze il
re sardo nei trincieramenti fatti da' suoi ingegneri a Villafranca e
Montalbano, che certamente parvero inaccessibili, massimamente perchè
alla guardia d'essi vegliavano molte migliaia delle sue migliori
truppe. Ma ossia che intervenisse qualche stratagemma, per cui
l'armata gallispana, ascendente, per quanto fu creduto, a quaranta mila
combattenti, si aprisse senza gran fatica il varco a quel fortissimo
accampamento, con arrivare inaspettatamente addosso al _marchese di
Susa_, e menarlo via prigione; o pure che a forza di furiosi assalti
si superassero tutti gli ostacoli: certo è che nel dì 20 d'aprile
essi Gallispani v'entrarono. Gran resistenza fecero i Savoiardi; più
d'una volta rispinsero le schiere nemiche, e gran sangue fu sparso, e
fatti de' prigionieri dall'una e dall'altra parte. Si sostennero essi
Savoiardi in alcuni siti sino alla notte, in cui il general comandante
_Sinsan_, dopo aver posto presidio nel castello di Villafranca e nel
forte di Montalbano, andò ad imbarcare circa quattro mila de' suoi
colle artiglierie, che potè salvare in molti legni preparati nel
porto di Villafranca, e passò ad Oneglia. Non aspetti alcuno da me
il conto dei morti, feriti e prigioni dell'una e dell'altra parte,
e de' cannoni, bandiere e stendardi presi, perchè so che non amano
di comperar bugie: che di bugie appunto abbondano le relazioni de'
fatti d'armi a misura delle differenti passioni. Poco poi tardarono
Montalbano e il castello di Villafranca a sottomettersi a' Gallispani.
Attese allora il re di Sardegna a ben premunire i passi delle montagne
di Tenda, affinchè lasciassero i nemici il pensiero di penetrar per
quelle parti in Piemonte; e si diede a provveder di tutto l'occorrente
i forti suoi nella valle di Demont e Cuneo, prevedendosi abbastanza
che gli avversarii sarebbono per tentare di nuovo da quella parte una
calata ne' suoi Stati.
Fu nel dì 6 di giugno, che arrivato un grosso distaccamento di
Spagnuoli ad Oneglia, trovò abbandonata quella terra dalle milizie
savoiarde e da buona parte degli abitanti, che si ridussero col più
delle loro sostanze all'alto della montagna. Pensavano intanto i
Gallispani a voli maggiori; e in fatti, avendo ripassato il Varo,
cominciarono dal Colle dell'Agnello e da altri siti, circa il dì 20
di luglio, a calar verso la valle, dove trovarono forti barricate ai
passi, sostenute con vigore per qualche tempo dai Savoiardi, ma poi
abbandonate. S'impadronirono essi Spagnuoli di un ben fortificato
ridotto a Monte Cavallo, e poscia di Castel Delfino; e quindi per la
valle passarono alle vicinanze di Demont. Grandi spese avea fatto il
re di Sardegna per ivi formare una ben regolata fortezza; ma non era
giunto a perfezionarla. Trovavasi egli stesso alla testa della sua
armata in quelle parti, per opporsi agli avanzamenti de' nemici, coi
quali giornalmente accadevano ora favorevoli ora sinistri incontri.
Portò la sventura che una palla infuocata gittata da' Gallispani in
Demont attaccasse il fuoco a quelle fascinate, o pure al magazzino
della miccia, e che si dilatasse l'incendio negli altri. Accorsero
a tal vista i Gallispani, ed ebbero quel forte colla guernigione
prigioniera nel dì 17 d'agosto: dopo di che essendosi ritirato il re
sardo col suo esercito a Saluzzo, eglino passarono nella pianura, e
si diedero a stringere la città e fortezza di Cuneo. Sotto di questa
piazza, mirabilmente difesa dal concorso di due fiumi, avea patito
deliquio altre volte la bravura de' Franzesi, ed era venuta meno la
lor perizia negli assedii: il che commosse la curiosità d'ognuno per
indovinare qual esito avrebbe quell'impresa. Dalla parte sola per cui
si può far forza contra di Cuneo, avea il re di Sardegna fatto ergere
tre fortini o ridotti che coprivano la piazza. Entro v'erano sei
mila, parte Svizzeri e parte Piemontesi, di presidio sotto il comando
del valoroso _barone dì Leutron_, risoluti di far buona difesa. Non
valevano men di loro i cittadini, che, prese animosamente l'armi,
fecero poi di tanto in tanto delle vigorose sortite con danno de'
nemici. Finalmente si videro in armi tutti i popoli di quelle valli
e montagne, ben affezionati al loro sovrano. Colà accorsero ancora
alcune migliaia di Valdesi; e il marchese d'Ormea, sottrattosi in
tal occasione al gabinetto, messosi alla testa delle milizie del
Mondovì col figlio marchese Ferrerio, tutti si diedero ad infestare
i nemici, ad impedire il trasporto de' viveri, foraggi e munizioni al
campo loro, con far sovente de' buoni bottini, e rovesciar le misure
degli assedianti. Giunse intanto da Milano un rinforzo di Varadini,
e il reggimento Clerici col conte _Gian-Luca Pallavicino_ tenente
maresciallo cesareo, comandante di quelle truppe.
Solamente nella notte precedente al dì 13 di settembre aprirono i
Gallispani la trincea sotto di Cuneo, e cominciarono a far giocare le
batterie, e a molestar gravemente la piazza colle bombe; ma se questa
pativa, non patirono meno gli assedianti, perchè spesso assaliti con
somma intrepidezza da que' cittadini e presidiarii. Continuarono poi
gli approcci e le offese sino al dì 30 di settembre, in cui il re
di Sardegna mosse l'esercito suo in ordinanza di battaglia verso le
nemiche trincee. Ossia ch'egli solamente intendesse di avvicinarsi,
e postarsi in maniera da poter incomodare il campo nemico, o pure
che avesse veramente risoluto, siccome animoso signore, di tentare
il soccorso della piazza: la verità si è, che si venne ad un generale
combattimento. Fu detto che un uffiziale ubbriaco portasse l'ordine, ma
ordine non dato dal re, all'ala sinistra di assalire i posti avanzati
degli assedianti, e che, entrata essa in azione, s'impegnò nel fuoco
il restante delle schiere. Dalle ore diecinove sino alla notte durò
l'ostinato conflitto con molto sangue dall'una e dall'altra parte, ma
incomparabilmente più da quella degli assalitori, perchè esposti alle
artiglierie caricate a mitraglia o a cartoccio. Tuttochè per ordine del
re si sonasse la ritirata, la sola notte fece fine all'ire, ed allora
si ricondusse l'esercito sardo ad un sito distante un miglio e mezzo di
là. Fu detto che la cavalleria nemica uscita dai ripari l'inseguisse;
ma lo scuro della notte, e l'aver trovato un bosco di cavalli di
Frisia, impedì loro il progresso. A quanto ascendesse il danno dalla
parte de' Piemontesi, non si potè sapere; se non che conto fu fatto
che circa trecento fossero tra morti e feriti i suoi uffiziali. Da
lì a pochi giorni si scoprì, essere state le mire del re di Sardegna
nel precedente sanguinoso conflitto quelle d'introdurre soccorso in
Cuneo. Ma ciò che allora non gli venne fatto, accadde poi felicemente
nella notte precedente al dì 8 di ottobre, in cui dalla parte del fiume
Stura passò senza ostacoli nella piazza un migliaio de' suoi soldati,
con molti buoi ed altre provvisioni e danaro. Era intanto sminuita non
poco l'armata gallispana per la mortalità e diserzion delle truppe;
di gravi patimenti avea sofferto sì per le dirotte pioggie e per li
torrenti che aveano impedito il trasporto de' viveri e foraggi per
la valle di Demont, come ancora per l'incessante infestazione de'
paesani che faceano continuamente prigioni e prede. Si scorse in fine
ch'essa non era in forze, come si decantava, perchè non potè mai tenere
corpi valevoli ai fiumi, che formassero un'intera circonvallazione
alla piazza. Però dopo circa quaranta giorni di trincea aperta, e
dopo cagionata gran rovina di case in Cuneo, ma senza aver mai fatto
acquisto di alcuna nè pur delle fortificazioni esteriori, nella notte
precedente al dì 22 di ottobre, abbruciato il loro campo, i Gallispani
colla testa bassa e con gran fretta si levarono di sotto a quella
fortezza, incamminandosi alla volta di Demont. Uno sprone ancora ai
lor passi era il timore delle nevi che li cogliessero di qua dall'Alpi
con pericolo di perire uomini e giumenti per mancanza del bisognevole.
Lasciarono indietro più di mille e cinquecento malati; ed inseguiti da
varii distaccamenti di fanti e cavalli, e travagliati dai montanari,
sofferirono altre non lievi perdite e danni. Fermaronsi in Demont
cinque o sei mila Spagnuoli non tanto per coprire la ritirata del
resto dell'esercito e delle artiglierie, quanto ancora per minar le
fortificazioni della fortezza, ben prevedendo di non potersi quivi
mantenere nel verno. Essendosi poi avanzato il general piemontese
Sinsan verso quelle parti con un maggior nerbo di milizie verso la metà
di novembre, gli Spagnuoli se ne andarono, dopo aver fatto saltare
alcune parti di quel forte e la casa del governatore. Arrivarono a
tempo alcuni Savoiardi per salvare ciò che non era peranche saltato in
aria, e s'impadronirono di alquanti pezzi di cannone rimasti indietro:
nel qual mentre gli Spagnuoli come fuggitivi provarono immensi disagi
e perdita di persone a cagion delle nevi, del rigoroso freddo e della
mancanza di vettovaglia. Così restò libera tutta la valle; e il re di
Sardegna, avendo compensata l'infelice perdita delle piazze marittime
colla felicità di quest'altra impresa, pien d'onore si restituì a
Torino.
La corte di Francia dichiarò in questo anno la guerra alla regina
d'Ungheria per la caritativa intenzione, come si diceva, di
costrignerla alla pace coll'_imperador Carlo VII_; e la dichiarò anche
all'Inghilterra, disponendo tutto per invadere la Fiandra, con che
sempre più s'andò dilatando il fuoco divorator della Europa. Per quanti
sforzi facessero i ministri di Vienna e di Londra per tirare in questo
impegno le Provincie Unite, o, vogliam dire gli Olandesi, nulla di
più nè pur ora poterono ottenere se non che l'Olanda contribuirebbe
il suo contingente di venti mila armati a tenor delle leghe. Troppo
loro premeva di conservare la libertà del commercio colla Francia e
conte Soro con un distaccamento di truppe di entrare nelle città
dell'Aquila, di Teramo e Penna. Si ebbero bene a pentire col tempo
quegli sconsigliati abitanti di avere accolti quei nuovi ospiti con
tanta festa, e di aver prese anche, se pur fu vero, l'armi in loro
favore. Videsi poi sparso per varii luoghi del regno un manifesto
della regina d'Ungheria, contenente le ragioni di aver mossa quella
guerra, coll'animare i popoli alla ribellione. In esso furono toccati
certi tasti che dispiacquero alla sacra corte di Roma; ed essendosene
ella doluta, protestò poi la regina di non aver avuta parte in esso
manifesto.
Stavano dunque a fronte, separate da una valle profonda, le due nemiche
armate, cercando cadauna di ben fortificare i suoi posti, e di occupar
quelli de' nemici. Specialmente nella Faiola e in Monte Spino si
afforzarono gli Austriaci e i Napolispani nel monte dei Cappuccini.
Fioccavano le cannonate dall'una parte e dall'altra. Ma nella notte
antecedente al dì 17 di giugno, avendo il conte di Gages da alcuni
disertori ricavato nome della guardia, ed appresa la situazion degli
Austriaci alla Faiola, sito onde era forte incomodata la regia armata,
con grosso corpo di gente si portò all'assalto di quel posto medesimo,
e se ne impadronì, con far prigioni, oltre agli uccisi, il generale
di battaglia baron Pestaluzzi, il colonnello e tenente colonnello
del reggimento Pallavicini, ed altri uffiziali con ducento sessanta
soldati; e gli servì poi quel sito per inquietar frequentemente
gli Austriaci nel loro campo. Fu cagione questa positura di cose,
cotanto penosa al territorio romano, che il pontefice _Benedetto
XIV_ per sicurezza e quiete di Roma chiamasse colà alcune migliaia
dei miliziotti di varie sue città. Durò poi la vicendevole sinfonia
delle cannonate e bombe sotto Velletri, con poco danno dell'una e
dell'altra parte, sino al dì 10 di agosto; quando il principe di
Lobcowitz, animato dalle notizie prese da un villano di Nemi e da
alcuni disertori, determinò di tentare una strepitosa impresa. Il
disegno suo era d'impadronirsi di Velletri, e di sorprendere ivi il
re delle Due Sicilie, il duca di Modena ed altri primarii uffiziali
della nemica armata. Nella notte adunque precedente al dì 11 del
mese suddetto fece marciare alla sordina due corpi di gente, l'uno di
quattro mila soldati e l'altro di due mila, per diverse vie. Il primo
era comandato ai tenenti generali Braun e Linden, e dai generali di
battaglia Novati e Dolon; e questi fecero un giro verso la sinistra
dell'accampamento napolispano, ed arrivati sul far del giorno al
sito dove erano postati i tre reggimenti di cavalleria della regina,
Sagunto e Borbon, con alcune brigate di fanteria, le quali, quantunque
prive di trinceramenti, non si aspettavano una visita sì fatta, e
tranquillamente dormivano; diedero loro addosso, con attaccar nello
stesso tempo il fuoco alle tende. Molti vi restarono uccisi, altri
rimasero prigionieri; chi ebbe buone gambe, e fu a tempo, si salvò.
Agli abbandonati cavalli furono tagliati i garretti, e per conseguente
tolta la maniera di più servire e vivere. La sola brigata de' valorosi
Irlandesi fece testa, finchè potè; ma sopraffatta dalle forze maggiori,
dopo grave danno, cercò di salvarsi in Velletri. Dietro ai fuggitivi
per quella medesima porta entrarono gli Austriaci nella città, e si
diedero ad incendiar varie case per accrescere il terrore. Presero
l'armi i poveri Velletrani, per difendere ognuno le abitazioni proprie,
ed alquanti vi lasciarono la vita. Avvisato per tempo il re di questa
sorpresa, balzò dal letto, e vestito in fretta si ritirò al posto dei
Cappuccini, ed era solamente in apprensione pel duca di Modena e per
l'ambasciatore di Francia. Ma anche il duca di Modena e l'ambasciatore
ebbero alcuni momenti favorevoli per tener dietro a sua maestà fra le
archibugiate de' nemici. Entrò il general Novali nel palazzo del duca;
furono presi e condotti via tutti i suoi cavalli. Dubbio non ci è, che
se gli Austriaci avessero atteso a perseguitare i Napolispani; e se
fosse giunto a tempo l'altro corpo di gente che dovea raggiugnerli,
restava la città di Velletri in loro potere. Ma, secondo il solito, più
vogliosi i soldati di bottinare che di combattere, si perderono attorno
agli equipaggi degli uffiziali e alle sostanze de' cittadini, con far
veramente un buon bottino, spezialmente dove abitava l'ambasciatore
di Francia, e i duchi di Castropignano e di Atrisco. Ciò diede campo
ad essi Napolispani di rincorarsi e di accorrere alla difesa; e
particolarmente con furore s'inoltrarono le guardie vallone per la
lunga strada di Velletri contra de' nemici. Sorpresero il general
Novati, che s'era perduto a scartabellare le scritture del duca di
Modena, e custodiva le di lui argenterie, che verisimilmente doveano
essere il premio delle sue fatiche, e il fecero prigione. Sopravvenuto
poi un rinforzo del conte di Gages, talmente furono incalzati gli
Austriaci, che chi non rimase o ucciso o prigione, fu forzato a
salvarsi fuori di Velletri, e di lasciar libera la città.
Mentre si facea questa sanguinosa danza in Velletri, il principe di
Lobcowitz con altri nove mila soldati dovea portarsi all'assalto dei
posti della collina fortificati da' nemici. Tardò troppo. Tuttavia gli
riuscì di occupar qualche sito del monte Artemisio. Ma così incessante
fu il fuoco degli Spagnuoli, che quanti si avanzavano, rotolavano
uccisi al fondo della valle, di maniera che dopo un ostinato conflitto
di alcune ore furono forzati anche quegli Austriaci a battere la
ritirata e ad abbandonare gli occupati posti. Terminata la scena,
ognuna delle parti esaltò a dismisura la perdita dell'altra. I più
saggi crederono che tra i morti e prigioni di Napolispani vi restassero
almen due mila persone, fra le quali di prigionieri si contarono circa
ottanta uffiziali, e fra gli altri il general conte Mariani, sorpreso
colla gotta in letto. Vi perderono anche, chi disse nove, e chi dodici
bandiere della brigata d'Irlanda. Dalla banda degli Austriaci rimasero
prigionieri, oltre al generale Novati, diciotto altri uffiziali, e
molti soldati colti in Velletri; e quantunque spacciassero di aver
lasciati morti sul campo solamente circa cinquecento uomini, pure gli
altri fecero ascendere la loro perdita a più di due mila persone.
La verità si è, che se mancò la felicità, non mancò già la gloria
di questo tentativo al principe di Lobcowitz, perchè in simili casi
nè si possono prevedere tutti gli accidenti, nè a tutto provvedere.
Ma certo è altresì che maggior fu la gloria de' Napolispani, i quali
in sì terribil improvvisata, e con tanto avanzamento de' nemici, non
solamente si seppero sostenere, ma anche rovesciarono valorosamente le
loro schiere, superando una tempesta che fece grande strepito entro e
fuori d'Italia. Dopo questo fallo, restate le due armate nei consueti
loro posti, continuarono a salutarsi coi reciproci spari di artiglierie
senza vantaggio degli uni e degli altri. Attese intanto l'infante
re _don Carlo_ a rimontare la sua cavalleria: al che concorsero
tutti i vassalli del regno di Napoli, ed anche quei di Sicilia.
Varii distaccamenti spediti dal re in Abbruzzo ne fecero in questi
tempi sloggiare il colonnello Soro coi suoi partitanti, e tornare
all'ubbidienza della maestà sua le già occupate città. Il rigore
usato contra di quegli abitanti dal comandante napoletano, fu detto
che venisse detestato dalla corte stessa, e tanto più da chi senza
parzialità pesava le azioni degli uomini.
Per tutto il settembre e per quasi tutto l'ottobre stettero in
quella positura ed inazione le due nemiche armate sotto Velletri,
quando si cominciò a scorgere che il principe di Lobcowitz meditava
di decampare, e di ritirarsi alla volta del Tevere, giacchè inviava
innanzi verso Cività Vecchia i suoi malati, e parte delle artiglierie,
munizioni e bagagli. Certamente durante la state non erano cessati
di giugnere nuovi rinforzi di gente al suo campo; ma di gran lunga
sempre maggiore si trovava il numero di coloro che cadevano infermi,
e andavano anche mancando di vita. I caldi di quel paese non si
confacevano colle complessioni tedesche, avvezze ai freddi, e l'aria
delle vicine paludi Pontine stendeva fin colà i perniciosi suoi
influssi, di modo che quanto si trovò in esso ottobre infievolito
lo esercito suo, altrettanto si vide il caso disperato di vincere
la pugna, e di obbligare i Napolispani a retrocedere. Non è già che
restasse esente da gravissimi guai anche l'oste napolispana, stante la
continua diserzione ch'essa patì, maggior di quella degli avversarii,
e la gran quantità de' suoi malati, e la difficoltà di ricevere i
viveri, che bisognava condurre con pericolo ben da lontano, essendosi
spezialmente per qualche tempo trovata in somme angustie per mancanza
di acqua da abbeverar uomini e cavalli. Pure tanta fu la costanza del
re e di tutti i suoi, che sofferirono più tosto ogni disagio, che darla
vinta ai vicini nemici. Pertanto sull'alba del dì primo di novembre il
principe di Lobcowitz levò il campo e in ordine di battaglia s'inviò
verso Ponte Molle, per cui, e per un ponte di barche già formato a
fin di far passare le artiglierie, nel dì seguente ridusse di qua
dal Tevere le genti sue. Perchè da Roma uscirono alcune centinaia
di persone arrolate dal _cardinale Acquaviva_, che infestarono il
loro passaggio, se ne vendicò poscia il principe con dare il sacco
ad alcune innocenti ville. Nello stesso dì primo di novembre anche
l'armata napolispana, trovandosi liberata dai ceppi di tanta durata,
con giubilo inesplicabile si mosse da Velletri per tener dietro ai
nemici, procedendo nondimeno con tanta lentezza, che ben si conobbe
non aver voglia di cimentarsi con loro, siccome quella che contava per
sufficiente vittoria il vederli slontanare da quelle contrade. Nel dì
2 framezzate dal Tevere, i cui ponti erano stati rotti, si fermarono
in faccia le due armate, salutandosi solamente l'una e l'altra con
varie cannonate. Quivi si trovava coll'oste sua il re delle Due Sicilie
_don Carlo_, e sospirando la consolazione di vedere il pontefice
_Benedetto XIV_, e di baciargli il piede, concertò pel dì seguente
l'entrata sua in Roma. Colà portossi la maestà sua, accompagnata dal
_duca di Modena_, dal _conte di Gages_, dal _duca di Castropignano_
e da numerosa altra uffizialità, e fra il rimbombo delle artigliere
di castello Santo Angelo, le quali gran dispetto e mormorazione
cagionarono nel campo tedesco, fu ricevuto con tenero affetto dal santo
padre, e per un'ora continua durò il loro abboccamento.
Confessò dipoi in una delle sue dotte pastorali il buon pontefice,
che fra le altre cose il re gli fece istanza di minorare il soverchio
numero delle feste di precetto (grazia già accordata da sua santità
a varie chiese di Spagna), atteso il detrimento che ne veniva ai
poveri e agli artisti, e ai lavoratori della campagna. Congedatosi
il re da sua Santità, passò dipoi a venerar nella Vaticana basilica
il sepolcro dei santi Apostoli, e a visitar le più rare cose del
vastissimo palazzo pontifizio, dove trovò insigni regali preparatigli
dal santo padre, siccome ancora un lautissimo pranzo per sè e per
tutto il suo gran seguito. Nell'inviarsi fuori di Roma visitò anche
la basilica Lateranense, lasciando da per tutto contrassegni della sua
gran pietà, affabilità e munificenza. Anche il duca di Modena ricevette
dipoi una benignissima e lunga udienza dal pontefice; e laddove il re
s'era incamminato per passare a Velletri e a Gaeta, egli se ne tornò
la sera al campo. Passò dipoi il vittorioso re a Napoli, accolto da
quel gran popolo con incessanti acclamazioni, sigillo della fedeltà ed
amore verso di lui mostrato in sì pericolosa congiuntura. Vedesi data
alla luce la descrizione del rinomato assedio di Velletri, composta
con elegante stile latino dal signor Castruccio Bonamici, uffiziale
militare del suddetto re delle Due Sicilie.
S'andò ritirando l'esercito austriaco su quel di Viterbo, e poscia
su quel di Perugia, inseguito, ma da lungi, dal Napolispano, che,
quantunque superiore di forze, mai non volle e non osò molestarlo.
E perciocchè il conte di Gages, arrivato a Foligno, serrò il
cammino conducente nella Marca; il Lobcowitz, se volle venir di qua
dall'Apennino, altro spediente non ebbe, che di prendere la via del
Furio, per cui passando con grave incomodo delle sue genti, andò
poi a distribuirle a quartieri in Rimino, Pesaro, Cesena, Forlì ed
Urbino. Fu posto il quartier generale in Imola. Vicendevolmente il
conte di Gages ritiratosi da Assisi, Foligno ed altri luoghi, stabilì
il suo quartiere in Viterbo, e mise a riposar la sua armata in que'
contorni, stendendola fin quasi a Cività Vecchia. E tale fu il fine di
questa spedizione pel meditato acquisto di Napoli, che diede occasione
al tribunale dei politici sfaccendati di proferir varie decisioni.
Proruppero i parziali del re delle Due Sicilie in encomii e plausi
per la savia condotta di lui e dei suoi generali, da che avea tenuto
lungi dai suoi confini il potente nemico esercito, e tiratolo nelle
angustie di Valletri, con averlo obbligato a star ivi per tanto tempo
racchiuso. Per lo contrario i ben affetti alla regina di Ungheria si
lasciarono scappar di bocca qualche disapprovazione dell'operato dal
comandante generale austriaco, non sapendo intendere perchè egli avesse
presa la ristrettissima strada di Velletri, e si fosse ostinato io
quella situazione, senza eleggere più tosto, o prima o dappoi, la via
di Sora, od altra per entrare nel regno, dove non era fuor di speranza
qualche mutazione, ed una battaglia potea decidere di tutto. Ma è
troppo avvezza la gente a misurar le lodi e il biasimo delle imprese
dal solo esito loro, quasichè il fine infelice di un'azione faccia
che il saggio non l'abbia con tutta prudenza sul principio intrapresa.
Disgrazia, e non colpa, è ordinariamente l'avvenimento sinistro delle
risoluzioni formate da chi è provveduto di senno. Intanto la misera
città di Velletri respirò dal peso di tanti armati; ma non restò già
esente da altri mali, perchè per gli stenti passati e pel fetore di
tanti cadaveri malamente seppelliti sorse una maligna epidemia in quel
popolo. Spedì il pontefice gente per farne lo spurgo, ed anche aiuto
di pecunia; ma non lasciò per questo di essere ben deplorabile la
lor fortuna. Mentre si facea la guerra fin qui accennata nel levante
dell'Italia, un'altra più fiera, che divampò e si dilatò in questo
medesimo anno nelle parti di ponente trasse a sè gli occhi di tutti.
Avendo finalmente la corte di Spagna ottenuto che il re Cristianissimo
seconderebbe con forze gagliarde i suoi tentativi contro gli stati del
re di Sardegna, si videro in moto alla metà di febbraio gli Spagnuoli,
per tornare dalla Savoia in Provenza. Quivi si accoppiarono poscia
l'infante _don Filippo_ e il _principe di Conty_, supremo comandante
dell'armi franzesi, e per tempo ognun s'avvide, essere le loro mire
dalla parte marittima di Nizza e Villafranca. Contro tanti nemici solo
si trovava il re di Sardegna _Carlo Emmanuele_, a cui fu in questi
tempi dato l'attuai possesso di Piacenza, di Vigevano e dell'altro
paese a lui accordato nella lega di Vormazia; ma nulla perciò egli
sgomentato, si studiò di ben munire di genti e ripari il paese suo
posto al mare.
Prima nondimeno che si desse fiato alle trombe in terra, avvenne una
gran battaglia in mare fra l'ammiraglio inglese _Matteus_ e la flotta
franzese e spagnuola, che s'erano unite in Tolone. Queste ultime la
fama amplificatrice delle cose le faceva ascendere sino a sessanta
vascelli di linea. Erano ben molto meno. Stava il Matteus co' suoi
legni nell'isole di Jeres, attento ai movimenti de' suoi avversarii,
quando, giuntogli l'avviso, nel dì 22 di febbraio, che usciti di
Tolone aveano messo alla vela, passò tosto ad assalire la vanguardia
condotta dalle navi spagnuole. Atrocissimo fu il combattimento verso
capo Cercelli; l'orribile ed incessante strepito di tante artiglierie
sparse il terrore per tutte le coste della Provenza, e corsero infinite
persone sulle alture delle montagne ad essere spettatrici di quella
scena infernale. Per confessione degli stessi nemici, fece maraviglie
di valore l'armata navale di Spagna, comandata dall'_ammiraglio
Navarro_; e tanto più perchè il signor di Court, comandante della
franzese, o non entrò mai veramente in battaglia, o, se v'entrò, poco
tardò a ritirarsi, per non vedere sconciati i suoi legni. Che peraltro
fu creduto che se i Franzesi avessero meglio soddisfatto al loro
dovere, probabilmente potea riuscir quel conflitto con isvantaggio
degl'Inglesi, stante il non essere accorso a tempo in aiuto del Matteus
il vice-ammiraglio Lestok, che fu poi processato per questo. La notte
pose fine a tanto furore; ma nel dì seguente si tornò alle vicendevoli
offese, quando il mare, stato anche nel dì innanzi assai burrascoso,
accresciuta la collera, separò affatto le nemiche armate, spignendole
un fierissimo vento amendue alla volta di Occidente. Perderono gli
Spagnuoli un vascello di sessantasei pezzi di cannone e di novecento
uomini di equipaggio, caduto in man degl'Inglesi sì maltrattato, che,
dopo averne essi estratto il capitano con ducento uomini rimasti in
vita, giudicarono meglio di darlo alle fiamme. Grande fu la copia
dei morti e feriti di essi Spagnuoli: rimasero anche i lor vascelli
talmente sconcertati, che ridotti a Barcellona ed Alicante, non si
sentirono più voglia di tornare in corso. Forse non fu minore il
numero dei morti e feriti dalla parte degli Inglesi, i quali anche per
l'insorta tempesta patirono assaissimo, e si ridussero a Porto Maone. I
soli Franzesi ebbero salve ed illese le lor navi e genti; se con loro
onore, da molti si dubitò. Perchè lo stesso _ammiraglio Matteus_ non
fece di più, fu anch'egli richiamato a Londra, e sottoposto ad un lungo
e rigoroso processo.
Intanto avea il re di Sardegna fatti gagliardi preparamenti di genti
e fortificazioni al fiume Varo, giacchè l'esercito terrestre de'
Gallispani minacciava un'irruzione da quella parte. Alle sboccature
parimente stavano ancorate alquante navi inglesi, per impedire il
passaggio colle loro artiglierie. A nulla servirono quei tanti ripari,
perchè senza difficoltà nel dì 2 di aprile comparve di qua dal Varo
la fanteria spagnuola; al quale avviso i cittadini di Nizza, mercè
della facoltà loro data dal real sovrano, affinchè non rimanessero
esposti a guai maggiori, andarono a presentar le chiavi di quella città
all'_infante don Filippo_. Riposte avea le principali sue speranze il
re sardo nei trincieramenti fatti da' suoi ingegneri a Villafranca e
Montalbano, che certamente parvero inaccessibili, massimamente perchè
alla guardia d'essi vegliavano molte migliaia delle sue migliori
truppe. Ma ossia che intervenisse qualche stratagemma, per cui
l'armata gallispana, ascendente, per quanto fu creduto, a quaranta mila
combattenti, si aprisse senza gran fatica il varco a quel fortissimo
accampamento, con arrivare inaspettatamente addosso al _marchese di
Susa_, e menarlo via prigione; o pure che a forza di furiosi assalti
si superassero tutti gli ostacoli: certo è che nel dì 20 d'aprile
essi Gallispani v'entrarono. Gran resistenza fecero i Savoiardi; più
d'una volta rispinsero le schiere nemiche, e gran sangue fu sparso, e
fatti de' prigionieri dall'una e dall'altra parte. Si sostennero essi
Savoiardi in alcuni siti sino alla notte, in cui il general comandante
_Sinsan_, dopo aver posto presidio nel castello di Villafranca e nel
forte di Montalbano, andò ad imbarcare circa quattro mila de' suoi
colle artiglierie, che potè salvare in molti legni preparati nel
porto di Villafranca, e passò ad Oneglia. Non aspetti alcuno da me
il conto dei morti, feriti e prigioni dell'una e dell'altra parte,
e de' cannoni, bandiere e stendardi presi, perchè so che non amano
di comperar bugie: che di bugie appunto abbondano le relazioni de'
fatti d'armi a misura delle differenti passioni. Poco poi tardarono
Montalbano e il castello di Villafranca a sottomettersi a' Gallispani.
Attese allora il re di Sardegna a ben premunire i passi delle montagne
di Tenda, affinchè lasciassero i nemici il pensiero di penetrar per
quelle parti in Piemonte; e si diede a provveder di tutto l'occorrente
i forti suoi nella valle di Demont e Cuneo, prevedendosi abbastanza
che gli avversarii sarebbono per tentare di nuovo da quella parte una
calata ne' suoi Stati.
Fu nel dì 6 di giugno, che arrivato un grosso distaccamento di
Spagnuoli ad Oneglia, trovò abbandonata quella terra dalle milizie
savoiarde e da buona parte degli abitanti, che si ridussero col più
delle loro sostanze all'alto della montagna. Pensavano intanto i
Gallispani a voli maggiori; e in fatti, avendo ripassato il Varo,
cominciarono dal Colle dell'Agnello e da altri siti, circa il dì 20
di luglio, a calar verso la valle, dove trovarono forti barricate ai
passi, sostenute con vigore per qualche tempo dai Savoiardi, ma poi
abbandonate. S'impadronirono essi Spagnuoli di un ben fortificato
ridotto a Monte Cavallo, e poscia di Castel Delfino; e quindi per la
valle passarono alle vicinanze di Demont. Grandi spese avea fatto il
re di Sardegna per ivi formare una ben regolata fortezza; ma non era
giunto a perfezionarla. Trovavasi egli stesso alla testa della sua
armata in quelle parti, per opporsi agli avanzamenti de' nemici, coi
quali giornalmente accadevano ora favorevoli ora sinistri incontri.
Portò la sventura che una palla infuocata gittata da' Gallispani in
Demont attaccasse il fuoco a quelle fascinate, o pure al magazzino
della miccia, e che si dilatasse l'incendio negli altri. Accorsero
a tal vista i Gallispani, ed ebbero quel forte colla guernigione
prigioniera nel dì 17 d'agosto: dopo di che essendosi ritirato il re
sardo col suo esercito a Saluzzo, eglino passarono nella pianura, e
si diedero a stringere la città e fortezza di Cuneo. Sotto di questa
piazza, mirabilmente difesa dal concorso di due fiumi, avea patito
deliquio altre volte la bravura de' Franzesi, ed era venuta meno la
lor perizia negli assedii: il che commosse la curiosità d'ognuno per
indovinare qual esito avrebbe quell'impresa. Dalla parte sola per cui
si può far forza contra di Cuneo, avea il re di Sardegna fatto ergere
tre fortini o ridotti che coprivano la piazza. Entro v'erano sei
mila, parte Svizzeri e parte Piemontesi, di presidio sotto il comando
del valoroso _barone dì Leutron_, risoluti di far buona difesa. Non
valevano men di loro i cittadini, che, prese animosamente l'armi,
fecero poi di tanto in tanto delle vigorose sortite con danno de'
nemici. Finalmente si videro in armi tutti i popoli di quelle valli
e montagne, ben affezionati al loro sovrano. Colà accorsero ancora
alcune migliaia di Valdesi; e il marchese d'Ormea, sottrattosi in
tal occasione al gabinetto, messosi alla testa delle milizie del
Mondovì col figlio marchese Ferrerio, tutti si diedero ad infestare
i nemici, ad impedire il trasporto de' viveri, foraggi e munizioni al
campo loro, con far sovente de' buoni bottini, e rovesciar le misure
degli assedianti. Giunse intanto da Milano un rinforzo di Varadini,
e il reggimento Clerici col conte _Gian-Luca Pallavicino_ tenente
maresciallo cesareo, comandante di quelle truppe.
Solamente nella notte precedente al dì 13 di settembre aprirono i
Gallispani la trincea sotto di Cuneo, e cominciarono a far giocare le
batterie, e a molestar gravemente la piazza colle bombe; ma se questa
pativa, non patirono meno gli assedianti, perchè spesso assaliti con
somma intrepidezza da que' cittadini e presidiarii. Continuarono poi
gli approcci e le offese sino al dì 30 di settembre, in cui il re
di Sardegna mosse l'esercito suo in ordinanza di battaglia verso le
nemiche trincee. Ossia ch'egli solamente intendesse di avvicinarsi,
e postarsi in maniera da poter incomodare il campo nemico, o pure
che avesse veramente risoluto, siccome animoso signore, di tentare
il soccorso della piazza: la verità si è, che si venne ad un generale
combattimento. Fu detto che un uffiziale ubbriaco portasse l'ordine, ma
ordine non dato dal re, all'ala sinistra di assalire i posti avanzati
degli assedianti, e che, entrata essa in azione, s'impegnò nel fuoco
il restante delle schiere. Dalle ore diecinove sino alla notte durò
l'ostinato conflitto con molto sangue dall'una e dall'altra parte, ma
incomparabilmente più da quella degli assalitori, perchè esposti alle
artiglierie caricate a mitraglia o a cartoccio. Tuttochè per ordine del
re si sonasse la ritirata, la sola notte fece fine all'ire, ed allora
si ricondusse l'esercito sardo ad un sito distante un miglio e mezzo di
là. Fu detto che la cavalleria nemica uscita dai ripari l'inseguisse;
ma lo scuro della notte, e l'aver trovato un bosco di cavalli di
Frisia, impedì loro il progresso. A quanto ascendesse il danno dalla
parte de' Piemontesi, non si potè sapere; se non che conto fu fatto
che circa trecento fossero tra morti e feriti i suoi uffiziali. Da
lì a pochi giorni si scoprì, essere state le mire del re di Sardegna
nel precedente sanguinoso conflitto quelle d'introdurre soccorso in
Cuneo. Ma ciò che allora non gli venne fatto, accadde poi felicemente
nella notte precedente al dì 8 di ottobre, in cui dalla parte del fiume
Stura passò senza ostacoli nella piazza un migliaio de' suoi soldati,
con molti buoi ed altre provvisioni e danaro. Era intanto sminuita non
poco l'armata gallispana per la mortalità e diserzion delle truppe;
di gravi patimenti avea sofferto sì per le dirotte pioggie e per li
torrenti che aveano impedito il trasporto de' viveri e foraggi per
la valle di Demont, come ancora per l'incessante infestazione de'
paesani che faceano continuamente prigioni e prede. Si scorse in fine
ch'essa non era in forze, come si decantava, perchè non potè mai tenere
corpi valevoli ai fiumi, che formassero un'intera circonvallazione
alla piazza. Però dopo circa quaranta giorni di trincea aperta, e
dopo cagionata gran rovina di case in Cuneo, ma senza aver mai fatto
acquisto di alcuna nè pur delle fortificazioni esteriori, nella notte
precedente al dì 22 di ottobre, abbruciato il loro campo, i Gallispani
colla testa bassa e con gran fretta si levarono di sotto a quella
fortezza, incamminandosi alla volta di Demont. Uno sprone ancora ai
lor passi era il timore delle nevi che li cogliessero di qua dall'Alpi
con pericolo di perire uomini e giumenti per mancanza del bisognevole.
Lasciarono indietro più di mille e cinquecento malati; ed inseguiti da
varii distaccamenti di fanti e cavalli, e travagliati dai montanari,
sofferirono altre non lievi perdite e danni. Fermaronsi in Demont
cinque o sei mila Spagnuoli non tanto per coprire la ritirata del
resto dell'esercito e delle artiglierie, quanto ancora per minar le
fortificazioni della fortezza, ben prevedendo di non potersi quivi
mantenere nel verno. Essendosi poi avanzato il general piemontese
Sinsan verso quelle parti con un maggior nerbo di milizie verso la metà
di novembre, gli Spagnuoli se ne andarono, dopo aver fatto saltare
alcune parti di quel forte e la casa del governatore. Arrivarono a
tempo alcuni Savoiardi per salvare ciò che non era peranche saltato in
aria, e s'impadronirono di alquanti pezzi di cannone rimasti indietro:
nel qual mentre gli Spagnuoli come fuggitivi provarono immensi disagi
e perdita di persone a cagion delle nevi, del rigoroso freddo e della
mancanza di vettovaglia. Così restò libera tutta la valle; e il re di
Sardegna, avendo compensata l'infelice perdita delle piazze marittime
colla felicità di quest'altra impresa, pien d'onore si restituì a
Torino.
La corte di Francia dichiarò in questo anno la guerra alla regina
d'Ungheria per la caritativa intenzione, come si diceva, di
costrignerla alla pace coll'_imperador Carlo VII_; e la dichiarò anche
all'Inghilterra, disponendo tutto per invadere la Fiandra, con che
sempre più s'andò dilatando il fuoco divorator della Europa. Per quanti
sforzi facessero i ministri di Vienna e di Londra per tirare in questo
impegno le Provincie Unite, o, vogliam dire gli Olandesi, nulla di
più nè pur ora poterono ottenere se non che l'Olanda contribuirebbe
il suo contingente di venti mila armati a tenor delle leghe. Troppo
loro premeva di conservare la libertà del commercio colla Francia e
- Parts
- Annali d'Italia, vol. 7 - 01
- Annali d'Italia, vol. 7 - 02
- Annali d'Italia, vol. 7 - 03
- Annali d'Italia, vol. 7 - 04
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