Annali d'Italia, vol. 7 - 35

Genovese, e comandante della medesima, nel giorno appresso capitolò la
resa, restando prigioniere di guerra il presidio. Uscì poi nel dì 5 di
luglio un editto del re sardo, in cui dichiarò non essere intenzione
della regina d'Ungheria nè sua, pendente la dimora delle loro truppe
negli Stati di Modena, e durante l'assenza del duca, di attribuirsi
verun gius di permanente sovranità e dominio in essi Stati, ma quella
sola autorità che in sì fatta situazion di cose veniva dal diritto
della guerra e dalla comune loro difesa permessa. Furono occupate tutte
le rendite ducali, e tolte l'armi a tutti gli abitanti tanto della
città che forensi.
Mentre si facea questa terribil sinfonia sotto la cittadella di Modena,
si stava più d'uno aspettando qualche prodezza del generale spagnuolo
_duca di Montemar_, che colle sue genti era postato a Castelfranco,
siccome quegli che era decantato per conquistatore di regni. Ma per
disavventura non fece egli mai movimento alcuno per attaccare gli
Austriaco-Sardi al Panaro, tuttochè sparsi in una linea di molte
miglia su quelle rive, e benchè dalla parte di Spilamberto e Vignola
non avesse argini quel fiume. Crebbe anche maggiormente lo stupore
negl'intendenti, perchè almen quattro mila combattenti alleati erano
impegnati nelle trincee sotto la cittadella, e nella sera quattro
altri mila venivano dal Panaro a rilevar questi altri; laonde il campo
d'essi restava alleggerito d'otto mila persone. E pure con tutta pace
stette il Montemar contando le bombe e cannonate de' nemici, sparate
non contra di lui, e spettatore tranquillo delle sventure del duca
di Modena; di modo che alcuni giunsero a sospettare intelligenza del
medesimo col re di Sardegna, o che un segreto ordine del _cardinale
di Fleury_ avesse posto freno alla sua bravura (tutte insussistenti
immaginazioni); ed altri in fine si fecero a credere ch'egli fosse
solamente un valoroso generale, allorchè avea che fare con gente
incapace di resistere, o avesse accordo con lui di non resistere.
Crebbero molto più le maraviglie, perchè nella notte del dì 18 di
giugno esso Montemar levò il campo da Castelfranco, ed inviandosi con
tutti i suoi a San Giovanni e a Cento, mandò i malati ne' borghi di
Ferrara. Poteva impadronirsi del Finale, dove falso è che si trovassero
fortificati i nemici, come egli poscia volle far credere. Giunto bensì
al Bondeno nella notte del 26 di giugno, e quivi posto e fortificato
un ponte sul Panaro, spedì di qua dieci o dodici mila de' suoi. Non vi
era persona che non si aspettasse ch'egli imprendesse la difesa della
Mirandola, e che anzi v'entrasse, giacchè il cavalier Martinoni ivi
comandante gli avea richiesto soccorso, e l'avea invitato a venire.
Ma nulla di questo avvenne, senza che mai s'intendesse perchè egli
facesse quella scena di marciar colà e di passare il Panaro, per poi
nulla operare. Vi fu anche di più. All'avviso della di lui marcia, il
re di Sardegna e il conte di Traun spedirono la maggior parte della
lor cavalleria al Finale, per vegliare a' di lui andamenti. Trovavasi
questo corpo di gente senza fanteria e senza artiglierie; e pure
con tutte le forze dell'esercito suo il Montemar in tanta vicinanza
non pensò mai a molestarlo, non che a sorprenderlo: condotta che
maggiormente eccitò le dicerie contro il di lui onore.
Con tutto suo comodo s'era intanto trattenuta in riposo a Modena
l'armata austriaco-sarda senza apprensione alcuna del Montemar quando
nel dì 9 di luglio si mise in viaggio alla volta della Mirandola;
dove giunta, diede principio nel dì 13 agli approcci, ben corrisposta
dalle artiglierie della città. Ma da che anche le batterie dei cannoni
e de' mortari cominciarono a fulminar quella piazza, e seguì in essa
l'incendio di molte case; la guernigione, già chiarita che niun pensava
a soccorrerla, nel dì 22 del mese suddetto dimandò di capitolare;
restando prigioniera, finchè il duca di Modena si inducesse a cedere
le fortezze di Montalfonso, di Sestola e della Veruccola agli alleati,
con promessa di restituirle alla pace; e queste poi furono cedute.
Pertanto con breve peripezia si vide spogliato di tutti i suoi Stati
il duca di Modena, il quale, in mezzo a sì pericolosi imbrogli, provò
tante contrarie fatalità, che niun potrebbe immaginarsele, ma ch'egli
coraggiosamente sopportò. Videsi appresso destinato amministrator
generale d'essi Stati per le due corone il _conte Beltrame Cristiani_,
il quale tante pruove diede dipoi della sua onoratezza, attività e
prudenza, che, sapendo accoppiar insieme il buon servigio de' suoi
sovrani coll'amorevolezza verso de' popoli, meritò poi di essere creato
gran cancelliere della Lombardia austriaca, e di riportar le lodi di
ognuno, dovunque si stese la sua autorità. Fin qui era stato il _duca
di Montemar_ placido osservatore del destino della Mirandola, come se a
lui nulla importassero i progressi de' suoi nemici. Certamente non fu
di sua gloria l'essersi portato al Bondeno; ed aver passato il Panaro
solamente per mirare anche la caduta d'essa fortezza sotto gli occhi
suoi. Da più persone ben informate si sosteneva che lo esercito suo,
non ostante la diserzione sofferta, numerava tuttavia circa trenta mila
combattenti, ed erano in viaggio quattro mila Napoletani per unirsi con
lui. Si strignevano nelle spalle gli uffiziali dell'armata stessa di
lui al mirar tanta inazione, con tali forze e sì buona situazione. Ora
appena seppe egli la resa di essa fortezza, che finalmente determinò
di fare un premeditato bel colpo: colpo nondimeno, che parve a molti
poco onorevole al nome spagnuolo. Cioè prese la marcia coll'esercito
suo verso il Ferrarese e Ravennate con fretta tale, che non minore
si osserva in chi è rimasto sconfitto, lasciando indietro carriaggi
e munizioni non poche. Ma non furono pigri gli Austriaco-Sardi a
muoversi anch'essi, e venuti per castello San Giovanni a Bologna, si
avviarono per la strada maestra nella Romagna, sperando di raggiugnere
i fuggitivi Napolispani. Questi per buona ventura aveano avuto gambe
migliori, e, pervenuti nel dì 31 di luglio a Rimino, quivi si diedero a
fare un gran guasto, cioè a fortificarsi con trincieramenti, spianate
e tagli di alberi in grave desolazione di quel popolo. Pareva oramai
inevitabile qualche gran fatto d'armi in quelle strettezze, essendo
pervenuti colà anche gli alleati, vogliosi di far pruova dell'armi
loro; quando nel dì 10 di agosto il generale di Montemar fece ben
mostra di aspettar con piè fermo i nemici, anzi di voler venire
a battaglia, ma allo improvviso decampò anche di là, ritirandosi
sollecitamente a Pesaro e Fano, dove precedentemente erano state
premesse le artiglierie e bagagli.
Chiunque nelle precedenti guerre avea mirato il _principe Eugenio_ con
soli trenta mila armati tenersi forte contro l'esercito gallispano,
quasi il doppio numeroso di gente, al vedere la tanto diversa
condotta di quest'altro generale, non sapea trattenersi dallo stupore
o dalla censura. E non è già che fossero sì infievolite le di lui
forze, giacchè la maggior diserzione fu in quella sua precipitosa
ritirata, e ciò non ostante egli stesso si vantò poscia, in tempo che
i Napoletani s'erano separati da lui, di aver lasciata al conte di
Gages suo successore un'armata di diciotto mila combattenti, atti ad
ogni maggiore impresa, ma che tali per disgrazia non erano stati in
addietro. Strana cosa fu ch'egli allegasse per motivo di quest'altra
ritirata ciò che, siccome diremo, avvenne in Napoli solamente nel
dì 19 d'esso mese. Andò egli dunque, dopo varie frettolose marcie, a
intanarsi nella valle di Spoleti, dove gli sembrò di essere sicuro,
stante l'avviso che i collegati aveano risoluto di lasciarlo in pace.
Tenuto in fatti consiglio dal re di Sardegna e dal maresciallo conte
di Traun, prevalse il parere del primo di non passare di là di Rimino,
e di non più inseguire chi combattea con le sole gambe. In oltre pel
singolare rispetto ed affetto ch'esso re sardo professava al sommo
pontefice _Benedetto XIV_, gli premeva di non maggiormente essere
d'aggravio agli Stati della Chiesa: motivo che l'avea trattenuto in
addietro dal passare colà dal Modenese. Quel nondimeno che vie più
preponderava nell'animo suo, era il bisogno dei proprii Stati, che
il richiamava colà per guardarsi dalle minaccie di un altro esercito
spagnuolo. Sicchè da lì a non molto si videro ritornare al Panaro
su quel di Modena le schiere e squadre austriaco-sarde. Nel dì 31
d'agosto arrivò a Reggio il re di Sardegna, e vi si fermò fino al
dì 6 di settembre, in cui venutegli nuove disgustose di Piemonte,
sollecitamente s'inviò alla volta di Torino, dove sfilava intanto
la maggior parte delle sue milizie. Lasciò pochi suoi reggimenti nel
Modenese sotto il comando del _conte d'Aspremont_, il quale unitamente
col conte Traun s'andò fortificando in varii siti di qua dal Panaro, e
massimamente a Buonporto.
In questi medesimi tempi accadde una novità in Napoli, per cui gran
romore e tumulto fu in quella capitale. Nel dì 19 d'agosto comparvero
a vista di quel porto sei navi da guerra inglesi di sessanta cannoni,
quattro fregate, un brulotto e tre galeotte da bombe. Corse a furia il
popolo ad osservare quella squadra, e la corte, entrata in apprensione,
spedì nel giorno seguente il consolo inglese al comandante di essi
legni, per esplorare la di lui intenzione. La risposta fu, che se
il re non cessava di assistere i nemici della regina, egli teneva
ordine di devastare quella città colle bombe; e che lasciava tempo di
due ore a sua maestà per risolvere. Indi, cavato fuori l'orologio,
cominciò a contarne i momenti. Niuno mai in addietro avea pensato a
provvedere il porto e la spiaggia di Napoli di ripari per somigliante
minaccia; e nè pur si trovava nel castello del porto provvisione di
polvere da fuoco. Però, senza perdersi in molte discussioni, quella
corte nel breve suddetto spazio di tempo accettò la neutralità, e
spedì lettere mostrate al comandante inglese, colle quali richiamava
il _duca di Castropignano_ colle sue truppe nel regno. Ciò ottenuto,
senza commettere alcuna ostilità, fece vela la squadra inglese verso
ponente. Il pericolo presente servì appresso di ammaestramento per
alzare fortini e bastioni muniti di artiglierie, di maniera da non
paventar da lì innanzi chi tentasse di accostarsi con palandre e
galeotte per salutar colle bombe quella metropoli. Restò poi eseguito
l'ordine regio, e le milizie napoletane staccatesi dalle spagnuole
tornarono ai quartieri nelle loro contrade: con che si ridusse
l'esercito spagnuolo, siccome dicemmo, a circa diciotto mila persone,
che poi prese quartiere parte in Perugia e parte in Assisi e Folignano.
Fu in questo medesimo tempo, che la corte di Spagna, avvedutasi un
poco troppo tardi di avere raccomandata la fortuna e l'onore delle
sue armi ad un generale che sì male corrispondeva alle sue speranze,
richiamò in Ispagna il _duca di Montemar_, e, adirata contra di lui,
comandò che non si avvicinasse alla corte per venti leghe. Fece questo
passo svanire le immaginazioni dei suoi parziali, persuasi in addietro
ch'egli tenesse ordini di non azzardar battaglia e di salvar la gente,
facendola solamente ben menar le gambe per ischivar gl'impegni. Andò
egli, e durò non poco la sua disgrazia alla corte. Ma perchè egli
non mancava di amici e di merito per altre sue belle doti, col tempo
fu rimesso in grazia. Videsi un manifesto suo, con cui si studiò
di giustificar le azioni sue in questa campagna; ma nulla sarebbe
più facile che il far conoscere l'insussistenza delle sue scuse, e
massimamente se uscissero alla luce i biglietti da lui scritti al duca
di Modena e alla Mirandola in queste emergenze. Restò dunque al comando
dell'esercito spagnuolo il tenente generale _don Giovanni di Gages_
Fiammingo, che pel valore, per l'avvedutezza, e per la scienza militare
potea servire di maestro agli altri. Nel dì 14 di settembre, in cui
s'inviò il Montemar verso la Spagna, il Gages in tre colonne mosse
l'esercito suo alla volta di Fano, siccome consapevole del rilevante
smembramento dell'armata austriaco-sarda; e alla metà di ottobre arrivò
a postar le sue genti alla Certosa di Bologna, e in quelle vicinanze,
con alzare trincieramenti ed altri ripari da difesa. Accorsero anche
gli Austriaco-Sardi alle rive del Panaro, e misero alquanti armati in
Vignola e Spilamberto. Si stettero poi sino al fine dell'anno guatando
da lontano le due armate, e il maresciallo di Traun mise il suo
quartier generale a Carpi.
Un'altra guerra intanto ebbe il re di Sardegna, per cui fu obbligato a
restituirsi in Piemonte. Fu comunemente creduto ch'esso real sovrano
non avesse tralasciato, sì nel principio che nel proseguimento di
questa guerra, di far varie proposizioni di partaggio della Lombardia
alla corte di Spagna per mezzo del _cardinale di Fleury_, che sempre si
mostrò ben affetto verso di lui. Tali progetti riguardavano egualmente
i vantaggi della real casa di Savoia e dell'infante _don Filippo_,
a cui si cercava un riguardevole stabilimento in essa Lombardia,
e massimamente in Parma e Piacenza, città predilette della regina
_Elisabetta Farnese_ sua madre. Fu del pari creduto che la corte del
re Cattolico non aderisse a cedere parte delle meditate conquiste,
perchè avida di tutto, ed assai persuasa di poter colle sue forze
conseguir tutto. Quali poi fossero i sinceri desiderii della corte di
Francia nelle dispute di questi due pretendenti non si potè penetrare,
se non che fu giudicato da molti ch'essa acconsentisse bensì a qualche
acquisto in Lombardia pel suddetto infante don Filippo, ma non già
sì pingue che alterasse l'equilibrio dell'Italia, e potesse un dì
nuocere alla Francia stessa, ben prevedendosi che non durerebbe per
sempre la buona armonia fra quella corte e quella di Spagna. L'aver
dunque la Spagna dato a conoscer il genio troppo vasto, fece immaginare
agl'interpreti de' gabinetti che perciò il cardinale niun soccorso
di gente volesse somministrarle contra del re di Sardegna, tuttochè
esso porporato ricavasse dall'erario spagnuolo grossissime mensuali
somme di danaro, per divertire la regina d'Ungheria dalla difesa degli
Stati d'Italia. Si oppose ancora, per quanto potè, esso cardinale alla
venuta in Provenza dall'_infante don Filippo_, tuttochè genero del
re Cristianissimo _Luigi XV_; ma non potè impedire che la regina di
Spagna non l'inviasse colà di buon'ora ad aspettar l'unione d'un corpo
di truppe, ascendente a più di quindici mila Spagnuoli, che parte per
mare, parte per terra andò arrivando ad Antibo e ad altri luoghi della
Provenza. Più tentativi fece questa armata nel luglio ed agosto, ora
per passare il Varo, ora per penetrare nella valle di Demont; ma sì
buoni ripari avea fatto il re di Sardegna, e sì possenti guardie avea
messo nel contado di Nizza, che indarno si provarono gli Spagnuoli
di passare colà; e tanto più vana riuscì ogni loro speranza, perchè
l'ammiraglio inglese Matteus con poderosa flotta si trovava in que'
mari e contorni, per sostenere le milizie savoiarde. Nella stessa
maniera andarono in fumo le lor minaccie contro la valle di Demont, e
in altre sboccature verso l'Italia. O sia che le trovate resistenze
facessero cangiar disegno, o pure che le vere mire fin da principio
non fossero verso quelle parti; in fine sul principio di settembre
l'esercito spagnuolo comandato dall'infante, che sotto di sè avea il
generale _conte di Glimes_, governatore della Catalogna, entrò nella
Savoia, e nel dì 10 d'esso mese s'impadronì della capitale, cioè di
Sciambery con citare i popoli a rendergli omaggio, e con intimar gravi
contribuzioni.
L'avviso di tale invasione quel fu che sollecitò _Carlo Emmanuele_ re
di Sardegna a rendersi in Piemonte, e ad affrettare il ritorno colà di
buona parte delle sue truppe, dimorate per tanto tempo sul Modenese.
Appena ebbe egli unite le convenevoli forze, che nel suo consiglio
espose la risoluzione da lui formata di snidar dalla Savoia i nemici. I
più de' suoi uffiziali arringarono in contrario, adducendo la mancanza
de' magazzini e foraggi in quella provincia, e il pericolo delle nevi
per quelle alte montagne. Ma l'animoso sovrano ebbe una ragion più
possente dell'altre, cioè il suo coraggio e la sua volontà; e perciò
verso la metà d'ottobre marciò l'esercito suo per più parti alla volta
della Savoia. Non si sentì voglia l'infante don Filippo di aspettarli,
perchè non arrivava il nerbo della sua gente a quindici mila persone.
Ritirossi pertanto in sacrato, cioè sotto il forte di Barreau nel
territorio di Francia, lasciando abbandonata tutta la Savoia al suo
sovrano. Pervenne il re sino a Monmegliano, e quivi il rispetto da lui
professato al re Cristianissimo e agli Stati della Francia fermò il
corso ai passi delle sue truppe, e ad ogni altra impresa. Ciò fatto,
attese egli a riordinar le cose di quel ducato, a mettere in armi tutti
que' sudditi, somministrando loro fucili, giacchè erano stati disarmati
dagli Spagnuoli; e a rinforzar varii siti e forti, per opporsi ad
ulteriori tentativi de' nemici. Venne il dicembre, e venne anche
rinforzato il campo spagnuolo da un buon corpo di truppe, con prenderne
il comando il _marchese de la Mina_, giacchè _il conte di Glimes_ era
stato richiamato in Ispagna. Allorchè gli Spagnuoli si videro assai
forti, rientrarono nella Savoia, e si ritrovarono le nemiche armate
alla vigilia d'un fatto di armi. Forse non l'avrebbe schivato il re di
Sardegna; ma chiarito che, quando anche la vittoria si fosse dichiarata
per lui, non poteano le milizie sue sussistere nel verno in un paese
sprovveduto affatto di grani e di foraggio, determinò più tosto di
ricondursi in Piemonte sul fine dell'anno. S'avverò allora quanto gli
aveano predetto i suoi uffiziali, cioè, che l'Alpi dividenti l'Italia
dalla Savoia gli farebbono guerra. S'erano in fatti caricate di nevi; e
pur convenne passarle, ma con gravissimi disagi, e con perdita di molta
gente perseguitata dai nemici, e di varii attrezzi ed artiglierie, e
vie più di cavalli, muli e carriaggi; laonde, se fu molta la gloria di
avere scacciati i nemici dalla Savoia, restò essa ben contrappesata
dal molto danno di quella o forzata o volontaria ritirata. Solamente
nel dì 3 del seguente gennaio arrivò il re a Torino col principe di
Carignano; e intanto gli Spagnuoli tornarono in pieno possesso della
Savoia, senza che que' popoli facessero risistenza alcuna; mostrando la
sperienza che per quanto i sudditi amino il loro principe, pure anche
più di esso amano sè stessi. Soggiacque nell'anno presente la città di
Livorno ad una deplorabil calamità, per avere il tremuoto, verso la
metà di febbraio, cominciato a scuotere le case di quegli abitanti.
Altre simili scosse si fecero poscia udire sul fine d'esso mese con
tale indiscretezza, che varie chiese ne patirono rovina, e moltissime
case ne rimasero sì desolate, o colle mura sì smosse, che i padroni di
esse salvatisi nella campagna o nelle navi, più non si attentavano a
riabitarle. Fu in quest'anno che il sommo pontefice _Benedetto XIV_,
tuttochè non poco agitato e distratto per l'aggravio inferito ai suoi
Stati da tante milizie straniere che quivi, come in casa propria,
giravano o fissavano anche il lor soggiorno; pure, intento sempre al
pastoral governo, pubblicò, nel mese di agosto, una risentita bolla
contra di chi non ubbidiva ai decreti della santa Sede intorno a
certi riti cinesi già vietati, e ciò non ostante permessi da alcuni
missionarii a que' novelli cristiani. Tali pene intimò, e tali ripieghi
prescrisse, che si potè promettere da lì innanzi un'esatta osservanza
delle costituzioni apostoliche.


Anno di CRISTO MDCCXLIII. Indiz. VI.
BENEDETTO XIV papa 4.
CARLO VII imperadore 2.

Toccò al territorio di Modena di aprire in quest'anno il teatro
delle azioni militari con una non lieve battaglia. Sapea il _conte
di Gages_ che gli Austriaci e Sardi restavano divisi in più corpi e
luoghi; e che i principali posti da loro guerniti di gente erano il
Finale e Buonporto, amendue sul Panaro; e però pensò alla maniera di
sorprendere uno de' loro quartieri. Poco dopo il principio di febbraio,
affinchè non si penetrasse il suo disegno, finse un considerabil
furto a lui fatto, e nascosto il ladro in Bologna. Pertanto fece
istanza al cardinale legato che si chiudessero le porte della città,
e si lasciasse entrar gente, ma non uscirne alcuno. Fermossi egli
nella stessa città con alquanti uffiziali, affaccendati in traccia
del preteso ladro. Sull'alba del seguente dì 2 di febbraio s'inviò la
picciola armata sua alla volta di San Giovanni e di Crevalcuore, e nel
dì seguente, passato il Panaro fra Solara e Camposanto, quivi stabilì
e assicurò un ponte. Nulla di ciò ch'egli sperava gli venne fatto;
perchè la notte stessa, in cui da Bologna si mosse l'esercito suo,
persona nobile parziale della regina d'Ungheria mandò giù dalle mura di
quella città lettera di avviso di quanto manipolavano gli Spagnuoli a
chi frettolosamente la portò a Carpi al maresciallo _conte di Traun_.
Furono perciò a tempo spediti gli ordini alle truppe esistenti nel
Finale di ritirarsi, ed altri ne andarono a Parma ed altri siti, dove
si trovavano milizie austriaco-sarde. Raunate che furono tutte, il
maresciallo, unitosi col _conte di Aspremont_ generale delle savoiarde,
nel dopo pranzo del dì 8 del suddetto febbraio andò in traccia del
Gages, che ritiratosi a Camposanto, e coperto dall'un canto dalle rive
del Panaro, dall'altro s'era afforzato nella parrocchiale e in varie
case di quel contorno. Correva allora un freddo atrocissimo, e al bel
sereno erano stati per più notti i poveri soldati in armi e in guardia.
Venne il tempo di menar le mani, e si attaccò la sanguinosa zuffa, che,
per essere allora il plenilunio, durò sino alle tre ore della notte, in
cui gli Spagnuoli, dopo avere spogliati i suoi morti e mandati innanzi
i feriti, si ritirarono di là dal Panaro, e ruppero il ponte, poscia
sollecitamente si restituirono al loro campo sotto Bologna; giacchè il
maresciallo di Traun non giudicò bene di permettere ad altri, che agli
Usseri, d'inseguirli di là dal fiume; e forse non potè di più, perchè
senza ponte. Secondo il solito delle battaglie che restano indecise,
ciascuna delle parti si attribuì la vittoria, e non mancò ragione, sì
agli uni che agli altri, di cantare il _Te Deum_.
Certo è che gli Austriaco-Sardi rimasero padroni del campo di
battaglia, e costrinsero gli avversarii a ritirarsi, e che il
maresciallo di Traun, benchè malconcio dalla gotta, fece meraviglie
di sua persona, e che gli furono uccisi sotto due cavalli, e tutta
anche la notte stette a cavallo d'un altro. Del pari è certo che gli
Spagnuoli, o per inavvertenza, o per non potere inviare l'avviso, o
pure per coprire la loro ritirata, lasciarono indietro in una cassina
un battaglione di Guadalaxara, che fece bella difesa, ma in fine
fu obbligato a rendersi prigioniere di guerra. Consisteva in più
di trecento soldati, e circa ventotto uffiziali con tre bandiere,
oltre a quasi cento altri prigioni. Gli effetti poi mostrarono che la
peggio era toccata agli Spagnuoli. Contuttociò è fuor di dubbio che
il generale _conte di Gages_ si trovava inferiore di forze, per aver
dovuto lasciare circa due mila persone di là dal fiume a custodire la
testa del ponte, per sospetto che i nemici spedissero genti a quella
volta. Nulladimeno sul principio riuscì alla cavalleria spagnuola di
rovesciar la cavalleria tedesca dell'ala sinistra, e di metterla in
fuga; e se il duca di Atrisco, in vece di perdersi ad inseguirla verso
la Mirandola, fosse ritornato più presto al campo contro la nemica
fanteria, comune sentimento fu che l'armata austriaco-sarda rimaneva
disfatta. Otto furono gli stendardi e due i timbali presi dagli
Spagnuoli. Ebbero prigionieri il governatore di Modena _commendatore
Cumiana_, e i tenenti generali _conte Ciceri e Peisber_, che furono
rilasciati sulla parola, l'ultimo dei quali sopravvisse poco alle
sue ferite. Presero oltre ventidue altri uffiziali e circa ducento
soldati. Quanto ai morti e feriti, ognuna delle parti esagerò il danno
dei nemici, facendosi ascendere sino a quattro mila, ed anche più,
con poscia sminuire il proprio. Fu nondimeno creduto che restasse
molto indebolita l'armata spagnuola, e che, abbondando essa di
uffiziali molto più che quella degli alleati, più ancora ne perissero
o restassero feriti; e che se non furono maggiori i vantaggi riportati
da essa, forse ne fu maggiore la gloria, perchè fin la sua ritirata
meritò plauso, siccome fatta con tal ordine e segretezza, che non se
ne avvidero i nemici, se non allorchè mirarono attaccate le fiamme al
ponte sul Panaro. Secondo i conti degli Austriaco-Sardi, non arrivò a
due mila il numero dei loro morti, feriti e rimasti prigioni. Nè si dee
tacere che il _conte d'Aspremont_, savio e valoroso comandante generale
delle milizie savoiarde, talmente si chiamò offeso per una lettera a
lui mostrata, in cui si prediceva che le truppe del re di Sardegna,
venendo un conflitto, si unirebbono con gli Spagnuoli, che non guardò
misure nell'esporsi ai pericoli. Per una palla che il colpì nelle reni
e passò alle parti inferiori, fu portato a Modena, dove, dopo essere
stato per più giorni fra i confini della vita e della morte, finalmente
nel dì 27 di febbraio pagò il tributo della natura, compianto non poco
per le sue degne qualità. Funesta memoria della battaglia di Camposanto
restò in quella villa e nelle circonvicine, perchè nel dì seguente,
dappoichè gli Austriaco-Sardi si videro liberi dagli Spagnuoli, vollero
compensarsi del bottino che non aveano potuto fare addosso i nemici,
con dare il sacco agl'innocenti abitanti di esse ville. Per questa
crudeltà fu detto che mostrasse gran dispiacere il maresciallo di
Traun, cavaliere di buone viscere, contro il cui volere certamente
questo avvenne; ma senza potere scusare la poca precauzione sua in
prevedere ed impedire gli eccessi della militare avidità. Avvisato
nondimeno del disordine, spedì tosto guardie alle chiese, e, il meglio
che potè, provvide al resto.
Erasi ben ritirato dopo la battaglia suddetta il conte di Gages ne'
trincieramenti suoi presso Bologna, e gli aveva anche accresciuti,
facendo vista di voler quivi, come prima, fissare la permanenza
sua. Non andò molto che si conobbe quanto gli fosse costato quel
combattimento, essendosi ridotta l'armata sua, per quanto fu creduto,
a poco più di otto o dieci mila persone. Sperava egli dei rinforzi
da Napoli; ma, per quante premure ed ordini venissero dalla corte di
Madrid che pure sembrava dispotica nelle Due Sicilie, il ministero
del re _don Carlo_, atteso l'impegno di neutralità concordata
con gl'Inglesi, e il timore della lor flotta signoreggiante nel
Mediterraneo, sempre ricusò d'inviar soccorsi al Gages, a riserva
di qualche partita che sotto mano trapelava colà. All'incontro dalla
Germania era calata gente ad ingrossare l'esercito austriaco, e già
il maresciallo di Traun avea spedito sul Bolognese e Ferrarese circa
dodici mila armati, che minacciavano di passare anche in Romagna per
impedire agli Spagnuoli il trasporto de' viveri e foraggi da quella
provincia. Pertanto il timore di restar troppo angustiato fece prendere
al Gages la risoluzione di mandare innanzi l'artiglierie e i malati,
ed egli poi nel dì 26 di marzo, levato il campo, marciò alla volta
di Rimino, e quivi si fece forte col favore di quella vantaggiosa
situazione. Da che _Francesco III d'Este_ duca di Modena si portò a
Venezia, dopo l'occupazion de' suoi Stati, colla duchessa e figli,
s'era ivi sempre trattenuto sulla speranza che i maneggi suoi o la
fortuna dell'armi facessero tornare il sereno ai proprii affari.
Nulla di questo avvenne; ma la generosa corte di Spagna non volle già
abbandonato un principe, non per altro abbattuto, se non per l'aderenza
sua alla corona spagnuola, e per non aver voluto accordarsi co' nemici
d'essa. Gli conferì dunque il Cattolico _re Filippo V_ la carica di
generalissimo delle sue armi in Italia, con salario convenevole ad
un pari suo. Giudicò anche bene la duchessa sua consorte _Carlotta
Aglae d'Orleans_ di passare a Parigi colla _principessa Felicita_
sua primogenita, per implorare il patrocinio del re Cristianissimo
_Luigi XV_ nel naufragio della sua casa. Nel dì 4 di maggio arrivò
questa principessa a Rimino, accolta dall'esercito spagnuolo con