Annali d'Italia, vol. 7 - 33

botteghe. Giunse la plebe fino a minacciar loro un totale esterminio,
se per avventura non succedeva la consueta liquefazione del sangue di
san Gennaro, perchè questo creduto gran male si sarebbe attribuito al
demerito di ospiti tali, segreti odiatori del cristianesimo. In somma
tanto crebbe col tempo il timore nei medesimi giudei, che a poco a poco
andarono sfumando da Napoli; e se alcuna ve ne resta, è perchè poco
ha da perdere, e sa sottrarsi alla conoscenza del popolo. Riuscì per
lo contrario di molta soddisfazione ai regnicoli un trattato di pace e
navigazione stabilito in Costantinopoli dal _re don Carlo_ colla Porta
Ottomana nel dì 7 di aprile per mezzo del cavalier Finocchietti suo
plenipotenziario, per cui si aprì la libertà del commercio fra i Turchi
e i regni di Napoli e Sicilia, e cessò ogni ostilità fra essi, con
isperanza ancora che il gran signore impegnerebbe in un trattato simile
le reggenze di Algeri, Tunisi e Tripoli. Di sè, e non del sovrano,
attento al bene dei suoi popoli, si ebbe a dolere chi non profittò
di così bella apertura ai guadagni. Fu poi dichiarato ambasciatore il
principe di Francavilla, per passare alla Porta, con superbi regali da
presentarsi al gran signore.


Anno di CRISTO MDCCXLI. Indizione IV.
BENEDETTO XIV papa 2.
Vacante l'imperio.

Alle speranze concepute dalla corte e dal popolo romano intorno al
novello pontefice _Benedetto XIV_ si videro ben presto corrispondere i
fatti. Trovossi che seco su quell'augusto trono era passata la consueta
sua giovialità, affabilità e cortesia, e il costante abborrimento alla
sostenutezza ed al fasto. Molto più si scoprì aver egli accettata
quella pubblica dignità, non già per vantaggio proprio o della sua
nobil casa, ma unicamente per procurare il ben della Chiesa, per
giovare alla camera apostolica, e, per quanto fosse possibile, al
pubblico tutto. Pochi poterono uguagliarsi a questo buon pontefice
nel disinteresse e nella liberalità. Ciò che a lui perveniva o di
rendite proprie, o di regali, gli usciva tosto dalle mani. I poveri
spezialmente participavano di queste rugiade, e saccheggiavano il suo
privato erario. Un solo nipote _ex fratre_ aveva egli, cioè _don Egano
Lambertini_ senator bolognese. Gli ordinò di non venire a Roma, se
non quando l'avesse chiamato, e poi sempre si dimenticò di chiamarlo.
Anzi, all'osservare tanta sua munificenza verso degli altri, solamente
ristretta verso d'esso suo nipote, parve a non pochi che l'animo suo,
per troppo abborrire gli eccessi degli antichi nepotismi, cadesse poi
nel contrario eccesso, ossia difetto. Per varii bisogni o inconvenienti
de' tempi passati trovò egli la camera apostolica aggravata da una gran
somma di milioni di scudi, e dei frutti corrispondenti, e di molte
spese superflue. Impossibile conobbe la cura di sì gran male: pure
si applicò per quanto potè a procacciarne il sollievo, cominciando
da sè stesso, col riformare la propria tavola, e il proprio vestire e
trattamento, e non ammettendo se non il puramente necessario. Giacchè
era mancato di vita, durante il conclave, il _cardinale Ottoboni_,
conferì esso pontefice la carica di vicecancelliere al _cardinale
Rufo_, che generosamente rilasciò in benefizio della camera la maggior
parte del soldo annesso alla medesima. Sì pingue era in addietro
la paga delle milizie pontifizie, che ogni semplice soldato potea
dirsi pagato da uffiziale, e così a proporzion gli uffiziali stessi.
Dal santo padre fu riformato il salario non men degli uni che degli
altri; e de' soldati ne risparmiò cinquecento, non già cassandoli
senza misericordia, ma ordinando che, mancando essi di vita, non si
reclutassero. Trovò anche maniera di liberar la camera apostolica da
varie pensioni addossate alla medesima dai pontefici troppo liberali
della roba altrui. In una parola, tanto si adoperò, ch'essa camera
ripigliò gran vigore, e dove in addietro sbilanciava nelle spese,
cominciò a sperar degli avanzi.
Maggior premura ancora ebbe il vigilantissimo pontefice per la
riforma della prelatura e del clero, facendo sapere ad ognuno che
non promoverebbe agli uffizii ed impieghi, se non chi sel meritasse
coll'attestato della vita ben costumata e conveniente a persone
ecclesiastiche, e coll'applicazione agli studii. A questo fine furono
poscia dalla santità sua istituite quattro diverse accademie, nelle
quali spezialmente si esercitassero i prelati esistenti in Roma
in compagnia dei più cospicui letterati di quella gran metropoli,
dovendosi trattare de' canoni e concilii, della storia ecclesiastica,
della storia ed erudizione romana, e dei riti sacri della Chiesa.
Propose inoltre il santo padre di riformare il lusso massimamente
della nobiltà romana, sì per esentare le illustri case da dispendii,
talvolta superiori alle rendite loro, con far debiti, al pagamento dei
quali si trovava poi o molta difficoltà, o pure impotenza; come ancora
per ritener nello Stato il tanto danaro che n'esce, per soddisfar le
pazze voglie della moda. Si tennero su questo varie conferenze, e si
videro saggi progetti proposti dai conservatori della città. Ma chi lo
crederebbe? tanti ostacoli, tante riflessioni in contrario scapparono
fuori, sopra tutto per opera di chi profitta della balordaggine
degl'Italiani, che sì bel disegno rimase arenato. Istituì ancora una
congregazione di cinque porporati, per esaminar la vita e i costumi
dei destinati alla dignità episcopale. Di questo passo procedeva lo
zelantissimo pontefice _Benedetto XIV_, con accrescere il suo merito
presso Dio e presso gli uomini. Inviò egli in tanto col carattere di
nunzio straordinario alla dieta dell'elezione del nuovo imperadore
_monsignor Doria_, figlio del principe Doria, dichiarato arcivescovo
di Calcedonia, che con suntuoso equipaggio s'incamminò alla volta della
Germania.
Siccome pur troppo aveano preveduto i saggi, cominciarono a provarsi
le perniciose conseguenze della morte del buon imperador _Carlo
VI_. Sul fine dell'anno precedente il giovine _Federigo III_ re di
Prussia, senza far precedere dimanda o sfida alcuna, con venticinque
mila soldati e buon treno d'artiglieria era corso ad impadronirsi
d'alcuni luoghi della Slesia austriaca, non già, dicea egli, per alcuna
mala intenzione sua contro la corte di Vienna, nè per inquietare
l'imperio, ma solamente per sostenere i suoi diritti sopra alcuni
ducati e territorii di quella provincia, la più ricca e fruttuosa
che si avesse in Germania l'augusta casa di Austria. Susseguentemente
dipoi pubblicò un manifesto, in cui dedusse i fondamenti di quelle sue
pretensioni, dichiarando nullo un trattato di concordia, conchiuso
nel 1686 fra la corte di Vienna e quelle di Brandenburgo. Intanto
perchè non si aspettava nella Slesia una sì fatta tempesta, nè vi
si trovava preparamento alcuno per resistere, nel dì 3 di gennaio
dell'anno presente non fu difficile al Prussiano di entrare in
Breslavia, capitale di quella provincia, e di occupare altri luoghi
nè pur pretesi nel suo manifesto; dopo di che ridusse le sue milizie
al riposo. Ancorchè per questo inaspettato colpo si trovasse più di
un poco confusa la corte di Vienna, pure adunato che ebbe un corpo
di circa venti mila veterani soldati, lo spinse in Islesia sotto il
comando del maresciallo _conte di Neuperg_, con ordine di tentare una
battaglia. S'inoltrò questo generale sino a Millovitz in poca distanza
da Brieg, ed ivi incontratosi col grosso dell'armata prussiana, nel
dì 10 d'aprile dell'anno presente venne con essa alle mani. Sei ore
continue durò l'atroce combattimento, in cui riuscì alla cavalleria
austriaca di rovesciar la prussiana, e si vide anche più d'una volta
piegar l'ala sinistra d'essi Prussiani; ma in fine trovandosi di
lunga mano superiori le forze nemiche, e in maggior copia le loro
artiglierie, che fecero di brutti squarci nelle schiere austriache, fu
obbligato il Neuperg a ritirarsi, e a lasciare il campo di battaglia
ai Prussiani, che riportarono bensì vittoria, ma a costo di moltissimo
loro sangue. V'era in persona lo stesso re di Prussia, che diede
gran segni d'intrepidezza e di bel regolamento nei movimenti delle
sue armi. Dopo di che nel dì 4 di maggio egli s'impadronì di Brieg,
una delle più belle città della Slesia. Succederono poscia varii
negoziati per l'amichevole via di qualche aggiustamento; e se fossero
stati ben accolti per tempo i consigli dell'Inghilterra ed Olanda,
avrebbe probabilmente la regina, col sacrifizio di una parte della
Slesia, potuto conservar l'altra, ed acquetar le pretensioni del re
prussiano. Ma siccome principessa di gran coraggio, e troppo renitente
ad acconsentire che restasse vulnerata la prammatica sanzione, più
tosto volle esporsi a perdere tutta quella bella provincia, che
spontaneamente cederne una porzione. Inesplicabil allegrezza intanto
avea provato la corte di Vienna per un arciduchino, partorito dalla
suddetta regina nel dì 15 di marzo, cui furono posti i nomi di
_Giuseppe Benedetto_. Per questo dono del cielo solenni feste furono
fatte.
Intanto ecco alzarsi dalla parte di ponente un più nero e minaccioso
temporale. Già _Carlo Alberto_ elettor di Baviera avea in pronto
un esercito di circa trenta mila combattenti, e sul fine d'agosto
improvvisamente andò ad impossessarsi dell'importante città di
Passavia, con promettere di non intorbidar quivi il dominio civile del
_cardinale di Lamberg_ vescovo esemplarissimo, e principe benignissimo
di quella città. Ma un nulla fu questo. Fin qui, non ostante il
grande apparato di guerra che si faceva in Francia, non altro s'udiva
che intenzioni di quella corte di sostenere la prammatica sanzione,
di cui essa non dimenticava di essere garante. Ma verso la metà
d'agosto ecco con tre corpi, o, per dir meglio, con tre eserciti i
Franzesi, valicato il Reno, entrar nelle terre dell'imperio, con far
correre voce, per mezzo de' suoi ministri nelle corti, che questo sì
gagliardo movimento d'armi non era per distorsi dagl'impegni della
garanzia suddetta, ma bensì a solo oggetto di assicurar la quiete
della Germania, e la libera elezione di un imperadore. Queste ed
altre simili proteste del gabinetto di Francia non si sapeano digerire
dagl'intendenti in Germania, i quali gridavano essere vergognosa cosa
lo spaccio di esse, quando chiaramente ognuno scorgea, che le armate
franzesi unicamente tendevano a dar la legge al corpo germanico, e a
forzare chiunque s'opponesse alla promozione dell'elettor di Baviera
alla corona imperiale, e ad unirsi con esso principe contro la regina
d'Ungheria. Imperciocchè, diceano essi, non è più un mistero il dirsi
nella corte di Francia, essere venuto il tempo di abbassare una volta
la casa d'Austria, quella casa che fin qui avea fatto il possibile
argine al maggiore accrescimento della non mai sazia potenza franzese.
E però doversi trasportare lo scettro cesareo in altro principe che
per la debolezza delle sue forze non osasse nè potesse contrastare ai
voleri della Francia; e che per isnervare l'austriaca regina, d'uopo
era spogliarla del regno della Boemia, dappoichè il re di Prussia avea
fatto lo stesso della Slesia. A questo fine si vide non solamente
posto in dubbio, ma anche negato alla regina il voto della Boemia
nell'elezione del futuro imperadore, senza che valessero le ragioni e
proteste della medesima. Favorevoli ancora ai disegni della Francia si
trovarono gli elettori palatino e di Colonia; nè molto stette lo stesso
_Federigo Augusto_ re di Polonia, ed elettor di Sassonia, a prendere
l'armi e ad unirsi coi Bavaresi e Franzesi contro la regina. Dal re
Cristianissimo fu dichiarato general comandante delle sue milizie
l'elettor di Baviera, con protestare che queste non altro erano che
ausiliare d'esso elettore, per sostenere i legittimi diritti della di
lui casa; giacchè non negava la corte di Francia di aver ben accettata
e garantita la prammatica sanzione austriaca, ma aggiugneva che questo
s'avea da intendere senza pregiudizio delle ragioni altrui. Dicevano
alcuni, non saper, nè pur la gente dozzinale, capire queste raffinate
precisioni del gabinetto franzese; perchè le parea che l'aver giurato
di mantener l'unione degli Stati della casa d'Austria lo stesso fosse
che promettere di non impegnar l'armi per discioglierla, nè passar
differenza fra chi si obbliga di non uccidere uno, e poi presta il
pugnale o porge in altra maniera aiuto ad un altro per levargli la
vita. Gridavano perciò, bandita la buona fede da quel gabinetto, e
a nulla più servire le pubbliche paci, quando con tanta facilità si
faceano nascere apparenti ragioni e scuse di romperle. Per quello ch'io
ho inteso da buona parte, ripugnò forte il cardinale di Fleury primo
ministro allo imbarco della Francia in questa guerra, perchè assai
conosceva le leggi dell'onore e del giusto; ma da un tale fanatismo
fu preso allora tutto il consiglio del re cristianissimo, che gridando
ognuno all'armi per così favorevol occasione di deprimere l'emula casa
d'Austria, e insieme il romano imperio, forzato fu esso cardinale di
cedere alla piena, e di cominciar questa nuova tragedia.
Ora da che si trovò l'elettor di Baviera rinforzato da venti, altri
dissero trenta mila Franzesi, più non indugiò ad entrare sul fine di
settembre nell'Austria con impadronirsi di Lintz, Eens, Steir ed altri
luoghi, dove si fece prestare omaggio da que' popoli. Avea proposto
il duca di Bellisle nel consiglio di Versaglies che si mandasse in
Baviera una potente armata, con cui s'andasse a dirittura a Vienna; ma
il cardinale di Fleury non l'intese così, e mandò poco. Tale nondimeno
per questo fu la costernazione nella città di Vienna, che ognuno a
momenti s'aspettava d'essere ivi stretto da un assedio, e ne uscì gran
copia di benestanti col meglio dei loro effetti. Da molto tempo si
tratteneva la regina col gran duca consorte in Presburgo, dove avea
ricevuta la corona del regno d'Ungheria. Cagion fu il movimento dei
Gallo-Bavari ch'essa immantenente facesse portar colà da Vienna il
tenero arciduchino, co' più preziosi mobili della corte, archivii e
biblioteca imperiale. Con un sì patetico discorso rappresentò poscia
ai magnati ungheri il bisogno de' loro soccorsi, e la fidanza sua
nel lor appoggio e fedeltà, che trasse le lagrime dagli occhi di
ognuno, e tutti giurarono la di lei difesa; e detto fatto, raunarono
un esercito di trenta mila armati, con promessa di più rilevanti
aiuti. Costò nondimeno ben caro ad essa regnante l'acquisto della
corona ungarica, e dell'affetto di que' popoli, perchè le convenne
comperarlo coll'accordar loro varii privilegii e la libertà di
coscienza, non senza grave discapito della religione cattolica in
quelle parti. Mirabili fortificazioni intanto si fecero in Vienna;
copiose provvisioni e munizioni vi s'introdussero; ed oltre ad un forte
presidio di truppe regolate, prese l'armi tutta quella cittadinanza,
risoluta di spendere le vite in difesa della patria e dell'amatissima
loro regnante. Ma o sia che l'elettor bavaro riflettesse alle troppe
difficoltà di superare una sì forte e ben guernita città, al che
gran tempo e fatica si esigerebbe, o più tosto ch'egli pensasse non
all'Austria, ma al regno della Boemia, dove spezialmente terminavano
i desiderii e le speranze sue: certo è ch'egli dopo la metà d'ottobre
s'inviò a quella volta colla maggior parte delle sue truppe e delle
franzesi, che andavano sempre più crescendo. Trovavasi allora la
Boemia sprovveduta affatto di forze per resistere a questo torrente.
Contuttociò non mancò il principe di Lobkowitz di raccogliere
quelle poche truppe che potè, ed avendole unite con un distaccamento
inviatogli dal conte di Neuperg, si applicò alla difesa della sola
città di Praga, dove formò dei magazzini superiori anche al bisogno
suo.
Di cento e due altre città (che così quivi si chiamano anche i borghi
e le terre grosse di quel regno) poche altre vi erano capaci di far
buona resistenza. Verso la metà di novembre comparve la possente
armata gallo-bavara sotto Praga, e fatta inutilmente la chiamata al
comandante maresciallo di campo Oglivi, si dispose alle ostilità.
Non mancavano ragioni e pretensioni al re di Polonia ed elettor di
Sassonia _Federigo Augusto III_ nell'eredità della casa d'Austria; e
giacchè vide Prussiani e Bavaresi tutti rivolti a prenderne chi una
parte e chi un'altra, non volle più stare a segno; ed accordatosi
coll'elettor di Baviera, entrò anche egli nella danza, e spedì molti
reggimenti suoi e un grosso treno d'artiglieria all'assedio di Praga.
Di vastissimo giro, come ognun sa, è quella città, perchè composta di
tre città. A ben difenderla si richiedeva un'armata intera, e questa
mancava; perchè era ben giunto il gran duca _Francesco_ col principe
_Carlo di Lorena_ suo fratello a Tabor, menando seco un buon esercito,
ma non tale da potersi cimentare col troppo superiore de' nemici.
Servì piuttosto l'avvicinamento di essi Austriaci per affrettar le
operazioni degli alleati. Infatti nella notte del dì 25 venendo il
dì 26 di novembre, ordinò l'elettor bavero un assalto generale a
Praga; i Sassoni spezialmente si segnalarono in quella sanguinosa
azione. Presa fu la città, ma così buon ordine avea dato l'elettore,
ch'essa restò esente dal sacco. Ben tre mila furono i prigionieri.
Dopo l'acquisto della capitale si fece l'elettor bavaro proclamare
re di Boemia nel dì 9 di dicembre, e citò gli Stati di quel regno a
prestargli l'omaggio. Convien confessarlo: tra perchè non pochi erano
quivi mal soddisfatti del passato governo, e, secondo la vana speranza
dei popoli, si lusingavano molti altri di mutare in meglio il loro
stato col cangiamento del principe, e tanto più perchè non dimenticò
l'elettore di spendere largamente le carezze e le speranze a quella
gente; apertamente, ma i più in lor cuore, accettarono con gioia questo
novello sovrano. Per la caduta di Praga si ritirò ben in fretta il
gran duca coll'esercito cesareo alla volta della Moravia; ma anche colà
passarono i Prussiani, e riuscì loro d'impadronirsi d'Olmutz, capitale
d'essa provincia.
Mentre era la regina d'Ungheria attorniata e lacerata da tanti nemici
in Germania, un altro minaccioso nembo si preparava contro di lei in
Italia. Avea bensì il Cattolico re _Filippo V_ accettata la prammatica
sanzione austriaca; pure, appena tolto fu di vita l'imperador _Carlo
VI_ che si diede fuoco nella corte di Spagna a forti pretensioni non
sopra qualche parte della monarchia austriaca, ma sopra di tutta.
Era, come ognun sa, l'Augusto _Carlo V_ padrone anche di tutti gli
Stati austriaci della Germania e dei Paesi Bassi. Ne fece egli una
cessione a _Ferdinando I_ suo fratello, ma si pretendeva, che mancando
la discendenza maschile d'esso Ferdinando, tutti gli Stati dovessero
tornare alla linea austriaca di Spagna. Su questi fondamenti, che a
me non tocca di esaminare, il re Cattolico, siccome discendente per
via di femmine dal suddetto _Carlo V_, aspirava al dominio dello Stato
di Milano, e di Parma e Piacenza, giacchè non era da pensare agli
Stati della Germania, troppo lontani e in parte afferrati da altri
pretensori. Vero è che parve a quel monarca posta in obblio la solenne
rinunzia da lui fatta nel trattato di Londra dell'anno 1718 a tutti gli
Stati d'Italia e Fiandra posseduti dall'imperadore; ma per mala sorte,
torto o ragione che s'abbiano i principi, ordinariamente le loro liti
non ammettono o non truovano alcun tribunale che le decida, fuorchè
quello dell'armi. Diedesi dunque la Spagna a formare un possente
armamento, e ordinò all'infante _don Carlo_ re delle Due Sicilie di
fare altrettanto. Ecco pertanto cominciar a giugnere verso la metà
di novembre ad Orbitello, e agli altri porti di Toscana spettanti ad
esso re don Carlo, varii imbarchi di truppe, munizioni ed artiglierie
provenienti da Barcellona e da Napoli. Parimenti ad esso Orbitello
arrivò, nel dì 9 di dicembre, il _duca di Montemar_, destinato generale
dell'armi di Spagna in Italia; e da che nel regno di Napoli fu fatta
una massa di circa dodici mila soldati, fu chiesto alla corte di Roma
il passaggio per gli Stati della Chiesa. Gran gelosia ed apprensione
diedero alla Toscana sì fatti movimenti; e come se si aspettasse
a momenti un'invasione da quella parte, si presero le possibili
precauzioni per la difesa di Livorno ed altri luoghi. Ma perciocchè
premeva alla Francia che non fosse inquietata la Toscana, siccome
paese permutato nella Lorena, e guarentito dal re Cristianissimo, ben
prevedendo essa, che l'acquisto d'essa Lorena rimarrebbe esposto a
pretensioni, qualora fosse occupato da altri il ducato di Toscana;
perciò fu sotto mano fatto intendere al gran duca, duca di Lorena,
che non temesse sconcerti a quegli Stati; e questa promessa si vide
religiosamente mantenuta dipoi dalla corte di Francia. Per conseguente
le speranze de' Napolispani si rivolsero tutte agli Stati della
Lombardia.
Non istava intanto in ozio la corte di Vienna, cercando chi la
salvasse dal naufragio di sì gran tempesta. Fu spedito in Olanda e
a Londra il principe _Wenceslao_ di _Lictenstein_, per promuovere
quelle potenze in aiuto suo, con far valere i tanti motivi di non
lasciar crescere di soverchio la già sì aumentata possanza della real
casa di Borbone, e di non permettere l'abbassamento dell'augusta casa
d'Austria dalla cui conservazione e forza principalmente dipendeva la
libertà e la salute della Germania, e delle stesse potenze marittime.
Trovossi nel re _Giorgio II_ e nei parlamenti d'Inghilterra tutta
la più desiderabil disposizione di sostenere, secondo gli obblighi
precedenti, la prammatica sanzione, e d'imprendere la guerra
contra de' Franzesi, distruttori della medesima. Non furono così
favorevoli le risposte degli Olandesi; perchè troppo rincresceva a
quella nazione di rinunziare ai rilevanti profitti del commercio,
finora mantenuto con Franzesi e Spagnuoli. Fu anche creduto che non
mancassero in quelle provincie dei pensionarii della Francia; ed
altro perciò non si potè ottenere, se non che le provincie unite
puntualmente soddisfarebbono agli obblighi e patti della loro lega,
col somministrare venti mila combattenti in soccorso della regina,
venendo il caso della guerra. Quanto all'Italia, cominciò per tempo
la corte di Vienna i suoi negoziati con _Carlo Emmanuele_ re di
Sardegna, siccome sovrano potente, e più degli altri interessato nei
tentativi che il re di Spagna e delle Due Sicilie meditavano di fare
in essa Italia. Perciocchè per conto della _repubblica di Venezia_
ben presto si scoprì che, secondo le saggie sue massime, faceva ella
bensì un considerabil aumento di truppe nelle sue città di terra
ferma, ma coll'unico disegno di tenersi neutrale; giacchè forze non
le mancavano per far rispettare la sua indifferenza e neutralità.
Avea sulle prime il re di Sardegna fatto indagare i sentimenti della
corte di Madrid in riguardo alla persona e forze sue nella presente
rottura. La ritrovò così persuasa della propria potenza, che non si
credea nè bisognosa dell'aiuto altrui per conquistare lo Stato di
Milano, nè assai apprensiva dell'opposizione che potesse farle il
re sardo, forse perchè s'immaginava col mezzo degli amici franzesi
di ritenerlo dall'imprendere un contrario impegno. Solamente dunque
gli esibì un tenue briciolo dello Stato di Milano, con promessa di
ricompensarlo a misura del suo soccorso, e della felicità de' meditati
progressi. Queste ed altre ambigue risposte congiunte alla conoscenza
del pericolo, a cui si resterebbe esposta la real casa di Savoia
quando cadesse in mano degli Spagnuoli lo Stato di Milano, cagion
furono ch'esso re di Sardegna prendesse altro cammino. Rifletteva egli
che il re Cattolico avea bensì nel trattato del dì 13 d'agosto del
1715 approvata la cessione fatta dall'imperadore al duca _Vittorio
Amedeo_ suo padre del Monferrato, Alessandrino ed altre porzioni del
Milanese, ed in oltre ceduto nelle forme più obbliganti il regno di
Sicilia al medesimo duca; e pure da lì a non molto tentò di spogliarlo
d'esso regno; potersi perciò temere un pari trattamento per gli Stati
della Lombardia passati in dominio della casa di Savoia. Applicossi
dunque il re _Carlo Emmanuele_ a maneggiare gli affari suoi colla
regina d'Ungheria e col re britannico, e a fortificar le piazze, e
ad accrescere le sue genti d'armi, e per avere in pronto una possente
armata al bisogno, barcheggiando intanto, finchè venisse il tempo di
stringere qualche partito.
Durante l'anno presente il pontefice _Benedetto XIV_, il cui cuore
non ad altro inclinava che alla pace con tutti i potentati cattolici,
siccome padre amantissimo d'ognuno, determinò di mettere fine alle
differenze insorte sotto i suoi predecessori, e durate per lo spazio
di trenta anni fra la santa Sede e le corone di Spagna, Portogallo, Due
Sicilie e Sardegna. S'erano già smaltite sotto il precedente pontefice
molte delle principali difficoltà, nè altro mancava che la conchiusion
degli accordi. Al di lui buon volere e saviezza non fu difficile il dar
l'ultima mano a questi trattati sì nel presente che nel susseguente
anno; così che tornò la buona armonia con tutti, e le nunziature si
riaprirono, e la dateria riassunse le sue spedizioni. Intenta eziandio
la santità sua al sollievo della povera gente, nel marzo di quest'anno
introdusse l'uso della carta bollata per li contratti e scritture che
si avessero a produrre in giudizio, siccome aggravio ridondante sopra
i soli benestanti, con isgravare nel medesimo tempo il popolo da varii
altri imposti sopra l'olio, sete crude, buoi ed altri animali. Ma
perciocchè non mancarono persone, le quali, contro la retta intenzione
di lui ampliando questo aggravio della carta bollata, ne convertivano
buona parte in lor pro con gravi lamenti del pubblico, il santo padre,
provveduto di buona mente per non lasciarsi ingannare dai ministri,
coraggiosamente abolì esso aggravio, e ne riportò somma lode da tutti.
Nel dì 17 di giugno dell'anno presente diede fine al suo vivere il
doge di Venezia _Luigi Pisani_, stimatissimo per le sublimi e rare
sue doti. Fu poi sostituito in essa dignità nel dì 30 del suddetto
mese, il cavaliere e procuratore _Pietro Grimani_, personaggio di gran
saviezza, chiarissimo per le sue cospicue ambasciarie, e veterano nei
maneggi e nelle cariche di quella saggia repubblica. Infierì parimente
la morte contra una giovine principessa degna di lunghissima vita.
Questa fu _Elisabetta Teresa_ sorella di _Francesco_ duca di Lorena,
e regnante gran duca di Toscana, e moglie di _Carlo Emmanuele_ re
di Sardegna. Era essa giunta all'età di ventinove anni, mesi otto e
giorni diciotto. Avea nel dì 21 del sopraddetto giugno dato alla luce
un principino, appellato poi duca di Chablais con somma consolazione
di quella corte. Ma si convertirono fra poco le allegrezze in pianti,
perchè sorpresa essa regina dalla febbre migliarina, pericolosa per
le partorienti, nel dì 3 di luglio rendè l'anima al suo creatore.
Non si può assai esprimere quanta grazia avesse questa principessa
per farsi amare non solo dal real consorte, ma da tutti, nè quanta
fosse la sua pietà e carità verso de' poveri. La maggior parte del suo
appannaggio s'impiegava in limosine, e, mancandole talvolta il danaro,
ella impiegava alcuna delle sue gioie: del che informato il re, le
riscuoteva, e graziosamente gliele facea riportare. In somma universale
fu il cordoglio per questa perdita, e dolce memoria restò di tante sue
virtù; siccome ancora restarono due principi e una principessa, frutti
viventi del suo matrimonio.
Da gran tempo era stabilito l'accasamento del principe ereditario di
Modena _Ercole Rinaldo d'Este_, figlio del regnante duca _Francesco
III_, colla principessa _Maria Teresa Cibò_, che per la morte di _don
Alderano_ duca di Massa e di Carrara suo padre era divenuta signora di
quel ducato. Per la non ancor abile età del principe si era differita
fin qui l'esecuzione di questo maritaggio; ma finalmente se gli diede
compimento nel settembre dell'anno presente; sicchè sul fine d'esso
mese fu condotta essa principessa con suntuoso accompagnamento da _don
Carlo Filiberto d'Este_, marchese di San Martino, e principe del sacro
romano imperio, alla volta di Sassuolo, dove si trovava il duca e la
duchessa _Carlotta Aglae d'Orleans_, i quali andarono ad incontrarla
a Gorzano, e solennizzarono dipoi con molte feste la sua venuta.