Annali d'Italia, vol. 7 - 30
chiuse le porte ad alcuni pochi Spagnuoli che volevano entrarvi. Altri
affanni ancora provò il papa dalla parte de' Tedeschi, per essere stato
carcerato un uffiziale cesareo; ed altri dalla corte di Francia, il cui
ambasciatore si ritirò da Roma per cagion della nomina di un vescovo
fatta dal re Stanislao, e non accettata dal papa. Bollivano parimente
le note controversie colla corte di Savoia. In somma sembrava che ognun
dei potentati con abuso della sua potenza si facesse lecito d'insultare
il sommo pontefice con tutto il suo retto operare: alle quali offese
egli nondimeno altre armi non oppose che quelle della mansuetudine
e della pazienza. In mezzo nulladimeno a tali burrasche si osservò,
essere stato dichiarato vicerè di Sicilia il principe don _Bortolomeo
Corsini_ nipote di sua santità, personaggio dotato di singolar
saviezza: il che fece maravigliare più d'uno.
Anche la Corsica in questi tempi apprestò alla pubblica curiosità
una commedia, che diede molto da discorrere. Duravano più che mai
le turbolenze in quell'isola con grave dispendio della repubblica di
Genova; quando nell'aprile, condotto da una nave inglese procedente
da Tunisi, colà sbarcò un personaggio incognito, seco conducendo dieci
cannoni e molte provvisioni da guerra, ed anche danaro. Fu accolto dai
sollevati con gran gioia ed onore, e preso per loro capo, anzi nel dì
15 di esso mese fu onorato col titolo di re di Corsica: cosa che non
si può negare, benchè altri dicessero solamente di vicerè, perchè si
pretendea che fosse stato inviato colà da qualche potenza che aspirasse
al dominio di quell'isola. Sul principio non era conosciuto chi fosse
questo sì ardito e fortunato campione, ma si venne poi scoprendo,
e i Genovesi con un lor manifesto il dipinsero coi più neri colori
di uomo senza religione, di un truffatore, di un alchimista, e come
il più infame dei viventi, e pubblicarono ancora contra di lui una
grossa taglia. La verità si è che costui era _Teodoro Antonio barone
di Newoff_, nato suddito del re di Prussia, e di casa nobile, che da
venturiere, dopo aver fatto di molti viaggi per le corti di Europa, ora
in lieta, ora in triste fortuna, avea in fine saputo cogliere nella
rete vari mercatanti affinchè l'assistessero in questa impresa, con
promettere loro mari e monti, assiso che fosse sul maestoso trono della
Corsica. Prese, egli con vigore quel governo, creò conti e marchesi
con gran liberalità; istituì un ordine militare di cavalieri appellati
della Liberazione, e ne aspettava ognuno delle meraviglie. Ma non finì
l'anno che parve finita anche la fortuna di questo comico regnante; e
divulgossi, che dopo aver egli cominciato ad esercitare un'autorità
troppo dispotica, arrivando a punire chi non eseguiva a puntino gli
ordini suoi, la nazion dei Corsi non tardò a convertire l'amore in
odio, e poscia in dispregio, perchè mai non comparivano quei tanti
soccorsi che sulle prime aveva egli promesso. Pertanto, temendo egli
della vita, segretamente imbarcatosi nel dì 12 di novembre, comparve a
Livorno, travestito da frate, ed appena sbarcato prese le poste, senza
sapersi per qual parte. La verità nondimeno fu, non essere stata fuga
la sua, perchè egli, prima di partirsi, nel dì quarto di novembre,
pubblicò un editto, con cui costituì i ministri del governo durante la
sua lontananza. Andò egli per procurar nuovi rinforzi a quella nazione.
Era, siccome dicemmo, restato vedovo _Carlo Emmanuele_ re di Sardegna,
e volendo passare alle terze nozze, intavolò il nuovo suo matrimonio
colla principessa _Elisabetta Teresa_, sorella di _Francesco Stefano_
duca di Lorena, in cui concorrevano, oltre all'insigne nobiltà, le più
rare doti di animo e di corpo. Era nata nel dì 15 di ottobre del 1711
dal duca _Leopoldo Giuseppe_ e dalla duchessa _Elisabetta Carlotta
d'Orleans_, sorella del già _Filippo, duca di Orleans_ reggente di
Francia. Fu pubblicato in Vienna questo maritaggio, e si andarono
disponendo le parti per effettuarlo colla convenevol magnificenza.
Nell'anno presente la mortalità dei buoi cominciò a serpeggiare pel
Piemonte, Novarese, Lodigiano e Cremonese: il che di sommo danno riuscì
a quelle contrade, e di grande spavento agli altri paesi, che tutti
si misero in guardia per esentarsi da sì terribile eccidio. Provossi
in varie parti del regno di Napoli e dello Stato ecclesiastico stesso
flagello. Risonavano intanto per Italia le prodezze dell'armi russiane
contra de' Turchi, perchè dall'un canto s'impadronirono dell'importante
fortezza d'Azof, e dall'altro penetrarono anche nella Crimea dove
lasciarono una funesta memoria a que' Tartari, assassini in addietro
della Russia e Polonia. Gran gloria per questo venne all'imperadrice
russiana, se non che i progressi suoi cagion furono che la Porta
Ottomana, pacificata con lo scach Nadir, o sia Tamas Kulican, re
della Persia, facesse uno straordinario armamento, e dichiarasse
la guerra contra di lei. Era collegato di essa imperadrice _Anna_
l'Augusto _Carlo VI_, e cominciossi per tempo a scorgere ch'egli era
per impugnare la spada in difesa di lei: al qual fine tutte le milizie
alemanne cavate d'Italia, ed altre della Germania sfilarono verso la
bassa Ungheria ai confini dei Turchi. Non meno il ministro di Francia
che quei delle potenze marittime molto si adoperarono per distorre sua
maestà cesarea da questo impegno; ma non ne ricavarono se non dubbiose
risposte, perchè l'imperadore avea fatto esporre a Costantinopoli varie
doglianze e minaccie ed aspettava se facessero frutto. Era negli anni
addietro nata in Inghilterra una setta appellata dei _Liberi Muratori,_
consistente nell'union di varie persone, e queste ordinariamente
nobili, ricche o di qualche merito particolare, inclinate a solazzarsi
in maniera diversa dal volgo. Con solennità venivano ammessi i nuovi
fratelli a questo istituto, e loro si dava giuramento di non rivelare
i segreti della società. Raunavansi costoro di tanto io tanto in una
casa eletta per loro congresso, chiamata la Loggia, dove passavano il
tempo in lieti ragionamenti e in deliziosi conviti, conditi per lo più
da sinfonie musicali. Verisimilmente aveano essi preso il modello di sì
fatte conversazioni dagli antichi epicurei, i quali, per attestato di
Cicerone e Numenio, con somma giovialità e concordia passavano le ore
in somiglianti ridotti. D'Inghilterra fece passaggio in Francia e in
Germania questo rito, e in Parigi fu creduto che si contassero sedici
Logge, alle quali erano scritti personaggi della primaria nobiltà.
Allorchè si trattò di creare il gran mastro, più brogli si fecero
ivi che in Polonia per l'elezione d'un nuovo re. Si tenne per certo
che anche in alcuna città d'Italia penetrasse e prendesse piede la
medesima novità. Contuttochè protestassero costoro, essere prescritto
dalle loro leggi, di non parlare di religione, nè del pubblico governo
in quelle combriccole, e fosse fuor di dubbio che non vi si ammetteva
il sesso femineo, nè ragionamento di cose oscene, nè vi era sentore
di altra sorta di libidine: nondimeno i sovrani, e molto più i sacri
pastori, stavano in continuo batticuore che sotto il segreto di tali
adunanze, renduto impenetrabile pel preso giuramento, si covasse
qualche magagna, pericolosa e forse pregiudiziale alla pubblica quiete
e ai buoni costumi. Però il pontefice Clemente XII nell'anno presente
stimò suo debito di proibire e di sottoporre alle censure la setta
dei Liberi Muratori. Anche in Francia l'autorità regia s'interpose
per dissipar queste nuvole, che in fatti da lì a non molto tempo si
ridussero in nulla, almeno in quelle parti e in Italia. Fu poi cagione
un tal divieto o rovina che più non credendosi tenuti al segreto i
membri di essa repubblica, dopo il piacere di aver dato lungo tempo la
corda alla pubblica curiosità, rompessero gli argini, e divulgassero
anche con pubblici libri tutto il sistema e rituale di quella novità.
Trovossi, terminare essa in una invenzione di darsi bel tempo con riti
ridicolosi, ma sostenuti con gran gravità; nè altra maggior deformità
vi comparve, se non quella del giuramento del segreto preso sul Vangelo
per occultar così fatte inezie. Ridicola cosa anche fu che in una città
della Germania dall'ignoranza e semplicità venne spacciato e fatto
credere al popolo, autore della medesima setta chi scrive le presenti
memorie.
Anno di CRISTO MDCCXXXVII. Indiz. XV.
CLEMENTE XII papa 8.
CARLO VI imperadore 27.
Alla per fine spuntò nell'anno presente la tanto sospirata iride
di pace in Italia con allegrezza inesplicabile di tutti i popoli;
e quantunque tal serenità non fosse esente da qualche nebbia per le
non mai quiete pretensioni dei potentati, pure, cessando affatto lo
strepito dell'armi in queste parti, giusto motivo ebbe ciascuno di
rallegrarsene. Fin qui ostinatamente erano persistite in Livorno e Pisa
le guernigioni spagnuole, senza voler cedere alle truppe tedesche,
disposte secondo i preliminari a prenderne possesso a nome del _duca
di Lorena_. Fu detto che seguisse in Pontremoli il cambio delle
cessioni fatte da sua maestà cesarea ai regni di Napoli e Sicilia, e
dal re delle Due Sicilie ai ducati di Toscana, Parma e Piacenza. Può
dubitarsene, da che si seppe che il re Cattolico _Filippo V_ non volle
in quest'anno sottoscrivere essi preliminari, ed è certo che _Carlo_ re
di Napoli e Sicilia si riservò certe pretensioni che avrebbero potuto
intorbidar la concordia. Comunque fosse, il generale spagnuolo _duca
di Montemar_ sul principio di quest'anno, giunta che fu a Livorno una
buona quantità di legni, in quelli imbarcò il presidio d'essa città,
ed altre fanterie spagnuole inviò verso le fortezze della maremma di
Siena; dopo di che, senza far cessione alcuna di Livorno, nel dì 9 di
gennaio abbandonò quella città, dove restò la sola guernigione del gran
duca _Gian Gastone_. Lasciarono gli Spagnuoli nella Toscana la memoria
di molti aggravii inferiti a quegli Stati. Pertanto da lì ad alquanti
giorni entrato in Toscana il generale tedesco _Wactendonck_ con
alcuni reggimenti cesarei, prese, a nome del duca di Lorena, possesso
di Livorno, con prestare giuramento di fedeltà al gran duca, le cui
milizie insieme colle tedesche cominciarono a montare la guardia.
Distribuì eziandio alcune di quelle soldatesche in Siena, Pisa e Porto
Ferraio, le quali osservarono miglior disciplina che le precedenti.
Pochi mesi passarono che il presidio spagnuolo di Orbitello,
abbisognando di legna per uso proprio e per le fortificazioni, ne
fece richiesta al gran duca. Perchè risposta non veniva, un grosso
distaccamento d'essi Spagnuoli passò a tagliare sul Sanese circa mille
e secento alberi. Ne furono fatte doglianze, ed avrebbe questa violenza
potuto cagionar delle nuove rotture, se la corte di Vienna, ossia il
duca di Lorena, non si fosse ora trovato nei gravi impegni, dei quali
fra poco parleremo. Colla pazienza si sopì quel disordine.
Intanto, angustiato dal male d'orina e da altri incomodi di corpo il
gran duca _Gian Gastone de' Medici_ si ridusse agli estremi di sua
vita, e nel dì 9 di luglio con segni di molta pietà restò liberato
dai pensieri ed affanni del mondo. Era principe di gran mente, di
somma affabilità e di una volontà tutta inclinata al pubblico bene;
e quantunque la sua poca sanità il tenesse per lo più ristretto in
camera o in letto, pure, valendosi di saggi ed onorati ministri,
mantenne sempre un'esatta giustizia, e in vece di accrescere i pesi ai
suoi sudditi, più tosto cercò di sminuirli. Liberale verso la gente
di merito, protettore delle lettere, e sommamente caritativo verso i
poveri, tal memoria lasciò di sè, che chiunque avea sparlato di lui
vivente, ebbe poi a compiangerlo morto. In lui finì la linea maschile
della insigne regnante casa de' Medici, con disavventura inesplicabile
dell'Italia, che seguitava a perdere i suoi principi naturali; ma
senza paragone riuscì più sensibile ai popoli della Toscana, i quali
indarno s'erano lusingati di poter tornare a repubblica, nè solamente
restarono senza i principi Medicei, che tanta gloria e rispetto aveano
fin qui procacciato a Firenze e alla Toscana, ma venivano a restar
sottoposti ad un sovrano certamente benignissimo e generoso, pure
obbligato da' suoi interessi a fare la residenza sua fuori d'Italia.
Gran fortuna è l'avere i principi proprii. L'averli anche difettosi,
meglio è regolarmente che il non averne alcuno, giacchè lo stesso è che
averli lontani; mentre fuori degli Stati ridotti in provincia volano
le rendite, e dee il popolo soggiacere ai governatori, i quali non
sempre seco portano l'amore a' paesi dove non han da fare le radici.
Dopo la morte di questo principe con tutta quiete il _principe di
Craon_ e gli altri ministri lorenesi presero il possesso della Toscana
a nome di sua altezza reale _Francesco Stefano_ duca di Lorena, genero
dell'imperadore, che fu proclamato gran duca. Profittò ben la Francia
di questo avvenimento, perchè le cessò l'obbligo di pagare ad esso
duca di Lorena quattro milioni e mezzo di Francia, finchè egli fosse
entrato in possesso della Toscana. La vedova elettrice palatina _Anna
Maria Luigia de' Medici_, sorella del defunto gran duca Gian Gastone,
prese anch'ella il possesso dei mobili e allodiali della casa paterna,
ascendenti ad un valsente incredibile, nè solamente degli esistenti
nella Toscana, ma anche in Roma, nello Stato ecclesiastico e in altri
paesi. Tuttavia non tardò a saltar fuori una scintilla, che i saggi
ben previdero potere un dì produrre qualche incendio. Cioè _Carlo_ re
di Napoli e di Sicilia prese lo scorruccio per la morte di esso gran
duca, ed insieme il titolo di ereditario degli allodiali della casa
de Medici, siccome principe già adottato dalla medesima per figlio;
ed altrettanto fece anche il Cattolico re _Filippo V_ suo padre. A tal
pretensione non s'era trovato finora ripiego. Furono fatte per questo
proteste giuridiche tanto in Firenze che in Roma. Alla vedova elettrice
fu esibito molto di autorità nel governo, premendo al novello gran duca
di tenersi amica questa principessa, donna tanto ricca, e di mirabil
talento e saviezza. Ma se ne scusò ella per cagion della sua avanzata
età.
Ebbe compimento in quest'anno il maritaggio di _Carlo Emmanuele_ re
di Sardegna colla principessa _Elisabetta_ sorella del suddetto duca
di Lorena. La funzione fu fatta in Luneville, dove il _principe di
Carignano_ sostenne le veci del re; dopo di che si mise in viaggio
essa novella regina alla volta della Savoia. Nell'ultimo giorno di
marzo pervenne essa a Ponte Beauvoisin sui confini; ed essendosi
giù portato colà il re con tutta la corte, e con accompagnamento
magnifico di guardie e milizie, fu ad incontrarla, conducendola poi
a Sciambery, dove presero per una settimana riposo. Nella sera del
dì 22 di aprile fecero i reali sposi il magnifico loro ingresso in
Torino fra la gran folla dei sudditi e forestieri accorsi a quelle
feste, e fra l'ale della fanteria e cavalleria, mentre intanto le
artiglierie facevano un incessante plauso alle loro maestà. Non
quella sola sera si videro illuminate le strade di Torino, ma anche
nelle seguenti; nè mancarono fuochi artifiziali, ed altri suntuosi
divertimenti, in sì lieta congiuntura. Passava in questi tempi non
lieve disputa fra esso re di Sardegna e la corte di Vienna, giacchè
egli pretendeva la terra di Serravalle per distretto di Tortona;
laddove i cesarei la teneano per dominio staccato da quella città.
Continuavano intanto i maneggi della sacra corte di Roma con quelle
di Madrid, Portogallo, Napoli e Savoia per le controversie vertenti
con esse. Rallegrossi dipoi quella gran città al vedere nel marzo
di quest'anno ritornati colà i _cardinali Acquaviva_ e _Belluga_ con
indizio di sperata riconciliazione. Per trattarne venne a Roma come
mediatore il _cardinale Spinelli_ arcivescovo di Napoli, personaggio di
gran credito e di obbliganti maniere; e vi comparve ancora _monsignor
Galliani_ gran limosiniere del re delle Due Sicilie, per esporre le
pretensioni di quel monarca. Finalmente nel dì 27 di settembre si vide
qualche apparenza di aggiustamento fra la santa Sede e i re di Spagna
e di Napoli: il che recò incredibil consolazione a Roma; quantunque in
questi ultimi tempi non succedesse mai discordia e concordia alcuna, in
cui non iscapitasse sempre la corte pontificia. Non finirono per questo
le pretensioni, nè si riaprirono per anche le nunziature di Madrid e di
Napoli. Contuttociò la Dateria cominciò a far le sue spedizioni. Per
le differenze di Portogallo e di Savoia ripiego alcuno finora non si
trovò.
Aveano i tanti saccheggi fatti dai Tartari della Russia, col condurne
schiavi migliaia di uomini, commossa in fine a risentimento _Anna
imperadrice_ d'essa Russia, non solo contra di quei masnadieri, ma
contra gli stessi Turchi, i quali con tutte le querele e proteste
dei Russiani mai non vollero apportarvi rimedio. Due suoi valenti
generali con due possenti armate nel precedente anno aveano data una
buona lezione a quegl'infedeli; il _Lascì_ col prendere la fortezza
d'Azof, e il _Munich_ con una terribil invasione nella Crimea. Fece per
questo il sultano dei Turchi, già pacifico co' Persiani, un gagliardo
armamento contro i Russiani; e quantunque s'interponesse l'Augusto
_Carlo VI_ per trattar di pace, non ne riportò che belle parole,
insistendo sempre i Turchi nella restituzione d'Azof. Lega difensiva
era fra esso imperadore e la Russia; e però non volendo Cesare lasciar
soperchiare dai musulmani l'imperadrice suddetta, avea spedito ai
confini dell'Ungheria la maggior parte delle sue forze, e dichiarato
generalissimo d'esso _Francesco Stefano duca di Lorena_, divenuto in
questo anno gran duca di Toscana. La direzion dell'armi cesaree fu data
al _generale Seckendorf_, protestante di professione, con doglianza
del sommo pontefice, il quale non mancò di promettere sussidii di
danaro a Cesare per questa guerra. Un bel principio si diede ad essa
colla presa della città di Nissa, per cui furono cantati più _Te
Deum_. Ma non passò molto che si videro andare a precipizio tutti gli
affari dell'imperadore in quelle parti. Comandava il Seckendorf ad una
fioritissima armata, capace di grandi imprese, avendola alcuni fatta
ascendere sino ad ottanta mila valorosi combattenti. Quel generale,
invece di tener unite tante forze e di assediar daddovero la forte
piazza di Widin, o pure di tentar l'acquisto della Bossina, spartì in
varii corpi e distaccamenti l'esercito suo, e niun di essi riportò
se non percosse e disonore, tuttochè i musulmani sulle prime si
trovassero più d'un poco smilzi di forze in quelle parti. Il principe
d'Hildburgausen, inviato con poche migliaia d'armati sotto Banialuca
capitale della Bossina, tutti perdè i suoi attrezzi e gran gente, e
ringraziò la fortuna di essersi potuto salvar colla fuga. Nella Croazia
verso Vaccup, e sotto Widin furono battuti gl'imperiali, e Nissa venne
ricuperata dai Turchi. Si perdè il Seckendorf intorno ad Usitza, cioè
ad una bicocca, e la prese: questa fu l'unica sua prodezza. I Turchi la
ricuperarono poi nell'anno seguente. Andarono lamenti a Vienna; laonde,
richiamato egli alla corte, lasciò il comando al generale _Filippi_;
ed essendo stato posto in carcere, fu contra di lui dato principio ad
un processo. Non istimarono veramente i saggi che questo personaggio
avesse punto mancato alla fede e all'onore. Il suo delitto, secondo
il sentimento d'altri, fu quello di non saper fare il condottier di
armate: mestiere forse il più difficile di tutti; benchè non mancasse
chi l'esentava da questo difetto.
Certamente poi non avea più la corte cesarea un _Carlo_ duca _di
Lorena_, un _principe Eugenio_, nè un maresciallo di _Staremberg_,
nè i _Caprara_, nè i _Veterani_, nè altri simili personaggi di gran
mente e savia condotta, che sapessero dirigere un esercito ai danni
del nemico, e difender alle occorrenze. Per altro facendo conoscere la
sperienza che talvolta le belle armate cesaree combattono col bisogno,
il Seckendorf addusse ancor questo per sua discolpa, certo essendo
che a cagion della mancanza dei viveri per più giorni quell'esercito
si mantenne come potè in vita colle pannocchie del frumentone, ossia
grano turco, maturo in quel paese, o pur con sole prugne trovate
per avventura in que' boschi. Non mancò gente che si figurò essere
mancata la benedizione di Dio all'armi dell'imperadore in questa
guerra, perchè, secondo il trattato di Passarowitz, la tregua di sua
maestà cesarea colla Porta Ottomana durava ancora, nè terminava se
non nell'anno 1742; pretendendo perciò i Turchi che Cesare non fosse
in libertà dopo esso trattato di collegarsi colla Russia a danno
loro, nè gli fosse lecito di romperla contra d'essi. A me non tocca
di entrare in sì fatto esame, e molto meno di stendere le ottuse
mie pupille nei gabinetti della divinità, bastandomi di riferire gli
sfortunati avvenimenti di questa campagna contra degl'infedeli nella
Servia, Bossina, Moldavia, Valacchia ed altri luoghi; e che per le
tante malattie si trovò al finire dell'anno quasi della metà scemata
la dianzi sì possente armata imperiale. Nè si dee tacere che allora
più che mai si sciolsero le lingue e maledizioni de' cristiani contra
del conte di Bonneval Franzese, già uno de' generali dell'imperadore;
il quale, privo per altro di religione, avea abbracciata quella de'
Turchi. Entrato costui al servigio della Porta col nome di bassà
Osmanno, tutto s'era dato ad istruire i Turchi della disciplina
militare dei cristiani: e fu creduto che i documenti suoi influissero
non poco ai fortunati successi delle armi turchesche sì dell'anno
presente che dei due susseguenti. Dicevasi che questo infame rinegato
fosse il braccio dritto del primo visire. Se la fortuna non si fosse
dichiarata in favore dei Turchi (giacchè in questo medesimo tempo in
Nimirow nella Polonia trattavano di pace i plenipotenziarii cesarei,
russiani e turchi), si potea sperare qualche pronta concordia con
vantaggio dell'armi cristiane. Intanto d'altro passo procederono le due
armate dell'imperadrice della Russia contra de' musulmani. Per ciocchè
il generale _conte di Munich_ nel dì 13 di luglio s'impadronì della
riguardevol città di Oczakow situata al mare, con grande mortalità e
prigionia di Turchi, con acquisto di molta artiglieria e di un ricco
bottino. Seppe anche difenderla da essi Turchi, accorsi ad assediarla.
Parimente il generale _Lascì_ tornò di nuovo a fare un'irruzione nella
Crimea, dove incendiò gran copia di que' villaggi, prese un'infinità
di buoi, e lasciò dappertutto memorie del furor militare in vendetta
degl'immensi danni e mali recati per tanti anni addietro da que'
Tartari alla Russia.
Fu il presente anno l'ultimo della vita di _Rinaldo d'Este_ duca di
Modena, che nato nel dì 25 di aprile dell'anno 1655, e creato duca nel
1694, avea con somma saviezza fin qui governato i suoi popoli. Nel
dì 26 di ottobre spirò egli l'anima. Perchè nelle Antichità Estensi
io esposi tutto quel di lodevole, che si osservò in questo principe
(e fu ben molto), io mi dispenso ora dal ripeterlo, bastandomi dire
che per l'elevatezza della mente, per la pietà e pel saper tenere
le redini d'un governo, si meritò il concetto di uno dei più saggi
principi di questi tempi. Lasciò dopo di sè un figlio unico, cioè
_Francesco_ principe ereditario, nato nel dì 2 di luglio del 1698,
e tre principesse, cioè _Benedetta Ernesta, Amalia Gioseffa_ ed
_Enrichetta_ duchessa vedova di Parma. Sul principio delle ultime
turbolenze, nelle quali si trovarono involti anche gli Stati della
casa d'Este, s'era portato il suddetto principe Francesco a Genova
colla principessa sua consorte _Carlotta Aglae_, del real sangue di
Francia, figlia di _Filippo duca di Orleans_, già reggente di quel
regno. Nell'anno 1755 passarono amendue a Parigi per impetrar sollievo
agl'innocenti popoli dei loro ducati dal re Cristianissimo _Luigi
XV_ e per vegliare agli interessi proprii e del duca Rinaldo padre e
suocero. Venuto l'autunno, si portò esso principe a visitar le città
della Fiandra ed Olanda, ricevendo dappertutto distinti onori, e di là
passò in Inghilterra, dove gli furono compartite le maggiori finezze
dal re _Giorgio II_, che in questo principe considerò trasfuso il
sangue di quei gloriosi antenati, dai quali era discesa anche la real
casa di Brunsvich. Finalmente nella primavera dell'anno presente se
ne andò a Vienna per inchinare il glorioso Augusto _Carlo VI_, da cui
e dall'imperadrice vedova _Amalia_ sua zia materna, e da tutta quella
corte, fu graziosamente accolto. Essendosi accesa in questo tempo la
guerra in Ungheria, s'invogliò anche egli di quell'onorato mestiere; e
tenendo compagnia a _Francesco duca di Lorena_ e gran duca di Toscana,
e al principe _Carlo_ di lui fratello, intervenne alle azioni della
sopraddetta sventurata campagna. Nel tornarsene egli a Vienna, intese
la morte del duca Rinaldo suo padre, e, però congedatosi dalle auguste
maestà, s'inviò verso l'Italia, e nel dì 4 di dicembre felicemente
giunse a Modena, ricevuto con giubilo dai suoi sudditi, che, attesa
la di lui molta intelligenza, e spezialmente l'amorevol suo cuore,
concepirono per tempo viva speranza d'ottimo governo, secondo l'uso
de' suoi maggiori, tutti buoni e benefici principi. Aveva egli già
procreati due principi viventi, cioè _Ercole Rinaldo_ suo primogenito,
nato nel dì 22 di novembre nell'anno 1727, ed un altro venuto alla luce
nel dì 29 di settembre del 1736 in Parigi, a cui poscia nel solenne
battesimo fu posto il nome di _Benedetto Filippo Armando_, e viene
oggidì chiamato il principe d'Este; e quattro principesse, cioè _Maria
Teresa Felicita_, _Matilde, Fortunata Maria_ ed _Elisabetta_.
Più che mai continuò in questi tempi la ribellion della Corsica, con
trovarsi bloccate da que' popoli le cinque o sei fortezze che sole
restavano in potere della repubblica di Genova. Correvano tutto dì
voci incerte di quegli affari, negando alcuni e pretendendo altri che
durasse in quell'isola l'autorità del _baron Teodoro_, e che da lui
si riconoscessero i soccorsi che andavano giugnendo a quei sollevati,
con voce ancora ch'egli ritornerebbe in breve al comando. La verità
fu, che esso era passato in Olanda, dove, prevalendo le istanze dei
suoi creditori, per qualche tempo si riposò nelle carceri, e restò
poscia liberato. Tale era la sua attività ed eloquenza, che impegnò
altri mercatanti a concorrere nei suoi disegni, e si dispose a rivedere
la Corsica. Ora i Genovesi, per desiderio di mettere fine a quella
cancrena, s'avvisarono in questi tempi di ricorrere al patrocinio
del re Cristianissimo, affinchè il suo nome e la potenza dell'armi
sue mettesse in dovere quella sì alterata nazione. Penetrato il lor
disegno, non tralasciarono i Corsi di rappresentare a Versaglies
quanti aggravii aveano finora sofferto dal governo de' Genovesi. Ciò
che ne avvenisse, lo vedremo all'anno seguente. Nel presente sul
Piacentino e Lodigiano seguitò l'epidemia de' buoi con terrore di
tutti i vicini. Anche il monte Vesuvio nel dì 19 di maggio si diede
a vomitar fiamme, pietre e bitume, che raffreddato era simile alla
schiuma di ferro. Per dodici miglia fino al mare correndo la fiumana
d'esso bitume, cagionò la rovina di molti villaggi, conventi, chiese e
case. Le città di Adriano, Avellino, Nola, Ottaviano, Palma e Sarno,
e la torre del Greco sommamente patirono, e ne fuggirono tutti gli
abitanti. Alcun luogo vi restò coperto dalla cenere alta (se pure è
credibile) quasi venti palmi. Orazioni pubbliche si fecero per questo
in Napoli, città che si trovò ben piena di spavento, ma altro incomodo
non soffrì che quello della caduta cenere. Merita anche memoria per
istruzione de' posteri una delle pazzie di questi tempi, cioè il già
introdotto lotto di Genova, che si dilatò in Milano, Venezia, Napoli,
Firenze, Roma ed altri paesi. Dissi pazzia, non già dei principi, che
con questa invenzione mostravano la loro industria in saper cavare
dalle genti senza lancetta il sangue, ma dei popoli che, per l'avidità
di conseguire un gran premio, s'impoverivano, dando una volontaria
contribuzione agli accorti regnanti, con iscorgersi in fine che
di pochi era il vantaggio, la perdita d'infiniti. Nella sola Roma
danarosa, in cui sul principio ebbe gran voga esso lotto, e si faceano
più estrazioni in un anno, si calcolò che in ciascuno de' primi anni
affanni ancora provò il papa dalla parte de' Tedeschi, per essere stato
carcerato un uffiziale cesareo; ed altri dalla corte di Francia, il cui
ambasciatore si ritirò da Roma per cagion della nomina di un vescovo
fatta dal re Stanislao, e non accettata dal papa. Bollivano parimente
le note controversie colla corte di Savoia. In somma sembrava che ognun
dei potentati con abuso della sua potenza si facesse lecito d'insultare
il sommo pontefice con tutto il suo retto operare: alle quali offese
egli nondimeno altre armi non oppose che quelle della mansuetudine
e della pazienza. In mezzo nulladimeno a tali burrasche si osservò,
essere stato dichiarato vicerè di Sicilia il principe don _Bortolomeo
Corsini_ nipote di sua santità, personaggio dotato di singolar
saviezza: il che fece maravigliare più d'uno.
Anche la Corsica in questi tempi apprestò alla pubblica curiosità
una commedia, che diede molto da discorrere. Duravano più che mai
le turbolenze in quell'isola con grave dispendio della repubblica di
Genova; quando nell'aprile, condotto da una nave inglese procedente
da Tunisi, colà sbarcò un personaggio incognito, seco conducendo dieci
cannoni e molte provvisioni da guerra, ed anche danaro. Fu accolto dai
sollevati con gran gioia ed onore, e preso per loro capo, anzi nel dì
15 di esso mese fu onorato col titolo di re di Corsica: cosa che non
si può negare, benchè altri dicessero solamente di vicerè, perchè si
pretendea che fosse stato inviato colà da qualche potenza che aspirasse
al dominio di quell'isola. Sul principio non era conosciuto chi fosse
questo sì ardito e fortunato campione, ma si venne poi scoprendo,
e i Genovesi con un lor manifesto il dipinsero coi più neri colori
di uomo senza religione, di un truffatore, di un alchimista, e come
il più infame dei viventi, e pubblicarono ancora contra di lui una
grossa taglia. La verità si è che costui era _Teodoro Antonio barone
di Newoff_, nato suddito del re di Prussia, e di casa nobile, che da
venturiere, dopo aver fatto di molti viaggi per le corti di Europa, ora
in lieta, ora in triste fortuna, avea in fine saputo cogliere nella
rete vari mercatanti affinchè l'assistessero in questa impresa, con
promettere loro mari e monti, assiso che fosse sul maestoso trono della
Corsica. Prese, egli con vigore quel governo, creò conti e marchesi
con gran liberalità; istituì un ordine militare di cavalieri appellati
della Liberazione, e ne aspettava ognuno delle meraviglie. Ma non finì
l'anno che parve finita anche la fortuna di questo comico regnante; e
divulgossi, che dopo aver egli cominciato ad esercitare un'autorità
troppo dispotica, arrivando a punire chi non eseguiva a puntino gli
ordini suoi, la nazion dei Corsi non tardò a convertire l'amore in
odio, e poscia in dispregio, perchè mai non comparivano quei tanti
soccorsi che sulle prime aveva egli promesso. Pertanto, temendo egli
della vita, segretamente imbarcatosi nel dì 12 di novembre, comparve a
Livorno, travestito da frate, ed appena sbarcato prese le poste, senza
sapersi per qual parte. La verità nondimeno fu, non essere stata fuga
la sua, perchè egli, prima di partirsi, nel dì quarto di novembre,
pubblicò un editto, con cui costituì i ministri del governo durante la
sua lontananza. Andò egli per procurar nuovi rinforzi a quella nazione.
Era, siccome dicemmo, restato vedovo _Carlo Emmanuele_ re di Sardegna,
e volendo passare alle terze nozze, intavolò il nuovo suo matrimonio
colla principessa _Elisabetta Teresa_, sorella di _Francesco Stefano_
duca di Lorena, in cui concorrevano, oltre all'insigne nobiltà, le più
rare doti di animo e di corpo. Era nata nel dì 15 di ottobre del 1711
dal duca _Leopoldo Giuseppe_ e dalla duchessa _Elisabetta Carlotta
d'Orleans_, sorella del già _Filippo, duca di Orleans_ reggente di
Francia. Fu pubblicato in Vienna questo maritaggio, e si andarono
disponendo le parti per effettuarlo colla convenevol magnificenza.
Nell'anno presente la mortalità dei buoi cominciò a serpeggiare pel
Piemonte, Novarese, Lodigiano e Cremonese: il che di sommo danno riuscì
a quelle contrade, e di grande spavento agli altri paesi, che tutti
si misero in guardia per esentarsi da sì terribile eccidio. Provossi
in varie parti del regno di Napoli e dello Stato ecclesiastico stesso
flagello. Risonavano intanto per Italia le prodezze dell'armi russiane
contra de' Turchi, perchè dall'un canto s'impadronirono dell'importante
fortezza d'Azof, e dall'altro penetrarono anche nella Crimea dove
lasciarono una funesta memoria a que' Tartari, assassini in addietro
della Russia e Polonia. Gran gloria per questo venne all'imperadrice
russiana, se non che i progressi suoi cagion furono che la Porta
Ottomana, pacificata con lo scach Nadir, o sia Tamas Kulican, re
della Persia, facesse uno straordinario armamento, e dichiarasse
la guerra contra di lei. Era collegato di essa imperadrice _Anna_
l'Augusto _Carlo VI_, e cominciossi per tempo a scorgere ch'egli era
per impugnare la spada in difesa di lei: al qual fine tutte le milizie
alemanne cavate d'Italia, ed altre della Germania sfilarono verso la
bassa Ungheria ai confini dei Turchi. Non meno il ministro di Francia
che quei delle potenze marittime molto si adoperarono per distorre sua
maestà cesarea da questo impegno; ma non ne ricavarono se non dubbiose
risposte, perchè l'imperadore avea fatto esporre a Costantinopoli varie
doglianze e minaccie ed aspettava se facessero frutto. Era negli anni
addietro nata in Inghilterra una setta appellata dei _Liberi Muratori,_
consistente nell'union di varie persone, e queste ordinariamente
nobili, ricche o di qualche merito particolare, inclinate a solazzarsi
in maniera diversa dal volgo. Con solennità venivano ammessi i nuovi
fratelli a questo istituto, e loro si dava giuramento di non rivelare
i segreti della società. Raunavansi costoro di tanto io tanto in una
casa eletta per loro congresso, chiamata la Loggia, dove passavano il
tempo in lieti ragionamenti e in deliziosi conviti, conditi per lo più
da sinfonie musicali. Verisimilmente aveano essi preso il modello di sì
fatte conversazioni dagli antichi epicurei, i quali, per attestato di
Cicerone e Numenio, con somma giovialità e concordia passavano le ore
in somiglianti ridotti. D'Inghilterra fece passaggio in Francia e in
Germania questo rito, e in Parigi fu creduto che si contassero sedici
Logge, alle quali erano scritti personaggi della primaria nobiltà.
Allorchè si trattò di creare il gran mastro, più brogli si fecero
ivi che in Polonia per l'elezione d'un nuovo re. Si tenne per certo
che anche in alcuna città d'Italia penetrasse e prendesse piede la
medesima novità. Contuttochè protestassero costoro, essere prescritto
dalle loro leggi, di non parlare di religione, nè del pubblico governo
in quelle combriccole, e fosse fuor di dubbio che non vi si ammetteva
il sesso femineo, nè ragionamento di cose oscene, nè vi era sentore
di altra sorta di libidine: nondimeno i sovrani, e molto più i sacri
pastori, stavano in continuo batticuore che sotto il segreto di tali
adunanze, renduto impenetrabile pel preso giuramento, si covasse
qualche magagna, pericolosa e forse pregiudiziale alla pubblica quiete
e ai buoni costumi. Però il pontefice Clemente XII nell'anno presente
stimò suo debito di proibire e di sottoporre alle censure la setta
dei Liberi Muratori. Anche in Francia l'autorità regia s'interpose
per dissipar queste nuvole, che in fatti da lì a non molto tempo si
ridussero in nulla, almeno in quelle parti e in Italia. Fu poi cagione
un tal divieto o rovina che più non credendosi tenuti al segreto i
membri di essa repubblica, dopo il piacere di aver dato lungo tempo la
corda alla pubblica curiosità, rompessero gli argini, e divulgassero
anche con pubblici libri tutto il sistema e rituale di quella novità.
Trovossi, terminare essa in una invenzione di darsi bel tempo con riti
ridicolosi, ma sostenuti con gran gravità; nè altra maggior deformità
vi comparve, se non quella del giuramento del segreto preso sul Vangelo
per occultar così fatte inezie. Ridicola cosa anche fu che in una città
della Germania dall'ignoranza e semplicità venne spacciato e fatto
credere al popolo, autore della medesima setta chi scrive le presenti
memorie.
Anno di CRISTO MDCCXXXVII. Indiz. XV.
CLEMENTE XII papa 8.
CARLO VI imperadore 27.
Alla per fine spuntò nell'anno presente la tanto sospirata iride
di pace in Italia con allegrezza inesplicabile di tutti i popoli;
e quantunque tal serenità non fosse esente da qualche nebbia per le
non mai quiete pretensioni dei potentati, pure, cessando affatto lo
strepito dell'armi in queste parti, giusto motivo ebbe ciascuno di
rallegrarsene. Fin qui ostinatamente erano persistite in Livorno e Pisa
le guernigioni spagnuole, senza voler cedere alle truppe tedesche,
disposte secondo i preliminari a prenderne possesso a nome del _duca
di Lorena_. Fu detto che seguisse in Pontremoli il cambio delle
cessioni fatte da sua maestà cesarea ai regni di Napoli e Sicilia, e
dal re delle Due Sicilie ai ducati di Toscana, Parma e Piacenza. Può
dubitarsene, da che si seppe che il re Cattolico _Filippo V_ non volle
in quest'anno sottoscrivere essi preliminari, ed è certo che _Carlo_ re
di Napoli e Sicilia si riservò certe pretensioni che avrebbero potuto
intorbidar la concordia. Comunque fosse, il generale spagnuolo _duca
di Montemar_ sul principio di quest'anno, giunta che fu a Livorno una
buona quantità di legni, in quelli imbarcò il presidio d'essa città,
ed altre fanterie spagnuole inviò verso le fortezze della maremma di
Siena; dopo di che, senza far cessione alcuna di Livorno, nel dì 9 di
gennaio abbandonò quella città, dove restò la sola guernigione del gran
duca _Gian Gastone_. Lasciarono gli Spagnuoli nella Toscana la memoria
di molti aggravii inferiti a quegli Stati. Pertanto da lì ad alquanti
giorni entrato in Toscana il generale tedesco _Wactendonck_ con
alcuni reggimenti cesarei, prese, a nome del duca di Lorena, possesso
di Livorno, con prestare giuramento di fedeltà al gran duca, le cui
milizie insieme colle tedesche cominciarono a montare la guardia.
Distribuì eziandio alcune di quelle soldatesche in Siena, Pisa e Porto
Ferraio, le quali osservarono miglior disciplina che le precedenti.
Pochi mesi passarono che il presidio spagnuolo di Orbitello,
abbisognando di legna per uso proprio e per le fortificazioni, ne
fece richiesta al gran duca. Perchè risposta non veniva, un grosso
distaccamento d'essi Spagnuoli passò a tagliare sul Sanese circa mille
e secento alberi. Ne furono fatte doglianze, ed avrebbe questa violenza
potuto cagionar delle nuove rotture, se la corte di Vienna, ossia il
duca di Lorena, non si fosse ora trovato nei gravi impegni, dei quali
fra poco parleremo. Colla pazienza si sopì quel disordine.
Intanto, angustiato dal male d'orina e da altri incomodi di corpo il
gran duca _Gian Gastone de' Medici_ si ridusse agli estremi di sua
vita, e nel dì 9 di luglio con segni di molta pietà restò liberato
dai pensieri ed affanni del mondo. Era principe di gran mente, di
somma affabilità e di una volontà tutta inclinata al pubblico bene;
e quantunque la sua poca sanità il tenesse per lo più ristretto in
camera o in letto, pure, valendosi di saggi ed onorati ministri,
mantenne sempre un'esatta giustizia, e in vece di accrescere i pesi ai
suoi sudditi, più tosto cercò di sminuirli. Liberale verso la gente
di merito, protettore delle lettere, e sommamente caritativo verso i
poveri, tal memoria lasciò di sè, che chiunque avea sparlato di lui
vivente, ebbe poi a compiangerlo morto. In lui finì la linea maschile
della insigne regnante casa de' Medici, con disavventura inesplicabile
dell'Italia, che seguitava a perdere i suoi principi naturali; ma
senza paragone riuscì più sensibile ai popoli della Toscana, i quali
indarno s'erano lusingati di poter tornare a repubblica, nè solamente
restarono senza i principi Medicei, che tanta gloria e rispetto aveano
fin qui procacciato a Firenze e alla Toscana, ma venivano a restar
sottoposti ad un sovrano certamente benignissimo e generoso, pure
obbligato da' suoi interessi a fare la residenza sua fuori d'Italia.
Gran fortuna è l'avere i principi proprii. L'averli anche difettosi,
meglio è regolarmente che il non averne alcuno, giacchè lo stesso è che
averli lontani; mentre fuori degli Stati ridotti in provincia volano
le rendite, e dee il popolo soggiacere ai governatori, i quali non
sempre seco portano l'amore a' paesi dove non han da fare le radici.
Dopo la morte di questo principe con tutta quiete il _principe di
Craon_ e gli altri ministri lorenesi presero il possesso della Toscana
a nome di sua altezza reale _Francesco Stefano_ duca di Lorena, genero
dell'imperadore, che fu proclamato gran duca. Profittò ben la Francia
di questo avvenimento, perchè le cessò l'obbligo di pagare ad esso
duca di Lorena quattro milioni e mezzo di Francia, finchè egli fosse
entrato in possesso della Toscana. La vedova elettrice palatina _Anna
Maria Luigia de' Medici_, sorella del defunto gran duca Gian Gastone,
prese anch'ella il possesso dei mobili e allodiali della casa paterna,
ascendenti ad un valsente incredibile, nè solamente degli esistenti
nella Toscana, ma anche in Roma, nello Stato ecclesiastico e in altri
paesi. Tuttavia non tardò a saltar fuori una scintilla, che i saggi
ben previdero potere un dì produrre qualche incendio. Cioè _Carlo_ re
di Napoli e di Sicilia prese lo scorruccio per la morte di esso gran
duca, ed insieme il titolo di ereditario degli allodiali della casa
de Medici, siccome principe già adottato dalla medesima per figlio;
ed altrettanto fece anche il Cattolico re _Filippo V_ suo padre. A tal
pretensione non s'era trovato finora ripiego. Furono fatte per questo
proteste giuridiche tanto in Firenze che in Roma. Alla vedova elettrice
fu esibito molto di autorità nel governo, premendo al novello gran duca
di tenersi amica questa principessa, donna tanto ricca, e di mirabil
talento e saviezza. Ma se ne scusò ella per cagion della sua avanzata
età.
Ebbe compimento in quest'anno il maritaggio di _Carlo Emmanuele_ re
di Sardegna colla principessa _Elisabetta_ sorella del suddetto duca
di Lorena. La funzione fu fatta in Luneville, dove il _principe di
Carignano_ sostenne le veci del re; dopo di che si mise in viaggio
essa novella regina alla volta della Savoia. Nell'ultimo giorno di
marzo pervenne essa a Ponte Beauvoisin sui confini; ed essendosi
giù portato colà il re con tutta la corte, e con accompagnamento
magnifico di guardie e milizie, fu ad incontrarla, conducendola poi
a Sciambery, dove presero per una settimana riposo. Nella sera del
dì 22 di aprile fecero i reali sposi il magnifico loro ingresso in
Torino fra la gran folla dei sudditi e forestieri accorsi a quelle
feste, e fra l'ale della fanteria e cavalleria, mentre intanto le
artiglierie facevano un incessante plauso alle loro maestà. Non
quella sola sera si videro illuminate le strade di Torino, ma anche
nelle seguenti; nè mancarono fuochi artifiziali, ed altri suntuosi
divertimenti, in sì lieta congiuntura. Passava in questi tempi non
lieve disputa fra esso re di Sardegna e la corte di Vienna, giacchè
egli pretendeva la terra di Serravalle per distretto di Tortona;
laddove i cesarei la teneano per dominio staccato da quella città.
Continuavano intanto i maneggi della sacra corte di Roma con quelle
di Madrid, Portogallo, Napoli e Savoia per le controversie vertenti
con esse. Rallegrossi dipoi quella gran città al vedere nel marzo
di quest'anno ritornati colà i _cardinali Acquaviva_ e _Belluga_ con
indizio di sperata riconciliazione. Per trattarne venne a Roma come
mediatore il _cardinale Spinelli_ arcivescovo di Napoli, personaggio di
gran credito e di obbliganti maniere; e vi comparve ancora _monsignor
Galliani_ gran limosiniere del re delle Due Sicilie, per esporre le
pretensioni di quel monarca. Finalmente nel dì 27 di settembre si vide
qualche apparenza di aggiustamento fra la santa Sede e i re di Spagna
e di Napoli: il che recò incredibil consolazione a Roma; quantunque in
questi ultimi tempi non succedesse mai discordia e concordia alcuna, in
cui non iscapitasse sempre la corte pontificia. Non finirono per questo
le pretensioni, nè si riaprirono per anche le nunziature di Madrid e di
Napoli. Contuttociò la Dateria cominciò a far le sue spedizioni. Per
le differenze di Portogallo e di Savoia ripiego alcuno finora non si
trovò.
Aveano i tanti saccheggi fatti dai Tartari della Russia, col condurne
schiavi migliaia di uomini, commossa in fine a risentimento _Anna
imperadrice_ d'essa Russia, non solo contra di quei masnadieri, ma
contra gli stessi Turchi, i quali con tutte le querele e proteste
dei Russiani mai non vollero apportarvi rimedio. Due suoi valenti
generali con due possenti armate nel precedente anno aveano data una
buona lezione a quegl'infedeli; il _Lascì_ col prendere la fortezza
d'Azof, e il _Munich_ con una terribil invasione nella Crimea. Fece per
questo il sultano dei Turchi, già pacifico co' Persiani, un gagliardo
armamento contro i Russiani; e quantunque s'interponesse l'Augusto
_Carlo VI_ per trattar di pace, non ne riportò che belle parole,
insistendo sempre i Turchi nella restituzione d'Azof. Lega difensiva
era fra esso imperadore e la Russia; e però non volendo Cesare lasciar
soperchiare dai musulmani l'imperadrice suddetta, avea spedito ai
confini dell'Ungheria la maggior parte delle sue forze, e dichiarato
generalissimo d'esso _Francesco Stefano duca di Lorena_, divenuto in
questo anno gran duca di Toscana. La direzion dell'armi cesaree fu data
al _generale Seckendorf_, protestante di professione, con doglianza
del sommo pontefice, il quale non mancò di promettere sussidii di
danaro a Cesare per questa guerra. Un bel principio si diede ad essa
colla presa della città di Nissa, per cui furono cantati più _Te
Deum_. Ma non passò molto che si videro andare a precipizio tutti gli
affari dell'imperadore in quelle parti. Comandava il Seckendorf ad una
fioritissima armata, capace di grandi imprese, avendola alcuni fatta
ascendere sino ad ottanta mila valorosi combattenti. Quel generale,
invece di tener unite tante forze e di assediar daddovero la forte
piazza di Widin, o pure di tentar l'acquisto della Bossina, spartì in
varii corpi e distaccamenti l'esercito suo, e niun di essi riportò
se non percosse e disonore, tuttochè i musulmani sulle prime si
trovassero più d'un poco smilzi di forze in quelle parti. Il principe
d'Hildburgausen, inviato con poche migliaia d'armati sotto Banialuca
capitale della Bossina, tutti perdè i suoi attrezzi e gran gente, e
ringraziò la fortuna di essersi potuto salvar colla fuga. Nella Croazia
verso Vaccup, e sotto Widin furono battuti gl'imperiali, e Nissa venne
ricuperata dai Turchi. Si perdè il Seckendorf intorno ad Usitza, cioè
ad una bicocca, e la prese: questa fu l'unica sua prodezza. I Turchi la
ricuperarono poi nell'anno seguente. Andarono lamenti a Vienna; laonde,
richiamato egli alla corte, lasciò il comando al generale _Filippi_;
ed essendo stato posto in carcere, fu contra di lui dato principio ad
un processo. Non istimarono veramente i saggi che questo personaggio
avesse punto mancato alla fede e all'onore. Il suo delitto, secondo
il sentimento d'altri, fu quello di non saper fare il condottier di
armate: mestiere forse il più difficile di tutti; benchè non mancasse
chi l'esentava da questo difetto.
Certamente poi non avea più la corte cesarea un _Carlo_ duca _di
Lorena_, un _principe Eugenio_, nè un maresciallo di _Staremberg_,
nè i _Caprara_, nè i _Veterani_, nè altri simili personaggi di gran
mente e savia condotta, che sapessero dirigere un esercito ai danni
del nemico, e difender alle occorrenze. Per altro facendo conoscere la
sperienza che talvolta le belle armate cesaree combattono col bisogno,
il Seckendorf addusse ancor questo per sua discolpa, certo essendo
che a cagion della mancanza dei viveri per più giorni quell'esercito
si mantenne come potè in vita colle pannocchie del frumentone, ossia
grano turco, maturo in quel paese, o pur con sole prugne trovate
per avventura in que' boschi. Non mancò gente che si figurò essere
mancata la benedizione di Dio all'armi dell'imperadore in questa
guerra, perchè, secondo il trattato di Passarowitz, la tregua di sua
maestà cesarea colla Porta Ottomana durava ancora, nè terminava se
non nell'anno 1742; pretendendo perciò i Turchi che Cesare non fosse
in libertà dopo esso trattato di collegarsi colla Russia a danno
loro, nè gli fosse lecito di romperla contra d'essi. A me non tocca
di entrare in sì fatto esame, e molto meno di stendere le ottuse
mie pupille nei gabinetti della divinità, bastandomi di riferire gli
sfortunati avvenimenti di questa campagna contra degl'infedeli nella
Servia, Bossina, Moldavia, Valacchia ed altri luoghi; e che per le
tante malattie si trovò al finire dell'anno quasi della metà scemata
la dianzi sì possente armata imperiale. Nè si dee tacere che allora
più che mai si sciolsero le lingue e maledizioni de' cristiani contra
del conte di Bonneval Franzese, già uno de' generali dell'imperadore;
il quale, privo per altro di religione, avea abbracciata quella de'
Turchi. Entrato costui al servigio della Porta col nome di bassà
Osmanno, tutto s'era dato ad istruire i Turchi della disciplina
militare dei cristiani: e fu creduto che i documenti suoi influissero
non poco ai fortunati successi delle armi turchesche sì dell'anno
presente che dei due susseguenti. Dicevasi che questo infame rinegato
fosse il braccio dritto del primo visire. Se la fortuna non si fosse
dichiarata in favore dei Turchi (giacchè in questo medesimo tempo in
Nimirow nella Polonia trattavano di pace i plenipotenziarii cesarei,
russiani e turchi), si potea sperare qualche pronta concordia con
vantaggio dell'armi cristiane. Intanto d'altro passo procederono le due
armate dell'imperadrice della Russia contra de' musulmani. Per ciocchè
il generale _conte di Munich_ nel dì 13 di luglio s'impadronì della
riguardevol città di Oczakow situata al mare, con grande mortalità e
prigionia di Turchi, con acquisto di molta artiglieria e di un ricco
bottino. Seppe anche difenderla da essi Turchi, accorsi ad assediarla.
Parimente il generale _Lascì_ tornò di nuovo a fare un'irruzione nella
Crimea, dove incendiò gran copia di que' villaggi, prese un'infinità
di buoi, e lasciò dappertutto memorie del furor militare in vendetta
degl'immensi danni e mali recati per tanti anni addietro da que'
Tartari alla Russia.
Fu il presente anno l'ultimo della vita di _Rinaldo d'Este_ duca di
Modena, che nato nel dì 25 di aprile dell'anno 1655, e creato duca nel
1694, avea con somma saviezza fin qui governato i suoi popoli. Nel
dì 26 di ottobre spirò egli l'anima. Perchè nelle Antichità Estensi
io esposi tutto quel di lodevole, che si osservò in questo principe
(e fu ben molto), io mi dispenso ora dal ripeterlo, bastandomi dire
che per l'elevatezza della mente, per la pietà e pel saper tenere
le redini d'un governo, si meritò il concetto di uno dei più saggi
principi di questi tempi. Lasciò dopo di sè un figlio unico, cioè
_Francesco_ principe ereditario, nato nel dì 2 di luglio del 1698,
e tre principesse, cioè _Benedetta Ernesta, Amalia Gioseffa_ ed
_Enrichetta_ duchessa vedova di Parma. Sul principio delle ultime
turbolenze, nelle quali si trovarono involti anche gli Stati della
casa d'Este, s'era portato il suddetto principe Francesco a Genova
colla principessa sua consorte _Carlotta Aglae_, del real sangue di
Francia, figlia di _Filippo duca di Orleans_, già reggente di quel
regno. Nell'anno 1755 passarono amendue a Parigi per impetrar sollievo
agl'innocenti popoli dei loro ducati dal re Cristianissimo _Luigi
XV_ e per vegliare agli interessi proprii e del duca Rinaldo padre e
suocero. Venuto l'autunno, si portò esso principe a visitar le città
della Fiandra ed Olanda, ricevendo dappertutto distinti onori, e di là
passò in Inghilterra, dove gli furono compartite le maggiori finezze
dal re _Giorgio II_, che in questo principe considerò trasfuso il
sangue di quei gloriosi antenati, dai quali era discesa anche la real
casa di Brunsvich. Finalmente nella primavera dell'anno presente se
ne andò a Vienna per inchinare il glorioso Augusto _Carlo VI_, da cui
e dall'imperadrice vedova _Amalia_ sua zia materna, e da tutta quella
corte, fu graziosamente accolto. Essendosi accesa in questo tempo la
guerra in Ungheria, s'invogliò anche egli di quell'onorato mestiere; e
tenendo compagnia a _Francesco duca di Lorena_ e gran duca di Toscana,
e al principe _Carlo_ di lui fratello, intervenne alle azioni della
sopraddetta sventurata campagna. Nel tornarsene egli a Vienna, intese
la morte del duca Rinaldo suo padre, e, però congedatosi dalle auguste
maestà, s'inviò verso l'Italia, e nel dì 4 di dicembre felicemente
giunse a Modena, ricevuto con giubilo dai suoi sudditi, che, attesa
la di lui molta intelligenza, e spezialmente l'amorevol suo cuore,
concepirono per tempo viva speranza d'ottimo governo, secondo l'uso
de' suoi maggiori, tutti buoni e benefici principi. Aveva egli già
procreati due principi viventi, cioè _Ercole Rinaldo_ suo primogenito,
nato nel dì 22 di novembre nell'anno 1727, ed un altro venuto alla luce
nel dì 29 di settembre del 1736 in Parigi, a cui poscia nel solenne
battesimo fu posto il nome di _Benedetto Filippo Armando_, e viene
oggidì chiamato il principe d'Este; e quattro principesse, cioè _Maria
Teresa Felicita_, _Matilde, Fortunata Maria_ ed _Elisabetta_.
Più che mai continuò in questi tempi la ribellion della Corsica, con
trovarsi bloccate da que' popoli le cinque o sei fortezze che sole
restavano in potere della repubblica di Genova. Correvano tutto dì
voci incerte di quegli affari, negando alcuni e pretendendo altri che
durasse in quell'isola l'autorità del _baron Teodoro_, e che da lui
si riconoscessero i soccorsi che andavano giugnendo a quei sollevati,
con voce ancora ch'egli ritornerebbe in breve al comando. La verità
fu, che esso era passato in Olanda, dove, prevalendo le istanze dei
suoi creditori, per qualche tempo si riposò nelle carceri, e restò
poscia liberato. Tale era la sua attività ed eloquenza, che impegnò
altri mercatanti a concorrere nei suoi disegni, e si dispose a rivedere
la Corsica. Ora i Genovesi, per desiderio di mettere fine a quella
cancrena, s'avvisarono in questi tempi di ricorrere al patrocinio
del re Cristianissimo, affinchè il suo nome e la potenza dell'armi
sue mettesse in dovere quella sì alterata nazione. Penetrato il lor
disegno, non tralasciarono i Corsi di rappresentare a Versaglies
quanti aggravii aveano finora sofferto dal governo de' Genovesi. Ciò
che ne avvenisse, lo vedremo all'anno seguente. Nel presente sul
Piacentino e Lodigiano seguitò l'epidemia de' buoi con terrore di
tutti i vicini. Anche il monte Vesuvio nel dì 19 di maggio si diede
a vomitar fiamme, pietre e bitume, che raffreddato era simile alla
schiuma di ferro. Per dodici miglia fino al mare correndo la fiumana
d'esso bitume, cagionò la rovina di molti villaggi, conventi, chiese e
case. Le città di Adriano, Avellino, Nola, Ottaviano, Palma e Sarno,
e la torre del Greco sommamente patirono, e ne fuggirono tutti gli
abitanti. Alcun luogo vi restò coperto dalla cenere alta (se pure è
credibile) quasi venti palmi. Orazioni pubbliche si fecero per questo
in Napoli, città che si trovò ben piena di spavento, ma altro incomodo
non soffrì che quello della caduta cenere. Merita anche memoria per
istruzione de' posteri una delle pazzie di questi tempi, cioè il già
introdotto lotto di Genova, che si dilatò in Milano, Venezia, Napoli,
Firenze, Roma ed altri paesi. Dissi pazzia, non già dei principi, che
con questa invenzione mostravano la loro industria in saper cavare
dalle genti senza lancetta il sangue, ma dei popoli che, per l'avidità
di conseguire un gran premio, s'impoverivano, dando una volontaria
contribuzione agli accorti regnanti, con iscorgersi in fine che
di pochi era il vantaggio, la perdita d'infiniti. Nella sola Roma
danarosa, in cui sul principio ebbe gran voga esso lotto, e si faceano
più estrazioni in un anno, si calcolò che in ciascuno de' primi anni
- Parts
- Annali d'Italia, vol. 7 - 01
- Annali d'Italia, vol. 7 - 02
- Annali d'Italia, vol. 7 - 03
- Annali d'Italia, vol. 7 - 04
- Annali d'Italia, vol. 7 - 05
- Annali d'Italia, vol. 7 - 06
- Annali d'Italia, vol. 7 - 07
- Annali d'Italia, vol. 7 - 08
- Annali d'Italia, vol. 7 - 09
- Annali d'Italia, vol. 7 - 10
- Annali d'Italia, vol. 7 - 11
- Annali d'Italia, vol. 7 - 12
- Annali d'Italia, vol. 7 - 13
- Annali d'Italia, vol. 7 - 14
- Annali d'Italia, vol. 7 - 15
- Annali d'Italia, vol. 7 - 16
- Annali d'Italia, vol. 7 - 17
- Annali d'Italia, vol. 7 - 18
- Annali d'Italia, vol. 7 - 19
- Annali d'Italia, vol. 7 - 20
- Annali d'Italia, vol. 7 - 21
- Annali d'Italia, vol. 7 - 22
- Annali d'Italia, vol. 7 - 23
- Annali d'Italia, vol. 7 - 24
- Annali d'Italia, vol. 7 - 25
- Annali d'Italia, vol. 7 - 26
- Annali d'Italia, vol. 7 - 27
- Annali d'Italia, vol. 7 - 28
- Annali d'Italia, vol. 7 - 29
- Annali d'Italia, vol. 7 - 30
- Annali d'Italia, vol. 7 - 31
- Annali d'Italia, vol. 7 - 32
- Annali d'Italia, vol. 7 - 33
- Annali d'Italia, vol. 7 - 34
- Annali d'Italia, vol. 7 - 35
- Annali d'Italia, vol. 7 - 36
- Annali d'Italia, vol. 7 - 37
- Annali d'Italia, vol. 7 - 38
- Annali d'Italia, vol. 7 - 39
- Annali d'Italia, vol. 7 - 40
- Annali d'Italia, vol. 7 - 41
- Annali d'Italia, vol. 7 - 42
- Annali d'Italia, vol. 7 - 43
- Annali d'Italia, vol. 7 - 44
- Annali d'Italia, vol. 7 - 45
- Annali d'Italia, vol. 7 - 46
- Annali d'Italia, vol. 7 - 47
- Annali d'Italia, vol. 7 - 48
- Annali d'Italia, vol. 7 - 49
- Annali d'Italia, vol. 7 - 50
- Annali d'Italia, vol. 7 - 51
- Annali d'Italia, vol. 7 - 52
- Annali d'Italia, vol. 7 - 53
- Annali d'Italia, vol. 7 - 54
- Annali d'Italia, vol. 7 - 55
- Annali d'Italia, vol. 7 - 56
- Annali d'Italia, vol. 7 - 57
- Annali d'Italia, vol. 7 - 58
- Annali d'Italia, vol. 7 - 59
- Annali d'Italia, vol. 7 - 60
- Annali d'Italia, vol. 7 - 61
- Annali d'Italia, vol. 7 - 62
- Annali d'Italia, vol. 7 - 63
- Annali d'Italia, vol. 7 - 64
- Annali d'Italia, vol. 7 - 65
- Annali d'Italia, vol. 7 - 66
- Annali d'Italia, vol. 7 - 67
- Annali d'Italia, vol. 7 - 68
- Annali d'Italia, vol. 7 - 69
- Annali d'Italia, vol. 7 - 70
- Annali d'Italia, vol. 7 - 71
- Annali d'Italia, vol. 7 - 72
- Annali d'Italia, vol. 7 - 73
- Annali d'Italia, vol. 7 - 74
- Annali d'Italia, vol. 7 - 75
- Annali d'Italia, vol. 7 - 76
- Annali d'Italia, vol. 7 - 77
- Annali d'Italia, vol. 7 - 78
- Annali d'Italia, vol. 7 - 79
- Annali d'Italia, vol. 7 - 80
- Annali d'Italia, vol. 7 - 81
- Annali d'Italia, vol. 7 - 82
- Annali d'Italia, vol. 7 - 83
- Annali d'Italia, vol. 7 - 84
- Annali d'Italia, vol. 7 - 85
- Annali d'Italia, vol. 7 - 86