Annali d'Italia, vol. 7 - 29

cesarea, che cresciuta di forze minacciava di calare di bel nuovo in
Italia.
Sembrava intanto agl'intendenti che tanta indulgenza de' Franzesi
verso Mantova, città di cui le morti e malattie aveano ridotto quasi
a nulla il presidio tedesco, indicasse qualche occulto mistero. E
questo in fatti si venne a svelare nel dì 16 di novembre, perchè il
maresciallo _duca di Noaglies_ spedì al _generale Kevenhuller_, a cui
era appoggiato il comando dell'esercito imperiale, l'avviso d'una
sospension d'armi tra la Francia e l'imperadore. Tale inaspettata
nuova non si può esprimere quanto riempisse non men di stupore che
di consolazione e di allegrezza tutti i popoli che soggiacevano al
peso della presente guerra: cioè di milizie desolatrici de' paesi
dove passano o s'annidano. Onde avesse origine questa vigilia della
sospirata pace, fra qualche tempo si venne poi a sapere. Motivo di
sogghignare sul principio di questa guerra avea dato agl'intendenti
la corte di Francia con quella pubblica sparata di non pretendere
l'acquisto di un palmo di terreno nel muovere l'armi contra l'Augusto
_Carlo VI_, poichè altro non intendeva essa che di riportare una
soddisfazione alle sue giuste querele contro chi avea fatto cader
di capo al re Stanislao la corona della Polonia. Troppo eroica in
vero sarebbe stata così insolita moderazione della corte di Francia
in mezzo alla felicità delle sue armi. La soddisfazione dunque da
lei richiesta fu la seguente. Era stata la Francia costretta nelle
precedenti paci alla restituzion dei ducati di Lorena e Bar; ma non
cessò ella da lì innanzi di amoreggiare quei begli Stati, sì comodi
al non mai abbastanza ingrandito regno franzese. Ora il _cardinale
di Fleury_, primo ministro del re Cristianissimo _Luigi XV_, che per
tutta la presente guerra tenne sempre filo di lettere con un ministro
cesareo in Vienna, o pure con un suo emissario segreto che trattava
col ministro imperiale, sempre spargendo semi di pace, allorchè vide
l'augusto monarca stanco e in qualche disordine gli affari di lui,
propose per ultimar questa guerra la cession dei ducati della Lorena
e di Bar alla Francia, mediante un equivalente da darsi all'altezza
reale di _Francesco Stefano_ duca allora e possessore di quegli Stati.
L'equivalente era il gran ducato di Toscana. Irragionevole non parve
all'augusto monarca la proposizione, e venuto segretamente a Vienna
con plenipotenza il _signor della Baume_, nel dì 3 d'ottobre furono
sottoscritti i preliminari della pace, e portati a Versaglies per la
ratificazione.
Restò in essi accordato che il _re Stanislao_ godrebbe sua vita natural
durante il ducato di Bar, e poi quello ancora di Lorena dopo la morte
del vivente gran duca di Toscana, e che il dominio d'essi ducati
s'incorporerebbe poscia colla corona di Francia. Che il duca di Lorena
succederebbe nella Toscana dopo la morte d'esso gran duca _Gian Gastone
de Medici_, e intanto si metterebbero presidii stranieri in quelle
piazze. Fu riserbato ad esso duca Francesco il titolo colle rendite
della Lorena, sinchè divenisse assoluto padrone della Toscana. Che la
Francia garantirebbe la prammatica sanzione dell'imperadore, il quale
riconoscerebbe re delle Due Sicilie l'infante reale _don Carlo_. Che
a _Carlo Emmanuele_ re di Sardegna Cesare cederebbe due città a sua
elezione nello Stato di Milano, cioè o Novara, o Tortona, o Vigevano,
e all'incontro si restituirebbe all'imperadore il rimanente dello
Stato di Milano. Inoltre, in compenso delle due città da cedersi al
re di Sardegna, si darebbono a sua maestà cesarea quelle di Piacenza
e Parma con gli annessi Stati della casa Farnese. Tralascio gli altri
articoli di quei preliminari, per solamente dire che il suddetto
segreto negoziato cagion fu che in questa campagna nè al Reno, nè in
Lombardia si fecero azioni militari degne di memoria; e che gran tempo
e fatica vi volle per indurre il duca di Lorena alla cessione de'
suoi antichi ducati, e all'abbandono di que' suoi amatissimi popoli.
Acconsentì egli in fine a questo sacrifizio, perchè Cesare già gli
destinava un ingrandimento di gran lunga maggiore, siccome vedremo
fra poco. Per questa impensata concordia, tirato che fu il sipario,
secondo i particolari riguardi, chi si rallegrò e chi si rattristò. Non
ne esultò già il re di Sardegna, perchè comune voce fu che la Francia
nella lega gli avesse promessa la metà dello Stato di Milano, e questo
già prima era stato acquistato. Tuttavia mostrò quel savio regnante con
buona maniera di accomodarsi ai voleri di chi dava la legge, ed elesse
poi in sua parte Novara e Tortona. Ma allorchè giunse a Madrid questa
inaspettata nuova, chi sa dire le gravissime doglianze, nelle quali
proruppe quella real corte contra de' Franzesi? Li trattarono da aperti
mancatori di parola, mentre non solamente niun accrescimento lasciavano
alla Spagna in Lombardia, ma le toglievano anche l'acquistato, cioè
Parma e Piacenza; ed inoltre aveano comperata la Lorena non con altro
prezzo che colla roba altrui, cioè colla Toscana, già ceduta coi
precedenti trattati alla corona di Spagna. Pretendeva all'incontro
il _cardinale di Fleury_ di aver fatte giuste le parti, perchè
restavano all'infante don Carlo i regni di Napoli e Sicilia, i quali
incomparabilmente valevano più dei ducati della Toscana e di Parma
e Piacenza. Imperciocchè, quantunque colle sole lor forze si fossero
gli Spagnuoli impadroniti di quei due regni: pure principalmente se ne
dovea ascrivere l'acquisto agli eserciti di Francia, e a tante spese
fatte dal re Cristianissimo, per tenere impegnate l'armi di Cesare al
Reno e in Lombardia, senza che queste potessero accorrere alla difesa
di Napoli e Sicilia. E se l'imperadore sacrificava le sue ragioni sopra
quei due regni, a lui già ceduti dalla Spagna, e indebitamente poi
ritolti, ragion voleva che in qualche maniera fosse compensato del suo
sacrifizio.
Intorno a ciò lasciamoli noi disputare. Quel ch'è certo restò di sasso
il generale spagnuolo _duca di Montemar_, allorchè intese questa
novità, e tanto più perchè il _duca di Noaglies_ gli fece sapere
che pensasse alla propria sicurezza, giacchè egli avea ordine di non
prestargli assistenza alcuna. Poco in fatti si stette ad udire che i
Tedeschi calavano a furia dalla parte di Padova e Trentino, e quasi
volavano alla volta di Mantova. In sì brutto frangente il Montemar
ad altro non pensò che a salvarsi. Mosse in fretta le sue genti
dall'Adige, lasciando indietro molti viveri e foraggi, e si ridusse
di qua da Po. Ma eccoti giugnere a quello stesso fiume i cesarei; ed
egli allora, dopo aver messi circa settecento uomini nella Mirandola,
e spedito un distaccamento a Parma, tanto più affrettò i passi per
arrivare a Bologna, credendo di trovare ivi un sicuro asilo, per essere
Stato pontifizio. La disgrazia portò che qualche centinaio d'usseri
nel dì 27 di novembre cominciò a comparire in vicinanza di quella
città. Non volle cimentarsi con quella canaglia il generale spagnuolo,
ed animati i suoi a marciare con sollecitudine, prese la strada di
Pianoro e di Scaricalasino, per ridursi in Toscana. Avea egli in quel
dì invitata ad un solenne convito molta nobiltà bolognese dell'uno e
dell'altro sesso: e già si mettevano tutti a tavola, quando gli arrivò
l'avviso che si appressava il nemico. Alzossi egli allora bruscamente,
e immaginando che tutto l'esercito cesareo avesse fatto le ali, preso
congedo da quella nobil brigata, esortandoli a continuare il pranzo. Ma
dal di lui esempio atterriti tutti, con grande scompiglio si ritirarono
dalla città, lasciando che gli Spagnuoli facessero altrettanto verso
la montagna. Furono questi inseguiti alla coda dagli usseri, che per
buon pezzo di cammino andarono predando bagagli e imprigionando chi
poco speditamente dei pedoni menava le gambe. Essendo rimasto fuori
di Bologna lo spedale d'essi Spagnuoli, dove si trovavano circa mille
e cinquecento malati, fu sequestrato. Non si potè poi impedire ai
medesimi usseri l'entrare nella città, e il far ivi prigionieri quanti
Spagnuoli poterono scoprire, che non erano stati a tempo di seguitare
l'improvvisa e frettolosa marcia dell'esercito. Di questa violenza
acremente si dolse il legato pontifizio; ma non per questo essa cessò.
Grande strepito in somma fece questa curiosa metamorfosi di cose, e
il mirare senza colpo di spada i vincitori in pochi dì comparir come
vinti. Pervenuto dunque il duca di Montemar in Toscana, quivi si diede
a fortificare alcuni passi, con inviare nulladimeno parte della sua
gente verso il Sanese, a fine di potersi occorrendo ritirare alla volta
del regno di Napoli.
In tale stato erano le cose d'Italia non restando nemicizia se non
fra Spagnuoli e Tedeschi, quando il _duca di Noaglies_ si mosse per
abboccarsi con esso _duca di Montemar_, e per concertar seco le maniere
più dolci di dar fine, se era possibile, a questa pugna. In passando
da Bologna fece una visita a _Rinaldo di Este_ duca di Modena, che
intrepidamente fin qui avea sofferto l'esilio da' suoi Stati e gli
diede cortesi speranze che goderebbe anch'egli in breve i frutti
dell'intavolata pace. Ancorchè il Montemar non avesse istruzione
alcuna dalla sua corte, pure alla persuasione del saggio Noaglies,
sottoscrisse una sospension d'armi per due mesi fra gli Spagnuoli
e i Tedeschi: risoluzione che fu poi accettata anche dalla corte di
Madrid. Aveano ben preveduto i ministri dell'imperadore e del re di
Francia che gran fatica avrebbe durato il re Cattolico _Filippo V_
ad inghiottire l'amara pillola di una pace manipolata senza di lui
e in danno di lui; ed insieme aveano divisato un potente mezzo per
condurre quel monarca ad approvare i preliminari suddetti, o almeno
a non contrastarne l'esecuzione. Si videro perciò senza complimento
o licenza alcuna improvvisamente inoltrarsi e stendersi circa trenta
mila Alemanni sotto il comando del maresciallo _conte di Kevenhuller_
per gli Stati della Chiesa Romana, cioè pel Ferrarese, Bolognese e
Romagna, con giungere alcuni d'essi fin nella Marca e nell'Umbria,
circondando in tal guisa gran parte della Toscana, per far intendere
agli Spagnuoli, che se negassero di consentir per amore all'accordo,
l'esorcismo della forza ve li potrebbe indurre. Toccò all'innocente
Stato ecclesiastico di pagar tutte le spese di questo bel ripiego,
perchè obbligato a somministrar foraggi, viveri, ed anche rilevanti
contribuzioni di danaro. Intanto rigorosissimi ordini fioccarono da
Roma, che nulla si desse a questi incivili ospiti, e il _cardinale
Mosca_ legato di Ferrara, che si ostinò gran tempo ad eseguirli _ad
literam_, cagion fu di un incredibil danno agl'infelici Ferraresi,
perchè i Tedeschi vivevano a discrezione nelle lor ville. I savii
Bolognesi, all'incontro, e il _cardinale Alberoni_ legato di Ravenna,
che intendeano a dovere le cifre di quelle lettere, non tardarono ad
accordarsi con gli Alemanni, mercè d'un regolamento che minorò non
poco l'aggravio ai loro paesi. Voce corse in questi tempi che il duca
di Montemar, consapevole del poco piacere provato dal re di Sardegna
per la concordia suddetta, facesse penetrare a quel sovrano delle
vantaggiose proposizioni per trarlo ad una lega col re Cattolico,
e che esso re gli rispondesse di avere abbastanza imparato a non
entrare in alleanza con principi che fossero più potenti di lui. Si
può tenere per fermo che i fabbricatori di novelle inventarono ancor
questa, giacchè niun d'essi gode il privilegio di entrar nei gabinetti
dei regnanti; e la corte di Torino nè prima nè poi mostrò di essere
persuasa della massima suddetta. Continuò ancora nell'anno presente
la ribellione de' Corsi; e perchè i ministri della repubblica di
Genova esistenti in Corsica fecero un armistizio con quella gente, fu
disapprovata dal senato la loro risoluzione. Giugnevano di tanto in
tanto rinforzi di munizioni ed armi ai sollevati, che facevano dubitare
che sotto mano qualche gran potenza soffiasse in quel fuoco. Intesesi
parimente che quei popoli pareano determinati di reggersi a repubblica,
ed anche aveano stese le leggi di questo nuovo governo, ma senza
averne dimandata licenza ai Genovesi. Dopo aver papa _Clemente XII_
difficultato, per quanto potè, al reale infante di Spagna _don Luigi_,
a cagion della sua fanciullesca età, l'arcivescovato di Toledo, fu in
fine obbligato ad accordargliene le rendite, e nel dì 19 di dicembre
di questo anno il creò anche cardinale, tornandosi a vedere l'uso od
abuso de' secoli da noi chiamati barbarici. Non potea essere più bella
in quest'anno l'apparenza dei raccolti del grano, quando all'improvviso
sopraggiunse un vento bruciatore, che seccò le non peranche mature
spiche, e insieme le speranze dei mietitori. Perciò al flagello della
guerra si aggiunse quello d'una sì terribil carestia, che non v'era
memoria d'una somigliante a questa. Il peggio fu, che la maggior parte
delle provincie più fertili dell'Italia soggiacquero anch'esse a questo
disastro. Guai se non vi erano grani vecchi in riserbo, che convenne
far venire da lontani paesi con gravi spese: sarebbe venuta meno per le
strade innumerabile povera gente.


Anno di CRISTO MDCCXXXVI. Indiz. XIV.
CLEMENTE XII papa 7.
CARLO VI imperadore 26.

Il primo frutto che si provò della pace conchiusa fra l'imperadore e il
re Cristianissimo, spuntò nell'imperiale città di Vienna. Giacchè Dio
avea dato all'Augusto _Carlo VI_ un figlio maschio, e poi sel ritolse,
pensò esso monarca di provvedere al mantenimento della nobilissima
sua casa coll'unico ripiego che restava, cioè di provvedere di un
degno marito l'arciduchessa _Maria Teresa_ sua figlia primogenita,
già destinata alla successione della monarchia austriaca in difetto
di maschi. Grande era l'affetto d'esso imperadore verso di _Francesco
Stefano_ duca di Lorena, sì per le vantaggiose sue qualità di mente
e di cuore, come ancora pel sangue austriaco che gli circolava nelle
vene. Questo principe fu scelto per marito d'essa arciduchessa. Era
egli in età di ventisette anni, perchè nato nel dì 8 di dicembre
del 1708, e l'arciduchessa era già entrata nell'anno diciottesimo,
siccome nata nel dì 15 di maggio del 1717. Con tutta magnificenza
ed inesplicabile allegria nel dì 12 di febbraio seguì il maritaggio
di questi principi reali colla benedizione di monsignore _Domenico
Passionei_ nunzio apostolico; e continuarono dipoi per molti giorni
le feste e i divertimenti, gareggiando ognuno in applaudire ad un
matrimonio che prometteva ogni maggior felicità a quei popoli, e
dovea far rivivere nei lor discendenti l'augusta casa d'Austria
degna dell'immortalità. Ma la imperial corte ebbe da lì a non
molto tempo motivo di molta tristezza per la perdita che fece del
principe _Francesco Eugenio_ di Savoia, eroe sempre memorabile dei
nostri tempi. Nel dì 21 d'aprile terminò egli i suoi giorni in età
di settantadue anni: principe che per le militari azioni si meritò il
titolo di _invincibile_, e di essere tenuto pel più prode capitano che
si abbia in questo secolo avuto l'Europa; principe, dissi, riguardato
qual padre da tutte le cesaree milizie, sicure che l'andare sotto di
lui ad una battaglia lo stesso era che vincere, o almeno non essere
vinto; principe di somma saviezza, di rara splendidezza, per cui fece
insigni fabbriche, ed impiegò sempre gran copia di artefici di varie
professioni; ed accoppiando colla gravità la cortesia, nello stesso
tempo si conciliava la stima e l'amore di tutti. L'intero catalogo di
tutte le altre sue belle doti e virtù si dee raccogliere dalla funebre
orazione in onor suo composta dal suddetto nunzio, ora cardinale
Passionei, e da più d'una storia di chi prese ad illustrare _ex
professo_ la vita e le gloriose gesta di lui. Quale si conveniva ad un
principe di sì chiaro nome, e cotanto benemerito della casa d'Austria,
fu il funerale che per ordine dell'augusto _Carlo VI_ gli venne fatto
in Vienna.
Era già stabilita la concordia fra i due primi monarchi della
cristianità; contuttociò si penò forte in Italia a provarne gli
effetti. Non sapeva digerire il re Cattolico _Filippo V_ preliminari
che privavano il re di Napoli e Sicilia suo figlio del ducato della
Toscana, e spezialmente di Piacenza e Parma, città predilette della
regina _Elisabetta Farnese_ sua consorte. Conveniva nondimeno cedere,
perchè così desiderava la corte di Francia, e così comandava la forza
dell'armi cesaree, dalle quali si mirava come attorniata la Toscana; ma
di far la cessione ed approvarla non se ne sentiva esso re di Spagna
la voglia. Perciò andarono innanzi e indietro corrieri, e sempre
venivano nuove difficoltà da Madrid; e guerra non era in Italia, ma
continuavano in essa i mali tutti della guerra. Imperciocchè negli
Stati della Chiesa s'erano innicchiati con tante soldatesche i generali
cesarei; nè per quanto si raccomandasse con calde lettere il pontefice
_Clemente XII_ alle corti di Vienna e Parigi, appariva disposizione
alcuna di liberar que' paesi dall'insoffribile lor peso. Nella Toscana
stava saldo l'esercito spagnuolo, siccome ancora negli Stati di Milano
e di Modena si riposavano le armate di Francia e di Sardegna alle
spese degl'infelici popoli, spolpati ormai da tante contribuzioni ed
aggravii. Dal maresciallo _duca di Noaglies_ fu spedito in Toscana il
tenente generale _signor di Lautrec_, personaggio di gran saviezza e
disinvoltura, per concertare col _duca di Montemar_ il ritiro dell'armi
spagnuole da quelle piazze, e da Parma e Piacenza; ma siccome il
Montemar non riceveva dalla sua corte se non ordini imbrogliati e
nulla concludenti, così neppur egli sapeva rispondere alle premure
de' Franzesi, se non con obbliganti parole, scompagnate nondimeno dai
fatti. Venne l'aprile, in cui i Franzesi lasciarono affatto libero
agl'imperiali il ducato di Mantova; e perchè dovettero intervenir
delle minaccie, agli 11 d'esso mese gli Spagnuoli si ritirarono dalla
Mirandola, dopo averne estratte le tante munizioni da lor preparate
pel sospirato assedio di Mantova, lasciandovi entrare quattrocento
Tedeschi colà condotti dal generale _conte di Wactendonk_, il quale
restituì ivi nell'esercizio del dominio il duca di Modena. Conoscendo
del pari essi Spagnuoli che neppur poteano sostenere Parma e Piacenza,
si diedero per tempo ad evacuar quelle due città, asportandone non dirò
tutti i preziosi mobili, arredi, pitture, libreria, e gallerie della
casa Farnese, ma fino i chiodi dei palazzi, non senza lagrime di que'
popoli, che restavano non solamente privi dei propri principi, ma anche
spogliati di tanti ornamenti della lor patria. Oltre a ciò, inviarono
alla volta di Genova tutti i cannoni di loro ragione, e vi unirono
ancora gli altri, ch'erano anticamente delle stesse città, oppure de'
Farnesi. Risaputosi ciò dai Tedeschi, sul fine d'aprile il generale
_conte di Kevenhuller_ spinse in fretta colà il suo reggimento con
trecento usseri, che arrivarono a tempo per fermar quelle artiglierie
e sequestrarle, pretendendole doti delle fortezze di Parma e Piacenza:
intorno a che fu dipoi lunga lite, ma col perderla gli Spagnuoli.
Ora, affinchè non apparisse che il re Cattolico cedesse in guisa alcuna
gli Stati suddetti all'imperadore, o ne approvasse la cessione, i suoi
ministri, assolute che ebbero dal giuramento prestato al reale infante
quelle comunità, prima che arrivassero i Tedeschi, abbandonarono
Parma e Piacenza e gli altri luoghi, dei quali nel dì 3 di maggio, fu
preso il possesso dal _principe di Lobcovitz_ generale cesareo. Avea
fin qui _Rinaldo d'Este_ duca di Modena coraggiosamente sostenuto il
suo volontario esilio in Bologna, nel mentre che gl'innocenti suoi
popoli si trovavano esorbitantemente aggravati dai Franzesi, senza
alcun titolo insignoriti di questi Stati. Non volle più ritardare
il magnanimo re Cristianissimo a questo principe il ritorno nel
suo ducato; e però per ordine del _duca di Noaglies_, nel dì 23 di
maggio, lasciarono i Franzesi libera la città e cittadella di Modena,
e nei giorni seguenti anche Reggio e gli altri luoghi d'esso sovrano.
Pertanto nel dì 24 di esso mese se ne tornò il duca di Modena alla sua
capitale, dove fu accolto con sì strepitose acclamazioni del popolo,
testimoniante dopo tanti guai il giubilo suo in rivedere il principe
proprio, che egli stesso, andato a dirittura al duomo, per pagare
all'Altissimo il tributo dei ringraziamenti, non potè ritenere le
lagrime al riconoscere l'inveterato amore dei sudditi suoi. Intanto
si ridusse addosso all'infelice Stato di Milano tutto il peso delle
milizie franzesi; nè via appariva, che gli Spagnuoli si volessero
snidare dalla Toscana, nè i Tedeschi dagli Stati della Chiesa, essendo
essi pervenuti sino a Macerata e a Foligno. Solamente si osservò che il
_duca di Montemar_ cominciò ad alleggerirsi delle tante sue milizie,
inviandone parte per terra verso il regno di Napoli, e parte per mare
in Catalogna. Similmente, nel mese di luglio, s'incamminarono alla
volta della Germania alcuni de' reggimenti cesarei che opprimevano il
Ferrarese, Bolognese e la Romagna. Ma non per questo mai si vedeva data
l'ultima mano alla pace, per le differenti pretensioni de' principi. Il
_re di Sardegna_, oltre al Novarese e Tortonese, esigeva cinquantasette
feudi nelle Langhe. Nel mese d'agosto venne la commissione di
soddisfarlo; il che fece sciogliere l'incanto; perciocchè nel dì 26
d'esso mese i Gallo-Sardi rilasciarono agl'imperiali il possesso di
Cremona, e nel dì 28 quello di Pizzighettone. Nel dì 7 di settembre,
entrati che furono due reggimenti cesarei nella città di Milano,
finalmente da quel castello si ritirò la guernigion franzese e
piemontese, lasciandolo in potere d'essi imperiali. Già erano stati
consegnati i forti di Lecco, Trezzo e Fuentes e Lodi. Poscia nel
dì 9 entrarono gli Alemanni nelle fortezze d'Arona e Domodoscela, e
finalmente nel dì 11 in Pavia: con che restò evacuato tutto lo Stato
di Milano dalle truppe gallo-sarde. Videsi anche libero lo Stato della
Chiesa dalle milizie alemanne.
Ma per conto della Toscana, benchè gran parte degli Spagnuoli fosse
marciata a levante e ponente, pure niuna apparenza v'era che il
_conte di Montemar_ volesse dimettere Pisa e Livorno. Sulla speranza
di entrare in quella città, o per far paura agli Spagnuoli, inviò il
_generale Kevenhuller_ un corpo di truppe cesaree in Lunigiana e sul
Lucchese. Ad altro questo non servì che ad aggravar quelle contrade,
ed accostandosi il verno fu egli anche obbligato a richiamarle in
Lombardia senza aver messo il piede in Toscana. Duravano tuttavia le
discrepanze della corte di Vienna col re delle Due Sicilie, ed anche
col re Cattolico; perciocchè avea ben l'imperadore inviata la sua
libera cessione de' regni di Napoli e Sicilia, ma il reale infante,
nella cession sua della Toscana, Parma e Piacenza voleva riserbarsi
tutti gli allodiali della casa Medicea e Farnese. Similmente pretendeva
il re Cattolico che, venendo a mancare in Toscana la linea mascolina
del duca di Lorena, dovessero quegli Stati pervenire alla Spagna,
laddove esso duca intendeva di ottenerli liberi, e senza vincolo
alcuno, come erano gli Stati di Lorena da lui ceduti alla Francia. Per
cagione di questi nodi arrivò il fine di dicembre senza che fossero
ammesse nelle piazze della Toscana l'armi cesaree. Riuscì anche
fastidioso al pontefice _Clemente XII_ l'anno presente. La santa Sede,
tanto venerata in addietro, e rispettata da tutti i principi cattolici,
provò un diverso trattamento nei tempi correnti, perchè pareano
congiurate le potenze a far da padrone negli Stati della Chiesa, senza
il dovuto riguardo alla sublime dignità e sovranità pontificia. Già
si è veduto quanti malanni sofferissero senza alcun loro demerito per
tanti mesi dalle truppe cesaree le legazioni di Bologna, Ferrara e
Ravenna, le cui comunità benchè dal benefico papa fossero in sì dura
oppressione sovvenute con gran copia di danaro, pure rimasero estenuate
e cariche di debiti, per l'esorbitante peso di tante contribuzioni.
Da disavventure d'altra sorte non andò esente neppure la stessa Roma.
Quivi si erano postati non pochi ingaggiatori spagnuoli, che senza
saputa, non che senza consenso del vecchio papa, per diritto o per
rovescio arrolavano gente. Chi sa quel mestiere, facilmente concepirà
che non pochi disordini ed avanie occorsero; perchè molti ingannati,
e senza sapere qual impegno prendessero, o per propria balordaggine,
o per altrui malizia, si ritrovarono venduti. Ora i padri deploravano
i figli perduti, ora le mogli i mariti; e scoperto in fine onde
venisse il male, i Trasteverini nel dì 15 di marzo improvvisamente
attruppati in numero di cinque o sei mila persone, corsero alle case
di quegl'ingaggiatori, e, dopo aver liberati a furia gl'ingaggiati,
s'avviarono al palazzo Farnese, dove ruppero tutte le finestre, e
gittarono a terra l'armi dell'_infante don Carlo_. Al primo avviso
di questo disordine comandò tosto il _governator di Roma_ che gli
Svizzeri, le corazze e i birri accorressero al riparo. Furono questi
dalla furia di quella gente rispinti, nè si potè impedire che non
passasse la sbrigliata plebe al palazzo del re Cattolico in piazza di
Spagna, dove uccise un uffiziale, e seguirono altre morti e feriti.
Ma nella domenica delle Palme si riaccese la sedizione, perchè i
Trasteverini coi borghigiani andarono per isforzar le guardie messe
ai ponti. Il più ardito d'essi fu steso morto a terra, perlochè
infuriati i seguaci superarono il passo, e misero in fuga i soldati.
Anche i montigiani da un'altra parte si mossero, e seguirono ferite
di chi per accidente si trovò passar per le strade. Volle Dio che non
poterono giugnere di nuovo al palazzo di Spagna, dove erano preparati
centocinquanta fucilieri e quattro cannoni carichi a cartoccio: gran
male ne seguiva. Per rimediare a questo sconcerto, furono la sera
inviati il _principe di Santa Croce_ fedele Austriaco, e il _marchese
Crescenzi_ uno de' conservatori, a parlamentare coi sollevati, i quali
richiesero la libertà degl'ingaggiati del loro rione, e la liberazion
di alcuni già carcerati per cagion della sollevazione, e il perdono
generale a tutti. Ottennero quanto desideravano; e dappoichè videro
loro mantenuta la parola, andarono poi tutti lieti gridando: _Viva il
papa_. Si pubblicò poscia un rigoroso editto contro gl'ingaggiatori; e
perchè costoro non cessavano di fare il solito giuoco, seguirono alcune
altre contese, delle quali a me non occorre di far menzione.
Un disordine ne tirò dietro un altro. Per la nuova del tentativo fatto
in Roma contra degli Spagnuoli, si fermarono su quel di Velletri circa
tre mila soldati di quella nazione, che erano in viaggio alla volta
di Napoli; e mancando loro i foraggi, si diedero a tagliare i grani
in erba. Per questa cagione nel dì 21 d'aprile si mise in armi tutto
quel popolo, risoluto non solo di vietare il passaggio per la loro
città a quelle milizie, ma di forzarle a partirsi, e si venne alle
brutte. Accorse colà il _cardinal Francesco Barberino_, ma non potè
calmare il tumulto. Per questo in Roma si accrebbe la guernigion dei
soldati. Volarono intanto corrieri a Napoli e a Madrid, e si trattò
in Roma col _cardinale Acquaviva_ delle soddisfazioni richieste per
l'insulto dei Trasteverini. Perchè non furono quali si esigevano, esso
porporato coll'altro di _Belluga_ si ritirò da Roma; fece levar l'armi
di Spagna e di Napoli dai palazzi, e ordinò a tutti i Napoletani e
Spagnuoli di uscire della città nel termine di dieci giorni. Da Napoli
fu fatto uscire il nunzio del papa. Anche in Madrid grave risentimento
fu fatto con obbligar quella corte il nunzio apostolico a marciare
fuori del regno, con chiudere la nunziatura, e proibire ogni ricorso
alla dateria, gastigando in tal maniera l'innocente pontefice per
eccessi non suoi, e ai quali non avevano mancato i suoi ministri di
apprestar quel rimedio che fu possibile. Peggio ancora avvenne. Nel dì
7 di maggio entrate le milizie spagnuole in Velletri, piantarono in più
luoghi le forche, carcerarono gran copia di persone, e commisero poi
mille insolenze e violenze contra di quel popolo, il quale fu forzato
a pagare otto mila scudi per esimersi dal sacco. Una truppa eziandio
di granatieri spagnuoli, passata ad Ostia, incendiò le capanne di que'
salinari, saccheggiò le officine; ed altri intimarono alla città di
Palestrina il pagamento di quindici mila scudi pel gran reato di aver