Annali d'Italia, vol. 7 - 25

n'ebbero ben a pentire. Circa cinque mila soldati furono dipoi spediti
dai Genovesi in Corsica, creduti bastante rinforzo agli altri presidii
per ismorzare quell'incendio. Nella primavera di quest'anno la piccola
città di Norcia, patria di san Benedetto, situata nell'Umbria, per un
terribil tremuoto restò quasi interamente smantellata e distrutta. A
riserva di due conventi e del palazzo della città, le altre fabbriche
andarono per terra, con restar seppellite sotto le rovine più centinaia
di que' miseri abitanti. Si ridussero i rimasti in vita a vivere nella
campagna, e gravissimo danno ne risentirono anche le terre e i villaggi
circonvicini.


Anno di CRISTO MDCCXXXI. Indizione IX.
CLEMENTE XII papa 2.
CARLO VI imperadore 21.

Non mancarono faccende in questo anno al sommo pontefice _Clemente
XII_. Nulla valsero le forti insinuazioni fatte fare dalla santità sua
al _cardinal Coscia_ di rinunziare l'arcivescovato di Benevento. Egli
con tutta la mala grazia negò questa soddisfazione al santo padre;
e però continuarono i processi contro di lui nella congregazion de'
cardinali appellata _de Nonnullis_. Fu carcerato _monsignor vescovo
di Targa_ di lui fratello, con altri Beneventani, gente mischiata
negli abusi accaduti sotto il precedente governo. Il _cardinal Fini_
venne privato di voce attiva e passiva in ogni congregazione. Fu dipoi
intimata al Coscia la restituzione di ducento mila scudi alla camera
apostolica e alla tesoreria: somma indebitamente da lui percetta.
Questa fu la più sensibile stoccata all'interessato cuore di quel
porporato, e la sordida avidità sua, che l'avea consigliato a fare in
tante illecite maniere quell'ingiusto bottino, gli suggerì ancora il
ripiego per conservarlo. Portato il buon pontefice dalla sua natural
clemenza, non avea voluto mai condiscendere ad assegnare una stanza
in castello Sant'Angelo a questo porporato. Però, trovandosi egli in
libertà, seppe con falsi supposti ottenere dal _cardinale Cinfuegor_
ministro dell'imperadore un passaporto, e poscia se ne fuggì nel dì 31
di marzo, e travestito ora da cavaliere, ora da abbate ed ora da frate,
arrivò felicemente fin presso a Napoli, con implorare la protezione
del vicerè _conte d'Harrach_. Da Vienna, ove fu spedito un corriere,
venne poi la permissione ch'egli potesse dimorare ovunque gli piacesse
nel regno. Svegliossi in cuore del santo padre un vivo risentimento per
questa fuga, presa con dispregio degli ordini e divieti precedenti; e
però nel dì 12 di maggio fu pubblicato un monitorio, con cui al Coscia
s'intimava, che non tornando a Roma entro lo spazio di quel mese,
resterebbe privo di tutti i suoi benefizii: e se continuasse in quella
disubbidienza sino al primo d'agosto, verrebbe degradato dalla dignità
di cardinale. Furono poi nel dì 28 di maggio fulminate le scomuniche,
gl'interdetti ed altre pene contro di lui, che intanto facea volar da
per tutto dei manifesti in sua difesa; pretendendosi indebitamente
aggravato dalla congregazione suddetta. Chiamò poi in suo aiuto una
forte gota, spalleggiata dall'attestato veridico dei medici, acciocchè
gli servisse di scusa, se entro i termini prescritti non compariva
in Roma. Fu in questa occasione che il pontefice spedì ai principi
cattolici copia del processo formato contro del Coscia, dov'erano ben
caratterizzate le sue ribalderie; ma processo che fu poi processato da
molti, perchè dopo l'essersi rilevati tanti capi di reato, e dopo tanti
tuoni, si vide tuttavia la porpora ornare un personaggio che le avea
recato sì gran disonore. Vedrem nondimeno che non mancarono gastighi
alle colpe sue.
Dietro ad altro affare si scaldò medesimamente lo zelo di questo
pontefice. Cioè nel dì 8 di gennaio in una allocuzione fatta ai
cardinali nel concistoro segreto scoprì il santo padre l'intenzion
sua di disapprovare l'accordo già conchiuso fra il suo predecessore
e _Vittorio Amedeo_ re di Sardegna. A molti capi si stendeva quella
concordia, riguardanti l'immunità ecclesiastica, la nomina a varie
chiese e benefizii, e l'esercizio della giurisdizione dei vescovi.
Si aggiungeva la controversia per diversi feudi posti nel Piemonte e
Monferrato, e spezialmente Cortanze, Cortanzone, Cisterna e Montasia,
sopra i quali intendeva il re di esercitare sovranità, laddove il
pontefice pretendeva appartenere ai diritti della santa Sede, come
feudi ecclesiastici. Citati i nobili vassalli di que' luoghi a prestare
il giuramento di fedeltà al re, aveano ubbidito. Roma all'incontro
tali atti dichiarò nulli, e intimò le censure ed altre pene a chi
per essi feudi riconoscesse la regia camera di Torino. In una parola
s'imbrogliò forte l'armonia fra le due corti, e scritture di qua e di
là uscirono, e le controversie durarono sino al principio dell'anno
1742, siccome vedremo. A me non occorre dirne di più; siccome nè pure
di altre rilevanti liti che in questi stessi giorni ebbe la santa Sede
con gli avvocati e col parlamento di Parigi. Ma ciò che maggiormente
tenne in esercizio la vigilanza di esso sommo pontefice in questi
tempi, fu Parma e Piacenza. Quando si sperava che _Antonio Farnese_
duca di quella città avesse dal matrimonio suo da ricavar frutti,
per li quali si mantenesse la principesca sua casa, e restassero
frastornati e delusi i conti già fatti su quei ducati dai primi
potentati dell'Europa: eccoti l'inesorabil morte nel dì 20 di gennaio
del presente anno troncar lo stame di sua vita, ed estinguer insieme
tutta la linea mascolina della casa Farnese, che tanto splendore avea
recato in addietro all'Italia. La perdita sua fu compianta da tutti i
suoi sudditi, perchè già provato principe amorevole, splendido e di
rara bontà; anzi di tale bontà, che se più in lungo avesse condotto
il suo vivere, fu creduto che il suo patrimonio sarebbe ito sossopra,
sì inclinato era egli alle spese e alla beneficenza. Maggiore fu il
duolo, perchè già si prevedeva la gran disavventura di que' paesi, che,
perduto il proprio principe, correano pericolo di diventare provincia.
Nel testamento fatto da esso duca negli ultimi periodi di sua vita,
lasciò erede il ventre pregnante della duchessa _Enrichetta d'Este_ sua
moglie, e, in difetto di figli, l'_infante don Carlo_.
Avea già il _conte Daun_ governator di Milano, all'udire l'infermità
del duca, ammanito un corpo di truppe per introdurlo in Parma e
Piacenza; e però, accaduta che fu la morte di lui, il generale _conte
Carlo Stampa_, come plenipotenziario cesareo in Italia, nel dì 25 del
suddetto gennaio venne a prendere il possesso di quegli Stati _sotto
gli auspicii dell'imperadore a nome del suddetto infante di Spagna_,
senza mettersi fastidio degli stendardi pontifizii, che si videro
inalberati per la città. In tal congiuntura non mancò il pontefice
ai suoi doveri per sostenere i diritti della Chiesa sopra Parma e
Piacenza. Scrisse lettere forti a Vienna, Parigi e Madrid. Perchè la
corte di Vienna sosteneva il cominciato impegno, richiamò da Vienna il
_cardinale Grimaldi_. Fu spedito a Parma il canonico Ringhiera, che
ne prese il possesso colle giuridiche formalità a nome del papa, e
insieme _monsignor Oddi_ commissario apostolico, a cui non restarono
vietati molti atti di padronanza in quella città. Parimente in Roma
si fecero le dovute proteste contro qualsivoglia attentato fatto o
da farsi dall'imperadore e dalla Spagna per conto di que' ducati.
Restavano intanto incagliati gli affari per la pretesa gravidanza della
duchessa Enrichetta. Se ne mostrava sì persuaso chi la desiderava, che
avrebbe per essa scommesso quanto avea di sostanze. Dopo alquanti mesi
visitata quella principessa da medici e mammane, si videro attestati
corroborati dal giuramento che quel monte avea da partorire. Ridevano
all'incontro altri di opposto partito, ancorchè mirassero preparato
il suntuoso letto, dove con tutte le formalità dovea seguire il parto,
con essere anche destinati i ministri che aveano in tal congiuntura da
imparare il mestier delle donne. Ma venuto il settembre, e disingannata
la duchessa, onoratamente essa in fine protestò di non essere gravida.
Stante nondimeno l'incertezza di quell'avvenimento, in Vienna s'erano
fatti non pochi negoziati fra i ministri dell'imperadore, quei del
re Cattolico e quei del re della Gran Bretagna, per istabilire una
buona concordia. Questa in fatti restò conchiusa nel dì 22 di luglio
fra le suddette potenze, con avere l'Augusto _Carlo VI_ non solamente
confermata la successione dell'_infante don Carlo_ nei ducati di
Toscana Parma e Piacenza, ma eziandio condisceso che si potessero
introdurre sei mila Spagnuoli, parte in Livorno e Porto Ferraio, e
parte nelle suddette due città: conformandosi nel resto al trattato
della quadruplice alleanza del dì 2 d'agosto del 1718 e alla pace di
Vienna del dì 7 di giugno del 1725. A questa nuova respirò l'Italia,
stata finora in apprensione di nuove guerre. Fu poi preso dal generale
conte Stampa un'altra volta il possesso formale dei ducati di Parma
e Piacenza a nome del real infante, e nel dì 29 di dicembre esatto
da quei popoli il giuramento di fedeltà e di omaggio. Ma nel giorno
seguente monsignor commissario Oddi per parte del sommo Pontefice fece
una contraria solenne protesta in Parma; e così andavano balleggiando
questi ministri, nel mentre che l'infante don Carlo si preparava
per venire in Italia, anzi s'era già messo in viaggio, e parte delle
milizie spagnuole, pervenuta a Livorno, avea preso quartiere in quella
città. Quanto al gran duca _Gian Gastone de Medici_, e alla vedova
palatina _Anna Maria Luigia_, nel dì 21 di settembre dichiararono di
accettare il trattato di Vienna del dì 22 di luglio dell'anno presente.
Prima ancora di questo tempo, cioè nel dì 25 di luglio, aveano
stabilita una convenzione colla corte di Madrid, in cui fu convenuto
che il reale infante don Carlo non solamente succederebbe negli Stati
di Toscana, ma anche in tutti gli allodiali, mobili, giuspatronati,
ed altri diritti della casa de' Medici. Per tutori d'esso principe,
a cagion della sua minorità furono da Cesare deputati il suddetto
gran duca per la Toscana, e la duchessa vedova _Dorotea Sofia_, avola
materna di lui, per Parma e Piacenza.
Si cominciarono a scorgere di buona ora dei rincrescimenti per l'eletto
soggiorno di Sciambery nel fu re di Sardegna _Vittorio Amedeo_. Non
vedeva egli più chi andasse a corteggiarlo, o a chiedere grazie; e
il piacere di comandare, provato in addietro sopra tanti popoli, si
ristringeva nella sola sua domestica famiglia. Questo abbandonamento,
questa solitudine facevano guerra continua e cagionavano malinconia
ad un principe avvezzo sempre a grandi affari; e a lui parea gran
disgrazia il vedere confinati i suoi vasti pensieri nell'augusto
recinto, cioè in un angolo della Savoia. Aggiungasi che sul principio
di quest'anno egli fu preso da un accidente capitale, per cui gli
rimase sempre qualche sensibile impedimento alla lingua, e gli
sopraggiunse poi anche una qualche confusione d'idee. Andò allora il re
_Carlo Emmanuele_ a vederlo per testimoniargli il suo filiale affetto,
e vi tornò anche nella state colla regina sua moglie. Verso poi la
fine di agosto, attribuendo il re Vittorio il suo poco buono stato
all'aria troppo sottile di Sciambery, volle ritornare in Piemonte, e
andò a piantar la sua corte a Moncalieri in vicinanza di tre miglia
da Torino. Nulla sospettava sulle prime di lui il re Carlo Emmanuele;
ma da che si avvide ch'egli contro il concertato ambiva l'autorità
nel governo, ordinò che si tenessero gli occhi aperti addosso a lui.
E tanto più dovette quella corte allarmarsi, quando fosse vero quanto
allora si disse, cioè avere esso Vittorio Amedeo minacciato che farebbe
anche tagliare il capo ad uno dei primi e più confidenti ministri
del re figlio; e che crebbero poscia i sospetti di qualche meditata
mutazione, da che egli, parlando col conte Del Borgo, gli fece istanza
dell'atto della sua rinunzia, fatto nel precedente anno, che con tutta
sommessione gli fu negato. Aggiugnevano, che da lì a poco tempo egli
scrivesse un biglietto al governatore della cittadella di Torino con
avvisarlo dell'ora in cui egli intendeva di andare a spasso entro
di essa cittadella: o pure, ch'egli effettivamente si portasse in
persona alla porta segreta, per entrarvi, ma con trovar il governatore
che se ne scusò, con dire di non aver ordine dal real sovrano di
riceverlo. Tutti questi fatti contemporaneamente si divulgarono, ma
senza fondamento. La verità si è, che avendo il re Vittorio dopo il
suo ritorno in Piemonte dato segni non equivoci di volere aver parte
all'autorità del governo, il re Carlo Emmanuele fu in caso di far
vegliare sui di lui discorsi; e tanto più da che seppe che il re padre
parlava con diverse persone dell'atto dell'abdicazione, come di un atto
che fosse in sua balìa di rivocare.
In questo tempo essendo assai cresciute le indisposizioni del re
Vittorio, e la di lui mente, anche per l'accidente patito, molto
indebolita, con qualche risalto alle volte di riscaldamento e di
agitazione di spirito, onde venivano poi empiti di collera, si ebbe
luogo a temere qualche novità sconvenevole e pericolosa. Vedeva il re
figlio con ciò esposta ad un grave cimento non solamente la real sua
dignità, ma anche il suo onore medesimo e il bene dello Stato; e però
sperimentati prima in vano più mezzi e spedienti per calmare lo spirito
del padre, e ricondurlo a pensieri più proprii e più convenienti,
chiamò a sè i più saggi ministri di toga e di spada, ed esposto il
presente sistema, con protestarsi nondimeno pronto a sacrificare ogni
sua particolar convenienza, qualora avesse potuto farlo, salva la sua
estimazione, il bene dei sudditi e la quiete degli Stati, richiese il
loro consiglio. Ben pesato ogni riguardo, concorse il parere di ognuno
in credere necessario un rimedio, a fin di evitare tutte le delicate e
disastrose conseguenze che prudentemente si temevano come imminenti; e
però fu concordemente determinato di assicurarsi dalla persona d'esso
re Vittorio. Nella notte adunque del dì 28 di settembre, venendo il dì
29, da vari corpi di truppe che l'uno non sapea dell'altro, si vide
attorniato il castello di Moncalieri, e fu improvvisamente intimato
al re Vittorio Amedeo di entrare in una preparata carrozza. Gli
convenne cedere; e fu condotto nel vasto e delizioso palazzo di Rivoli,
situato in un colle di molto salutevol aria, ma sotto le guardie, con
raccomandare alle medesime di rispondere solamente con un profondo
inchino a quante interrogazioni facesse loro il principe commesso
alla loro custodia. La di lui moglie contessa di San Sebastiano, già
divenuta marchesa di Spigno, nello stesso tempo fu condotta al castello
di Ceva; ma perchè fece istanza il principe di riaverla, non gli
negò il re questa consolazione. Del resto, al signorile trattamento
d'esso principe fu pienamente provveduto; tolta a lui fu la sola
libertà. Chiunque poi conosceva di che buone viscere fosse il re
_Carlo Emmanuele_, e quanta virtù regnasse nell'animo suo, facilmente
comprese che forti e giusti motivi il doveano avere indotto ad un passo
tale con tutta la ripugnanza del suo sempre costante filiale affetto.
Quelle stesse guardie che sul principio il teneano d'occhio, con saggio
consiglio e per suo bene gli furono poste, affinchè osservassero che
la gagliarda passione nol conducesse ad infierire contro sè stesso.
Cessato il bollore, cessò anche la vicinanza d'esse guardie, ed era
data licenza alle persone saggie e discrete di visitarlo e parlargli. E
perciocchè fece istanza di essere rimesso in Moncalieri, perchè l'aria
di Rivoli era troppo sottile, fu ricondotto colà.
Duravano in questi tempi le controversie della sacra corte di Roma
col re di Portogallo cotanto alterato perchè il nunzio apostolico
_monsignor Bichi_ era stato richiamato, senza prima decorarlo colla
porpora cardinalizia. Sostenne il sommo pontefice il decoro della
sua dignità con esigere che il prelato uscisse di Portogallo; e in
fatti egli passò a Madrid, e gran tempo vi si fermò. Venne poscia
in quest'anno a Firenze, e non passò oltre. Finalmente nel dì 24 di
settembre fatta dal santo padre una promozione di cardinali, fu in
essa compreso il Bichi; nè solo il Bichi, ma anche _monsignor Firrao_
succeduto a lui in quella nunziatura: laonde si trattò dipoi con
più facilità di rimettere la buona armonia fra la santa Sede e il re
suddetto. Sempre più andava in questo mentre crescendo la ribellione
dei corsi, e volavano per tutte le corti le loro doglianze per gli
aggravi che pretendeano fatti ad essi dalla repubblica di Genova. A
fine di smorzar questo incendio, ricorsero i Genovesi alla protezione
dell'imperadore _Carlo VI_, e ne ottennero un rinforzo d'otto mila
soldati alemanni, comandati dal generale _Wachtendonck_. Passò la
metà di questa gente in Corsica, e fece tosto sloggiare i sediziosi
dal blocco della Bastia. Ma da che verso la metà d'agosto s'inoltrò
per cacciare da altri siti i Corsi, trovò in due battaglie gente che
non conosceva paura. Perirono in quei combattimenti moltissimi dei
Tedeschi, di maniera che fu necessario il far trasportare colà il
resto dei loro compagni. Seguirono susseguentemente altre zuffe ora
favorevoli ora contrarie ai malcontenti; ma spezialmente un'imboscata
da loro tesa agli Alemanni nel fine di ottobre, nel passare che
facevano a San Pellegrino, costò ben caro ad essi Tedeschi, perchè
furono obbligati a ritirarsi dal campo di battaglia, con perdita di
più di mille persone tra morti e feriti. Nel dì 30 di maggio terminò
la carriera de' suoi giorni _Violante Beatrice di Baviera_, gran
principessa di Toscana, vedova del fu gran principe _Ferdinando de
Medici_. Era essa il ritratto della gentilezza, venerata da ognuno,
e però dalle comuni lagrime si vide onorato il suo funerale. Gran
compassione prima d'allora si svegliò in cuore di tutti per gli orrendi
effetti d'un fierissimo tremuoto, che avendo cominciato nel febbraio
a farsi sentire nel regno di Napoli, infierì poi con varie altre più
violenti scosse, e tenne gran tempo in una costernazione continua le
provincie di Puglia, Terra di Lavoro, Basilicata e Calabria Citeriore,
e in alcuni luoghi lasciò una dolorosa catastrofe di rovine. Più
d'ogni altro ne provò immensi danni la città di Foggia, perchè tutta
fu convertita in un monte di pietre, e più di tre mila persone rimasero
seppellite sotto le diroccate case. Non restò pur uno de' sacri templi
e chiostri in piedi; e frati, monache ed altri abitanti, che ebbero la
fortuna di scampare, andarono raminghi per quelle desolate campagne,
cercando e difficilmente trovando un tozzo di pane per mantenersi
in vita. Si videro in tal congiuntura le acque alzarsi nei pozzi, ed
uscirne con allagar le vigne. Barletta, Bari ed altre città furono a
parte di questo spaventevol flagello; e perchè in Napoli i borghi di
Chiaia e Loreto risentirono non lieve danno, buona parte di popolo,
e massimamente la nobiltà col vicerè si ritirò alla campagna. Ma il
piissimo _cardinale Pignatelli_ arcivescovo non volle muoversi dal suo
palazzo, e attese ad animar la plebe, e ad eccitar la misericordia di
Dio con pubbliche processioni e preghiere.


Anno di CRISTO MDCCXXXII. Indizione X.
CLEMENTE XII papa 3.
CARLO VI imperadore 22.

Quasi morirono di sete in quest'anno i novellisti bramosi di grandi
avvenimenti. Fioriva la pace, che stendendo la serenità sopra tutta
l'Europa, non di altro era feconda che di privati divertimenti ed
allegrezze. Di queste spezialmente abbondò la Toscana; perciocchè
finalmente sciolti tutti i nodi, l'infante di Spagna _don Carlo_ si
mise in viaggio per venire a far la sua comparsa nel teatro d'Italia.
Imbarcossi egli ad Antibo nel dì 23 del precedente dicembre sulle galee
di Spagna, unite con quelle del gran duca; ma appena ebbe salpato, che
si alzò una violenta burrasca che disperse tutta la flotta, e danneggiò
forte non pochi di que' legni. Ad onta nondimeno dell'infuriato,
elemento la capitana di Spagna nel dì 27 approdò a Livorno, e vi sbarcò
l'infante. Magnifico sopra modo fu l'accoglimento fatto a questo real
principe da quella città, che poi solennizzò nei seguenti giorni il suo
arrivo con suntuose macchine di fuochi, conviti, musiche, illuminazioni
ed altre feste. Gareggiò con gli altri l'università degli Ebrei per
attestare anch'essa a questo novello sole il suo giubilo ed ossequio; e
fioccavano dappertutto le relazioni di sì grandiose solennità. Dopo il
riposo di più di due mesi in Livorno passò finalmente questo principe a
Firenze, ove fece il suo splendido ingresso nel dì 9 di marzo, ricevuto
colle maggiori dimostrazioni di stima e di affetto dal gran duca _Gian
Gastone_ e dall'_elettrice vedova_ di lui sorella. In quella capitale
ancora nulla si risparmiò di magnificenza, negli archi trionfali, ne'
fuochi di artifizio, e in altre feste ed allegrie, contento ognuno
di vedere con tanta felicità rifiorire nell'infante la già cadente
schiatta dei principi medicei. Fu egli riconosciuto non solo come
duca di Parma e Piacenza, ma ancora come gran principe e principe
ereditario della Toscana. Avea già nel dì 29 dello scorso dicembre la
duchessa vedova di Parma _Dorotea_, come contutrice, preso il possesso
dei ducati di Parma e Piacenza a nome del medesimo infante dalle mani
del generale _conte Stampa_ plenipotenziario dell'imperadore. Solenne
era stata quella funzione, e i magistrati e deputati delle comunità in
tal congiuntura prestarono ad esso principe il giuramento di fedeltà,
come a vassallo dell'imperadore e del romano imperio. Dopo di che
esso generale consegnò alla duchessa le chiavi della città, e ordinò
tosto alle truppe cesaree di ritirarsi, e di lasciare liberi affatto
quegli Stati al nuovo signore, facendo conoscere a tutti la lealtà
dell'augusto sovrano in eseguire i già stabiliti trattati ed impegni.
Non tralasciò il commissario apostolico monsignor _Jacopo Oddi_ nel
seguente dì 30 di dicembre di pubblicare una grave protesta contro
tutti quegli atti, per preservare nella miglior possibile maniera le
ragioni della santa Sede.
Fermatosi il reale infante a goder le delizie di Firenze sino al
principio di settembre, finalmente determinò di consolare colla sua
sospirata presenza anche i popoli di Parma e Piacenza. Nel dì 6 di esso
mese si mosse egli da Firenze, e nel dì 8 entrò nello Stato di Modena,
e passando fuori di questa città, fu salutato con una salva reale dalle
artiglierie della medesima e della cittadella. Avea il duca _Rinaldo
d'Este_ avuta l'attenzione di fargli innaffiare le strade per tutto il
suo dominio, affin di riguardarlo dagli incomodi della straordinaria
polve di quell'asciutta stagione. Fu egli dipoi a complimentarlo colla
sua corte un miglio lungi da Modena, dove seguirono abbracciamenti ed
ogni maggior finezza di complimenti e di affetto. Nel dì 9 tutta fu
in gala la città di Parma pel festoso ingresso del giovinetto duca;
grande il concorso e lo sfoggio della nobiltà e dei popoli; e nelle
nobili feste che si fecero dipoi, si conobbe quanto tutti applaudissero
all'acquisto di un principe sì inclinato alla pietà e alla clemenza;
e grazioso in tutte le sue maniere, ma con aver portato seco l'altura
del cerimoniale spagnuolo. A tante allegrezze per la venuta in
Italia di questo generoso rampollo della real casa di Spagna, se ne
aggiunse un'altra, riguardante la felicità dell'armi del Cattolico
_re Filippo V_ suo padre. Fra i pensieri di quel monarca il primo ed
incessante era quello di ricuperare, per quanto avesse potuto, tutti
gli antichi dominii spettanti alla monarchia dei suoi predecessori. Una
riguardevole unione ed armamento di vascelli di linea e di legni da
trasporto avea egli fatto nella primavera di quest'anno, e preparati
all'imbarco si trovavano sui lidi parecchi reggimenti di truppe
veterane. Perchè era ignoto qual mira avesse l'allestimento di flotta
sì numerosa nel Mediterraneo, con gelosia ed occhi aperti stavano
i vicerè di Napoli e di Sicilia; e tuttochè l'imperadore venisse
assicurato della costante amicizia d'esso re Cattolico, pure non
cessavano le ombre, e furono perciò ben munite le principali piazze dei
regni suddetti.
Levò finalmente l'ancore quella poderosa flotta, comandata dal
capitano generale _conte di Montemar_, e guidata da prosperi venti,
improvvisamente nel dì 28 di giugno andò ad ammainar le vele davanti
ad Orano nelle coste dell'Africa, piazza lontana cento cinquanta miglia
da Algeri, trecento da Ceuta. Fin dall'anno 1509 dal celebre _cardinale
Ximenes_ tolta fu essa ai Mori, e sottoposta da lì innanzi alla corona
di Spagna, finchè nell'anno 1708, trovandosi involto in tante guerre il
re Cattolico, dopo un assedio di sei mesi gli Algerini ne ritornarono
padroni. Ora, sbarcali che furono felicemente gli Spagnuoli, nel dì 30,
mentre attendevano ad alzare un fortino sulla marina, eccoti piombare
addosso al loro campo più di venti mila Mori, Arabi e Turchi, ed
attaccare una fiera zuffa. Si distinse allora il consueto valore delle
milizie spagnuole; furono con molta strage rispinti quegli infedeli,
e tagliata loro la comunicazione colla fortezza. Nel dì seguente,
mentre in ordine di battaglia si mette in marcia l'esercito cristiano
per disporre l'assedio di quella piazza, con ammirazion di ognuno la
truovano abbandonata; nè essa sola, ma ancora il creduto inespugnabile
castello di Santa Croce, con quattro altri forti all'intorno. Poco
fu il bottino per li soldati, perchè il meglio di quegli abitanti
avea fatto l'ale. In poter nondimeno dei cristiani vennero cento
trentotto cannoni, ottantatrè dei quali erano di bronzo, oltre a molte
munizioni da bocca e da guerra. Per questa gloriosa e felice impresa
dell'armi spagnuole tanto in Roma che in altre parti d'Italia si fecero
molte allegrezze e rendimenti di grazie a Dio. Ma che? non tardarono
molto gli Algerini a tentare il riacquisto di quella piazza, e con
grossissimo esercito vennero ad assediare nello stesso tempo Orano e
il forte di Santa Croce. Governatore di Orano era stato lasciato il
_marchese di Santa Croce Marzenado_, cavaliere di raro valore, maestro
nell'arte della guerra, come anche apparisce dai suoi libri dati alla
luce. Sostenne egli vigorosamente i posti contro gli sforzi de' nemici,
e con suo grave pericolo e somma bravura dei suoi portò soccorso di
viveri e di munizioni al forte suddetto, che si trovava in rischio
di rendersi per la penuria. Ma continuando i Musulmani il lor giuoco,
appena fu sbarcato nel dì 26 di novembre un riguardevole convoglio di
venticinque navi da trasporto con buona scorta partito da Barcellona,
che nel dì seguente il marchese con otto mila combattenti andò ad
assalire i nemici, benchè forti di circa quaranta mila persone. Durò il
sanguinoso combattimento per sei ore; resistenza straordinaria fecero i
Barbari; ma in fine, cedendo alla bravura degli Spagnuoli, si diedero
alla fuga, lasciando il campo e le artiglierie in man dei cristiani.
Insigne e completa fu la vittoria, se non che restò funestata dalla
morte del valoroso marchese di Santa Croce, compianta poscia da ognuno.
Per quanto corse la voce, non si trovò il suo corpo, e un pezzo durò la
speranza ch'ei fosse vivo e prigione; ma in fine certissima comparve la
perdita di lui.
Questo fu l'unico avvenimento dell'anno presente che fece strepito
in Italia. Poichè per conto di Roma, quivi si continuò a formare
il processo del _cardinale Coscia_, ma con gran segreto, quando nei
tempi addietro s'erano sparpagliati dappertutto i suoi reati. Temendo
il Coscia, che passati i termini delle citazioni in contumacia si
scaricasse sopra di lui il terribil decreto della perdita della
porpora, giudicò meglio di tornarsene a Roma per far le sue difese:
al qual fine si condusse da Napoli due avvocati, provveduti di ogni
requisito per istare a fronte de' più forbiti Romani. Prese l'alloggio
nel convento di Santa Prassede, e gli fu intimato sotto rigorose
pene di non uscirne, se non per rispondere alle interrogazioni
della congregazione, le quali durarono per tutto quest'anno senza
mai devenire a decisione alcuna. Mancò nell'anno presente chi nella
vigilia di San Pietro pagasse alla camera apostolica il censo per
li ducati di Parma e Piacenza; perlochè il fiscale della santa Sede
fece pubblica protesta in difesa de' diritti pontifizii. Avea il