Annali d'Italia, vol. 7 - 24
porto franco con sommo giubilo di quegli abitanti. E nel dì 26 d'agosto
diede fine al suo vivere _Anna Maria_ regina di Sardegna, figlia di
_Filippo_ duca _d'Orleans_, cioè del fratello di _Lodovico XIV_ re di
Francia, e moglie del re _Vittorio Amedeo_, in età di cinquantanove
anni. Aveva ella vedute due sue figlie regine di Francia e di Spagna.
Anno di CRISTO MDCCXXIX. Indiz. VII.
BENEDETTO XIII papa 6.
CARLO VI imperadore 19.
L'attenzione di tutta l'Italia, anzi di tutta l'Europa, fu in
quest'anno rivolta al congresso di Soissons, che dovea decidere della
pubblica tranquillità, e stabilir la successione dell'_infante don
Carlo_ nella Toscana e in Parma e Piacenza. Ma si venne scoprendo che
Soissons era una fantasma di congresso, e che il vero laboratorio,
dove si lambiccavano le risoluzioni politiche per la pace, stava nel
gabinetto di Francia, e molto più in quello del re Cattolico. Videsi
quest'ultimo monarca con tutta la sua corte incamminato a Badajos,
dove ai confini del Portogallo si fece cambio delle principesse di
Asturias e del Brasile: nella quale occasione indicibil fu la pompa e
la suntuosità delle feste. Ciò fatto, la corte cattolica, tirandosi
dietro gli ambasciatori ed inviati dei principi, passò a Siviglia,
a Cadice e ad altri luoghi, trattenendosi in quelle parti per tutto
l'anno presente con gravi doglianze della città di Madrid. E intanto,
mentre ognun si aspettava il lieto avviso della pace, altro non si
mirava che preparativi di guerra: sì grandioso era l'armamento di
vascelli spagnuoli e l'accrescimento delle truppe in quel regno,
talmente che da un dì all'altro sembrava imminente un nuovo assedio
di Gibilterra. Non faceva di meno dal canto suo _Giorgio II_ re della
Gran Bretagna, coll'adunare una potente e dispendiosa flotta, non
senza richiami di quella fazione del parlamento che non intendeva le
segrete ruote del ministero, nè qual forza abbia per ottener buona
pace l'essere in istato di far gagliarda guerra. Quasi per tutto
il presente anno s'andarono masticando nei gabinetti le vicendevoli
pretensioni, nè anno mai fu, in cui tante faccende avessero i corrieri,
come nel presente. Andò poscia a terminar questo conflitto di teste
politiche principalmente in gloria e vantaggio della corona di Spagna,
che per lungo tempo diede non solo la corda alle altre potenze, ma
anche in fine la legge alle medesime con ritardare più e più mesi la
distribuzion della flotta delle Indie, felicemente giunta in Ispagna,
in cui tanto interesse aveano i mercatanti d'Italia e di altre nazioni.
Finalmente nel dì 9 di novembre venne sottoscritto in Siviglia un
trattato di pace e lega difensiva fra i re di Francia, Spagna ed
Inghilterra, in cui susseguentemente, nel dì 21 d'esso mese, concorsero
anche le Provincie Unite. Allorchè saltò fuori questa concordia,
inarcarono le ciglia gli sfaccendati politici al vedere che non si
parlava dell'imperadore; e che la Spagna, dianzi collegata con esso,
s'era gettata nel partito delle lega di Hannover. Tanto rumore s'era
fatto dagl'Inglesi affinchè il re Cattolico chiaramente cedesse le
sue ragioni e diritti sopra Minorica e Gibilterra; pure nulla si potè
ottenere di questo: il che nondimeno non ritenne il re d'Inghilterra
dall'abbracciar quell'accordo, giacchè, in vigor della pace d'Utrecht,
tali acquisti erano autorizzati in favor degl'Inglesi, e il re
Cattolico accettava in esso accordo le precedenti paci. Tralasciando
io gli altri punti, solamente dirò, essersi ivi stabilito, che per
assicurare la successione dell'infante don Carlo in Toscana, Parma
e Piacenza, si avessero da introdurre non più Svizzeri, ma sei mila
soldati spagnuoli in Livorno, Porto Ferraio, Parma e Piacenza, con
patto che tali truppe giurassero fedeltà ai regnanti gran duca, e duca
di Parma e Piacenza, e con obbligarsi la Francia e l'Inghilterra di
dar tutta la mano per l'effettuazione di questo articolo, tacitamente
facendo conoscere di voler ciò eseguire anche contro la volontà di
Cesare. Ed ecco il motivo per cui la corte cesarea ricusò d'entrare nel
trattato suddetto di Siviglia, giacchè nelle precedenti capitolazioni
era stabilito che le guarnigioni suddette fossero di Svizzeri, e non
di altra nazione parziale. Probabilmente ancora provò il conte di
Koningsegg, plenipotenziario cesareo in Ispagna, della ripugnanza a
concorrere in quell'accordo, perchè non vide riconosciuti quegli Stati
per feudi imperiali, come portavano i patti. Certamente non si legge
in esso trattato parola che indichi soggezione all'imperial dominio.
Nè si dee tacere che appunto per questo la corte di Roma tentò di
prevalersi di tal congiuntura per far valere le sue ragioni sopra
Parma e Piacenza, senza nondimeno essersi finora osservato ch'ella
abbia guadagnato terreno. Ora il ministero di Vienna restò non poco
amareggiato, perchè il re Cattolico avesse dimenticato così presto
l'obbligata sua fede nel trattato di Vienna del 1725, con alterare
in condizioni così importanti il tenore di essa, e declamava contra
questa sì facile infrazione dei pubblici trattati e giuramenti. Per
conseguente ricusò quella corte di aderire al trattato di Siviglia;
ma non lasciarono per questo i collegati contrarii di Hannover di
far tutte le disposizioni per condurre in Italia don Carlo, ad onta
ancora dell'imperadore; maneggiandosi intanto perchè il gran duca _Gian
Gastone_ ed _Antonio Farnese_ duca di Parma, accettassero di buona
voglia le guarnigioni spagnuole.
Non poterono nè pure in quest'anno i cardinali ritenere il sommo
pontefice _Benedetto XIII_ ch'egli nella primavera non ritornasse a
Benevento, per far ivi le funzioni della settimana santa e di Pasqua.
L'amore d'esso santo padre verso quella città, anzi verso tutti i
Beneventani, passava all'esorbitanza; e tanta copia di quella gente
s'era introdotta in Roma, sempre intenta alla caccia di posti, di
grazie e di benefizii, che lieve non era la mormorazione per questo.
Restituissi dipoi nel dì 10 di giugno la santità sua a Roma ed attese
per tutto il resto dell'anno alle solite funzioni ecclesiastiche
e alle consuete opere di pietà, e a canonizzar santi. Da Bologna
parimente ritornarono a Roma i cattolici re e regina d'Inghilterra in
buon accordo, ed ivi fissarono di nuovo il loro soggiorno. In essa
Roma, in Genova ed altre città, dove si trovavano ministri pubblici
della corte di Francia, suntuose feste si videro solennizzate per la
tanto desiderata e già compiuta nascita di un Delfino, accaduta nel
dì 4 di settembre dell'anno presente: principe che oggidì fiorisce,
e grande espettazione dà ai suoi popoli per la felicità del suo
talento. Si fecero in tal congiuntura quasi dissi pazzie di tripudii ed
allegrezze per tutto quel regno, e fino i più poveri paesi sfoggiarono
in dimostrazioni di giubilo: tanto è l'amore inveterato di que'
popoli verso i loro monarchi. Soprattutto in Roma il _cardinale di
Polignac_ si tirò dietro l'ammirazione d'ognuno per la magnificenza
delle feste e delle invenzioni, colle quali celebrò la nascita di
questo principino. Troppo era portato alla beneficenza e alle grazie
il generoso e disinteressato animo del pontefice _Benedetto XIII_.
Di questa sua nobile, ma talvolta non assai regolata inclinazione
sapeva anche profittare qualche suo ministro, non senza lamenti
degli zelanti che miravano esausto l'erario pontifizio, e accresciuti
gli aggravii alla camera apostolica, in guisa tale che si rendevano
oramai superiori le spese alle rendite annue della medesima. Non era
questo un insolito malore. Anche sotto altri precedenti papi, o per
necessità occorrenti, o per capricci e fabbriche dei regnanti, o per
l'avidità dei non mai contenti nipoti, sovente sbilanciavano i conti
in pregiudizio della medesima camera. Al disordine dei debiti fatti si
rimediava col facile ripiego di crear nuovi luoghi di monti e vacabili:
con che vennero crescendo i tanti milioni di debiti, dei quali anche
oggidì si trova essa camera gravata. Ne' tempi del nepotismo niuno
ardiva di aprir bocca; ma sotto sì umile pontefice animosamente i
ministri camerali vollero nel mese di aprile rappresentar lo stato
delle cose, affinchè dal di lui buon cuore non si aggiugnessero nuove
piaghe alle precedenti. Gli fecero dunque conoscere che prima del
suo pontificato l'entrata annua della camera, per appalti, dogane,
dateria, cancelleria, brevi, spogli ed altre rendite, ascendeva a due
milioni settecento sedici mila e secento cinquanta scudi, dico scudi
2.716,650. Le spese annue, computando i frutti de' monti, vacabili,
presidii, galere, guardie, mantenimento del sacro palazzo, de' nunzii,
provisionati, ec., solevano ascendere a due milioni, quattrocento
trentanove mila e trecentotto scudi, dico scudi 2.439,308, laonde
la camera restava annualmente in avanzo di scudi 277,342. Ma avendo
esso pontefice abolito un aggravio sulla carne e il lotto di Genova,
creati due mila luoghi di monti, accordate non poche esenzioni
e diminuzioni negli appalti (fatti senza le solite solennità),
assegnati o accresciuti salarii ai prefetti delle congregazioni,
legati, tribunali, prelati, ed altre persone, con altre spese che io
tralascio, veniva la camera a spendere più de' tempi addietro scudi
trecento ottantatrè mila e secento ottantasei, dico scudi 383,686; e
però restava in uno sbilancio di circa scudi centoventi mila per anno.
Però si scorgeva la necessità di moderar le spese, e di ordinare un
più fedele maneggio degli effetti camerali, tacitamente insinuando le
trufferie di chi si abusava della facilità del papa; poichè, altrimenti
facendo, conveniva imporre nuove gabelle; dal che era sì alieno il
pietoso cuore del pontefice; o pur si vedrebbe incagliato il pagamento
de' frutti dei monti: il che sarebbe una sorgente d'innumerabili
lamenti e mormorazioni, screditerebbe di troppo la camera, e sommamente
intorbiderebbe il politico commercio. Qual buon effetto producesse
questa rimostranza, converrà chiederlo agl'intendenti romani: io non ne
so dire di più.
Occorse in quest'anno, nel dì 12 di agosto, un terribil fenomeno nel
Ferrarese di là da Po. Dopo le venti ore cominciò ad apparire sopra
la terra di Trecenta ed altre ville contigue il cielo tutto ricoperto
di folte nubi nere e verdi, con alquante striscie come di fuoco in
mezzo ad esse. Dopo la caduta di una gragnuola, due contrarii venti
impetuosissimi si levarono, che spinsero le nuvole a terra, e fecero
come notte, uscendone fuoco che si attaccò a qualche casa e fenile, e
cagionando un fumo denso e rossigno che riempiè di tenebre e di orrore
tutto quel tratto di paese per dodici miglia sino a Castel Guglielmo.
Il principal danno provenne dalla furia impetuosa del vento, che
atterrò in Trecenta circa cento ventotto case colla morte di molte
persone; portò via il tetto e le finestre della parrocchiale; troncò
il campanile di un oratorio, e fece altri lagrimevoli danni. Per la
campagna si videro portati via per aria i tetti di molti fenili, e
fino uomini, carra e buoi, trovati per istrada o al pascolo, alzati
da terra, e furiosamente trasportati ben lungi. Immensa fu la quantità
degli alberi di ogni sorta che rimasero svelti dalle radici, o troncati
all'altezza di un uomo, e spinti fuora del loro sito. Di questa
funestissima e non mai più provata sciagura parteciparono le ville
di Ceneselli, di Massa di sopra e di altri luoghi di que' contorni, i
cui miseri abitanti si crederono giunti alla fine del mondo. Trovossi
in questi tempi il gran duca di Toscana in gravi imbrogli a cagion
del trattato di Siviglia; perchè pulsato dall'una parte dalla Spagna
e dagli alleati di Hannover per ammettere le guarnigioni di don
Carlo nelle sue piazze, e dall'altra battuto da contrarie massime
e pretensioni della corte imperiale. Nel dì 19 di aprile dell'anno
presente per impensato accidente mancò di vita _Antonio Ferdinando
Gonzaga_, duca di Guastalla e principe di Bozzolo, senza prole, e a lui
succedette _Giuseppe Maria_ suo fratello, benchè poco atto al governo.
Anno di CRISTO MDCCXXX. Indiz. VIII.
CLEMENTE XII papa 1.
CARLO VI imperadore 20.
Per tutto quest'anno stette l'Italia in un molesto combattimento fra
timori di guerra e speranze di pace. Non sapea digerire l'Augusto
_Carlo VI_ che, dopo avere la Spagna e tutti gli altri alleati di
Hannover nei solenni precedenti trattati riconosciuto per feudi
imperiali la Toscana, Parma e Piacenza, e stabilita la qualità dei
presidii, avessero poi nel trattato di Siviglia disposto altrimenti
di quegli Stati senza il consenso della cesarea maestà sua. Non già
che gli negasse o intendesse impedire la successione dello _infante
don Carlo_ in quei ducati, ma perchè pretendeva di ammettervelo
nella maniera prescritta concordemente dalla quadruplice alleanza. E
perciocchè crescevano le disposizioni del re Cattolico _Filippo V_ e
delle potenze marittime, per introdurre esso infante in Toscana, si
cominciò a vedere un contrario apparato dalla parte dell'imperadore,
per opporsi a tal disegno. In fatti ecco a poco a poco calare in Italia
circa trenta mila Alemanni, che si stesero per tutto lo Stato di Milano
e di Mantova con aggravio considerabile di que' paesi. Ne fu destinato
generale il _conte di Mercy_. Alcune migliaia d'essi passarono ad
accamparsi nel ducato di Massa e nella Lunigiana, per essere alla
portata di saltare in Toscana, qualora si tentasse lo sbarco delle
truppe spagnuole. Non lasciò indietro diligenza alcuna il gran duca
_Gian Gastone_ per esimere i suoi Stati dall'ingresso dell'armi
straniere; e perchè lo imperadore, con pretendere di non essere più
tenuto ad osservare gl'infranti primieri trattati, fece vigorose
istanze, affinchè esso gran duca prendesse da lui la investitura di
Siena, bisognò accomodarsi, benchè con ripugnanza, a tal pretensione.
A sommossa eziandio della corte di Vienna esso gran duca dichiarò al
ministro di Spagna di non poter acconsentire all'ingresso delle truppe
spagnuole ne' suoi Stati. Non sapevano intendere i politici come il
solo imperadore prendesse a far fronte a tante corone collegale,
massimamente trovandosi egli senza flotte per sostener Napoli e
Sicilia. Ma ossia che la corte di Vienna si facesse forte sul genio del
_cardinale di Fleury_, primo ministro di Francia, inclinato non poco
alla pace; o pure che sperasse col maneggio dei ministri nelle corti,
e colla forza dei suoi guerrieri apparati, di ridurre gli alleati a
condizioni più convenevoli all'imperial sua dignità: certo è ch'esso
Augusto animosamente procedè nel suo impegno; spinse non poche truppe
nei regni ancora di Napoli e Sicilia; e fece quivi e nello Stato di
Milano ogni possibil preparamento di fortificazioni e munizioni per
difesa ed offesa, come se fosse la vigilia di una indispensabil guerra.
Passò nondimeno tutto il presente anno senza che si sguainassero le
spade, ma con batticuore d'ognuno per questa fluttuazione di cose.
Giunse intanto alla meta de' suoi giorni il buon pontefice _Benedetto
XIII_. Il dì 21 di febbraio quello fu che il fece passare ad una vita
migliore nell'anno ottantuno di sua età, dopo un pontificato di cinque
anni, otto mesi e ventitrè giorni. Tali virtù erano concorse nella
persona di questo capo visibile della Chiesa di Dio, che era riguardato
qual santo, e tale si può piamente credere che egli comparisse agli
occhi di Dio. Pari non ebbe la somma sua umiltà, più stimando egli
di esser povero religioso, che tutta la gloria e maestà del romano
pontificato. Nulla cercò egli per li suoi parenti, staccatissimo
troppo dalla carne e dal sangue. Insieme col mirabil disinteresse suo
accoppiava egli non lieve gradimento di donativi, ma unicamente per
esercitare l'ineffabil sua carità verso de' poverelli. Per questi aveva
una singolar tenerezza, e fu veduto anche abbracciarli considerando in
essi quel Dio, di cui egli serbava in terra le veci. Le sue penitenze,
i suoi digiuni, la sua anche eccessiva applicazione alle funzioni
ecclesiastiche, il suo zelo per la religione, e tant'altre belle
doti e virtù, gli fabbricarono una corona che non verrà mai meno. E
perciocchè singolare fu sempre la sua pietà, la sua probità, la sua
rettitudine, si videro anche relazioni di grazie concedute da Dio per
intercession di questo santo pontefice tanto in vita che dopo la sua
morte. Solamente in lui si desiderò quell'accortezza, che è necessaria
al buon governo politico ed economico degli Stati, sì per sapere
scegliere saggi ed incorrotti ministri, e sì per guardarsi dalle frodi
ed insidie de' cattivi. Questo solo mancò alla compiuta gloria del suo
pontificato, essendosi trovati i ministri della sua maggior confidenza
che stranamente si abusarono dell'autorità loro compartita, e con
ingannevoli insinuazioni corruppero non di rado le sante intenzioni
di lui, attendendo non già all'onore dell'innocente santo padre,
ma solamente alla propria utilità, e per vie anche sordidissime. Nè
già è credibile che i buoni disapprovassero la beneficenza di questo
pontefice verso le chiese del regno di Napoli, ch'egli, a norma del
santo pontefice Innocenzo XII, esentò dagli spogli; e molto meno
l'aver egli proibito il lotto di Genova, cioè una gran propina della
borsa pontificia; nè l'aver vietato l'imporre pensioni alle chiese
aventi cure d'anime, tuttochè poi cessassero con lui così lodevoli
costituzioni; e nè pure altre simili sue beneficenze. Quello che non si
potè sofferire, fu l'avere gli avvoltoi beneventani intaccata in varie
biasimevoli maniere la camera apostolica, vendute le grazie e favori,
contro il chiaro divieto delle sacre ordinanze, e defraudata in troppe
occasioni la retta mente del buon pontefice; il quale, benchè talvolta
avvertito dei loro eccessi, tentò bene di provvedervi, ma indarno,
non essendo mancati mai artifizii a que' cattivi strumenti per far
comparire calunnie le vere accuse.
Ora appena si seppe avere il buon pontefice spirata l'anima, che si
sollevò poca plebe contra degli odiati Beneventani, incitata, come fu
creduto, da mano più alta, allorchè vide due familiari del _cardinal
Coscia_ condotti alle pubbliche carceri. Saputosi che lo stesso
porporato, cioè chi maggiormente avea fatta vendemmia sotto il passato
governo con assassinio della giustizia e delle leggi più sacrosante,
s'era ritirato in un palagio, corse colà, e minacciollo d'incendio.
Ebbe maniera il Coscia di salvarsi, e andò a ritirarsi in Caserta
presso di quel principe. Furono trasportate in castello Sant'Angelo
le di lui argenterie, suppellettili e scritture. Accordatogli poscia
un salvocondotto, tornò egli a Roma; e, per timore del popolo,
nascosamente entrò in conclave, dove non gli mancarono attestati dello
sprezzo universale di lui. Non pochi furono i Beneventani che colla
fuga si sottrassero all'ira del popolo e alle ricerche della giustizia.
Si accinse dipoi il sacro collegio a provveder la Chiesa di Dio di
un nuovo pastore. Per più di quattro mesi durò la dissensione e il
combattimento fra que' porporati, e videsi con ammirazione di tutti
che, oltre alla fazione imperiale e a quella dei Franzesi e Spagnuoli,
saltò su ancora la non mai più intesa fazione de' Savoiardi, capo di
cui era il _cardinale Alessandro Albani_. Sarebbe da desiderare che
quivi non altro tenessero davanti agli occhi i sacri elettori, se non
il maggior servigio di Dio e della Chiesa, e che restasse bandito
dal conclave ogni riguardo od interesse particolare. Per cagion di
questo nel maggior auge abbattuti si trovarono i cardinali _Imperiale,
Ruffo, Corradini_ e _Davia_, che pur erano dignissimi del triregno. Si
trovò sulle prime scavalcato per l'opposizione dei cesarei anche il
_cardinale Lorenzo Corsini_, di ricca e riguardevol casa fiorentina;
ma raggruppatosi in fine il negoziato per lui, fu nel dì 12 di luglio
concordemente promosso al sommo pontificato. Pervenuto all'età di
settantanove anni, non lasciava egli di esser robusto di mente e di
corpo; porporato veterano nei pubblici affari, di vita esemplare, e
ben fornito di massime principesche. Prese egli il nome di _Clemente
XII_, in venerazion del gran _Clemente XI_ suo promotore. Nè tardò
egli a far conoscere l'indignazione sua contra del _cardinale Coscia_,
privandolo di voce attiva e passiva, e vietandogli l'intervenire alle
congregazioni. Altri prelati e ministri del precedente pontificato
furono o carcerati o chiamati ai conti, come prevaricatori e rei di
avere tradito un pontefice di tanta integrità, e recato non lieve danno
alla camera apostolica. Deputò egli per questo una congregazione dei
più saggi e zelanti cardinali, con ampia autorità di procedere contra
di sì fatti trasgressori, ad esempio ancora dei posteri. Vietò al
suddetto cardinale di uscire dello Stato ecclesiastico, e gl'interdisse
l'esercizio di tutte le funzioni arcivescovili in Benevento, con
insinuargli eziandio di rinunziar quell'insigne mitra, di cui s'era
egli mostrato sì poco degno. Per questa severità, e per tanto amore
alla giustizia, gran credito sulle prime si acquistò il novello
pontefice, se non che ebbe maniera il Coscia di ottenere la protezion
della corte di Vienna, che col tempo impedì che egli non fosse punito a
misura dei suoi demeriti.
Fra i più illustri principi che si abbia mai avuto la real casa di
Savoia, veniva in questi tempi conceduto il primo luogo a Vittorio
Amedeo re di Sardegna, siccome quegli che, portando unita insieme una
mente maravigliosa con un raro valore e una corrispondente fortuna,
avea cotanto dilatati i confini de' suoi Stati, e portata una corona
e un regno nella sua nobilissima famiglia. S'era questo generoso
principe, pieno sempre di grandi idee, ma regolate da una singolar
prudenza, tutto dato alla pace, a far fiorire il commercio ed ogni
arte nel suo dominio, a fortificar le sue piazze, ad accrescere le
forze militari e gl'ingegneri, e massimamente a fabbricare con grandi
spese la quasi inespugnabil fortezza della Brunetta, e ad abbellire ed
accrescere di abitazioni Torino. Con un corpo di leggi avea prescritto
un saggio regolamento alla buona amministrazione della giustizia ne'
suoi tribunali e a molti punti riguardanti il bene de' sudditi suoi.
Aveva anche ultimamente atteso a far fiorire le lettere col fondare
una insigne università, a cui chiamò de' rinomati professori di tutte
le scienze: nella qual congiuntura con istupore d'ognuno levò le
scuole ai padri della compagnia di Gesù, e agli altri regolari ancora
in tutti i suoi Stati di qua dal mare, per istabilire una connessione
e corrispondenza di studii fra l'università di Torino e le scuole
inferiori con un migliore insegnamento per tutti i suoi Stati d'Italia.
Mentre egli era intento ad altre gloriose azioni, eccolo nel presente
anno determinarne una che ben può dirsi la più eroica e mirabile che
possa fare un regnante. Era questo sempre memorabil sovrano giunto
all'età di sessantaquattro anni, e provava già più d'un incomodo alla
sua sanità per le tante passate applicazioni della mente. Sul principio
di settembre fatto chiamare _Carlo Emmanuele_ principe di Piemonte,
unico suo figlio, a lui spiegò la risoluzione di rinunziargli la
corona e il supremo governo de' suoi Stati; perchè intenzion sua era di
riposare oramai, e di liberarsi da tutti gl'imbarazzi, per prepararsi
posatamente alla grande opera dell'eternità. Restò sorpreso il giovane
figlio a questa proposizione; e per quanto seppe, con gittarsi anche
in ginocchioni, il pregò, quando pure volesse sgravarsi d'un peso,
di cui era più la maestà sua che esso figlio capace, di dichiararlo
solamente luogotenente generale, con ritenere la sovranità e il diritto
di ripigliar le redini, quando trovasse ciò più utile al bisogno de'
sudditi: _No_ (replicò il re), _verisimilmente io potrei talvolta
disapprovare quel che faceste: però o tutto, o nulla. Io non vo'
pensarvi in avvenire_.
Convenne cedere alla paterna determinazione e volontà. E però nel dì
3 del suddetto mese, convocati al palazzo di Rivoli i ministri e molta
nobiltà, dopo aver detto ch'egli si sentiva indebolito dall'età e dalle
cure difficili di tanti anni del suo governo, rinunziava il trono al
principe suo figlio amantissimo, colla soddisfazione di rimettere la
sua autorità in mano di chi era egualmente degno di essa, che atto
ad esercitarla. Aver egli scelto Sciambery per luogo del suo riposo;
e perciò ordinare a tutti, che da lì innanzi ubbidissero al figlio,
come a lor legittimo sovrano. Di questa rinunzia seguirono gli atti
autentici, e nel giorno appresso Vittorio Amedeo non più re, benchè
ognuno continuasse anche da lì innanzi a dargli il titolo di re, andò a
fissare il suo soggiorno nel castello di Sciambery, con quella stessa
ilarità di animo con cui altri saliscono sul trono. Un gran dire fu
per questa novità. Chi immaginò presa tal risoluzione da lui perchè
avesse dianzi contratto degl'impegni con gli alleati di Hannover, e
che, vedendo cresciute cotanto con pericolo suo l'armi di Cesare nello
Stato di Milano, trovasse questa maniera di disimpegnar la sua fede.
Sognarono altri ciò proceduto dall'aver egli sposata nel dì 12 del
precedente agosto la vedova contessa di San Sebastiano della nobil
casa di Cumiana, dama di cinquant'anni, per avere chi affettuosamente
assistesse al governo della sua sanità, e non per altro motivo; ed
affinchè un tal matrimonio non potesse per le precedenze alterar la
buona armonia colla real principessa sua nuora, aver egli deposta
la corona. Tutte immaginazioni arbitrarie ed insussistenti di gente
sfaccendata: quasichè alle supposte difficoltà non avesse saputo un
sovrano di tanta comprensione facilmente trovare ripiego, e ritenere
tuttavia lo scettro in mano. La verità fu, che motivi più alti mossero
quel magnanimo principe a spogliarsi della temporale caduca corona,
per attendere con più agio all'acquisto di un'eterna, e tanto più
perchè certi interni sintomi già facevano apprendere non molto lungo
il resto del suo vivere. Passò dipoi a Torino colla corte il nuovo re
_Carlo Emmanuele_, e ricevette il giuramento di fedeltà da chi dovea
prestarlo. Convien confessarlo: incredibil fu il giubilo o palese o
segreto di que' popoli per tal mutazione di cose, perchè il re Vittorio
Amedeo pareva poco amato da molti, ed era temuto da tutti; laddove il
figlio, principe di somma moderazione e di maniere affatto amabili,
facea sperare un più dolce e non men giusto governo in avvenire.
A questa scena dell'Italia un'altra ancora se ne aggiunse che grande
strepito fece sui principii, e maggiore andando innanzi. Più secoli
erano che la repubblica di Genova signoreggiava la riguardevol isola
e regno della Corsica. Si contavano varie sollevazioni o ribellioni di
quei feroci e vendicativi popoli nei tempi addietro, quetate nondimeno
o dalla prudenza o dalla forza de' medesimi Genovesi. Ma nella
primavera dell'anno presente da piccoli principii nacque una sedizione
in quelle contrade, pretendendo essi popoli d'essere maltrattati dai
governatori della repubblica. Uniti i malcontenti coi capi dei banditi,
andarono ad assediar la Bastia; ma sì buone parole o promesse furono
adoperate, che si ritirarono, con restar nondimeno in armi circa venti
mila persone, le quali maggiormente si accesero alla ribellione, perchè
si avvidero di non corrispondere i fatti alle promesse. Non mancavano
a quegli ammutinati motivi di giuste doglianze, che cadevano nondimeno
la maggior parte contra de' governatori, intenti a far fruttare il loro
ministero alle spese della giustizia e dei sudditi. Pretendevano lesi
i lor privilegii, divenuto tirannico il governo genovese, e sfoderavano
una lista di tanti aggravii finora sofferti, che intendevano di non più
sofferire da indi avanti. Nel consiglio di Genova fu udito il parere
di Girolamo Veneroso, il quale sostenne che a guarir quella piaga si
avessero da adoperar lenitivi, e non ferro e fuoco; e però i saggi,
sapendo quanto quel gentiluomo nel suo savio governo si fosse cattivato
gli animi dei Corsi, giudicarono bene di appoggiare a lui questa cura.
Ma frutto non se ne ricavò, perchè senza saputa sua attrappolato un
capo dei sediziosi, fu privato di vita: il che maggiormente incitò
in quei popoli le fiamme dell'ira. E tanto più perchè prevalse poi
in Genova il partito de' giovani, ai quali parve che l'uso delle armi
e del gastigo con più sicurezza ridurrebbe al dovere i sediziosi. Se
diede fine al suo vivere _Anna Maria_ regina di Sardegna, figlia di
_Filippo_ duca _d'Orleans_, cioè del fratello di _Lodovico XIV_ re di
Francia, e moglie del re _Vittorio Amedeo_, in età di cinquantanove
anni. Aveva ella vedute due sue figlie regine di Francia e di Spagna.
Anno di CRISTO MDCCXXIX. Indiz. VII.
BENEDETTO XIII papa 6.
CARLO VI imperadore 19.
L'attenzione di tutta l'Italia, anzi di tutta l'Europa, fu in
quest'anno rivolta al congresso di Soissons, che dovea decidere della
pubblica tranquillità, e stabilir la successione dell'_infante don
Carlo_ nella Toscana e in Parma e Piacenza. Ma si venne scoprendo che
Soissons era una fantasma di congresso, e che il vero laboratorio,
dove si lambiccavano le risoluzioni politiche per la pace, stava nel
gabinetto di Francia, e molto più in quello del re Cattolico. Videsi
quest'ultimo monarca con tutta la sua corte incamminato a Badajos,
dove ai confini del Portogallo si fece cambio delle principesse di
Asturias e del Brasile: nella quale occasione indicibil fu la pompa e
la suntuosità delle feste. Ciò fatto, la corte cattolica, tirandosi
dietro gli ambasciatori ed inviati dei principi, passò a Siviglia,
a Cadice e ad altri luoghi, trattenendosi in quelle parti per tutto
l'anno presente con gravi doglianze della città di Madrid. E intanto,
mentre ognun si aspettava il lieto avviso della pace, altro non si
mirava che preparativi di guerra: sì grandioso era l'armamento di
vascelli spagnuoli e l'accrescimento delle truppe in quel regno,
talmente che da un dì all'altro sembrava imminente un nuovo assedio
di Gibilterra. Non faceva di meno dal canto suo _Giorgio II_ re della
Gran Bretagna, coll'adunare una potente e dispendiosa flotta, non
senza richiami di quella fazione del parlamento che non intendeva le
segrete ruote del ministero, nè qual forza abbia per ottener buona
pace l'essere in istato di far gagliarda guerra. Quasi per tutto
il presente anno s'andarono masticando nei gabinetti le vicendevoli
pretensioni, nè anno mai fu, in cui tante faccende avessero i corrieri,
come nel presente. Andò poscia a terminar questo conflitto di teste
politiche principalmente in gloria e vantaggio della corona di Spagna,
che per lungo tempo diede non solo la corda alle altre potenze, ma
anche in fine la legge alle medesime con ritardare più e più mesi la
distribuzion della flotta delle Indie, felicemente giunta in Ispagna,
in cui tanto interesse aveano i mercatanti d'Italia e di altre nazioni.
Finalmente nel dì 9 di novembre venne sottoscritto in Siviglia un
trattato di pace e lega difensiva fra i re di Francia, Spagna ed
Inghilterra, in cui susseguentemente, nel dì 21 d'esso mese, concorsero
anche le Provincie Unite. Allorchè saltò fuori questa concordia,
inarcarono le ciglia gli sfaccendati politici al vedere che non si
parlava dell'imperadore; e che la Spagna, dianzi collegata con esso,
s'era gettata nel partito delle lega di Hannover. Tanto rumore s'era
fatto dagl'Inglesi affinchè il re Cattolico chiaramente cedesse le
sue ragioni e diritti sopra Minorica e Gibilterra; pure nulla si potè
ottenere di questo: il che nondimeno non ritenne il re d'Inghilterra
dall'abbracciar quell'accordo, giacchè, in vigor della pace d'Utrecht,
tali acquisti erano autorizzati in favor degl'Inglesi, e il re
Cattolico accettava in esso accordo le precedenti paci. Tralasciando
io gli altri punti, solamente dirò, essersi ivi stabilito, che per
assicurare la successione dell'infante don Carlo in Toscana, Parma
e Piacenza, si avessero da introdurre non più Svizzeri, ma sei mila
soldati spagnuoli in Livorno, Porto Ferraio, Parma e Piacenza, con
patto che tali truppe giurassero fedeltà ai regnanti gran duca, e duca
di Parma e Piacenza, e con obbligarsi la Francia e l'Inghilterra di
dar tutta la mano per l'effettuazione di questo articolo, tacitamente
facendo conoscere di voler ciò eseguire anche contro la volontà di
Cesare. Ed ecco il motivo per cui la corte cesarea ricusò d'entrare nel
trattato suddetto di Siviglia, giacchè nelle precedenti capitolazioni
era stabilito che le guarnigioni suddette fossero di Svizzeri, e non
di altra nazione parziale. Probabilmente ancora provò il conte di
Koningsegg, plenipotenziario cesareo in Ispagna, della ripugnanza a
concorrere in quell'accordo, perchè non vide riconosciuti quegli Stati
per feudi imperiali, come portavano i patti. Certamente non si legge
in esso trattato parola che indichi soggezione all'imperial dominio.
Nè si dee tacere che appunto per questo la corte di Roma tentò di
prevalersi di tal congiuntura per far valere le sue ragioni sopra
Parma e Piacenza, senza nondimeno essersi finora osservato ch'ella
abbia guadagnato terreno. Ora il ministero di Vienna restò non poco
amareggiato, perchè il re Cattolico avesse dimenticato così presto
l'obbligata sua fede nel trattato di Vienna del 1725, con alterare
in condizioni così importanti il tenore di essa, e declamava contra
questa sì facile infrazione dei pubblici trattati e giuramenti. Per
conseguente ricusò quella corte di aderire al trattato di Siviglia;
ma non lasciarono per questo i collegati contrarii di Hannover di
far tutte le disposizioni per condurre in Italia don Carlo, ad onta
ancora dell'imperadore; maneggiandosi intanto perchè il gran duca _Gian
Gastone_ ed _Antonio Farnese_ duca di Parma, accettassero di buona
voglia le guarnigioni spagnuole.
Non poterono nè pure in quest'anno i cardinali ritenere il sommo
pontefice _Benedetto XIII_ ch'egli nella primavera non ritornasse a
Benevento, per far ivi le funzioni della settimana santa e di Pasqua.
L'amore d'esso santo padre verso quella città, anzi verso tutti i
Beneventani, passava all'esorbitanza; e tanta copia di quella gente
s'era introdotta in Roma, sempre intenta alla caccia di posti, di
grazie e di benefizii, che lieve non era la mormorazione per questo.
Restituissi dipoi nel dì 10 di giugno la santità sua a Roma ed attese
per tutto il resto dell'anno alle solite funzioni ecclesiastiche
e alle consuete opere di pietà, e a canonizzar santi. Da Bologna
parimente ritornarono a Roma i cattolici re e regina d'Inghilterra in
buon accordo, ed ivi fissarono di nuovo il loro soggiorno. In essa
Roma, in Genova ed altre città, dove si trovavano ministri pubblici
della corte di Francia, suntuose feste si videro solennizzate per la
tanto desiderata e già compiuta nascita di un Delfino, accaduta nel
dì 4 di settembre dell'anno presente: principe che oggidì fiorisce,
e grande espettazione dà ai suoi popoli per la felicità del suo
talento. Si fecero in tal congiuntura quasi dissi pazzie di tripudii ed
allegrezze per tutto quel regno, e fino i più poveri paesi sfoggiarono
in dimostrazioni di giubilo: tanto è l'amore inveterato di que'
popoli verso i loro monarchi. Soprattutto in Roma il _cardinale di
Polignac_ si tirò dietro l'ammirazione d'ognuno per la magnificenza
delle feste e delle invenzioni, colle quali celebrò la nascita di
questo principino. Troppo era portato alla beneficenza e alle grazie
il generoso e disinteressato animo del pontefice _Benedetto XIII_.
Di questa sua nobile, ma talvolta non assai regolata inclinazione
sapeva anche profittare qualche suo ministro, non senza lamenti
degli zelanti che miravano esausto l'erario pontifizio, e accresciuti
gli aggravii alla camera apostolica, in guisa tale che si rendevano
oramai superiori le spese alle rendite annue della medesima. Non era
questo un insolito malore. Anche sotto altri precedenti papi, o per
necessità occorrenti, o per capricci e fabbriche dei regnanti, o per
l'avidità dei non mai contenti nipoti, sovente sbilanciavano i conti
in pregiudizio della medesima camera. Al disordine dei debiti fatti si
rimediava col facile ripiego di crear nuovi luoghi di monti e vacabili:
con che vennero crescendo i tanti milioni di debiti, dei quali anche
oggidì si trova essa camera gravata. Ne' tempi del nepotismo niuno
ardiva di aprir bocca; ma sotto sì umile pontefice animosamente i
ministri camerali vollero nel mese di aprile rappresentar lo stato
delle cose, affinchè dal di lui buon cuore non si aggiugnessero nuove
piaghe alle precedenti. Gli fecero dunque conoscere che prima del
suo pontificato l'entrata annua della camera, per appalti, dogane,
dateria, cancelleria, brevi, spogli ed altre rendite, ascendeva a due
milioni settecento sedici mila e secento cinquanta scudi, dico scudi
2.716,650. Le spese annue, computando i frutti de' monti, vacabili,
presidii, galere, guardie, mantenimento del sacro palazzo, de' nunzii,
provisionati, ec., solevano ascendere a due milioni, quattrocento
trentanove mila e trecentotto scudi, dico scudi 2.439,308, laonde
la camera restava annualmente in avanzo di scudi 277,342. Ma avendo
esso pontefice abolito un aggravio sulla carne e il lotto di Genova,
creati due mila luoghi di monti, accordate non poche esenzioni
e diminuzioni negli appalti (fatti senza le solite solennità),
assegnati o accresciuti salarii ai prefetti delle congregazioni,
legati, tribunali, prelati, ed altre persone, con altre spese che io
tralascio, veniva la camera a spendere più de' tempi addietro scudi
trecento ottantatrè mila e secento ottantasei, dico scudi 383,686; e
però restava in uno sbilancio di circa scudi centoventi mila per anno.
Però si scorgeva la necessità di moderar le spese, e di ordinare un
più fedele maneggio degli effetti camerali, tacitamente insinuando le
trufferie di chi si abusava della facilità del papa; poichè, altrimenti
facendo, conveniva imporre nuove gabelle; dal che era sì alieno il
pietoso cuore del pontefice; o pur si vedrebbe incagliato il pagamento
de' frutti dei monti: il che sarebbe una sorgente d'innumerabili
lamenti e mormorazioni, screditerebbe di troppo la camera, e sommamente
intorbiderebbe il politico commercio. Qual buon effetto producesse
questa rimostranza, converrà chiederlo agl'intendenti romani: io non ne
so dire di più.
Occorse in quest'anno, nel dì 12 di agosto, un terribil fenomeno nel
Ferrarese di là da Po. Dopo le venti ore cominciò ad apparire sopra
la terra di Trecenta ed altre ville contigue il cielo tutto ricoperto
di folte nubi nere e verdi, con alquante striscie come di fuoco in
mezzo ad esse. Dopo la caduta di una gragnuola, due contrarii venti
impetuosissimi si levarono, che spinsero le nuvole a terra, e fecero
come notte, uscendone fuoco che si attaccò a qualche casa e fenile, e
cagionando un fumo denso e rossigno che riempiè di tenebre e di orrore
tutto quel tratto di paese per dodici miglia sino a Castel Guglielmo.
Il principal danno provenne dalla furia impetuosa del vento, che
atterrò in Trecenta circa cento ventotto case colla morte di molte
persone; portò via il tetto e le finestre della parrocchiale; troncò
il campanile di un oratorio, e fece altri lagrimevoli danni. Per la
campagna si videro portati via per aria i tetti di molti fenili, e
fino uomini, carra e buoi, trovati per istrada o al pascolo, alzati
da terra, e furiosamente trasportati ben lungi. Immensa fu la quantità
degli alberi di ogni sorta che rimasero svelti dalle radici, o troncati
all'altezza di un uomo, e spinti fuora del loro sito. Di questa
funestissima e non mai più provata sciagura parteciparono le ville
di Ceneselli, di Massa di sopra e di altri luoghi di que' contorni, i
cui miseri abitanti si crederono giunti alla fine del mondo. Trovossi
in questi tempi il gran duca di Toscana in gravi imbrogli a cagion
del trattato di Siviglia; perchè pulsato dall'una parte dalla Spagna
e dagli alleati di Hannover per ammettere le guarnigioni di don
Carlo nelle sue piazze, e dall'altra battuto da contrarie massime
e pretensioni della corte imperiale. Nel dì 19 di aprile dell'anno
presente per impensato accidente mancò di vita _Antonio Ferdinando
Gonzaga_, duca di Guastalla e principe di Bozzolo, senza prole, e a lui
succedette _Giuseppe Maria_ suo fratello, benchè poco atto al governo.
Anno di CRISTO MDCCXXX. Indiz. VIII.
CLEMENTE XII papa 1.
CARLO VI imperadore 20.
Per tutto quest'anno stette l'Italia in un molesto combattimento fra
timori di guerra e speranze di pace. Non sapea digerire l'Augusto
_Carlo VI_ che, dopo avere la Spagna e tutti gli altri alleati di
Hannover nei solenni precedenti trattati riconosciuto per feudi
imperiali la Toscana, Parma e Piacenza, e stabilita la qualità dei
presidii, avessero poi nel trattato di Siviglia disposto altrimenti
di quegli Stati senza il consenso della cesarea maestà sua. Non già
che gli negasse o intendesse impedire la successione dello _infante
don Carlo_ in quei ducati, ma perchè pretendeva di ammettervelo
nella maniera prescritta concordemente dalla quadruplice alleanza. E
perciocchè crescevano le disposizioni del re Cattolico _Filippo V_ e
delle potenze marittime, per introdurre esso infante in Toscana, si
cominciò a vedere un contrario apparato dalla parte dell'imperadore,
per opporsi a tal disegno. In fatti ecco a poco a poco calare in Italia
circa trenta mila Alemanni, che si stesero per tutto lo Stato di Milano
e di Mantova con aggravio considerabile di que' paesi. Ne fu destinato
generale il _conte di Mercy_. Alcune migliaia d'essi passarono ad
accamparsi nel ducato di Massa e nella Lunigiana, per essere alla
portata di saltare in Toscana, qualora si tentasse lo sbarco delle
truppe spagnuole. Non lasciò indietro diligenza alcuna il gran duca
_Gian Gastone_ per esimere i suoi Stati dall'ingresso dell'armi
straniere; e perchè lo imperadore, con pretendere di non essere più
tenuto ad osservare gl'infranti primieri trattati, fece vigorose
istanze, affinchè esso gran duca prendesse da lui la investitura di
Siena, bisognò accomodarsi, benchè con ripugnanza, a tal pretensione.
A sommossa eziandio della corte di Vienna esso gran duca dichiarò al
ministro di Spagna di non poter acconsentire all'ingresso delle truppe
spagnuole ne' suoi Stati. Non sapevano intendere i politici come il
solo imperadore prendesse a far fronte a tante corone collegale,
massimamente trovandosi egli senza flotte per sostener Napoli e
Sicilia. Ma ossia che la corte di Vienna si facesse forte sul genio del
_cardinale di Fleury_, primo ministro di Francia, inclinato non poco
alla pace; o pure che sperasse col maneggio dei ministri nelle corti,
e colla forza dei suoi guerrieri apparati, di ridurre gli alleati a
condizioni più convenevoli all'imperial sua dignità: certo è ch'esso
Augusto animosamente procedè nel suo impegno; spinse non poche truppe
nei regni ancora di Napoli e Sicilia; e fece quivi e nello Stato di
Milano ogni possibil preparamento di fortificazioni e munizioni per
difesa ed offesa, come se fosse la vigilia di una indispensabil guerra.
Passò nondimeno tutto il presente anno senza che si sguainassero le
spade, ma con batticuore d'ognuno per questa fluttuazione di cose.
Giunse intanto alla meta de' suoi giorni il buon pontefice _Benedetto
XIII_. Il dì 21 di febbraio quello fu che il fece passare ad una vita
migliore nell'anno ottantuno di sua età, dopo un pontificato di cinque
anni, otto mesi e ventitrè giorni. Tali virtù erano concorse nella
persona di questo capo visibile della Chiesa di Dio, che era riguardato
qual santo, e tale si può piamente credere che egli comparisse agli
occhi di Dio. Pari non ebbe la somma sua umiltà, più stimando egli
di esser povero religioso, che tutta la gloria e maestà del romano
pontificato. Nulla cercò egli per li suoi parenti, staccatissimo
troppo dalla carne e dal sangue. Insieme col mirabil disinteresse suo
accoppiava egli non lieve gradimento di donativi, ma unicamente per
esercitare l'ineffabil sua carità verso de' poverelli. Per questi aveva
una singolar tenerezza, e fu veduto anche abbracciarli considerando in
essi quel Dio, di cui egli serbava in terra le veci. Le sue penitenze,
i suoi digiuni, la sua anche eccessiva applicazione alle funzioni
ecclesiastiche, il suo zelo per la religione, e tant'altre belle
doti e virtù, gli fabbricarono una corona che non verrà mai meno. E
perciocchè singolare fu sempre la sua pietà, la sua probità, la sua
rettitudine, si videro anche relazioni di grazie concedute da Dio per
intercession di questo santo pontefice tanto in vita che dopo la sua
morte. Solamente in lui si desiderò quell'accortezza, che è necessaria
al buon governo politico ed economico degli Stati, sì per sapere
scegliere saggi ed incorrotti ministri, e sì per guardarsi dalle frodi
ed insidie de' cattivi. Questo solo mancò alla compiuta gloria del suo
pontificato, essendosi trovati i ministri della sua maggior confidenza
che stranamente si abusarono dell'autorità loro compartita, e con
ingannevoli insinuazioni corruppero non di rado le sante intenzioni
di lui, attendendo non già all'onore dell'innocente santo padre,
ma solamente alla propria utilità, e per vie anche sordidissime. Nè
già è credibile che i buoni disapprovassero la beneficenza di questo
pontefice verso le chiese del regno di Napoli, ch'egli, a norma del
santo pontefice Innocenzo XII, esentò dagli spogli; e molto meno
l'aver egli proibito il lotto di Genova, cioè una gran propina della
borsa pontificia; nè l'aver vietato l'imporre pensioni alle chiese
aventi cure d'anime, tuttochè poi cessassero con lui così lodevoli
costituzioni; e nè pure altre simili sue beneficenze. Quello che non si
potè sofferire, fu l'avere gli avvoltoi beneventani intaccata in varie
biasimevoli maniere la camera apostolica, vendute le grazie e favori,
contro il chiaro divieto delle sacre ordinanze, e defraudata in troppe
occasioni la retta mente del buon pontefice; il quale, benchè talvolta
avvertito dei loro eccessi, tentò bene di provvedervi, ma indarno,
non essendo mancati mai artifizii a que' cattivi strumenti per far
comparire calunnie le vere accuse.
Ora appena si seppe avere il buon pontefice spirata l'anima, che si
sollevò poca plebe contra degli odiati Beneventani, incitata, come fu
creduto, da mano più alta, allorchè vide due familiari del _cardinal
Coscia_ condotti alle pubbliche carceri. Saputosi che lo stesso
porporato, cioè chi maggiormente avea fatta vendemmia sotto il passato
governo con assassinio della giustizia e delle leggi più sacrosante,
s'era ritirato in un palagio, corse colà, e minacciollo d'incendio.
Ebbe maniera il Coscia di salvarsi, e andò a ritirarsi in Caserta
presso di quel principe. Furono trasportate in castello Sant'Angelo
le di lui argenterie, suppellettili e scritture. Accordatogli poscia
un salvocondotto, tornò egli a Roma; e, per timore del popolo,
nascosamente entrò in conclave, dove non gli mancarono attestati dello
sprezzo universale di lui. Non pochi furono i Beneventani che colla
fuga si sottrassero all'ira del popolo e alle ricerche della giustizia.
Si accinse dipoi il sacro collegio a provveder la Chiesa di Dio di
un nuovo pastore. Per più di quattro mesi durò la dissensione e il
combattimento fra que' porporati, e videsi con ammirazione di tutti
che, oltre alla fazione imperiale e a quella dei Franzesi e Spagnuoli,
saltò su ancora la non mai più intesa fazione de' Savoiardi, capo di
cui era il _cardinale Alessandro Albani_. Sarebbe da desiderare che
quivi non altro tenessero davanti agli occhi i sacri elettori, se non
il maggior servigio di Dio e della Chiesa, e che restasse bandito
dal conclave ogni riguardo od interesse particolare. Per cagion di
questo nel maggior auge abbattuti si trovarono i cardinali _Imperiale,
Ruffo, Corradini_ e _Davia_, che pur erano dignissimi del triregno. Si
trovò sulle prime scavalcato per l'opposizione dei cesarei anche il
_cardinale Lorenzo Corsini_, di ricca e riguardevol casa fiorentina;
ma raggruppatosi in fine il negoziato per lui, fu nel dì 12 di luglio
concordemente promosso al sommo pontificato. Pervenuto all'età di
settantanove anni, non lasciava egli di esser robusto di mente e di
corpo; porporato veterano nei pubblici affari, di vita esemplare, e
ben fornito di massime principesche. Prese egli il nome di _Clemente
XII_, in venerazion del gran _Clemente XI_ suo promotore. Nè tardò
egli a far conoscere l'indignazione sua contra del _cardinale Coscia_,
privandolo di voce attiva e passiva, e vietandogli l'intervenire alle
congregazioni. Altri prelati e ministri del precedente pontificato
furono o carcerati o chiamati ai conti, come prevaricatori e rei di
avere tradito un pontefice di tanta integrità, e recato non lieve danno
alla camera apostolica. Deputò egli per questo una congregazione dei
più saggi e zelanti cardinali, con ampia autorità di procedere contra
di sì fatti trasgressori, ad esempio ancora dei posteri. Vietò al
suddetto cardinale di uscire dello Stato ecclesiastico, e gl'interdisse
l'esercizio di tutte le funzioni arcivescovili in Benevento, con
insinuargli eziandio di rinunziar quell'insigne mitra, di cui s'era
egli mostrato sì poco degno. Per questa severità, e per tanto amore
alla giustizia, gran credito sulle prime si acquistò il novello
pontefice, se non che ebbe maniera il Coscia di ottenere la protezion
della corte di Vienna, che col tempo impedì che egli non fosse punito a
misura dei suoi demeriti.
Fra i più illustri principi che si abbia mai avuto la real casa di
Savoia, veniva in questi tempi conceduto il primo luogo a Vittorio
Amedeo re di Sardegna, siccome quegli che, portando unita insieme una
mente maravigliosa con un raro valore e una corrispondente fortuna,
avea cotanto dilatati i confini de' suoi Stati, e portata una corona
e un regno nella sua nobilissima famiglia. S'era questo generoso
principe, pieno sempre di grandi idee, ma regolate da una singolar
prudenza, tutto dato alla pace, a far fiorire il commercio ed ogni
arte nel suo dominio, a fortificar le sue piazze, ad accrescere le
forze militari e gl'ingegneri, e massimamente a fabbricare con grandi
spese la quasi inespugnabil fortezza della Brunetta, e ad abbellire ed
accrescere di abitazioni Torino. Con un corpo di leggi avea prescritto
un saggio regolamento alla buona amministrazione della giustizia ne'
suoi tribunali e a molti punti riguardanti il bene de' sudditi suoi.
Aveva anche ultimamente atteso a far fiorire le lettere col fondare
una insigne università, a cui chiamò de' rinomati professori di tutte
le scienze: nella qual congiuntura con istupore d'ognuno levò le
scuole ai padri della compagnia di Gesù, e agli altri regolari ancora
in tutti i suoi Stati di qua dal mare, per istabilire una connessione
e corrispondenza di studii fra l'università di Torino e le scuole
inferiori con un migliore insegnamento per tutti i suoi Stati d'Italia.
Mentre egli era intento ad altre gloriose azioni, eccolo nel presente
anno determinarne una che ben può dirsi la più eroica e mirabile che
possa fare un regnante. Era questo sempre memorabil sovrano giunto
all'età di sessantaquattro anni, e provava già più d'un incomodo alla
sua sanità per le tante passate applicazioni della mente. Sul principio
di settembre fatto chiamare _Carlo Emmanuele_ principe di Piemonte,
unico suo figlio, a lui spiegò la risoluzione di rinunziargli la
corona e il supremo governo de' suoi Stati; perchè intenzion sua era di
riposare oramai, e di liberarsi da tutti gl'imbarazzi, per prepararsi
posatamente alla grande opera dell'eternità. Restò sorpreso il giovane
figlio a questa proposizione; e per quanto seppe, con gittarsi anche
in ginocchioni, il pregò, quando pure volesse sgravarsi d'un peso,
di cui era più la maestà sua che esso figlio capace, di dichiararlo
solamente luogotenente generale, con ritenere la sovranità e il diritto
di ripigliar le redini, quando trovasse ciò più utile al bisogno de'
sudditi: _No_ (replicò il re), _verisimilmente io potrei talvolta
disapprovare quel che faceste: però o tutto, o nulla. Io non vo'
pensarvi in avvenire_.
Convenne cedere alla paterna determinazione e volontà. E però nel dì
3 del suddetto mese, convocati al palazzo di Rivoli i ministri e molta
nobiltà, dopo aver detto ch'egli si sentiva indebolito dall'età e dalle
cure difficili di tanti anni del suo governo, rinunziava il trono al
principe suo figlio amantissimo, colla soddisfazione di rimettere la
sua autorità in mano di chi era egualmente degno di essa, che atto
ad esercitarla. Aver egli scelto Sciambery per luogo del suo riposo;
e perciò ordinare a tutti, che da lì innanzi ubbidissero al figlio,
come a lor legittimo sovrano. Di questa rinunzia seguirono gli atti
autentici, e nel giorno appresso Vittorio Amedeo non più re, benchè
ognuno continuasse anche da lì innanzi a dargli il titolo di re, andò a
fissare il suo soggiorno nel castello di Sciambery, con quella stessa
ilarità di animo con cui altri saliscono sul trono. Un gran dire fu
per questa novità. Chi immaginò presa tal risoluzione da lui perchè
avesse dianzi contratto degl'impegni con gli alleati di Hannover, e
che, vedendo cresciute cotanto con pericolo suo l'armi di Cesare nello
Stato di Milano, trovasse questa maniera di disimpegnar la sua fede.
Sognarono altri ciò proceduto dall'aver egli sposata nel dì 12 del
precedente agosto la vedova contessa di San Sebastiano della nobil
casa di Cumiana, dama di cinquant'anni, per avere chi affettuosamente
assistesse al governo della sua sanità, e non per altro motivo; ed
affinchè un tal matrimonio non potesse per le precedenze alterar la
buona armonia colla real principessa sua nuora, aver egli deposta
la corona. Tutte immaginazioni arbitrarie ed insussistenti di gente
sfaccendata: quasichè alle supposte difficoltà non avesse saputo un
sovrano di tanta comprensione facilmente trovare ripiego, e ritenere
tuttavia lo scettro in mano. La verità fu, che motivi più alti mossero
quel magnanimo principe a spogliarsi della temporale caduca corona,
per attendere con più agio all'acquisto di un'eterna, e tanto più
perchè certi interni sintomi già facevano apprendere non molto lungo
il resto del suo vivere. Passò dipoi a Torino colla corte il nuovo re
_Carlo Emmanuele_, e ricevette il giuramento di fedeltà da chi dovea
prestarlo. Convien confessarlo: incredibil fu il giubilo o palese o
segreto di que' popoli per tal mutazione di cose, perchè il re Vittorio
Amedeo pareva poco amato da molti, ed era temuto da tutti; laddove il
figlio, principe di somma moderazione e di maniere affatto amabili,
facea sperare un più dolce e non men giusto governo in avvenire.
A questa scena dell'Italia un'altra ancora se ne aggiunse che grande
strepito fece sui principii, e maggiore andando innanzi. Più secoli
erano che la repubblica di Genova signoreggiava la riguardevol isola
e regno della Corsica. Si contavano varie sollevazioni o ribellioni di
quei feroci e vendicativi popoli nei tempi addietro, quetate nondimeno
o dalla prudenza o dalla forza de' medesimi Genovesi. Ma nella
primavera dell'anno presente da piccoli principii nacque una sedizione
in quelle contrade, pretendendo essi popoli d'essere maltrattati dai
governatori della repubblica. Uniti i malcontenti coi capi dei banditi,
andarono ad assediar la Bastia; ma sì buone parole o promesse furono
adoperate, che si ritirarono, con restar nondimeno in armi circa venti
mila persone, le quali maggiormente si accesero alla ribellione, perchè
si avvidero di non corrispondere i fatti alle promesse. Non mancavano
a quegli ammutinati motivi di giuste doglianze, che cadevano nondimeno
la maggior parte contra de' governatori, intenti a far fruttare il loro
ministero alle spese della giustizia e dei sudditi. Pretendevano lesi
i lor privilegii, divenuto tirannico il governo genovese, e sfoderavano
una lista di tanti aggravii finora sofferti, che intendevano di non più
sofferire da indi avanti. Nel consiglio di Genova fu udito il parere
di Girolamo Veneroso, il quale sostenne che a guarir quella piaga si
avessero da adoperar lenitivi, e non ferro e fuoco; e però i saggi,
sapendo quanto quel gentiluomo nel suo savio governo si fosse cattivato
gli animi dei Corsi, giudicarono bene di appoggiare a lui questa cura.
Ma frutto non se ne ricavò, perchè senza saputa sua attrappolato un
capo dei sediziosi, fu privato di vita: il che maggiormente incitò
in quei popoli le fiamme dell'ira. E tanto più perchè prevalse poi
in Genova il partito de' giovani, ai quali parve che l'uso delle armi
e del gastigo con più sicurezza ridurrebbe al dovere i sediziosi. Se
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