Annali d'Italia, vol. 7 - 23
tuttochè, per giudizio de' saggi, meglio fosse stato per la santità
sua il valersi del primo, cioè d'un degno e virtuoso signore, che
di altre persone alzate agli onori, le quali, unicamente curando i
proprii vantaggi, trascurarono affatto l'onore e la gloria del loro
benefattore. Solamente promosse all'arcivescovato di Capoa il nipote
minore; e questo non per suo genio, ma per le tante batterie di chi
favoriva la casa Orsina, e stette più forte contro tante altre usate
per impetrargli il cardinalato. Amantissimo della povertà il santo
padre, non per altro cercava il danaro che per diffonderlo sopra i
poveri, o per esercitar la sua liberalità e gratitudine. Al cattolico
re d'Inghilterra _Giacomo III Stuardo_ accrebbe l'appannaggio, e donò
tutti i magnifici mobili del pontefice suo predecessore, ascendente
al valore di trenta mila scudi. Per far limosine avrebbe venduto, se
avesse potuto, fino i palagi; e intanto egli dedito alle penitenze e ai
digiuni, non volendo che una povera mensa, convertiva in sovvenimento
degl'infermi e bisognosi i regali e le rendite particolari che a lui
provenivano. Faceva egli nel medesimo tempo l'uffizio di vescovo e
parroco, conferendo la cresima e gli ordini al clero, benedicendo
chiese ed altari, assistendo ai divini uffizii e al confessionale,
visitando non solamente i cardinali infermi, ma talvolta ancora povera
gente, e comunicando di sua mano la famiglia del palazzo. Queste erano
le delizie dell'indefesso e piissimo successore di san Pietro, non
lasciando egli perciò di accudire al buon governo politico de' suoi
Stati, e alla difesa ed aumento della religione.
Abitava da gran tempo in Roma il suddetto _re Giacomo_, favorito
dai pontefici ed onorato da ognuno per l'alta qualità del suo
grado. L'aveva Iddio arricchito di due figliuoli, principi di grande
espettazione. Ma erano sopravvenute in addietro dissensioni fra lui
e la regina sua consorte _Clementina Sobieschi_, a cagione delle
quali questa piissima principessa s'era ritirata nel monistero di
Santa Cecilia, pretendendo che il marito avesse da licenziar dalla
sua corte alcune persone per giusti sospetti da essa non approvate.
Si erano interposti i più attivi e manierosi porporati, e principi e
principesse, per la riunione d'essi, ma con sempre inutili sforzi. Lo
stesso pontefice _Benedetto XIII_ non avea mancato d'impiegare i suoi
più caldi uffizii a questo fine; negava anche l'udienza al re, persuaso
che la ragione fosse dal canto della regina. Ora quando la gente
credea rinata fra loro la pace, giacchè era seguito un abboccamento
di questi reali consorti, all'improvviso si vide partir da Roma nel
mese di ottobre il re coi figli, e passar ad abitare in Bologna, dove
prese un palazzo a pigione. Però la compassion di ognuno si rivolse
verso l'afflitta regina sua moglie, e il papa cominciò a negare al re
la rata della pensione a lui accordata. Motivi all'incontro di somma
allegrezza ebbe in questi tempi la real corte di Torino, per aver la
duchessa moglie di _Carlo Emmanuele_ duca di Savoia, e nuora del re
_Vittorio Amedeo_, dato alla luce nel dì 26 di giugno un principe,
che oggidì col nome di _Vittorio Amedeo Maria_, primogenito del re
suo padre, gareggia mercè delle sue nobili qualità coi più illustri
suoi antenati. All'incontro fu in quest'anno la nobilissima città di
Palermo, capitale della Sicilia, un teatro di calamità. Nel principio
della notte nel dì primo di settembre si udì quivi nell'aria un
mormorio terribile e continuo, che durato per un quarto d'ora, cagionò
uno spavento universale, atteso che il cielo era sereno, senza vento e
senza apparenza alcuna di tempo cattivo. Furono anche vedute in aria
due travi di fuoco, che andarono poi a sommergersi in mare. Erano le
quattro ore della notte, quando un orribil tremuoto per lo spazio di
due _Pater noster_ a salti fece traballare tutta la città. Fu scritto,
che la quarta parte d'essa fu rovesciata a terra. File intere di case
e botteghe si videro ridotte ad un mucchio di sassi; assaissime altre
rimasero sommamente danneggiate e minaccianti rovina. Spezialmente
ne patì il palazzo reale, di cui molte parti caddero, talmente che
restò per un tempo inabitabile. La cattedrale ed alcun'altra chiesa
gran danno ne soffrirono; e dalle rovine di quella città furono
tratte ben tre mila persone o morte o ferite. Corse per l'Italia la
relazione di sì funesto spettacolo che metteva orrore in chiunque la
leggeva; ma persone saggie di Palermo a me confessarono, aver la fama
accresciuto di troppo le terribili conseguenze di quel tremuoto, ed
essere stato minore di quel che si diceva, l'eccidio. Intento sempre
lo augusto monarca _Carlo VI_ al bene e vantaggio dei suoi sudditi
d'Italia, procurò in quest'anno, coll'interposizione della Porta
Ottomana la pace e libertà del commercio fra i suoi Stati, e il bey o
dey di Tunisi, e la reggenza di quella città. Gli articoli ne furono
conchiusi nel dì 23 di settembre. Altrettanto ancora ottenne egli dalla
reggenza di Tripoli, in modo che le navi di sua bandiera doveano in
avvenire andar sicure dagl'insulti di quei corsari. Con qual fedeltà
poi essi Barbari, troppo avvezzi al mestiere infame della pirateria,
eseguissero somiglianti trattati, lo sanno i poveri cristiani. Sempre
sarà (non si può tacere) vergogna dei potentati della cristianità sì
cattolici che protestanti, il vedere che in vece di unir le lor forze
per ischiantar, come potrebbono, quei nidi di scellerati corsari,
vanno di tanto in tanto a mendicar da essi con preghiere e regali, per
non dire con tributi, la loro amistà, che poscia alle pruove si trova
sovente inclinare alla perfidia. Tante vite di uomini, tanti milioni
s'impiegano dai cristiani per far guerra fra loro: perchè non volgere
quell'armi contro i nemici del nome cristiano, turbatori continui della
quiete e del commercio del Mediterraneo? Di più non ne dico, perchè so
che parlo al vento.
Anno di CRISTO MDCCXXVII. Indizione V.
BENEDETTO XIII papa 4.
CARLO VI imperadore 17.
Giunse al fine di sua vita il dì 26 di febbraio dell'anno presente
_Francesco Farnese_ duca di Parma e Piacenza, nato nel dì 19 di maggio
del 1678; principe che avea acquistato il credito di rara virtù e
di molta prudenza nel governo dei suoi popoli. Ancorchè, per esser
difettoso di lingua, ammettesse pochi all'udienza sua, pure, non meno
per sè che per via d'onorati ministri, accudì sempre all'amministrazion
della giustizia, e mantenne la quiete nei suoi Stati, avendogli servito
non poco a conservarlo immune dai guai fra i pubblici torbidi la
parzialità e riguardo che aveano per lui le corti d'Europa, a cagione
della generosa regina di Spagna _Elisabetta_ sua nipote _ex fratr_e, e
figlia della duchessa _Dorotea_ sua propria moglie. A lui succedette
nel ducato il principe _Antonio_ suo fratello, nato nel dì 29 di
novembre del 1679. A questo principe (giacchè il fratello duca avea
perduta la speranza di ricavar successione dal matrimonio suo) più
volte s'era progettato di dar moglie, affinchè egli tentasse di tenere
in piedi la vacillante sua nobil casa; ma sempre in fumo si sciolse
ogni suo trattato, per non accordarsi i fratelli nell'appannaggio che
egli pretendeva necessario al suo decoro nella mutazion dello stato.
Così i poco avveduti principi d'Italia, per volere ristretta nella sola
linea regnante la propagazion del loro sangue, e col non procurare che
una linea cadetta possa ammogliandosi supplire i difetti eventuali
della propria, han lasciato venir meno la nobilissima lor prosapia
con danno gravissimo anche de' popoli loro sudditi. Erano assai
cresciuti gli anni addosso al duca Antonio, aveva egli anche ereditata
la grassezza del padre; pure tutti i suoi ministri, e del pari la
corte di Roma, l'affrettarono tosto a scegliersi una consorte abile a
rendere frutti. Fu dunque da lui prescelta la principessa _Enrichetta
d'Este_ figlia terzogenita di _Rinaldo_ duca di Modena, avendo anche
questo principe sacrificato ogni riguardo verso le figlie maggiori per
la premura di veder conservata la riguardevol casa Farnese. Dugento
mila scudi romani furono accordati in dote a questa principessa, e sul
fine di luglio si pubblicò esso matrimonio, con ottenere la necessaria
dispensa da Roma per la troppa stretta parentela. Ognun si credeva che
grande interesse avesse il duca Antonio di unirsi senza perdere tempo
colla disegnata sposa; pure con ammirazione e dolor di tutti si vide
differita questa funzione sino al febbraio del seguente anno.
Al _marchese di Ormea_, ministro di rara abilità di _Vittorio Amedeo_
re di Sardegna, riuscì in quest'anno di superar tutte le difficoltà
che fin qui aveano impedito l'accordo delle differenze vertenti fra
la sua corte e quella di Roma. Il buon pontefice _Benedetto XIII_,
nel cui cuore non allignavano se non pensieri e desideri di pace, non
solamente condiscese a riconoscere per re di Sardegna esso sovrano,
ma eziandio gli accordò non poche grazie e diritti, contrastati in
addietro dai suoi due predecessori. Era poi gran tempo che questo papa
ardeva di voglia di portarsi a Benevento, parte per consacrar ivi una
chiesa fabbricata in onore di San Filippo Neri, alla cui intercessione
si protestava egli debitor della vita, allorchè restò seppellito
sotto le rovine del tremuoto di quella città; e parte per consolare
colla sua presenza il popolo beneventano, per cui egli conservò sempre
un amore che andava anche agli eccessi; e tanto più perchè riteneva
tuttavia quell'arcivescovato. Per quanto si affaticassero i porporati
per attraversare questo suo dispendioso disegno, non vi fu ragione che
potesse distornarlo dalla presa risoluzione. Dopo aver dunque fatto
un decreto, che, in caso di sua morte, il sacro collegio tenesse il
conclave in Roma, nel marzo di quest'anno si mise in viaggio a quella
volta con picciolo accompagnamento di gente, ma con gran copia di
sacri ornamenti e regali per le chiese di Benevento, e gran somma di
danaro per riversarlo in seno dei poveri. Due corsari, informati del
suo viaggio, sbarcarono a Santa Felicita; ma il colpo andò fallito,
e si sfogò poscia il lor furore sopra que' poveri abitanti. Giunse
a Benevento il santo padre nel dì primo di aprile. Gran concorso di
popolo fu a vederlo ed ossequiarlo; e siccome egli di nulla più si
compiaceva, che delle funzioni episcopali, così impiegò ivi il suo
tempo in consecrar chiese ed altari, in predicare, in amministrare
sacramenti, in servire i poveri alla mensa, e in altri piissimi
impieghi del genio suo religioso. Nel dì 12 di maggio fece poi
partenza di colà, e pervenuto a San Germano nel dì 18, quivi con gran
solennità consecrò la chiesa maggiore. Fu in Monte Casino, dove, come
se fosse stato semplice religioso, gareggiò coll'esemplarità e pietà
di que' monaci, assistendo anch'egli al coro della mezza notte. Gran
consolazione si provò in Roma all'arrivo della santità sua in quella
capitale, succeduto nel dì 28 del mese suddetto.
Miravansi intanto gli affari dei potentati cristiani in un segreto
ondeggiamento. Disgustata era la corte di Spagna con quella di Francia
per la principessa rimandata a Madrid. Più grave ancora si conosceva
la discordia sua con quella d'Inghilterra a cagione di Minorica e
Gibilterra. Un altro affare sturbò la buona armonia fra Cesare e
gli Anglolandi; imperciocchè l'interesse, cioè il primo mobile del
gabinetto dei regnanti, avea servito ai consiglieri cesarei per indurre
l'Augusto Carlo VI ad istituire, o pure ad approvare una grandiosa
compagnia di commercio in Ostenda: il qual progetto se fosse andato
innanzi, minacciava un colpo mortale al commercio dell'Inghilterra
ed Olanda. Pretendeano quelle potenze un sì fatto istituto contrario
ai patti delle precedenti leghe, tacciando anche d'ingratitudine sua
maestà cesarea, che aiutata da tanti sforzi di gente e danaro da esse
marittime potenze per ricuperar la Fiandra, si volesse poi valere della
medesima conquista in sommo loro danno e svantaggio. Ma i ministri di
Vienna, siccome partecipi delle rugiade provenienti da Ostenda, teneano
saldo il buon imperadore nel sostegno di quella compagnia. Se n'ebbe
ben egli col tempo a pentire. Per opporsi dunque al proseguimento
di quella compagnia, si formò in Annover nel 1725 una lega fra la
Francia, Inghilterra e Prussia, a cui poscia si accostarono anche gli
Olandesi. S'era all'incontro l'Augusto Carlo maggiormente stretto col
re di Spagna. Aveano in questi tempi gl'inglesi con una squadra dei
lor vascelli sequestrata in Porto Bello la flotta che dovea portare
i tesori in Ispagna. Da tale ostilità commossi gli Spagnuoli, oltre
all'essersi impadroniti del ricchissimo vascello inglese chiamato
principe Federigo, andarono a mettere, nel febbraio di quest'anno,
l'assedio a Gibilterra. Gran vigore mostrarono gli offensori, ma molto
più i difensori; laonde perchè non v'era apparenza di sottomettere
quella piazza, e perchè intanto furono sottoscritti in Parigi alcuni
preliminari di aggiustamento fra i potentati cristiani, al che
spezialmente si erano affaticati i ministri del papa, e più degli altri
_monsignor Grimaldi_ nunzio pontifizio in Vienna, quell'assedio, dopo
alcuni mesi inutilmente spesi, terminò in nulla. Venne intanto nel dì
22 di giugno a mancar di vita, colpito da improvviso accidente verso
Osnabruk nel passare ad Hannover, _Giorgio I_ re della Gran Bretagna,
e a lui succedette in quel regno, concordemente ricevuto da quei
parlamenti, _Giorgio II_ principe di Galles, suo primogenito.
Stava attento ad ogni spirar d'aura in quelle parti il Cattolico
re _Giacomo III Stuardo_; e verisimilmente isperanzito che avesse
in Inghilterra per la morte di quel regnante da succedere qualche
cangiamento in suo favore, all'improvviso si partì da Bologna, e passò
in Lorena, con ridursi poscia ad Avignone. Scandagliati ch'egli ebbe
gli affari dell'Inghilterra, trovò preclusa ogni speranza ai proprii,
e però quivi fermò i suoi passi. Aveva egli lasciati in Bologna i due
principi suoi figli; e giacchè in fine s'era ridotto ad allontanare
dal suo servigio il Lord Eys, e sua moglie, la regina _Clementina
Sobieschi_, consigliata dal papa e dai più saggi porporati, alla metà
del mese di luglio sen venne a quella città, dove abbracciò i figli
con tal tenerezza, che trasse le lagrime dagli occhi di tutti gli
astanti. Fermossi ella di poi in essa città, attendendo continuamente
alle sue divozioni, giacchè per le visite e per li divertimenti non
era fatto il suo cuore. Passava questa santa principessa le giornate
intere in orazioni davanti il santissimo Sacramento. Nel novembre di
questo anno venne in Italia il _principe Clemente_ elettor di Colonia,
fratello dell'_elettor di Baviera_ e della gran principessa di Toscana
_Violante_, con animo di farsi consecrare arcivescovo dal pontefice
_Benedetto XIII_. Per cagion dell'etichetta romana non trovava la
di lui dignità i suoi conti nel portarsi fino a Roma. Lo umilissimo
santo padre, tuttochè dissuaso dai sostenitori del decoro pontifizio,
pure non ebbe difficoltà di passar egli a Viterbo per ivi consecrare
quel principe. Riuscì maestosa la funzione, e corsero suntuosi regali
dall'una e dall'altra parte; ma senza paragone superiori furono quei
dell'elettore, perchè consistenti in sei candellieri d'oro arricchiti
di pietre preziose; in una croce d'oro; in una corona di grosse
perle orientali, i cui _pater noster_ erano di smeraldi incastrati
in oro; in una croce di diamanti di gran valore, e in una cambiale di
ventiquattro mila scudi per le spese del viaggio del santo padre. Altri
presenti toccarono alla famiglia pontifizia. Passò dipoi esso elettore
colla principessa Violante a Napoli, per vedere le rarità di quella
metropoli, e di là venne dipoi ad ammirar le impareggiabili di Roma.
Due padri carmelitani scalzi avea lo stesso pontefice, oppure il suo
predecessore, inviati negli anni addietro alla Cina con ricchi donativi
e lettere all'imperadore di quel vasto imperio. Riportarono essi nel
presente anno due risposte di quel regnante al papa, accompagnate da
una bella lista di donativi, consistenti nelle cose più rare e stimate
di quei paesi.
Con sommo dispiacere intanto udiva il buon pontefice le risoluzioni
prese dall'imperadore di concedere Parma e Piacenza all'_imperador
don Carlo_, come feudi imperiali, in grave pregiudizio de' diritti
della santa Sede, che per più di due secoli avea goduto pubblicamente
il sovrano dominio e possesso di quegli Stati. Intimò pertanto
al nuovo duca _Antonio Farnese_ di prenderne, secondo il solito,
l'investitura dalla Chiesa romana. Ma ritrovossi questo principe
in un duro imbroglio, perchè nello stesso tempo anche da Vienna
gli veniva ordinato di prestare omaggio per esso ducato a Cesare,
da cui si pretendea di dargli l'investitura. Fu poi cagione questo
vicendevole strettoio che il duca non la prese da alcuno. Fece perciò
varie proteste la corte di Roma; e all'incontro più forte che mai
seguitò l'imperadore a sostener quegli Stati, come membri del ducato
di Milano. E perciocchè nell'anno 1720 avea _papa Clemente XI_ fatto
esporre al pubblico due libri contenenti le ragioni della Chiesa
romana sopra Parma e Piacenza, in quest'anno parimente comparve alla
luce un grosso volume, che comprendea le opposte ragioni dell'imperio
sopra quelle città, dove, oltre al vedersi rivangati i principii
del dominio pontifizio nelle medesime, si venne anche a scoprire
che i duchi _Ottavio_ ed _Alessandro Farnesi_ aveano riconosciuto
sopra Piacenza i diritti dell'imperio e del re di Spagna, padrone
allora di Milano. Non bastò al saggio imperadore _Carlo VI_ di aver
procacciala a' suoi sudditi di Napoli, Sicilia e Trieste una spezie
di amicizia o tregua coi corsari di Tripoli e Tunisi. Rinforzò egli
i suoi maneggi per istabilire un simile accordo col dey e reggenza
di Algeri, cioè coi più poderosi e dannosi corsari del Mediterraneo,
valendosi dell'interposizione della porta ottomana amica. Si fecero
coloro tirar ben bene gli orecchi prima di cedere, perchè pretendeano
che l'imperadore facesse anche egli desistere dall'andare in corso
i Maltesi. Se ne scusò Cesare, con dire di non aver padronanza
sopra quell'isola, e molto meno sopra de' cavalieri gerosolimitani.
Finalmente nel dì 8 di marzo dell'anno presente si stipulò in
Costantinopoli l'accordo suddetto, per cui spezialmente gran feste ne
fece la città di Napoli, benchè prevedessero i saggi che poco capitale
potea farsi di una pace con gente perfida e troppo ghiotta di quello
infame mestiere. Cominciarono in fatto a verificarsi nell'anno seguente
queste predizioni.
Ma nel dì 7 di novembre si cangiò in pianto tutta l'allegrezza de'
Napoletani. Perciocchè, dopo avere il Vesuvio gittato per due giorni
delle continue fiumane di bitume infocato, verso la sera del dì
suddetto con orribili tenebre si oscurò il cielo, e dopo un terribile
strepito di tuoni e fulmini, cadde per lo spazio di quattro ore una
sì straordinaria pioggia, che recò gravissimi danni e sconcerti a
quella città e al suo territorio. Quasi non vi fu casa che non restasse
inondata da sì esorbitante copia d'acqua, con lasciar tutte le cantine
e luoghi sotterranei ripieni d'acqua e di fango; e non se ne andò
esente chiesa alcuna. Dalla montagna scendevano furiosi i torrenti, che
atterrarono gran numero di case e botteghe, seco menando gli alberi
divelti dal suolo, e i mobili della povera gente. Gli acquedotti e
canali tutti rimasero rimpiuti di terra. Immenso ancora fu il danno che
ne patì la città d'Aversa colle terre di Giuliano, Piamura, Paretta
ed altre. Se abbondano di delizie quelle contrade, a dure pensioni
ancora son elleno soggette. Gloriosa memoria lasciò in quest'anno
lo zelantissimo pontefice _Benedetto XIII_ con una sua bolla del dì
12 d'agosto, in cui severamente proibì per tutti i suoi Stati il già
introdotto ed affittato lotto di Genova, Napoli e Milano, gran voragine
delle sostanze de' mortali poco saggi e troppo corrivi; e ciò per
avere la Santità sua conosciuti gli enormi disordini che ne provenivano
per le tante superstizioni, frodi, rubamenti, vendite dell'onestà, e
impoverimento delle famiglie. E perchè, ciò non ostante, alcuni, poco
curanti delle pene spirituali e temporali, osarono poscia di continuar
questo giuoco, contra di essi procedè la giustizia, condannandoli al
remo; nè poterono ottenere remissione dal papa, risoluto di voler
liberare i suoi popoli da sanguisuga cotanto maligna. La borsa
pontificia ne patì, ma crebbe la gloria di questo santo pontefice.
Anno di CRISTO MDCCXXVIII. Indiz. VI.
BENEDETTO XIII papa 5.
CARLO VI imperadore 18.
Finalmente nel dì 5 di febbraio dell'anno presente con molta solennità
in Modena seguì lo sposalizio della principessa _Enrichetta d'Este_
con _Antonio Farnese_ duca di Parma, di cui fu mandatario il principe
ereditario di Modena _Francesco_ fratello d'essa. Dopo molti nobili
divertimenti s'inviò la novella duchessa nel dì 7 alla volta di Parma,
dove trovò preparate suntuose feste pel suo ricevimento. Chiarito
ormai il re Cattolico _Giacomo III_ della tranquillità che si godeva
in Inghilterra, e non esservi apparenza che alcun vento propizio si
svegliasse in suo favore, sul principio del gennaio di quest'anno si
restituì a Bologna. Videsi allora la sospirata riunione di lui colla
regina _Clementina_ sua consorte, la cui incomparabil pietà e divozione
non meno stupore, che tenerezza cagionava in tutto quel popolo. E ben
ebbe la città di Bologna motivi di grande allegrezza in questi tempi,
per avere il sommo pontefice _Benedetto XIII_ nel dì 30 di aprile
pubblicato per uno dei cardinali riserbati in petto monsignor _Prospero
Lambertini_ arcivescovo di Teodosia, vescovo d'Ancona, segretario
della congregazion del concilio, e promotor della fede, di nobile ed
antica famiglia bolognese, prelato d'insigne sapere, spezialmente ne'
sacri canoni e nell'erudizione ecclesiastica. Nel qual tempo ancora
fu promosso alla sacra porpora il padre _Vincenzo Lodovico_ Gotti
parimente Bolognese, eletto già patriarca di Gerusalemme, e teologo
rinomato per varii suoi libri dati alla luce. Noi vedremo, andando
innanzi, portato il primo di essi dal raro suo merito alla cattedra di
san Pietro.
Durava tuttavia la spinosa pendenza, fra la corte pontifizia e quella
di Lisbona, per la pretensione mossa da quel re di voler promosso
alla dignità cardinalizia, il nunzio apostolico _Bichi_, prima che
egli si partisse da Lisbona, e nei presenti tempi maggiormente si
vide incalzato il santo padre dai ministri portoghesi su questo
punto. A tante pressure di quel re, stranamente forte in ogni suo
impegno, avrebbe facilmente condisceso il buon pontefice, siccome
quegli che cercava la pace con tutti. Ma costituita sopra questo
affare una congregazion di cardinali, alla testa de' quali era il
cardinal Coradini, uomo di gran petto, fu risoluto di non compiacere
quel monarca, perchè niuno metteva in disputa che il principe possa,
quando e come vuole, richiamare i suoi ministri dalle corti altrui;
nè si dovea permettere un esempio di tanta prepotenza in pregiudizio
dell'avvenire. A tal determinazione il mansueto pontefice si accomodò,
ed attese più che mai a dar nuovi santi alla Chiesa di Dio, e ad
esercitarsi nelle consuete sue azioni pastorali. Ma se n'ebbe forte
a dolere il popolo romano, perchè tanto il _cardinal Pereira_ che
l'ambasciatore di quel re, e i prelati portoghesi, anzi qualsivoglia
persona di quella nazione, ebbero ordine di levarsi da Roma, e da
tutto lo Stato ecclesiastico, e di tornarsene in Portogallo. Il che fu
eseguito, seccandosi con ciò una ricca fontana di oro che scorrea per
tutta Roma. Parve poco questo allo sdegnato re. Comandò che uscisse
dai suoi Stati _monsignor Firrao_, da lui non mai riconosciuto per
nunzio, nè volle lasciar partire _monsignor Bichi_, tuttochè chiamato
coll'intimazion delle censure in caso di disubbidienza, e desideroso di
obbedire. Oltre a ciò, nel mese di luglio vietò a chicchessia dei suoi
sudditi il mettere piede nello Stato ecclesiastico, il cercar dignità
o benefizii dalla santa Sede, il mandare o portar danaro a Roma: con
che restò affatto chiusa la nunziatura e dateria per li suoi Stati.
Finalmente cacciò dal suo regno ogni Italiano suddito del papa, con
proibizione che alcun di essi non entrasse nei suoi territorii. Altro
ripiego non ebbe la corte romana, per tentare un rimedio a questa
turbolenza, che di raccomandarsi all'interposizione del piissimo re
Cattolico _Filippo V_, stante la buona armonia di quella corte colla
portoghese, a cagion del doppio matrimonio stabilito fra loro.
In mezzo nondimeno a sì fatti imbrogli Dio fece godere un'indicibil
consolazione per altra parte al santo pontefice. Siccome uomo di pace,
non avea ommesso uffizio o diligenza alcuna in addietro per vincere
l'animo del _cardinale di Noaglies_ arcivescovo di Parigi, fin qui
pertinace in non volere accettare la bolla _Unigenitus_. Finalmente
cotanto poterono in cuore di quel porporato le amorose esortazioni del
buon pontefice, e il concetto della di lui sanità, e l'aver questo
dichiarato che la dottrina di essa bolla non contrariava a quella
di santo Agostino, che il cardinale s'indusse ad abbracciarla. Per
l'allegrezza di questa nuova, e di una lettera tutta sommessa di quel
porporato, non potè il santo padre contenere le lagrime, e non finì
l'anno ch'egli annunziò nel sacro consistoro questo trionfo della
Chiesa, per cui il Noaglies fu ristabilito in tutti i suoi diritti e
preminenze. Due nobili bolle e molte provvisioni pubblicò nell'anno
presente l'indefesso pontefice pel buon regolamento della giustizia,
affin di troncare il troppo pernicioso allungamento delle liti,
e levare molti altri abusi del foro, degli avvocati, procuratori,
notai ed archivii: regolamenti, i quali sarebbe da desiderare che
si estendessero ad ogni altro paese, e, quel che importa, che si
osservassero; perciocchè ordinariamente non mancano buone leggi, ma
ne manca l'osservanza, e chi abbia zelo per questo. Da molti anni si
trovavano in grande scompiglio i tribunali ecclesiastici della Sicilia
a cagion di quella appellata monarchia, abolita da papa _Clemente
XI_. Facea continue istanze l'imperador Carlo VI che si mettesse fine
a questo litigio; e il santo padre, amantissimo della concordia con
ognuno, vi condiscese con pubblicare nel dì 30 d'agosto una bolla e
concordia, che risecò gli abusi introdotti in quel regno, e prescrisse
la maniera di trattar quivi e definir le cause ecclesiastiche in
avvenire.
Comparvero in questi tempi i potentati Cristiani dell'Europa tutti
vogliosi di stabilire una pace universale. La sola Spagna quella era
che teneva questo gran bene pendente per le sue pretensioni contro
gl'Inglesi, e per alcune difficoltà nell'effettuare quanto era stato
accordato all'_infante don Carlo_, spettante alla successione in
Italia della Toscana e di Parma e Piacenza. Non la sapeva intendere
il gran duca _Giovanni Gastone_, che vivente lui si avesse a mettere
presidio straniero nei suoi dominii, e ricalcitrava forte. Ma da
che furono accordati i preliminari della pace, l'Augusto _Carlo VI_
nel dì 13 d'aprile rilasciò ordini vigorosi, comandando a' popoli
della Toscana di ricevere e riconoscere il suddetto _don Carlo_ per
principe ereditario, e di prestargli quella sommessione ed ubbidienza
che occorreva, senza pregiudizio del vivente gran duca, affinchè,
estinguendosi la linea mascolina dei gran duchi, fosse sicuro il real
principe di prenderne il pieno desiderato possesso, cessando intanto la
disposizione fatta di quegli Stati dal gran duca _Cosimo III_ in favore
della vedova _elettrice palatina_ sua figlia. In vigore dunque di
tali premure si aprì dipoi un congresso dei plenipotenziarii di tutte
le potenze in Soissons, per ismaltire ogni altro punto concernente
la progettata pace, avendo il _cardinale di Fleury_, primo ministro
del re di Francia, desiderato quel luogo vicino a Parigi per teatro
di sì importante affare, a fine di potervi intervenire anch'egli in
persona, e recare più possente influsso alla concordia. Il bello fu
che quei ministri più si lasciavano vedere alle conferenze in Parigi
che in Soissons, per minore incomodo del cardinale, direttor di ogni
risoluzione. Fu in questi tempi dall'imperadore dichiarata Messina
sua il valersi del primo, cioè d'un degno e virtuoso signore, che
di altre persone alzate agli onori, le quali, unicamente curando i
proprii vantaggi, trascurarono affatto l'onore e la gloria del loro
benefattore. Solamente promosse all'arcivescovato di Capoa il nipote
minore; e questo non per suo genio, ma per le tante batterie di chi
favoriva la casa Orsina, e stette più forte contro tante altre usate
per impetrargli il cardinalato. Amantissimo della povertà il santo
padre, non per altro cercava il danaro che per diffonderlo sopra i
poveri, o per esercitar la sua liberalità e gratitudine. Al cattolico
re d'Inghilterra _Giacomo III Stuardo_ accrebbe l'appannaggio, e donò
tutti i magnifici mobili del pontefice suo predecessore, ascendente
al valore di trenta mila scudi. Per far limosine avrebbe venduto, se
avesse potuto, fino i palagi; e intanto egli dedito alle penitenze e ai
digiuni, non volendo che una povera mensa, convertiva in sovvenimento
degl'infermi e bisognosi i regali e le rendite particolari che a lui
provenivano. Faceva egli nel medesimo tempo l'uffizio di vescovo e
parroco, conferendo la cresima e gli ordini al clero, benedicendo
chiese ed altari, assistendo ai divini uffizii e al confessionale,
visitando non solamente i cardinali infermi, ma talvolta ancora povera
gente, e comunicando di sua mano la famiglia del palazzo. Queste erano
le delizie dell'indefesso e piissimo successore di san Pietro, non
lasciando egli perciò di accudire al buon governo politico de' suoi
Stati, e alla difesa ed aumento della religione.
Abitava da gran tempo in Roma il suddetto _re Giacomo_, favorito
dai pontefici ed onorato da ognuno per l'alta qualità del suo
grado. L'aveva Iddio arricchito di due figliuoli, principi di grande
espettazione. Ma erano sopravvenute in addietro dissensioni fra lui
e la regina sua consorte _Clementina Sobieschi_, a cagione delle
quali questa piissima principessa s'era ritirata nel monistero di
Santa Cecilia, pretendendo che il marito avesse da licenziar dalla
sua corte alcune persone per giusti sospetti da essa non approvate.
Si erano interposti i più attivi e manierosi porporati, e principi e
principesse, per la riunione d'essi, ma con sempre inutili sforzi. Lo
stesso pontefice _Benedetto XIII_ non avea mancato d'impiegare i suoi
più caldi uffizii a questo fine; negava anche l'udienza al re, persuaso
che la ragione fosse dal canto della regina. Ora quando la gente
credea rinata fra loro la pace, giacchè era seguito un abboccamento
di questi reali consorti, all'improvviso si vide partir da Roma nel
mese di ottobre il re coi figli, e passar ad abitare in Bologna, dove
prese un palazzo a pigione. Però la compassion di ognuno si rivolse
verso l'afflitta regina sua moglie, e il papa cominciò a negare al re
la rata della pensione a lui accordata. Motivi all'incontro di somma
allegrezza ebbe in questi tempi la real corte di Torino, per aver la
duchessa moglie di _Carlo Emmanuele_ duca di Savoia, e nuora del re
_Vittorio Amedeo_, dato alla luce nel dì 26 di giugno un principe,
che oggidì col nome di _Vittorio Amedeo Maria_, primogenito del re
suo padre, gareggia mercè delle sue nobili qualità coi più illustri
suoi antenati. All'incontro fu in quest'anno la nobilissima città di
Palermo, capitale della Sicilia, un teatro di calamità. Nel principio
della notte nel dì primo di settembre si udì quivi nell'aria un
mormorio terribile e continuo, che durato per un quarto d'ora, cagionò
uno spavento universale, atteso che il cielo era sereno, senza vento e
senza apparenza alcuna di tempo cattivo. Furono anche vedute in aria
due travi di fuoco, che andarono poi a sommergersi in mare. Erano le
quattro ore della notte, quando un orribil tremuoto per lo spazio di
due _Pater noster_ a salti fece traballare tutta la città. Fu scritto,
che la quarta parte d'essa fu rovesciata a terra. File intere di case
e botteghe si videro ridotte ad un mucchio di sassi; assaissime altre
rimasero sommamente danneggiate e minaccianti rovina. Spezialmente
ne patì il palazzo reale, di cui molte parti caddero, talmente che
restò per un tempo inabitabile. La cattedrale ed alcun'altra chiesa
gran danno ne soffrirono; e dalle rovine di quella città furono
tratte ben tre mila persone o morte o ferite. Corse per l'Italia la
relazione di sì funesto spettacolo che metteva orrore in chiunque la
leggeva; ma persone saggie di Palermo a me confessarono, aver la fama
accresciuto di troppo le terribili conseguenze di quel tremuoto, ed
essere stato minore di quel che si diceva, l'eccidio. Intento sempre
lo augusto monarca _Carlo VI_ al bene e vantaggio dei suoi sudditi
d'Italia, procurò in quest'anno, coll'interposizione della Porta
Ottomana la pace e libertà del commercio fra i suoi Stati, e il bey o
dey di Tunisi, e la reggenza di quella città. Gli articoli ne furono
conchiusi nel dì 23 di settembre. Altrettanto ancora ottenne egli dalla
reggenza di Tripoli, in modo che le navi di sua bandiera doveano in
avvenire andar sicure dagl'insulti di quei corsari. Con qual fedeltà
poi essi Barbari, troppo avvezzi al mestiere infame della pirateria,
eseguissero somiglianti trattati, lo sanno i poveri cristiani. Sempre
sarà (non si può tacere) vergogna dei potentati della cristianità sì
cattolici che protestanti, il vedere che in vece di unir le lor forze
per ischiantar, come potrebbono, quei nidi di scellerati corsari,
vanno di tanto in tanto a mendicar da essi con preghiere e regali, per
non dire con tributi, la loro amistà, che poscia alle pruove si trova
sovente inclinare alla perfidia. Tante vite di uomini, tanti milioni
s'impiegano dai cristiani per far guerra fra loro: perchè non volgere
quell'armi contro i nemici del nome cristiano, turbatori continui della
quiete e del commercio del Mediterraneo? Di più non ne dico, perchè so
che parlo al vento.
Anno di CRISTO MDCCXXVII. Indizione V.
BENEDETTO XIII papa 4.
CARLO VI imperadore 17.
Giunse al fine di sua vita il dì 26 di febbraio dell'anno presente
_Francesco Farnese_ duca di Parma e Piacenza, nato nel dì 19 di maggio
del 1678; principe che avea acquistato il credito di rara virtù e
di molta prudenza nel governo dei suoi popoli. Ancorchè, per esser
difettoso di lingua, ammettesse pochi all'udienza sua, pure, non meno
per sè che per via d'onorati ministri, accudì sempre all'amministrazion
della giustizia, e mantenne la quiete nei suoi Stati, avendogli servito
non poco a conservarlo immune dai guai fra i pubblici torbidi la
parzialità e riguardo che aveano per lui le corti d'Europa, a cagione
della generosa regina di Spagna _Elisabetta_ sua nipote _ex fratr_e, e
figlia della duchessa _Dorotea_ sua propria moglie. A lui succedette
nel ducato il principe _Antonio_ suo fratello, nato nel dì 29 di
novembre del 1679. A questo principe (giacchè il fratello duca avea
perduta la speranza di ricavar successione dal matrimonio suo) più
volte s'era progettato di dar moglie, affinchè egli tentasse di tenere
in piedi la vacillante sua nobil casa; ma sempre in fumo si sciolse
ogni suo trattato, per non accordarsi i fratelli nell'appannaggio che
egli pretendeva necessario al suo decoro nella mutazion dello stato.
Così i poco avveduti principi d'Italia, per volere ristretta nella sola
linea regnante la propagazion del loro sangue, e col non procurare che
una linea cadetta possa ammogliandosi supplire i difetti eventuali
della propria, han lasciato venir meno la nobilissima lor prosapia
con danno gravissimo anche de' popoli loro sudditi. Erano assai
cresciuti gli anni addosso al duca Antonio, aveva egli anche ereditata
la grassezza del padre; pure tutti i suoi ministri, e del pari la
corte di Roma, l'affrettarono tosto a scegliersi una consorte abile a
rendere frutti. Fu dunque da lui prescelta la principessa _Enrichetta
d'Este_ figlia terzogenita di _Rinaldo_ duca di Modena, avendo anche
questo principe sacrificato ogni riguardo verso le figlie maggiori per
la premura di veder conservata la riguardevol casa Farnese. Dugento
mila scudi romani furono accordati in dote a questa principessa, e sul
fine di luglio si pubblicò esso matrimonio, con ottenere la necessaria
dispensa da Roma per la troppa stretta parentela. Ognun si credeva che
grande interesse avesse il duca Antonio di unirsi senza perdere tempo
colla disegnata sposa; pure con ammirazione e dolor di tutti si vide
differita questa funzione sino al febbraio del seguente anno.
Al _marchese di Ormea_, ministro di rara abilità di _Vittorio Amedeo_
re di Sardegna, riuscì in quest'anno di superar tutte le difficoltà
che fin qui aveano impedito l'accordo delle differenze vertenti fra
la sua corte e quella di Roma. Il buon pontefice _Benedetto XIII_,
nel cui cuore non allignavano se non pensieri e desideri di pace, non
solamente condiscese a riconoscere per re di Sardegna esso sovrano,
ma eziandio gli accordò non poche grazie e diritti, contrastati in
addietro dai suoi due predecessori. Era poi gran tempo che questo papa
ardeva di voglia di portarsi a Benevento, parte per consacrar ivi una
chiesa fabbricata in onore di San Filippo Neri, alla cui intercessione
si protestava egli debitor della vita, allorchè restò seppellito
sotto le rovine del tremuoto di quella città; e parte per consolare
colla sua presenza il popolo beneventano, per cui egli conservò sempre
un amore che andava anche agli eccessi; e tanto più perchè riteneva
tuttavia quell'arcivescovato. Per quanto si affaticassero i porporati
per attraversare questo suo dispendioso disegno, non vi fu ragione che
potesse distornarlo dalla presa risoluzione. Dopo aver dunque fatto
un decreto, che, in caso di sua morte, il sacro collegio tenesse il
conclave in Roma, nel marzo di quest'anno si mise in viaggio a quella
volta con picciolo accompagnamento di gente, ma con gran copia di
sacri ornamenti e regali per le chiese di Benevento, e gran somma di
danaro per riversarlo in seno dei poveri. Due corsari, informati del
suo viaggio, sbarcarono a Santa Felicita; ma il colpo andò fallito,
e si sfogò poscia il lor furore sopra que' poveri abitanti. Giunse
a Benevento il santo padre nel dì primo di aprile. Gran concorso di
popolo fu a vederlo ed ossequiarlo; e siccome egli di nulla più si
compiaceva, che delle funzioni episcopali, così impiegò ivi il suo
tempo in consecrar chiese ed altari, in predicare, in amministrare
sacramenti, in servire i poveri alla mensa, e in altri piissimi
impieghi del genio suo religioso. Nel dì 12 di maggio fece poi
partenza di colà, e pervenuto a San Germano nel dì 18, quivi con gran
solennità consecrò la chiesa maggiore. Fu in Monte Casino, dove, come
se fosse stato semplice religioso, gareggiò coll'esemplarità e pietà
di que' monaci, assistendo anch'egli al coro della mezza notte. Gran
consolazione si provò in Roma all'arrivo della santità sua in quella
capitale, succeduto nel dì 28 del mese suddetto.
Miravansi intanto gli affari dei potentati cristiani in un segreto
ondeggiamento. Disgustata era la corte di Spagna con quella di Francia
per la principessa rimandata a Madrid. Più grave ancora si conosceva
la discordia sua con quella d'Inghilterra a cagione di Minorica e
Gibilterra. Un altro affare sturbò la buona armonia fra Cesare e
gli Anglolandi; imperciocchè l'interesse, cioè il primo mobile del
gabinetto dei regnanti, avea servito ai consiglieri cesarei per indurre
l'Augusto Carlo VI ad istituire, o pure ad approvare una grandiosa
compagnia di commercio in Ostenda: il qual progetto se fosse andato
innanzi, minacciava un colpo mortale al commercio dell'Inghilterra
ed Olanda. Pretendeano quelle potenze un sì fatto istituto contrario
ai patti delle precedenti leghe, tacciando anche d'ingratitudine sua
maestà cesarea, che aiutata da tanti sforzi di gente e danaro da esse
marittime potenze per ricuperar la Fiandra, si volesse poi valere della
medesima conquista in sommo loro danno e svantaggio. Ma i ministri di
Vienna, siccome partecipi delle rugiade provenienti da Ostenda, teneano
saldo il buon imperadore nel sostegno di quella compagnia. Se n'ebbe
ben egli col tempo a pentire. Per opporsi dunque al proseguimento
di quella compagnia, si formò in Annover nel 1725 una lega fra la
Francia, Inghilterra e Prussia, a cui poscia si accostarono anche gli
Olandesi. S'era all'incontro l'Augusto Carlo maggiormente stretto col
re di Spagna. Aveano in questi tempi gl'inglesi con una squadra dei
lor vascelli sequestrata in Porto Bello la flotta che dovea portare
i tesori in Ispagna. Da tale ostilità commossi gli Spagnuoli, oltre
all'essersi impadroniti del ricchissimo vascello inglese chiamato
principe Federigo, andarono a mettere, nel febbraio di quest'anno,
l'assedio a Gibilterra. Gran vigore mostrarono gli offensori, ma molto
più i difensori; laonde perchè non v'era apparenza di sottomettere
quella piazza, e perchè intanto furono sottoscritti in Parigi alcuni
preliminari di aggiustamento fra i potentati cristiani, al che
spezialmente si erano affaticati i ministri del papa, e più degli altri
_monsignor Grimaldi_ nunzio pontifizio in Vienna, quell'assedio, dopo
alcuni mesi inutilmente spesi, terminò in nulla. Venne intanto nel dì
22 di giugno a mancar di vita, colpito da improvviso accidente verso
Osnabruk nel passare ad Hannover, _Giorgio I_ re della Gran Bretagna,
e a lui succedette in quel regno, concordemente ricevuto da quei
parlamenti, _Giorgio II_ principe di Galles, suo primogenito.
Stava attento ad ogni spirar d'aura in quelle parti il Cattolico
re _Giacomo III Stuardo_; e verisimilmente isperanzito che avesse
in Inghilterra per la morte di quel regnante da succedere qualche
cangiamento in suo favore, all'improvviso si partì da Bologna, e passò
in Lorena, con ridursi poscia ad Avignone. Scandagliati ch'egli ebbe
gli affari dell'Inghilterra, trovò preclusa ogni speranza ai proprii,
e però quivi fermò i suoi passi. Aveva egli lasciati in Bologna i due
principi suoi figli; e giacchè in fine s'era ridotto ad allontanare
dal suo servigio il Lord Eys, e sua moglie, la regina _Clementina
Sobieschi_, consigliata dal papa e dai più saggi porporati, alla metà
del mese di luglio sen venne a quella città, dove abbracciò i figli
con tal tenerezza, che trasse le lagrime dagli occhi di tutti gli
astanti. Fermossi ella di poi in essa città, attendendo continuamente
alle sue divozioni, giacchè per le visite e per li divertimenti non
era fatto il suo cuore. Passava questa santa principessa le giornate
intere in orazioni davanti il santissimo Sacramento. Nel novembre di
questo anno venne in Italia il _principe Clemente_ elettor di Colonia,
fratello dell'_elettor di Baviera_ e della gran principessa di Toscana
_Violante_, con animo di farsi consecrare arcivescovo dal pontefice
_Benedetto XIII_. Per cagion dell'etichetta romana non trovava la
di lui dignità i suoi conti nel portarsi fino a Roma. Lo umilissimo
santo padre, tuttochè dissuaso dai sostenitori del decoro pontifizio,
pure non ebbe difficoltà di passar egli a Viterbo per ivi consecrare
quel principe. Riuscì maestosa la funzione, e corsero suntuosi regali
dall'una e dall'altra parte; ma senza paragone superiori furono quei
dell'elettore, perchè consistenti in sei candellieri d'oro arricchiti
di pietre preziose; in una croce d'oro; in una corona di grosse
perle orientali, i cui _pater noster_ erano di smeraldi incastrati
in oro; in una croce di diamanti di gran valore, e in una cambiale di
ventiquattro mila scudi per le spese del viaggio del santo padre. Altri
presenti toccarono alla famiglia pontifizia. Passò dipoi esso elettore
colla principessa Violante a Napoli, per vedere le rarità di quella
metropoli, e di là venne dipoi ad ammirar le impareggiabili di Roma.
Due padri carmelitani scalzi avea lo stesso pontefice, oppure il suo
predecessore, inviati negli anni addietro alla Cina con ricchi donativi
e lettere all'imperadore di quel vasto imperio. Riportarono essi nel
presente anno due risposte di quel regnante al papa, accompagnate da
una bella lista di donativi, consistenti nelle cose più rare e stimate
di quei paesi.
Con sommo dispiacere intanto udiva il buon pontefice le risoluzioni
prese dall'imperadore di concedere Parma e Piacenza all'_imperador
don Carlo_, come feudi imperiali, in grave pregiudizio de' diritti
della santa Sede, che per più di due secoli avea goduto pubblicamente
il sovrano dominio e possesso di quegli Stati. Intimò pertanto
al nuovo duca _Antonio Farnese_ di prenderne, secondo il solito,
l'investitura dalla Chiesa romana. Ma ritrovossi questo principe
in un duro imbroglio, perchè nello stesso tempo anche da Vienna
gli veniva ordinato di prestare omaggio per esso ducato a Cesare,
da cui si pretendea di dargli l'investitura. Fu poi cagione questo
vicendevole strettoio che il duca non la prese da alcuno. Fece perciò
varie proteste la corte di Roma; e all'incontro più forte che mai
seguitò l'imperadore a sostener quegli Stati, come membri del ducato
di Milano. E perciocchè nell'anno 1720 avea _papa Clemente XI_ fatto
esporre al pubblico due libri contenenti le ragioni della Chiesa
romana sopra Parma e Piacenza, in quest'anno parimente comparve alla
luce un grosso volume, che comprendea le opposte ragioni dell'imperio
sopra quelle città, dove, oltre al vedersi rivangati i principii
del dominio pontifizio nelle medesime, si venne anche a scoprire
che i duchi _Ottavio_ ed _Alessandro Farnesi_ aveano riconosciuto
sopra Piacenza i diritti dell'imperio e del re di Spagna, padrone
allora di Milano. Non bastò al saggio imperadore _Carlo VI_ di aver
procacciala a' suoi sudditi di Napoli, Sicilia e Trieste una spezie
di amicizia o tregua coi corsari di Tripoli e Tunisi. Rinforzò egli
i suoi maneggi per istabilire un simile accordo col dey e reggenza
di Algeri, cioè coi più poderosi e dannosi corsari del Mediterraneo,
valendosi dell'interposizione della porta ottomana amica. Si fecero
coloro tirar ben bene gli orecchi prima di cedere, perchè pretendeano
che l'imperadore facesse anche egli desistere dall'andare in corso
i Maltesi. Se ne scusò Cesare, con dire di non aver padronanza
sopra quell'isola, e molto meno sopra de' cavalieri gerosolimitani.
Finalmente nel dì 8 di marzo dell'anno presente si stipulò in
Costantinopoli l'accordo suddetto, per cui spezialmente gran feste ne
fece la città di Napoli, benchè prevedessero i saggi che poco capitale
potea farsi di una pace con gente perfida e troppo ghiotta di quello
infame mestiere. Cominciarono in fatto a verificarsi nell'anno seguente
queste predizioni.
Ma nel dì 7 di novembre si cangiò in pianto tutta l'allegrezza de'
Napoletani. Perciocchè, dopo avere il Vesuvio gittato per due giorni
delle continue fiumane di bitume infocato, verso la sera del dì
suddetto con orribili tenebre si oscurò il cielo, e dopo un terribile
strepito di tuoni e fulmini, cadde per lo spazio di quattro ore una
sì straordinaria pioggia, che recò gravissimi danni e sconcerti a
quella città e al suo territorio. Quasi non vi fu casa che non restasse
inondata da sì esorbitante copia d'acqua, con lasciar tutte le cantine
e luoghi sotterranei ripieni d'acqua e di fango; e non se ne andò
esente chiesa alcuna. Dalla montagna scendevano furiosi i torrenti, che
atterrarono gran numero di case e botteghe, seco menando gli alberi
divelti dal suolo, e i mobili della povera gente. Gli acquedotti e
canali tutti rimasero rimpiuti di terra. Immenso ancora fu il danno che
ne patì la città d'Aversa colle terre di Giuliano, Piamura, Paretta
ed altre. Se abbondano di delizie quelle contrade, a dure pensioni
ancora son elleno soggette. Gloriosa memoria lasciò in quest'anno
lo zelantissimo pontefice _Benedetto XIII_ con una sua bolla del dì
12 d'agosto, in cui severamente proibì per tutti i suoi Stati il già
introdotto ed affittato lotto di Genova, Napoli e Milano, gran voragine
delle sostanze de' mortali poco saggi e troppo corrivi; e ciò per
avere la Santità sua conosciuti gli enormi disordini che ne provenivano
per le tante superstizioni, frodi, rubamenti, vendite dell'onestà, e
impoverimento delle famiglie. E perchè, ciò non ostante, alcuni, poco
curanti delle pene spirituali e temporali, osarono poscia di continuar
questo giuoco, contra di essi procedè la giustizia, condannandoli al
remo; nè poterono ottenere remissione dal papa, risoluto di voler
liberare i suoi popoli da sanguisuga cotanto maligna. La borsa
pontificia ne patì, ma crebbe la gloria di questo santo pontefice.
Anno di CRISTO MDCCXXVIII. Indiz. VI.
BENEDETTO XIII papa 5.
CARLO VI imperadore 18.
Finalmente nel dì 5 di febbraio dell'anno presente con molta solennità
in Modena seguì lo sposalizio della principessa _Enrichetta d'Este_
con _Antonio Farnese_ duca di Parma, di cui fu mandatario il principe
ereditario di Modena _Francesco_ fratello d'essa. Dopo molti nobili
divertimenti s'inviò la novella duchessa nel dì 7 alla volta di Parma,
dove trovò preparate suntuose feste pel suo ricevimento. Chiarito
ormai il re Cattolico _Giacomo III_ della tranquillità che si godeva
in Inghilterra, e non esservi apparenza che alcun vento propizio si
svegliasse in suo favore, sul principio del gennaio di quest'anno si
restituì a Bologna. Videsi allora la sospirata riunione di lui colla
regina _Clementina_ sua consorte, la cui incomparabil pietà e divozione
non meno stupore, che tenerezza cagionava in tutto quel popolo. E ben
ebbe la città di Bologna motivi di grande allegrezza in questi tempi,
per avere il sommo pontefice _Benedetto XIII_ nel dì 30 di aprile
pubblicato per uno dei cardinali riserbati in petto monsignor _Prospero
Lambertini_ arcivescovo di Teodosia, vescovo d'Ancona, segretario
della congregazion del concilio, e promotor della fede, di nobile ed
antica famiglia bolognese, prelato d'insigne sapere, spezialmente ne'
sacri canoni e nell'erudizione ecclesiastica. Nel qual tempo ancora
fu promosso alla sacra porpora il padre _Vincenzo Lodovico_ Gotti
parimente Bolognese, eletto già patriarca di Gerusalemme, e teologo
rinomato per varii suoi libri dati alla luce. Noi vedremo, andando
innanzi, portato il primo di essi dal raro suo merito alla cattedra di
san Pietro.
Durava tuttavia la spinosa pendenza, fra la corte pontifizia e quella
di Lisbona, per la pretensione mossa da quel re di voler promosso
alla dignità cardinalizia, il nunzio apostolico _Bichi_, prima che
egli si partisse da Lisbona, e nei presenti tempi maggiormente si
vide incalzato il santo padre dai ministri portoghesi su questo
punto. A tante pressure di quel re, stranamente forte in ogni suo
impegno, avrebbe facilmente condisceso il buon pontefice, siccome
quegli che cercava la pace con tutti. Ma costituita sopra questo
affare una congregazion di cardinali, alla testa de' quali era il
cardinal Coradini, uomo di gran petto, fu risoluto di non compiacere
quel monarca, perchè niuno metteva in disputa che il principe possa,
quando e come vuole, richiamare i suoi ministri dalle corti altrui;
nè si dovea permettere un esempio di tanta prepotenza in pregiudizio
dell'avvenire. A tal determinazione il mansueto pontefice si accomodò,
ed attese più che mai a dar nuovi santi alla Chiesa di Dio, e ad
esercitarsi nelle consuete sue azioni pastorali. Ma se n'ebbe forte
a dolere il popolo romano, perchè tanto il _cardinal Pereira_ che
l'ambasciatore di quel re, e i prelati portoghesi, anzi qualsivoglia
persona di quella nazione, ebbero ordine di levarsi da Roma, e da
tutto lo Stato ecclesiastico, e di tornarsene in Portogallo. Il che fu
eseguito, seccandosi con ciò una ricca fontana di oro che scorrea per
tutta Roma. Parve poco questo allo sdegnato re. Comandò che uscisse
dai suoi Stati _monsignor Firrao_, da lui non mai riconosciuto per
nunzio, nè volle lasciar partire _monsignor Bichi_, tuttochè chiamato
coll'intimazion delle censure in caso di disubbidienza, e desideroso di
obbedire. Oltre a ciò, nel mese di luglio vietò a chicchessia dei suoi
sudditi il mettere piede nello Stato ecclesiastico, il cercar dignità
o benefizii dalla santa Sede, il mandare o portar danaro a Roma: con
che restò affatto chiusa la nunziatura e dateria per li suoi Stati.
Finalmente cacciò dal suo regno ogni Italiano suddito del papa, con
proibizione che alcun di essi non entrasse nei suoi territorii. Altro
ripiego non ebbe la corte romana, per tentare un rimedio a questa
turbolenza, che di raccomandarsi all'interposizione del piissimo re
Cattolico _Filippo V_, stante la buona armonia di quella corte colla
portoghese, a cagion del doppio matrimonio stabilito fra loro.
In mezzo nondimeno a sì fatti imbrogli Dio fece godere un'indicibil
consolazione per altra parte al santo pontefice. Siccome uomo di pace,
non avea ommesso uffizio o diligenza alcuna in addietro per vincere
l'animo del _cardinale di Noaglies_ arcivescovo di Parigi, fin qui
pertinace in non volere accettare la bolla _Unigenitus_. Finalmente
cotanto poterono in cuore di quel porporato le amorose esortazioni del
buon pontefice, e il concetto della di lui sanità, e l'aver questo
dichiarato che la dottrina di essa bolla non contrariava a quella
di santo Agostino, che il cardinale s'indusse ad abbracciarla. Per
l'allegrezza di questa nuova, e di una lettera tutta sommessa di quel
porporato, non potè il santo padre contenere le lagrime, e non finì
l'anno ch'egli annunziò nel sacro consistoro questo trionfo della
Chiesa, per cui il Noaglies fu ristabilito in tutti i suoi diritti e
preminenze. Due nobili bolle e molte provvisioni pubblicò nell'anno
presente l'indefesso pontefice pel buon regolamento della giustizia,
affin di troncare il troppo pernicioso allungamento delle liti,
e levare molti altri abusi del foro, degli avvocati, procuratori,
notai ed archivii: regolamenti, i quali sarebbe da desiderare che
si estendessero ad ogni altro paese, e, quel che importa, che si
osservassero; perciocchè ordinariamente non mancano buone leggi, ma
ne manca l'osservanza, e chi abbia zelo per questo. Da molti anni si
trovavano in grande scompiglio i tribunali ecclesiastici della Sicilia
a cagion di quella appellata monarchia, abolita da papa _Clemente
XI_. Facea continue istanze l'imperador Carlo VI che si mettesse fine
a questo litigio; e il santo padre, amantissimo della concordia con
ognuno, vi condiscese con pubblicare nel dì 30 d'agosto una bolla e
concordia, che risecò gli abusi introdotti in quel regno, e prescrisse
la maniera di trattar quivi e definir le cause ecclesiastiche in
avvenire.
Comparvero in questi tempi i potentati Cristiani dell'Europa tutti
vogliosi di stabilire una pace universale. La sola Spagna quella era
che teneva questo gran bene pendente per le sue pretensioni contro
gl'Inglesi, e per alcune difficoltà nell'effettuare quanto era stato
accordato all'_infante don Carlo_, spettante alla successione in
Italia della Toscana e di Parma e Piacenza. Non la sapeva intendere
il gran duca _Giovanni Gastone_, che vivente lui si avesse a mettere
presidio straniero nei suoi dominii, e ricalcitrava forte. Ma da
che furono accordati i preliminari della pace, l'Augusto _Carlo VI_
nel dì 13 d'aprile rilasciò ordini vigorosi, comandando a' popoli
della Toscana di ricevere e riconoscere il suddetto _don Carlo_ per
principe ereditario, e di prestargli quella sommessione ed ubbidienza
che occorreva, senza pregiudizio del vivente gran duca, affinchè,
estinguendosi la linea mascolina dei gran duchi, fosse sicuro il real
principe di prenderne il pieno desiderato possesso, cessando intanto la
disposizione fatta di quegli Stati dal gran duca _Cosimo III_ in favore
della vedova _elettrice palatina_ sua figlia. In vigore dunque di
tali premure si aprì dipoi un congresso dei plenipotenziarii di tutte
le potenze in Soissons, per ismaltire ogni altro punto concernente
la progettata pace, avendo il _cardinale di Fleury_, primo ministro
del re di Francia, desiderato quel luogo vicino a Parigi per teatro
di sì importante affare, a fine di potervi intervenire anch'egli in
persona, e recare più possente influsso alla concordia. Il bello fu
che quei ministri più si lasciavano vedere alle conferenze in Parigi
che in Soissons, per minore incomodo del cardinale, direttor di ogni
risoluzione. Fu in questi tempi dall'imperadore dichiarata Messina
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