Annali d'Italia, vol. 7 - 08
credere che di molta importanza fosse quella fortezza, perchè la Porta
ordinò che si facesse ogni sforzo per ricuperarla. Raunato ch'ebbe
un esercito, il saraschiere ne imprese l'assedio. Fu ben ricevuto dal
vigoroso presidio cristiano, e formò bensì egli le trincee, ma da più
d'una sortita degli assediati furono queste rovesciate: laonde, dopo
la perdita di molta gente, si vide obbligato a ritirarsi, con lasciare
sul campo molti attrezzi militari. Ridussero poscia i Veneti alla loro
ubbidienza un'altra ben forte rocca appellata Clobuch. Ma non passò
gran tempo che i Turchi, più che mai vogliosi di torre Citclut dalle
mani de' cristiani, vi tornarono sotto con oste più poderosa. Neppur
questa volta trovarono propizia la fortuna, e con poco lor gusto
dovettero sloggiare di là. La più utile nondimeno e gloriosa impresa
fatta da' Veneziani nell'anno presente, fu l'acquisto della rinomata
isola di Scio. Dacchè giunsero ad unirsi colla veneta armata navale
le galee pontifizie e maltesi, _Antonio Zeno_, dichiarato capitan
generale, sciolse le vele a quella volta, e nel dì 8 di settembre
vi fece lo sbarco. La città dominante di quell'isola porta lo stesso
nome di Scio; intorno ad essa accampatosi l'esercito cristiano, diede
principio alle offese. I vescovi latino e greco, già abitanti in
quella città, n'erano usciti. Non più di otto giorni ebbero a faticar
le artiglierie e le mine per prendere il castello di mare, e mettere
sì fatto spavento in quegli Ottomani, che la stessa città con più di
cento cannoni di bronzo e con tutti gli schiavi venne in poter de'
Veneti. Che deliziosa, che fruttifera isola sia quella, e massimamente
pel privilegio di produrre il mastice, è assai noto; e però di grandi
allegrezze si fecero in Venezia per così vantaggiosa conquista.
Nell'Ungheria troppo tardi uscirono in campagna i Tedeschi sotto il
comando del maresciallo di campo _conte Caprara_; niuna impresa si fece
degna di memoria, a riserva dell'acquisto di Giula, piazza di non lieve
momento verso le frontiere della Transilvania.
Nel Piemonte le nemiche armate si andarono in quest'anno guatando di
mal occhio, ma senza che alcuna d'esse si sentisse voglia di venire
alle mani. Solamente fu sempre più stretto il blocco da gran tempo
cominciato di Casale di Monferrato, e in quelle vicinanze tolto fu ai
Franzesi il forte di San Giorgio. Venuto l'autunno, tutte le truppe
tedesche si scaricarono di nuovo sui paesi de' principi italiani, con
avere intimato il _conte Prainer_, commessario generale di Cesare,
secondo il solito, insoffribili contribuzioni. A costui da lì a poco la
morte anch'essa intimò di sloggiare dal mondo, e di dar fine alle sue
estorsioni. Tante nondimeno furono le doglianze portate alla corte di
Vienna, che mosso a pietà l'_Augusto Leopoldo_ ordinò che si sminuisse
il rigore di tanti aggravii; ma non già per _Ferdinando Carlo duca_
di Mantova, di cui si dichiaravano mal soddisfatti i Tedeschi, perchè
creduto di genio franzese. Non poteano essi sofferire che dimorasse
in Mantova il signor Duprè inviato del re Cristianissimo; però
oppressero con aggravii i di lui sudditi, senza riguardo veruno agli
ecclesiastici; e inoltre il generale cesareo _conte Palfi_, coll'abbate
Rainoldi residente del re Cattolico, gli intimò di licenziare esso
inviato franzese, e tre suoi proprii principali ministri, creduti
fomentatori del di lui genio, entro il termine di quindici giorni,
minacciando gravi ostilità se non ubbidiva. Ebbe il duca un bel dire,
un bel gridare: gli convenne inghiottir la pillola, e congedare chi
non piaceva alle corti di Vienna e di Madrid. Giacchè non potea reggere
alla gotta, che passò al petto, _Francesco II d'Este_ duca di Modena e
Reggio, nel dì 6 di settembre dell'anno presente terminò la carriera
del suo vivere, compianto da' sudditi suoi, perchè amorevolissimo e
giusto principe, sotto di cui aveano goduto de' lieti giorni, siccome
può vedersi nelle mie Antichità Estensi. Perchè non produsse alcun
frutto il suo matrimonio colla principessa _Margherita Farnese_, a
lui succedette nel governo di questo ducato il _principe Rinaldo_ suo
zio paterno, allora cardinale, che poi nell'anno seguente rinunziò
la sacra porpora, ed assunse il titolo di duca. Fu parimente chiamata
da Dio a miglior vita nel dì 6 di marzo _Vittoria della Rovere_, già
moglie di _Ferdinando II de Medici_, gran duca di Toscana, principessa
impareggiabile per le tante sue belle doti. Venne anche a morte nel
dì 11 di dicembre dell'anno presente _Ranuccio II Farnese_ duca di
Parma e Piacenza, uomo de' vecchi tempi, principe di buon cuore, pio,
generoso e pieno di lodevoli massime, e pure più tosto temuto che amato
da' sudditi suoi. Lasciò di belle memorie nella città di Parma, e nel
suo ducal palazzo, e un nome degno di vivere anche ne' secoli venturi.
Era premorto a lui nel dì 5 di settembre dell'anno precedente 1693 il
_principe Odoardo_ suo primogenito, soffocato, per dir così, dalla sua
esorbitante grassezza; e questi dalla principessa _Dorotea Sofia di
Neoburgo_ sua consorte avea ricavato un figlio per nome _Alessandro_,
che fu rapito dalla morte nel suddetto precedente anno. Di esso Odoardo
solamente restò una principessa per nome _Elisabetta_, nata nel dì 25
d'ottobre del 1690, oggidì gloriosa regina di Spagna. Altri due figli
viventi lasciò il duca Ranuccio II, cioè _Francesco_ ed _Antonio_, il
primo de' quali succedette al padre nel ducato, e nell'anno seguente
con dispensa pontificia sposò la suddetta principessa Dorotea sua
cognata. Funestissimo riuscì quest'anno al regno di Napoli per un
furioso tremuoto, non inferiore a quel di Sicilia dell'anno precedente.
Seguì nel dì 8 di settembre lo scotimento suo. Nella città di Napoli
incredibil fu lo spavento, e il danno si ridusse solamente alla
scompaginatura di molti palazzi, chiese, monisteri e case. Ma in terra
di Lavoro alcune castella e villaggi andarono per terra. In Ariano e
Avellino assaissime persone perirono, e quasi tutte le case caddero.
Nella città Capoa, di Vico, Cava, e massimamente in Canosa, Conza
ed altre parti, si patì gran rovina di edifizii, accompagnata dalla
perdita di molte anime. Anche a quegl'infelici paesi si stese la mano
misericordiosa e limosiniera del romano pontefice. Questo infortunio
cagion fu che il vicerè di Napoli non potesse poi inviare quel rinforzo
di genti e danari, per cui tante premure gli venivano fatte dall'armata
collegata in Piemonte.
Anno di CRISTO MDCXCV. Indizione III.
INNOCENZO XII papa 5.
LEOPOLDO imperadore 38.
Non si stancava il magnanimo papa _Innocenzo XII_ di pensar tuttodì
a sempre nuovi ed utili regolamenti per ben della Chiesa e de' suoi
Stati. Aveva egli proposto di mettere freno al soverchio lusso di Roma,
che, oltre all'impoverir le famiglie, portava fuori delle contrade
ecclesiastiche immense somme di danaro. A questo grandioso disegno
trovò egli, più di quel che pensava, delle gagliarde opposizioni, a
cagion de' forestieri che capitano a Roma, e per li contrarii maneggi
non men segreti che pubblici de' Franzesi, soliti a profittar della
troppa bontà per non dir balordaggine degl'Italiani, i quali provveduti
dalla natura di quanto può bisognare al loro nobile trattamento,
invasati della novità delle mode, e più che d'altro vaghi delle
manifatture oltramontane, pagano eccessivi tributi a' principi non
suoi. Un'altra insigne impresa si propose il vigilantissimo pontefice,
cioè la riforma di certi ordini religiosi (e non erano pochi) scaduti
dall'antica lor santa disciplina, e divenuti delle lor regole poco
osservanti, spezialmente del voto della povertà. Qui ancora, più
che nell'altra, si scoprirono difficoltà senza fine, ripugnando chi
già era ammesso in quegli ordini a mutar maniera di vivere, e ad
accettar la vita comune, perchè diceano di esser sottomessi a quelle
regole, non quali furono nei tempi antichi, ma colle interpretazioni
ed usanze del loro secolo. Ordinò pertanto il pontefice che non
s'inquietassero i già arrolati sotto quelle bandiere, ma che niuno
in avvenir si ammettesse senza professare la riforma prescritta
dalla congregazione deputata da sua santità, in cui fra gli altri
monsignor Fabroni, che fu poi promosso alla sacra porpora, personaggio
zelantissimo, ebbe la disgrazia di tirarsi addosso l'indignazione e
l'odio di moltissimi cappucci. Furono anche destinati per ciascun
de' suddetti ordini rilassati due conventi, nei quali si facesse
il noviziato e si osservasse il rigore suddetto. Il tempo fece poi
conoscere che un _Lodovico XIV re_ di Francia seppe ben introdurre la
riforma nei religiosi claustrali del suo regno; ma Roma non arrivò
a tanto in Italia. Patì quella città nel verno del presente anno
un'inondazione del Tevere, che si stese per le campagne, col danno
di non poche fabbriche e di molto bestiame, e con servire di veicolo
ad una epidemia che dipoi sopraggiunse. Diede questa disgrazia al
santo padre motivo di maggiormente esercitare la sua carità verso la
povera gente che si rifugiò per soccorso in Roma. Inoltre, nel dì 10
di giugno un orribil tremuoto riempiè di terrore e danno il Patrimonio
e i paesi circonvicini. Bagnarea andò tutta per terra con perdita di
molte persone. Quasi interamente restò smantellato Celano, Orvieto,
Toscanella, Acquapendente, ed altre terre e ville di quei contorni
risentirono gran danno. Il lago di Bolzena, alzatosi due picche, inondò
per tre miglia all'intorno il paese. Non fu men funesto un altro simile
tremuoto che si sentì nella marca trivigiana nel dì 25 di febbraio.
Nella sola terra d'Asolo rimasero dai fondamenti distrutte mille e
cinquecento case; più di altre mille e ducento inabitabili; i templi
colle lor torri diroccati; molti uomini colle lor famiglie seppelliti
sotto le rovine.
Questa sciagura parve un prognostico di molte altre che nell'anno
presente afflissero non poco la veneta repubblica. Per la perdita della
riguardevole isola e città di Scio si era inferocita la Porta, e fin
nell'anno addietro avea ammannita gran copia di legni e di gente per
ricuperarla. Con questa flotta, condotta dal saraschiere, nel dì 8 di
febbraio, prima che approdasse a Scio, determinò il capitan generale
_Antonio Zeno_ di misurar le sue forze; ma furono poco ben prese le
misure; laonde cantarono la vittoria i Turchi, e malconcie ne restarono
le navi e le galee venete. Fu cagione sì sinistro colpo, ed un altro
appresso, che Scio si rilasciasse alla discrezion de' musulmani con
incredibil dolore de' cristiani abituati in quel delizioso paese, che
tutti elessero un volontario esilio per non soggiacere alla vendetta e
rabbia de' Turchi. Al capitan general Zeno, imputato di mala condotta,
siccome ancora a Pietro Quirini provveditore ordinario, toccò di finire
i lor giorni in carcere. Rimasero altri assoluti, ma dopo una prigionia
di tre anni. _Alessandro Molino_ venne poi creato capitan generale.
Seguirono ancora ne' mesi seguenti altre lievi battaglie tanto in
mare che sotto Argo, nelle quali maggior fu la perdita degl'infedeli
che de' cristiani, ma senza che alcun di questi vantaggi compensasse
il gravissimo danno patito per l'abbandonamento di Scio. Del pari in
Ungheria si mutò la ruota della fortuna. Avea l'_Augusto Leopoldo_
ottenuti otto mila Sassoni dall'elettore _Federigo Augusto_, il quale
col titolo di generalissimo delle armi cesaree s'era indotto a passare
in persona contro de' Turchi. Solamente ai 10 d'agosto pervenuto esso
elettore al campo, quivi trovò i marescialli _Caprara_ e _Veterani_,
e l'altra uffizialità con cinquanta mila guerrieri alemanni, oltre
ad alcune migliaia di milizie unghere. Avrebbe ognun creduto che con
sì fiorito esercito avessero i cristiani a far prodigii in quelle
parti. Trovarono essi lo stesso gran signore Mustafà venuto in persona
a dar calore alla poderosa sua armata, con cui sperava anch'egli di
operar gran cose. In poche parole, i Turchi occuparono Lippa, e la
smantellarono. Poco tempo ancora spesero ad impadronirsi della forte
piazza di Titul; e trovato il suddetto _conte Federico Veterani_
maresciallo, staccato con sette mila bravi Tedeschi dal grosso
dell'esercito per coprire la Transilvania, l'andarono ad assalir con
tutte le lor forze, e v'era in persona lo stesso Sultano. La difesa
che fece questo valoroso comandante per più ore contro quel torrente
d'armati, fu delle più gloriose che mai si udissero, e costò la vita
a più di quattro mila Turchi. Sopraffatto in fine dall'esorbitante
superiorità de' nemici il prode generale, con buona ordinanza si
ritirò; ma coprendo in persona la retroguardia, riportò varie ferite;
e perchè condotto via s'incagliò in una palude il cavallo, in cui
era sostenuto, quivi restò poi trucidato dai musulmani. Anche Lugos
e Caransebes caddero in mano di quegl'infedeli: con che nell'anno
presente ebbe fine la sventurata campagna degl'imperiali in Ungheria.
Osservavasi oramai in Italia una più che mai prossima disposizione
e risolutezza di _Vittorio Amedeo_ duca di Savoia, del _marchese di
Leganes_ governatore di Milano, e de' comandanti cesarei, per cacciar
da Casale di Monferrato i Franzesi. Era quella forte città, con un
castello e con una molto più forte cittadella, come spina continua
nel cuore degli Spagnuoli e del duca di Savoia, per la vicinanza de'
loro Stati. L'aveano essi tenuta bloccata da gran tempo; ma da che
ebbero concertato coll'ammiraglio inglese _Russel_ di tenere a bada
il _maresciallo di Catinat_ colla sua potente flotta, che minacciava
ora Nizza ed ora la Provenza, il duca e il marchese suddetto col
_principe Eugenio di Savoia_, e col _millord Gallowai_ generale
delle milizie pagate dall'Inghilterra, si presentarono coll'armata
collegata verso la metà di giugno davanti ad esso Casale. Nel dì 26
del medesimo mese venendo il dì 27 fu aperta la trinciera tanto contro
la città che contro la cittadella. Ancorchè il _marchese di Crenant_
facesse una gagliarda difesa, pure meravigliosa cosa parve che dopo
soli dodici giorni di offese, e colla perdita di soli secento soldati
dalla parte degli assedianti, egli si vedesse obbligato ad esporre
bandiera bianca. Fu segnata la capitolazione della resa nel dì 9 di
luglio; ed accordato che si demolissero le fortificazioni della città,
del castello e della cittadella; e che, terminato l'atterramento, ne
uscisse la guernigion franzese con tutti gli onori militari, otto pezzi
di cannone e quattro mortari; e che tornasse quella città in pieno
dominio del duca di Mantova, come era ne' tempi andati. Restò eseguita
la capitolazione, e tolto dalle viscere della Lombardia quel mantice
di discordie e d'incendii. Si trovarono nella città settanta pezzi
d'artiglieria di bronzo, nel castello ventotto, e nella cittadella
cento venti. Per sì felice impresa in Milano e Torino gran festa si
fece, ed essendo solamente nel dì 18 di settembre usciti i Franzesi
di Casale, non s'impegnarono l'armi cesaree in alcun'altra azione, ed
unicamente pensarono a ristorar le truppe ne' quartieri d'inverno. Non
si potè intanto levar di capo a certi politici, che in quell'assedio
si sparassero dagli assediati i cannoni senza palle, e che quella
impresa fosse concertata fra il saggio duca di Savoia e la corte di
Francia; la qual ultima, se restò priva di una buona fortezza, ne privò
anche d'essa l'avidità degli Spagnuoli, perchè, facendo rendere Casale
al duca di Mantova, deluse le speranze di quei che probabilmente lo
desideravano, e poteano pretenderlo a titolo di acquisto. Nè si vuol
tacere che nel dì 9 di settembre del presente anno in Roma terminò i
suoi giorni il cavaliere Gian-Francesco Borri Milanese in castello
Sant'Angelo. S'era egli meritata quella prigione per essere stato
eretico visionario anzi autore di una setta, che appena nata ebbe
fine, e solennemente fu da lui abiurata. In essa Roma, in Milano ed in
altre città d'Italia, e in Inspruch, Amsterdam, Amburgo, Copenaghen,
ed altri luoghi dell'Olanda e Germania, fece egli risuonare il suo
nome, spacciando miracoli segreti, e spezialmente quello che tanto
adesca alcuni troppo corrivi privati, e talvolta i principi stessi,
con votar d'oro le borse loro, ed empierle di fumo. A lui si ricorreva
come a medico universale per ogni sorta di malattia, e fin da Parigi
si vedeano passar nobili malati ad Amsterdam per isperanza d'essere
guariti da lui. Gran figura aveva egli fatto in quella città col
magnifico equipaggio, e trattato col titolo di eccellenza. In una
parola, trovossi in lui un chimico creduto impareggiabile, un gran
ciarlatano, e per conseguente un bravo trafficante della semplicità de'
mortali.
Anno di CRISTO MDCXCVI. Indizione IV.
INNOCENZO XII papa 6.
LEOPOLDO imperadore 39.
Non rallentava il buon pontefice _Innocenzo XII_ i suoi sospiri e
le sue premure per rimettere la pace fra i principi cristiani; e, a
fin d'impetrarla colle preghiere da Dio, pubblicò sul fine dell'anno
precedente un giubileo, che nel presente per tutta l'Italia fu preso.
Non lasciò ancora di eccitare i principi cattolici alla concordia,
con inviar loro nuove paterne lettere; e spezialmente ne fece premura
a _Vittorio Amedeo_ duca di Savoia, il cui impegno avea tirato in
Italia tanti imitatori de' Goti e de' Vandali a spolpare i miseri
popoli. Sempre sono e saran da lodare le sante intenzioni dei romani
pontefici per questo fine; ma l'interesse, che è il cominciator
delle guerre, quello è ancora che le finisce. Che nondimeno il saggio
pontefice s'internasse ancora in segreti maneggi per accordare il re
Cristianissimo col duca di Savoia, comunemente fu creduto per quel
che poscia accadde. Ed appunto questo principe si vide fare nel marzo
del presente anno un viaggio alla santa casa di Loreto a titolo di
divozione. La gente maliziosa, che non credeva cotanto divoto quel
principe da scomodarsi per andar sì lontano ad implorar la protezion
della Vergine, si figurò piuttosto che sotto il manto della pietà si
coprisse un segreto abboccamento con qualche persona incognita intorno
a' suoi affari (e questa fu, per quanto portò la fama, un ministro
franzese travestito da religioso) giacchè sono talvolta ridotti i
principi a somiglianti ripieghi, per deludere i ministri esteri che
vanno spiando ogni menomo loro andamento e parola nelle corti. Spedì
ancora in questo anno il pontefice le sue galee unite a quelle di Malta
in soccorso de' Veneziani; e sul principio di maggio, al dispetto dei
medici, volle portarsi a Cività Vecchia, per visitar quel castello,
quegli acquedotti e le fabbriche ivi fatte, giacchè gli stava fitto in
capo il pensiero di fare di essa città un porto franco, libero ad ogni
nazione, fuorchè ai Turchi. Per varie ragioni, e per le segrete mene
del gran duca di Toscana, riuscì poi vano un siffatto disegno. Quanto
ai Veneziani, perchè stava loro sul cuore la fortezza di Dolcigno,
situata in Albania sopra una rupe inaccessibile, siccome infame nido di
corsari infestatori dell'Adriatico, ne fu da essi risoluto l'assedio.
Per quanto operassero i cristiani con varii assalti, con alquante mine,
e con rispignere due volte i soccorsi inviati dai Turchi, a nulla
servirono i loro sforzi, e però convenne ritirarsi. Andò intanto il
capitan generale _Molino_ colla sua flotta in traccia dell'ottomana,
condotta dal Mezzomorto capitan bassà ed ammiraglio. Nel dì 9 d'agosto
furono a vista le due nemiche armate, e già la veneta s'era tutta messa
in ordinanza per venire a battaglia, quando si scoprì non accordarsi
a questo giuoco l'astuto Mezzomorto, al quale non mancò mai l'arte di
tenere a bada i cristiani, e di sempre sfuggire il combattimento. Così
senza alcun vantaggio, e insieme senza danno alcuno, se la passarono
i Veneziani in Levante per tutto quest'anno; ma con gravi lamenti di
quel senato, veggendo inutilmente impiegati tanti convogli e tesori in
quelle parti.
Cominciò in questi tempi a fare risonar il suo nome _Pietro
Alessiovitz_ czaro della Russia, che divenne poi col tempo incomparabil
eroe, con aver tolto a' Turchi sul Tanai l'importante città e fortezza
di Asac, ossia Asof. Propose quel principe con gran calore di entrare
in lega con Cesare e co' Veneziani ai danni del comune nemico, e
infatti ne furono stabiliti i capitoli in Vienna. Non dissimile dalla
fortuna de' Veneti fu quella degl'imperiali in Ungheria nell'anno
presente. Si portò alla forte cesarea armata di nuovo l'_elettor di
Sassonia_ col titolo di supremo comandante; la direzion nondimeno
delle militari operazioni era appoggiata a un capo di maggiore
sperienza, cioè al maresciallo _conte Caprara_. Ma che? In quelle
contrade comparve ancora di bel nuovo il sultano in persona, bramoso di
segnalarsi in qualche impresa. Conduceva anch'egli una potente armata,
qual si conveniva ad un pari suo. Invece dunque di accudire alla
premeditata idea dell'assedio di Temiswar, o di Belgrado, nel consiglio
militare fu preso il partito di provocare a battaglia i nemici. Si
trovò attorniato da paludi e ben trincierato l'esercito musulmano, nè
la furia delle cannonate potè muoverli ad uscire all'aperta campagna.
Solamente seguirono alcune calde scaramucce, nelle quali il commissario
generale _Heisler_ valorosamente combattendo lasciò la vita, e qualche
migliaio di soldati dall'una e dall'altra parte perì. Ritiraronsi
poscia i Turchi, e senz'altro onore anche le milizie cristiane vennero
ripartite ai quartieri. Assai curiosa, ma non già inaspettata, fu la
scena che si rappresentò sul teatro del Piemonte nell'anno presente.
Troppo rincresceva oramai alla Francia la guerra del Piemonte, perchè
più dispendiosa di tutte le altre, dovendosi mandar tutto per montagne
in Italia, e non potendo l'armata godere del privilegio di ballare
e nutrirsi sul paese nemico. Alla riflessione del troppo impegno e
dispendio si aggiunsero i premurosi impulsi del pontefice _Innocenzo
XII_, commosso a pietà spezialmente verso i principi d'Italia,
sì maltrattati dalle sanguisughe tedesche in occasione di questa
guerra. Però il re Cristianissimo _Luigi XIV_ tali esibizioni fece a
_Vittorio Amedeo_ duca di Savoia, che questo principe segretamente
entrò in trattato, e coll'accortezza, che in lui fu mirabile, ne
carpì dell'altre vantaggiose condizioni. Leggesi presso varii autori
il trattato di pace sottoscritto nel dì 29 d'agosto di quest'anno
dal _conte di Tessè_ luogotenente generale franzese, e dal _marchese
di San Tommaso_, primo ministro del duca suddetto; certo essendo
nondimeno che alcuni mesi prima era stabilito il concordato fra loro.
I principali punti di esso accordo furono che in vigor d'essa pace il
re Cristianissimo restituiva al duca tutti gli Stati a lui occupati
della Savoia, di Nizza e Villafranca; e inoltre gli cedeva Pinerolo
co' forti di Santa Brigida ed altri, con che se ne demolissero tutte
le fortificazioni; e finalmente, che seguirebbe il matrimonio di _Maria
Adelaide_ principessa di Savoia, primogenita di sua altezza reale, con
_Luigi duca di Borgogna_ primogenito del Delfino, allorchè fossero in
età competente; e che intanto essa principessa passerebbe in Francia,
per essere ivi allevata alle spese del re. Vi ha chi scrive promessi
anche quattro milioni di franchi al duca dal re Cristianissimo per
compenso de' danni sofferti, ma con obbligo di tenere in piedi a spese
del re otto mila fanti e quattro mila cavalli, qualora i collegati
ricusassero di abbracciar quel trattato.
Accordate in questa maniera le pive, inviò il re Cristianissimo nella
primavera qualche reggimento di più del solito al _maresciallo di
Catinat_, il quale fece anche spargere voce di aver forze maggiori,
e minacciava anche di rovinar Torino colle bombe. Mostravane il duca
grande apprensione e paura, per colorir le risoluzioni prese e da
prendersi; quando spedite furono da esso maresciallo per mezzo d'un
trombetta le vantaggiose condizioni che il _re Luigi XIV_ offeriva
al duca _Vittorio Amedeo_ per la pace di Italia. Andarono innanzi e
indietro proposte e risposte; e finalmente restò accordata fra loro
una sospension d'armi per quaranta giorni, cioè per tutto il mese
d'agosto, che fu poi anche prorogata sino al dì 16 di settembre, a fin
di proporre alle corti alleate la neutralità d'Italia sino alla pace
generale. Comunicata questa ai ministri di Cesare, della Spagna ed
Inghilterra, esistenti in Torino, niun d'essi v'acconsentì; ma il duca
come generalissimo lo volle. Allorchè giunse alle corti questa novità,
si proruppe in gravi schiamazzi, e furono spedite esibizioni gagliarde
al duca di Savoia, per mantenerlo in fede. Ma egli, che non isperava
di acconciar sì felicemente i proprii interessi colla continuazion
della guerra, come facea colla particolar sua pace coi Franzesi,
stette saldo nel suo proposito. Inclinavano veramente gli Spagnuoli
ad accettare la tregua, perchè scarsi di danaro, e con gli Stati
esposti all'irruzion de' nemici, e nemici che con l'union del duca
divenivano tanto superiori di forze; ma non mirando mai venire alcuna
decisiva risposta dalle potenze confederate, attendeva il marchese
di Leganes solamente a ben presidiare e fortificare le frontiere del
ducato di Milano. Intanto, prima che spirasse il termine dell'accordata
sospension d'armi, il maresciallo di Catinat fece nel dì 5 di settembre
sfilar la sua armata, e, passato il Po, andò a trincierarsi in Casale
di Monferrato. Spirato esso termine, senza che la neutralità fosse
abbracciata dai collegati, eccoti unirsi le truppe di Savoia con quelle
di Francia, formando un esercito di circa cinquanta mila persone.
Ed ecco chi il giorno innanzi era generalissimo dell'armi collegate
in Italia, uscire in campo nel dì seguente generalissimo dell'armi
franzesi contra d'essi collegati, e nel dì 18 di settembre cignere
d'assedio Valenza.
Mi trovava io allora in Milano, e mi convenne udire la terribil
sinfonia di quel popolo contro il nome, casa e persona di quel sovrano,
trattando lui da traditore, e come reo di nera ingratitudine, che si
fosse servito di tanto sangue e tesoro degli alleati per accomodare i
soli suoi interessi, con altre villanie che io tralascio. Ma d'altro
parere si trovavano le persone assennate, considerando che egli, dopo
aver liberato lo Stato di Milano dalla dura spina di Casale, ora,
stante la cession di Pinerolo e la ricupera dei suoi stati, serrava in
buona parte la porta dell'Italia ai Franzesi: con che si scioglievano
i ceppi non meno suoi che del medesimo Stato di Milano. Se in quel
bollare di passioni non riconobbe la gente questo benefizio, poco
stette ad avvedersene; e tanto più perchè, era incerto se, proseguendo
la guerra, si fosse potuto ottenere tanto vantaggio. Certamente tutti
i principi d'Italia fecero plauso alla animosa risoluzione del duca
Vittorio Amedeo, non già che piacesse loro il vedere quasi chiuso in
avvenire il passo in Italia all'armi franzesi per tutti i loro bisogni
(e dico quasi, perciocchè restarono ai Franzesi le Fenestrelle, che
essi poi fortificarono), ma perchè si veniva a smorzare un incendio che
li avea malamente scottati tutti per l'insoffribile ed ingiusta avidità
e violenza de' Tedeschi in succiare il sangue degli infelici popoli.
Continuava intanto con vigore l'assedio di Valenza, e già quella piazza
si accostava all'agonia, quando il _conte di Mansfeld_ plenipotenziario
dell'imperadore, e il _marchese di Leganes_ governator di Milano, per
evitar mali maggiori, si diedero per vinti, ed accettarono l'esibita
neutralità. In Vigevano nel dì 7 di ottobre fu stabilito l'accordo
con obbligarsi Tedeschi e Franzesi di evacuare quanto prima l'Italia.
Ma perciocchè ai Tedeschi troppo disgustoso riusciva il dire addio
ad un paese, dove aveano trovato alle spese altrui tante dolcezze, e
gridavano per le paghe ritardate, e inoltre per l'avanzata stagione
non si voleano muovere: altro ripiego non si trovò che di promettere
loro ben più di trecento mila doble, compartendo questo aggravio sopra
i principi d'Italia, cioè settantacinque mila doble al gran duca di
Toscana, al duca di Mantova quaranta mila, altrettante al duca di
Modena, trentasei mila al duca di Parma, quaranta mila ai Genovesi; al
Monferrato venticinque mila, ai Lucchesi trenta mila; a Massa quindici
mila, al principe Doria sei mila, a Guastalla cinque mila, e il resto
agli altri minori vassalli dell'imperio. Doveansi immediatamente pagare
ordinò che si facesse ogni sforzo per ricuperarla. Raunato ch'ebbe
un esercito, il saraschiere ne imprese l'assedio. Fu ben ricevuto dal
vigoroso presidio cristiano, e formò bensì egli le trincee, ma da più
d'una sortita degli assediati furono queste rovesciate: laonde, dopo
la perdita di molta gente, si vide obbligato a ritirarsi, con lasciare
sul campo molti attrezzi militari. Ridussero poscia i Veneti alla loro
ubbidienza un'altra ben forte rocca appellata Clobuch. Ma non passò
gran tempo che i Turchi, più che mai vogliosi di torre Citclut dalle
mani de' cristiani, vi tornarono sotto con oste più poderosa. Neppur
questa volta trovarono propizia la fortuna, e con poco lor gusto
dovettero sloggiare di là. La più utile nondimeno e gloriosa impresa
fatta da' Veneziani nell'anno presente, fu l'acquisto della rinomata
isola di Scio. Dacchè giunsero ad unirsi colla veneta armata navale
le galee pontifizie e maltesi, _Antonio Zeno_, dichiarato capitan
generale, sciolse le vele a quella volta, e nel dì 8 di settembre
vi fece lo sbarco. La città dominante di quell'isola porta lo stesso
nome di Scio; intorno ad essa accampatosi l'esercito cristiano, diede
principio alle offese. I vescovi latino e greco, già abitanti in
quella città, n'erano usciti. Non più di otto giorni ebbero a faticar
le artiglierie e le mine per prendere il castello di mare, e mettere
sì fatto spavento in quegli Ottomani, che la stessa città con più di
cento cannoni di bronzo e con tutti gli schiavi venne in poter de'
Veneti. Che deliziosa, che fruttifera isola sia quella, e massimamente
pel privilegio di produrre il mastice, è assai noto; e però di grandi
allegrezze si fecero in Venezia per così vantaggiosa conquista.
Nell'Ungheria troppo tardi uscirono in campagna i Tedeschi sotto il
comando del maresciallo di campo _conte Caprara_; niuna impresa si fece
degna di memoria, a riserva dell'acquisto di Giula, piazza di non lieve
momento verso le frontiere della Transilvania.
Nel Piemonte le nemiche armate si andarono in quest'anno guatando di
mal occhio, ma senza che alcuna d'esse si sentisse voglia di venire
alle mani. Solamente fu sempre più stretto il blocco da gran tempo
cominciato di Casale di Monferrato, e in quelle vicinanze tolto fu ai
Franzesi il forte di San Giorgio. Venuto l'autunno, tutte le truppe
tedesche si scaricarono di nuovo sui paesi de' principi italiani, con
avere intimato il _conte Prainer_, commessario generale di Cesare,
secondo il solito, insoffribili contribuzioni. A costui da lì a poco la
morte anch'essa intimò di sloggiare dal mondo, e di dar fine alle sue
estorsioni. Tante nondimeno furono le doglianze portate alla corte di
Vienna, che mosso a pietà l'_Augusto Leopoldo_ ordinò che si sminuisse
il rigore di tanti aggravii; ma non già per _Ferdinando Carlo duca_
di Mantova, di cui si dichiaravano mal soddisfatti i Tedeschi, perchè
creduto di genio franzese. Non poteano essi sofferire che dimorasse
in Mantova il signor Duprè inviato del re Cristianissimo; però
oppressero con aggravii i di lui sudditi, senza riguardo veruno agli
ecclesiastici; e inoltre il generale cesareo _conte Palfi_, coll'abbate
Rainoldi residente del re Cattolico, gli intimò di licenziare esso
inviato franzese, e tre suoi proprii principali ministri, creduti
fomentatori del di lui genio, entro il termine di quindici giorni,
minacciando gravi ostilità se non ubbidiva. Ebbe il duca un bel dire,
un bel gridare: gli convenne inghiottir la pillola, e congedare chi
non piaceva alle corti di Vienna e di Madrid. Giacchè non potea reggere
alla gotta, che passò al petto, _Francesco II d'Este_ duca di Modena e
Reggio, nel dì 6 di settembre dell'anno presente terminò la carriera
del suo vivere, compianto da' sudditi suoi, perchè amorevolissimo e
giusto principe, sotto di cui aveano goduto de' lieti giorni, siccome
può vedersi nelle mie Antichità Estensi. Perchè non produsse alcun
frutto il suo matrimonio colla principessa _Margherita Farnese_, a
lui succedette nel governo di questo ducato il _principe Rinaldo_ suo
zio paterno, allora cardinale, che poi nell'anno seguente rinunziò
la sacra porpora, ed assunse il titolo di duca. Fu parimente chiamata
da Dio a miglior vita nel dì 6 di marzo _Vittoria della Rovere_, già
moglie di _Ferdinando II de Medici_, gran duca di Toscana, principessa
impareggiabile per le tante sue belle doti. Venne anche a morte nel
dì 11 di dicembre dell'anno presente _Ranuccio II Farnese_ duca di
Parma e Piacenza, uomo de' vecchi tempi, principe di buon cuore, pio,
generoso e pieno di lodevoli massime, e pure più tosto temuto che amato
da' sudditi suoi. Lasciò di belle memorie nella città di Parma, e nel
suo ducal palazzo, e un nome degno di vivere anche ne' secoli venturi.
Era premorto a lui nel dì 5 di settembre dell'anno precedente 1693 il
_principe Odoardo_ suo primogenito, soffocato, per dir così, dalla sua
esorbitante grassezza; e questi dalla principessa _Dorotea Sofia di
Neoburgo_ sua consorte avea ricavato un figlio per nome _Alessandro_,
che fu rapito dalla morte nel suddetto precedente anno. Di esso Odoardo
solamente restò una principessa per nome _Elisabetta_, nata nel dì 25
d'ottobre del 1690, oggidì gloriosa regina di Spagna. Altri due figli
viventi lasciò il duca Ranuccio II, cioè _Francesco_ ed _Antonio_, il
primo de' quali succedette al padre nel ducato, e nell'anno seguente
con dispensa pontificia sposò la suddetta principessa Dorotea sua
cognata. Funestissimo riuscì quest'anno al regno di Napoli per un
furioso tremuoto, non inferiore a quel di Sicilia dell'anno precedente.
Seguì nel dì 8 di settembre lo scotimento suo. Nella città di Napoli
incredibil fu lo spavento, e il danno si ridusse solamente alla
scompaginatura di molti palazzi, chiese, monisteri e case. Ma in terra
di Lavoro alcune castella e villaggi andarono per terra. In Ariano e
Avellino assaissime persone perirono, e quasi tutte le case caddero.
Nella città Capoa, di Vico, Cava, e massimamente in Canosa, Conza
ed altre parti, si patì gran rovina di edifizii, accompagnata dalla
perdita di molte anime. Anche a quegl'infelici paesi si stese la mano
misericordiosa e limosiniera del romano pontefice. Questo infortunio
cagion fu che il vicerè di Napoli non potesse poi inviare quel rinforzo
di genti e danari, per cui tante premure gli venivano fatte dall'armata
collegata in Piemonte.
Anno di CRISTO MDCXCV. Indizione III.
INNOCENZO XII papa 5.
LEOPOLDO imperadore 38.
Non si stancava il magnanimo papa _Innocenzo XII_ di pensar tuttodì
a sempre nuovi ed utili regolamenti per ben della Chiesa e de' suoi
Stati. Aveva egli proposto di mettere freno al soverchio lusso di Roma,
che, oltre all'impoverir le famiglie, portava fuori delle contrade
ecclesiastiche immense somme di danaro. A questo grandioso disegno
trovò egli, più di quel che pensava, delle gagliarde opposizioni, a
cagion de' forestieri che capitano a Roma, e per li contrarii maneggi
non men segreti che pubblici de' Franzesi, soliti a profittar della
troppa bontà per non dir balordaggine degl'Italiani, i quali provveduti
dalla natura di quanto può bisognare al loro nobile trattamento,
invasati della novità delle mode, e più che d'altro vaghi delle
manifatture oltramontane, pagano eccessivi tributi a' principi non
suoi. Un'altra insigne impresa si propose il vigilantissimo pontefice,
cioè la riforma di certi ordini religiosi (e non erano pochi) scaduti
dall'antica lor santa disciplina, e divenuti delle lor regole poco
osservanti, spezialmente del voto della povertà. Qui ancora, più
che nell'altra, si scoprirono difficoltà senza fine, ripugnando chi
già era ammesso in quegli ordini a mutar maniera di vivere, e ad
accettar la vita comune, perchè diceano di esser sottomessi a quelle
regole, non quali furono nei tempi antichi, ma colle interpretazioni
ed usanze del loro secolo. Ordinò pertanto il pontefice che non
s'inquietassero i già arrolati sotto quelle bandiere, ma che niuno
in avvenir si ammettesse senza professare la riforma prescritta
dalla congregazione deputata da sua santità, in cui fra gli altri
monsignor Fabroni, che fu poi promosso alla sacra porpora, personaggio
zelantissimo, ebbe la disgrazia di tirarsi addosso l'indignazione e
l'odio di moltissimi cappucci. Furono anche destinati per ciascun
de' suddetti ordini rilassati due conventi, nei quali si facesse
il noviziato e si osservasse il rigore suddetto. Il tempo fece poi
conoscere che un _Lodovico XIV re_ di Francia seppe ben introdurre la
riforma nei religiosi claustrali del suo regno; ma Roma non arrivò
a tanto in Italia. Patì quella città nel verno del presente anno
un'inondazione del Tevere, che si stese per le campagne, col danno
di non poche fabbriche e di molto bestiame, e con servire di veicolo
ad una epidemia che dipoi sopraggiunse. Diede questa disgrazia al
santo padre motivo di maggiormente esercitare la sua carità verso la
povera gente che si rifugiò per soccorso in Roma. Inoltre, nel dì 10
di giugno un orribil tremuoto riempiè di terrore e danno il Patrimonio
e i paesi circonvicini. Bagnarea andò tutta per terra con perdita di
molte persone. Quasi interamente restò smantellato Celano, Orvieto,
Toscanella, Acquapendente, ed altre terre e ville di quei contorni
risentirono gran danno. Il lago di Bolzena, alzatosi due picche, inondò
per tre miglia all'intorno il paese. Non fu men funesto un altro simile
tremuoto che si sentì nella marca trivigiana nel dì 25 di febbraio.
Nella sola terra d'Asolo rimasero dai fondamenti distrutte mille e
cinquecento case; più di altre mille e ducento inabitabili; i templi
colle lor torri diroccati; molti uomini colle lor famiglie seppelliti
sotto le rovine.
Questa sciagura parve un prognostico di molte altre che nell'anno
presente afflissero non poco la veneta repubblica. Per la perdita della
riguardevole isola e città di Scio si era inferocita la Porta, e fin
nell'anno addietro avea ammannita gran copia di legni e di gente per
ricuperarla. Con questa flotta, condotta dal saraschiere, nel dì 8 di
febbraio, prima che approdasse a Scio, determinò il capitan generale
_Antonio Zeno_ di misurar le sue forze; ma furono poco ben prese le
misure; laonde cantarono la vittoria i Turchi, e malconcie ne restarono
le navi e le galee venete. Fu cagione sì sinistro colpo, ed un altro
appresso, che Scio si rilasciasse alla discrezion de' musulmani con
incredibil dolore de' cristiani abituati in quel delizioso paese, che
tutti elessero un volontario esilio per non soggiacere alla vendetta e
rabbia de' Turchi. Al capitan general Zeno, imputato di mala condotta,
siccome ancora a Pietro Quirini provveditore ordinario, toccò di finire
i lor giorni in carcere. Rimasero altri assoluti, ma dopo una prigionia
di tre anni. _Alessandro Molino_ venne poi creato capitan generale.
Seguirono ancora ne' mesi seguenti altre lievi battaglie tanto in
mare che sotto Argo, nelle quali maggior fu la perdita degl'infedeli
che de' cristiani, ma senza che alcun di questi vantaggi compensasse
il gravissimo danno patito per l'abbandonamento di Scio. Del pari in
Ungheria si mutò la ruota della fortuna. Avea l'_Augusto Leopoldo_
ottenuti otto mila Sassoni dall'elettore _Federigo Augusto_, il quale
col titolo di generalissimo delle armi cesaree s'era indotto a passare
in persona contro de' Turchi. Solamente ai 10 d'agosto pervenuto esso
elettore al campo, quivi trovò i marescialli _Caprara_ e _Veterani_,
e l'altra uffizialità con cinquanta mila guerrieri alemanni, oltre
ad alcune migliaia di milizie unghere. Avrebbe ognun creduto che con
sì fiorito esercito avessero i cristiani a far prodigii in quelle
parti. Trovarono essi lo stesso gran signore Mustafà venuto in persona
a dar calore alla poderosa sua armata, con cui sperava anch'egli di
operar gran cose. In poche parole, i Turchi occuparono Lippa, e la
smantellarono. Poco tempo ancora spesero ad impadronirsi della forte
piazza di Titul; e trovato il suddetto _conte Federico Veterani_
maresciallo, staccato con sette mila bravi Tedeschi dal grosso
dell'esercito per coprire la Transilvania, l'andarono ad assalir con
tutte le lor forze, e v'era in persona lo stesso Sultano. La difesa
che fece questo valoroso comandante per più ore contro quel torrente
d'armati, fu delle più gloriose che mai si udissero, e costò la vita
a più di quattro mila Turchi. Sopraffatto in fine dall'esorbitante
superiorità de' nemici il prode generale, con buona ordinanza si
ritirò; ma coprendo in persona la retroguardia, riportò varie ferite;
e perchè condotto via s'incagliò in una palude il cavallo, in cui
era sostenuto, quivi restò poi trucidato dai musulmani. Anche Lugos
e Caransebes caddero in mano di quegl'infedeli: con che nell'anno
presente ebbe fine la sventurata campagna degl'imperiali in Ungheria.
Osservavasi oramai in Italia una più che mai prossima disposizione
e risolutezza di _Vittorio Amedeo_ duca di Savoia, del _marchese di
Leganes_ governatore di Milano, e de' comandanti cesarei, per cacciar
da Casale di Monferrato i Franzesi. Era quella forte città, con un
castello e con una molto più forte cittadella, come spina continua
nel cuore degli Spagnuoli e del duca di Savoia, per la vicinanza de'
loro Stati. L'aveano essi tenuta bloccata da gran tempo; ma da che
ebbero concertato coll'ammiraglio inglese _Russel_ di tenere a bada
il _maresciallo di Catinat_ colla sua potente flotta, che minacciava
ora Nizza ed ora la Provenza, il duca e il marchese suddetto col
_principe Eugenio di Savoia_, e col _millord Gallowai_ generale
delle milizie pagate dall'Inghilterra, si presentarono coll'armata
collegata verso la metà di giugno davanti ad esso Casale. Nel dì 26
del medesimo mese venendo il dì 27 fu aperta la trinciera tanto contro
la città che contro la cittadella. Ancorchè il _marchese di Crenant_
facesse una gagliarda difesa, pure meravigliosa cosa parve che dopo
soli dodici giorni di offese, e colla perdita di soli secento soldati
dalla parte degli assedianti, egli si vedesse obbligato ad esporre
bandiera bianca. Fu segnata la capitolazione della resa nel dì 9 di
luglio; ed accordato che si demolissero le fortificazioni della città,
del castello e della cittadella; e che, terminato l'atterramento, ne
uscisse la guernigion franzese con tutti gli onori militari, otto pezzi
di cannone e quattro mortari; e che tornasse quella città in pieno
dominio del duca di Mantova, come era ne' tempi andati. Restò eseguita
la capitolazione, e tolto dalle viscere della Lombardia quel mantice
di discordie e d'incendii. Si trovarono nella città settanta pezzi
d'artiglieria di bronzo, nel castello ventotto, e nella cittadella
cento venti. Per sì felice impresa in Milano e Torino gran festa si
fece, ed essendo solamente nel dì 18 di settembre usciti i Franzesi
di Casale, non s'impegnarono l'armi cesaree in alcun'altra azione, ed
unicamente pensarono a ristorar le truppe ne' quartieri d'inverno. Non
si potè intanto levar di capo a certi politici, che in quell'assedio
si sparassero dagli assediati i cannoni senza palle, e che quella
impresa fosse concertata fra il saggio duca di Savoia e la corte di
Francia; la qual ultima, se restò priva di una buona fortezza, ne privò
anche d'essa l'avidità degli Spagnuoli, perchè, facendo rendere Casale
al duca di Mantova, deluse le speranze di quei che probabilmente lo
desideravano, e poteano pretenderlo a titolo di acquisto. Nè si vuol
tacere che nel dì 9 di settembre del presente anno in Roma terminò i
suoi giorni il cavaliere Gian-Francesco Borri Milanese in castello
Sant'Angelo. S'era egli meritata quella prigione per essere stato
eretico visionario anzi autore di una setta, che appena nata ebbe
fine, e solennemente fu da lui abiurata. In essa Roma, in Milano ed in
altre città d'Italia, e in Inspruch, Amsterdam, Amburgo, Copenaghen,
ed altri luoghi dell'Olanda e Germania, fece egli risuonare il suo
nome, spacciando miracoli segreti, e spezialmente quello che tanto
adesca alcuni troppo corrivi privati, e talvolta i principi stessi,
con votar d'oro le borse loro, ed empierle di fumo. A lui si ricorreva
come a medico universale per ogni sorta di malattia, e fin da Parigi
si vedeano passar nobili malati ad Amsterdam per isperanza d'essere
guariti da lui. Gran figura aveva egli fatto in quella città col
magnifico equipaggio, e trattato col titolo di eccellenza. In una
parola, trovossi in lui un chimico creduto impareggiabile, un gran
ciarlatano, e per conseguente un bravo trafficante della semplicità de'
mortali.
Anno di CRISTO MDCXCVI. Indizione IV.
INNOCENZO XII papa 6.
LEOPOLDO imperadore 39.
Non rallentava il buon pontefice _Innocenzo XII_ i suoi sospiri e
le sue premure per rimettere la pace fra i principi cristiani; e, a
fin d'impetrarla colle preghiere da Dio, pubblicò sul fine dell'anno
precedente un giubileo, che nel presente per tutta l'Italia fu preso.
Non lasciò ancora di eccitare i principi cattolici alla concordia,
con inviar loro nuove paterne lettere; e spezialmente ne fece premura
a _Vittorio Amedeo_ duca di Savoia, il cui impegno avea tirato in
Italia tanti imitatori de' Goti e de' Vandali a spolpare i miseri
popoli. Sempre sono e saran da lodare le sante intenzioni dei romani
pontefici per questo fine; ma l'interesse, che è il cominciator
delle guerre, quello è ancora che le finisce. Che nondimeno il saggio
pontefice s'internasse ancora in segreti maneggi per accordare il re
Cristianissimo col duca di Savoia, comunemente fu creduto per quel
che poscia accadde. Ed appunto questo principe si vide fare nel marzo
del presente anno un viaggio alla santa casa di Loreto a titolo di
divozione. La gente maliziosa, che non credeva cotanto divoto quel
principe da scomodarsi per andar sì lontano ad implorar la protezion
della Vergine, si figurò piuttosto che sotto il manto della pietà si
coprisse un segreto abboccamento con qualche persona incognita intorno
a' suoi affari (e questa fu, per quanto portò la fama, un ministro
franzese travestito da religioso) giacchè sono talvolta ridotti i
principi a somiglianti ripieghi, per deludere i ministri esteri che
vanno spiando ogni menomo loro andamento e parola nelle corti. Spedì
ancora in questo anno il pontefice le sue galee unite a quelle di Malta
in soccorso de' Veneziani; e sul principio di maggio, al dispetto dei
medici, volle portarsi a Cività Vecchia, per visitar quel castello,
quegli acquedotti e le fabbriche ivi fatte, giacchè gli stava fitto in
capo il pensiero di fare di essa città un porto franco, libero ad ogni
nazione, fuorchè ai Turchi. Per varie ragioni, e per le segrete mene
del gran duca di Toscana, riuscì poi vano un siffatto disegno. Quanto
ai Veneziani, perchè stava loro sul cuore la fortezza di Dolcigno,
situata in Albania sopra una rupe inaccessibile, siccome infame nido di
corsari infestatori dell'Adriatico, ne fu da essi risoluto l'assedio.
Per quanto operassero i cristiani con varii assalti, con alquante mine,
e con rispignere due volte i soccorsi inviati dai Turchi, a nulla
servirono i loro sforzi, e però convenne ritirarsi. Andò intanto il
capitan generale _Molino_ colla sua flotta in traccia dell'ottomana,
condotta dal Mezzomorto capitan bassà ed ammiraglio. Nel dì 9 d'agosto
furono a vista le due nemiche armate, e già la veneta s'era tutta messa
in ordinanza per venire a battaglia, quando si scoprì non accordarsi
a questo giuoco l'astuto Mezzomorto, al quale non mancò mai l'arte di
tenere a bada i cristiani, e di sempre sfuggire il combattimento. Così
senza alcun vantaggio, e insieme senza danno alcuno, se la passarono
i Veneziani in Levante per tutto quest'anno; ma con gravi lamenti di
quel senato, veggendo inutilmente impiegati tanti convogli e tesori in
quelle parti.
Cominciò in questi tempi a fare risonar il suo nome _Pietro
Alessiovitz_ czaro della Russia, che divenne poi col tempo incomparabil
eroe, con aver tolto a' Turchi sul Tanai l'importante città e fortezza
di Asac, ossia Asof. Propose quel principe con gran calore di entrare
in lega con Cesare e co' Veneziani ai danni del comune nemico, e
infatti ne furono stabiliti i capitoli in Vienna. Non dissimile dalla
fortuna de' Veneti fu quella degl'imperiali in Ungheria nell'anno
presente. Si portò alla forte cesarea armata di nuovo l'_elettor di
Sassonia_ col titolo di supremo comandante; la direzion nondimeno
delle militari operazioni era appoggiata a un capo di maggiore
sperienza, cioè al maresciallo _conte Caprara_. Ma che? In quelle
contrade comparve ancora di bel nuovo il sultano in persona, bramoso di
segnalarsi in qualche impresa. Conduceva anch'egli una potente armata,
qual si conveniva ad un pari suo. Invece dunque di accudire alla
premeditata idea dell'assedio di Temiswar, o di Belgrado, nel consiglio
militare fu preso il partito di provocare a battaglia i nemici. Si
trovò attorniato da paludi e ben trincierato l'esercito musulmano, nè
la furia delle cannonate potè muoverli ad uscire all'aperta campagna.
Solamente seguirono alcune calde scaramucce, nelle quali il commissario
generale _Heisler_ valorosamente combattendo lasciò la vita, e qualche
migliaio di soldati dall'una e dall'altra parte perì. Ritiraronsi
poscia i Turchi, e senz'altro onore anche le milizie cristiane vennero
ripartite ai quartieri. Assai curiosa, ma non già inaspettata, fu la
scena che si rappresentò sul teatro del Piemonte nell'anno presente.
Troppo rincresceva oramai alla Francia la guerra del Piemonte, perchè
più dispendiosa di tutte le altre, dovendosi mandar tutto per montagne
in Italia, e non potendo l'armata godere del privilegio di ballare
e nutrirsi sul paese nemico. Alla riflessione del troppo impegno e
dispendio si aggiunsero i premurosi impulsi del pontefice _Innocenzo
XII_, commosso a pietà spezialmente verso i principi d'Italia,
sì maltrattati dalle sanguisughe tedesche in occasione di questa
guerra. Però il re Cristianissimo _Luigi XIV_ tali esibizioni fece a
_Vittorio Amedeo_ duca di Savoia, che questo principe segretamente
entrò in trattato, e coll'accortezza, che in lui fu mirabile, ne
carpì dell'altre vantaggiose condizioni. Leggesi presso varii autori
il trattato di pace sottoscritto nel dì 29 d'agosto di quest'anno
dal _conte di Tessè_ luogotenente generale franzese, e dal _marchese
di San Tommaso_, primo ministro del duca suddetto; certo essendo
nondimeno che alcuni mesi prima era stabilito il concordato fra loro.
I principali punti di esso accordo furono che in vigor d'essa pace il
re Cristianissimo restituiva al duca tutti gli Stati a lui occupati
della Savoia, di Nizza e Villafranca; e inoltre gli cedeva Pinerolo
co' forti di Santa Brigida ed altri, con che se ne demolissero tutte
le fortificazioni; e finalmente, che seguirebbe il matrimonio di _Maria
Adelaide_ principessa di Savoia, primogenita di sua altezza reale, con
_Luigi duca di Borgogna_ primogenito del Delfino, allorchè fossero in
età competente; e che intanto essa principessa passerebbe in Francia,
per essere ivi allevata alle spese del re. Vi ha chi scrive promessi
anche quattro milioni di franchi al duca dal re Cristianissimo per
compenso de' danni sofferti, ma con obbligo di tenere in piedi a spese
del re otto mila fanti e quattro mila cavalli, qualora i collegati
ricusassero di abbracciar quel trattato.
Accordate in questa maniera le pive, inviò il re Cristianissimo nella
primavera qualche reggimento di più del solito al _maresciallo di
Catinat_, il quale fece anche spargere voce di aver forze maggiori,
e minacciava anche di rovinar Torino colle bombe. Mostravane il duca
grande apprensione e paura, per colorir le risoluzioni prese e da
prendersi; quando spedite furono da esso maresciallo per mezzo d'un
trombetta le vantaggiose condizioni che il _re Luigi XIV_ offeriva
al duca _Vittorio Amedeo_ per la pace di Italia. Andarono innanzi e
indietro proposte e risposte; e finalmente restò accordata fra loro
una sospension d'armi per quaranta giorni, cioè per tutto il mese
d'agosto, che fu poi anche prorogata sino al dì 16 di settembre, a fin
di proporre alle corti alleate la neutralità d'Italia sino alla pace
generale. Comunicata questa ai ministri di Cesare, della Spagna ed
Inghilterra, esistenti in Torino, niun d'essi v'acconsentì; ma il duca
come generalissimo lo volle. Allorchè giunse alle corti questa novità,
si proruppe in gravi schiamazzi, e furono spedite esibizioni gagliarde
al duca di Savoia, per mantenerlo in fede. Ma egli, che non isperava
di acconciar sì felicemente i proprii interessi colla continuazion
della guerra, come facea colla particolar sua pace coi Franzesi,
stette saldo nel suo proposito. Inclinavano veramente gli Spagnuoli
ad accettare la tregua, perchè scarsi di danaro, e con gli Stati
esposti all'irruzion de' nemici, e nemici che con l'union del duca
divenivano tanto superiori di forze; ma non mirando mai venire alcuna
decisiva risposta dalle potenze confederate, attendeva il marchese
di Leganes solamente a ben presidiare e fortificare le frontiere del
ducato di Milano. Intanto, prima che spirasse il termine dell'accordata
sospension d'armi, il maresciallo di Catinat fece nel dì 5 di settembre
sfilar la sua armata, e, passato il Po, andò a trincierarsi in Casale
di Monferrato. Spirato esso termine, senza che la neutralità fosse
abbracciata dai collegati, eccoti unirsi le truppe di Savoia con quelle
di Francia, formando un esercito di circa cinquanta mila persone.
Ed ecco chi il giorno innanzi era generalissimo dell'armi collegate
in Italia, uscire in campo nel dì seguente generalissimo dell'armi
franzesi contra d'essi collegati, e nel dì 18 di settembre cignere
d'assedio Valenza.
Mi trovava io allora in Milano, e mi convenne udire la terribil
sinfonia di quel popolo contro il nome, casa e persona di quel sovrano,
trattando lui da traditore, e come reo di nera ingratitudine, che si
fosse servito di tanto sangue e tesoro degli alleati per accomodare i
soli suoi interessi, con altre villanie che io tralascio. Ma d'altro
parere si trovavano le persone assennate, considerando che egli, dopo
aver liberato lo Stato di Milano dalla dura spina di Casale, ora,
stante la cession di Pinerolo e la ricupera dei suoi stati, serrava in
buona parte la porta dell'Italia ai Franzesi: con che si scioglievano
i ceppi non meno suoi che del medesimo Stato di Milano. Se in quel
bollare di passioni non riconobbe la gente questo benefizio, poco
stette ad avvedersene; e tanto più perchè, era incerto se, proseguendo
la guerra, si fosse potuto ottenere tanto vantaggio. Certamente tutti
i principi d'Italia fecero plauso alla animosa risoluzione del duca
Vittorio Amedeo, non già che piacesse loro il vedere quasi chiuso in
avvenire il passo in Italia all'armi franzesi per tutti i loro bisogni
(e dico quasi, perciocchè restarono ai Franzesi le Fenestrelle, che
essi poi fortificarono), ma perchè si veniva a smorzare un incendio che
li avea malamente scottati tutti per l'insoffribile ed ingiusta avidità
e violenza de' Tedeschi in succiare il sangue degli infelici popoli.
Continuava intanto con vigore l'assedio di Valenza, e già quella piazza
si accostava all'agonia, quando il _conte di Mansfeld_ plenipotenziario
dell'imperadore, e il _marchese di Leganes_ governator di Milano, per
evitar mali maggiori, si diedero per vinti, ed accettarono l'esibita
neutralità. In Vigevano nel dì 7 di ottobre fu stabilito l'accordo
con obbligarsi Tedeschi e Franzesi di evacuare quanto prima l'Italia.
Ma perciocchè ai Tedeschi troppo disgustoso riusciva il dire addio
ad un paese, dove aveano trovato alle spese altrui tante dolcezze, e
gridavano per le paghe ritardate, e inoltre per l'avanzata stagione
non si voleano muovere: altro ripiego non si trovò che di promettere
loro ben più di trecento mila doble, compartendo questo aggravio sopra
i principi d'Italia, cioè settantacinque mila doble al gran duca di
Toscana, al duca di Mantova quaranta mila, altrettante al duca di
Modena, trentasei mila al duca di Parma, quaranta mila ai Genovesi; al
Monferrato venticinque mila, ai Lucchesi trenta mila; a Massa quindici
mila, al principe Doria sei mila, a Guastalla cinque mila, e il resto
agli altri minori vassalli dell'imperio. Doveansi immediatamente pagare
- Parts
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