Annali d'Italia, vol. 7 - 01


ANNALI D'ITALIA
DAL PRINCIPIO DELL'ERA VOLGARE
SINO ALL'ANNO 1750

_COMPILATI_
DA L. ANTONIO MURATORI
E CONTINUATI SINO A' GIORNI NOSTRI

_Quinta Edizione Veneta_
VOLUME SETTIMO

DALL'I. R. PRIVILEGIATO STAB. NAZIONALE
DI GIUSEPPE ANTONELLI ED.
1846


ANNALI D'ITALIA
DALL'ANNO 1501 FINO AL 1750


Anno di CRISTO MDCLXXV. Indiz. XIII.
CLEMENTE X papa 6.
LEOPOLDO imperadore 18.

L'anno fu questo del giubileo romano, aperto con gran solennità da
_papa Clemente X_, non avendo mancato il santo padre di contribuir
molte limosine in alimento de' poveri pellegrini, di lavar loro
i piedi e di regalarli. Più ancora avrebbe desiderato di fare, se
la nemica podagra non l'avesse per lo più sequestrato in letto. Il
concorso de' popoli non fu molto, perchè in troppi paesi bolliva
la guerra, ed era in certa maniera cessata da gran tempo la novità
di quella santa funzione. Gran tempo ancora continuò in Roma il
dibattimento della controversia insorta fra il _cardinale Altieri_
e gli ambasciatori delle corone, per l'editto pubblicato intorno
alla nuova imposta della dogana. Ma finalmente nel luglio dell'anno
presente, coll'interposizione del _cardinale Colonna_, ebbe fine, con
aver dichiarato esso Altieri, non essere mai stata sua intenzione di
comprendere in quell'editto i ministri delle corone, e che il papa
farebbe sapere ai lor padroni che non era mai stata diversa la mente
sua, con altri ripieghi di rispetto verso gli ambasciatori suddetti.
La politica del mondo coll'empiastro delle bugie suol bene spesso
sanar le piaghe. Si potea sulle prime terminar questa battaglia colla
confessione di ciò che, detto colle labbra, ma non col cuore, sì tardi
venne alla luce. Un grave sconcerto accadde nell'anno presente in
Toscana. A _Cosimo III gran duca_ avea la gran duchessa _Margherita
Luigia d'Orleans_ partoriti due principi, cioè _Ferdinando_ primogenito
e _Gian-Gastone_, ed una principessa, cioè _Anna Maria Luigia_,
che fu col tempo elettrice palatina. Fra questi due nobilissimi
consorti sorsero dissensioni ed amarezze tali, che passarono ad una
irreconciliabil divisione. Comunemente si credette che la vedova gran
duchessa madre del duca, cioè _Vittoria dalla Rovere_, non approvasse
la libertà franzese della nuora, e movesse il figlio a far delle
doglianze. Savio principe sempre fu il gran duca Cosimo. Disgustata
ritirossi la giovine gran duchessa in una casa di campagna con animo
risoluto di tornarsene in Francia; ma fu ivi fermata e custodita dalle
guardie postevi da esso gran duca, il quale non lasciò d'interporre,
quanti mai seppe, ambasciatori e cardinali per rimuoverla da questo
disegno, e persuaderle la riunione; ma senza che riuscisse ad alcuno di
far breccia nel suo cuore.
Andarono le ragioni dell'una e dell'altra parte a Parigi; e il re,
a cui non piaceva di disgustare un sovrano di tanto riguardo, e nè
pur voleva abbandonare una principessa sua cugina, spedì a Firenze il
_vescovo di Marsiglia_, sperando che alla di lui eloquenza e destrezza,
sostenuta dal carattere di suo inviato, potesse riuscire di riconciliar
gli animi loro. Ma questo prelato perdè la carta del navigare in tutto
il suo negozio, trovandosi più che mai ostinata nel suo proponimento
la gran duchessa. Sì fatte durezze cagion furono che il marito
anch'egli concepì una gran ripugnanza a riunirsi con chi ne mostrava
tanta verso di lui; e però venne alla risoluzione di lasciarla andare
con un convenevole, cioè ricco annuo assegnamento. Ma prima restò
concertato col re Cristianissimo, di consenso di lei medesima, che essa
in Francia si eleggerebbe un chiostro per passarvi il resto de' suoi
giorni, senza poter comparire alla corte. Sul fine dunque di giugno,
servita da tre galee, arrivò questa principessa a Marsiglia, portando
in Francia una rara bellezza e insieme una egual saviezza; passò dipoi
a chiudersi senza rigorosa clausura nel monistero di Montmartre, dove
il re e tutta la famiglia reale furono a visitarla. Questo divorzio
fece poi scatenare le lingue e penne maligne degl'interpreti delle
azioni altrui, imputandone chi all'una e chi all'altra parte il reato,
con vitupero di principi tanto sublimi. La verità si è, che tanto essi
principi che i mediatori della pace usarono la prudenza di non rivelar
questo arcano; e se lo penetrarono i Fiorentini pratici di quella
corte, seppero anche tirarvi sopra la cortina sì in riguardo alla
carità, che pel rispetto dovuto ai proprii sovrani. Certo è altresì
che mai più non si trovò maniera di riunirli: disgrazia memorabile
per l'insigne famiglia de Medici, che forse non sarebbe venuta meno
ai nostri giorni, se quella sì giovine e feconda principessa avesse
continuata la buona armonia col consorte, e prodotti altri figli atti a
supplire la poca fortuna dei primi.
Sul fine del gennaio dell'anno presente terminò il suo vivere, dopo
essere giunto a più di novant'anni, _Domenico Contarino_ doge di
Venezia, a cui succedette nel dì 6 di febbraio _Niccolò Sagredo_
procurator di San Marco. Similmente ebbe Torino di che piangere per
l'immatura morte di _Carlo Emmanuele II duca_ di Savoia, succeduta nel
dì 12 di giugno e da lui abbracciata con sentimenti di vera pietà e
di generosa costanza. Siccome egli avea sempre studiate le maniere di
farsi amar dai suoi popoli, praticando con tutti una somma affabilità e
cortesia, e una gran gentilezza verso le dame, onorandole del braccio,
e mostrandosi liberale, splendido e generoso in ogni sua azione; così
allorchè fu agli estremi della vita, volle che si aprissero le porte,
acciocchè il suo popolo potesse anche veder lui morire, ed egli godere
que' pochi momenti di vita della vista dei suoi cari sudditi. Oltre una
lunga memoria delle sue molte virtù, ne lasciò egli non poche altre,
per aver cotanto ingrandita ed abbellita la città di Torino, formata
di Monmelliano una inespugnabil fortezza, fabbricati ponti, rotte e
spianate montagne per far passar le carrozze, dove con difficoltà prima
passavano gli uomini. A lui succedette in età pupillare il principe
di Piemonte, cioè _Vittorio Amedeo_, unico suo figlio, che non aveva
peranche compiuto l'anno nono di sua vita, sotto la tutela e reggenza
di madama reale _Giovanna Maria Batista_ di Nemours, sua madre:
principe nato per esaltare la sua real casa ai primi onori, siccome
vedremo andando innanzi. Noi lasciammo la ribellata città di Messina
in gravi angustie sì per la mancanza dei viveri, perchè molto vi
volea a sostener tanto popolo, e sì perchè gli Spagnuoli maggiormente
stringevano quella città, con aver presa la torre del Faro, il Piè di
Grotta ed altri passi, dove attesero a ben fortificarsi. Ma eccoti
arrivar colà, nel dì 5 di gennaio, spediti dalla corte di Francia,
i _marchesi di Valavoir_ e di _Valbella_ con diecinove vascelli, che
sbarcarono molte milizie e copiosa provvisione di vettovaglie, così
che rimasero assai consolati quegli afflitti cittadini. Pure poco
giovò questo soccorso, perchè gli Spagnuoli non solamente andavano di
mano in mano accrescendo le lor forze per terra, ma eziandio con venti
vascelli da guerra e diecisette galee tenevano bloccato il porto di
Messina, e tentarono anche un dì di bruciare i legni franzesi: il che
loro non venne fatto. Il non poter entrare viveri nè per terra nè per
mare ridusse di nuovo in miseria quel popolo, ostinato nondimeno in
rifiutare il perdono esibitogli, non perchè nol desiderasse, ma perchè
temeva di avere a pagarlo troppo caro.
In rinforzo d'essa città giunse, nel dì 11 di febbraio, spedito da
Tolone, il _duca di Vivona_, conducendo anch'egli nove vascelli da
guerra, una fregata leggiera, tre brulotti e otto barche cariche di
viveri. Stava ancorata la flotta spagnuola, ed appena scoprì i legni
nemici, che salpò, e a vele gonfie andò a far loro il chi va là.
Attaccossi una battaglia che durò più ore; e già rinculavano i Franzesi
come inferiori di forze, quando il signor di Valbella, avvisato di quel
combattimento, uscì del porto di Messina con sei vascelli da guerra,
e diede alle spalle degli Spagnuoli. Ripigliato allora coraggio i
Franzesi, ricominciarono una fiera danza con tal successo, che gli
Spagnuoli con buon ordine si ritirarono fino a Napoli, lasciando
nondimeno in poter de' nemici un vascello di quaranta cannoni. Per lo
arrivo di questo aiuto gran festa si fece a Messina, tuttochè fosse
un piccolo bicchier d'acqua a chi avea tanta sete. Intanto tre mila
e cinquecento Tedeschi, ai quali aveano i Veneziani difficultato il
passaggio per l'Adriatico, pervenuti a Pescara, di là passarono con
secento altri fanti napoletani a rinforzare il campo che tenea bloccata
Messina. Ma sul principio di giugno anche agli assediati arrivò un
altro numeroso convoglio di più di cento vele, vegnente da Tolone,
sotto il comando del signore d'Almeras e del cavaliere di Quene, che
sbarcò sei mila fanti e mille cavalli con ogni sorta di munizioni.
Avendo poi questa gente tentato di levar la Scaletta e un altro posto
agli Spagnuoli, ed essendo anche passata ad assalir Melazzo, dove si
trovava in persona il vicerè, altro non ne riportò che delle buone
spelazzate. Pure s'impadronirono della città d'Augusta, e andarono
poi pel resto dell'anno facendo altre picciole fazioni, che non
importa riferire, se non che tornarono gli Spagnuoli ad impossessarsi
della torre del Faro, e per una tempesta perderono sette de' loro
vascelli. Intanto fra i Messinesi e Franzesi cominciò a scorgersi poca
intelligenza: il che accrebbe agli Spagnuoli la speranza di vincere
in breve quella pugna. Gran guerra fu in quest'anno in Germania e
Fiandra fra i collegati dall'una parte e i Franzesi dall'altra. Non
mancarono assedii, battaglie e barbarici saccheggi di paese. Il celebre
maresciallo di Francia _Arrigo della Torre d'Auvergne, visconte di
Turrena_, colpito da una palla di cannone, vi lasciò la vita nel dì
27 di luglio, essendo mancato in lui uno dei più insigni capitani
del secolo presente. _Carlo IV duca_ di Lorena, ma duca solo di nome,
perchè in mano de' Franzesi era il suo ducato, s'acquistò anch'egli
gran nome colla presa di Treveri, facendo quivi prigione il maresciallo
franzese _duca di Crequì_; ma poco sopravvisse egli a questa gloria,
essendo mancato di vita nel dì 17 di settembre. Ne' suoi diritti e
titoli succedette _Carlo V_ suo nipote, che col suo valore maggiormente
illustrò la nobilissima sua casa.


Anno di CRISTO MDCLXXVI. Indiz. XIV.
INNOCENZO XI papa 1.
LEOPOLDO imperadore 19.

Non potè più lungamente reggere al peso degli anni e agl'insulti della
gotta _papa Clemente X_, ed infermatosi in età di più di ottantasei
anni, passò a miglior vita nel dì 22 di luglio dell'anno presente.
Di pochi furono le lagrime che accompagnarono il di lui funerale,
non già perchè alcuna delle virtù principali che illustrano la vita
e la memoria d'un romano pontefice, in lui si desiderasse, perchè
fu papa di bella mente, di gran pietà, di giustizia e clemenza; ma
perchè l'odio, che col suo governo universalmente si avea guadagnato
il _cardinal Paluzzo Altieri_, ridondava sopra l'innocente papa,
pieno sol di massime buone. Chi avea la fortuna di poter parlare a
sua santità, se le cose erano fattibili, potea sperar buon rescritto;
altrimenti ne riportava un bel no; ma il cardinale godeva il concetto
di esser di coloro che alla prima udienza con una sparata di carezze
e promesse incantano le persone, ma ritornando queste alla seconda
udienza, truovano nate delle difficoltà; alla terza poi nè pur son
conosciute per quelle che sono. Però dicevasi, e spezialmente lo
dicevano i Franzesi disgustati di lui, ch'esso porporato avrebbe potuto
tenere scuola aperta di artifizii e raggiri in Roma stessa, la qual
pure vien creduta assai addottrinata in questo mestiere. Ma quel che
più avea contro di lui aguzzata la satira, fu l'invidia, per aver
egli saputo profittar della fortuna ed autorità sua, con accumular
ricchezze, ed ingrandire la propria casa, tuttochè poi non si potessero
imputare a lui di quelle scandalose licenze che si videro in qualche
precedente nepotismo. Ora entrati i porporati nel sacro conclave,
dappoichè ebbero per cinquantun giorni consumata la quintessenza dei
lor politici maneggi per promuovere al trono pontifizio chi lor più
piaceva, finalmente, mossi da lume superiore, concorsero tutti nel
dì 21 di settembre all'elezione di chi sopra gli altri meritava, ma
non avea mai desiderato di maneggiar le chiavi di Pietro. Questi fu
il _cardinal Benedetto Odescalchi_ Comasco, nato nel 1611, che nel
precedente conclave era anche stato vicino al triregno, perchè voluto
da tutti i buoni, e fece poi in questa occasione quanta resistenza mai
potè, non per affettata modestia, ma per umiltà, alla santa risoluzione
de' sacri elettori. Prese egli il nome di _Innocenzo XI_ in memoria
d'_Innocenzo X_ che l'avea promosso alla sacra porpora. Non si può dir
quanto applauso conseguisse così fatta elezione, perchè l'Odescalchi
portò seco al trono la santità, e ne possedè molto più da lì innanzi
la sostanza che il titolo: personaggio di vita illibata ed austera,
di somma gravità e zelo pel ben della Chiesa; prodigo, se si può dire,
verso dei poveri, secondo il costume di sua casa, abbondante di ricco
patrimonio, e limosiniere al maggior segno. Nè tardò il buon pontefice
e buon servo di Dio a comprovar co' fatti l'espettazion comune
delle sue singolari virtù. Sotto i precedenti pontificati aveva egli
adocchiato tutti i disordini procedenti dal nepotismo, e con quanta
facilità si divorassero le sostanze della camera apostolica, e come
avesse tanta potenza il danaro. Volle provvedervi, e l'intenzione sua
era di metter freno in avvenire a tali eccessi con una bolla che fosse
sottoscritta dal sacro collegio, e giurata sotto pena di scomunica da
chiunque s'avesse da promuovere al cardinalato e al pontificato. Ma
viveano ed aveano gran polso alcuni de' nipoti degli antecedenti papi,
che fecero testa, parendo loro di sottoscrivere una sentenza contra
di loro stessi, qualora sottoscrivessero la condanna del nepotismo per
l'avvenire.
Giacchè dunque non potè il santo pontefice ottener questo intento,
coll'esempio suo almeno si studiò di abolire il pernicioso costume.
Non avea il suo predecessore _Clemente X_ nipoti proprii, e andò a
cercarne degli stranieri. _Innocenzo XI_, all'incontro, avea un nipote
di fratello, cioè _don Livio Odescalchi_; ma nol volle a palazzo, nè
ch'egli avesse parte alcuna nel governo, nè che ricevesse visite come
nipote di papa. Ed affinchè non restasse a lui di che dolersi per tanta
severità, gli rassegnò tutti i suoi beni patrimoniali, che co' proprii
d'esso nipote davano una rendita annua di trenta mila scudi, dicendo
che questo gli bastava per trattarsi da principe, senza participar
delle rugiade del pontificato. Coerentemente a questo glorioso sistema
elesse per segretario di Stato il _cardinale Alderano Cibò_, porporato
di somma integrità, di prudenza singolare e di zelo non inferiore a chi
l'elesse a tal carica. Lasciò ai Paluzzi Altieri e ad altri la pompa
de' titoli del generalato e d'altre cariche militari, ma con levar
loro gl'ingordi stipendii che per essi pagava la camera pontificia,
con dire che la Chiesa non avea guerra, nè voglia di farla, ed essere
perciò mal impiegate tante paghe. Riformò la tavola pontificia, e al
servigio suo non ammise se non persone di gran probità e modestia,
affinchè la famiglia sua servisse di una continua predica agli altri
di quel che conveniva a fare. Allo ambasciatore di un monarca, che gli
disse di avere il suo padrone ricevuta sotto la sua protezione la casa
Odescalchi, rispose: Ch'egli non avea casa nè letto, e che teneva in
prestito da Dio quella dignità per bene non già de' suoi parenti, ma
solamente della Chiesa e de' suoi popoli. E perciocchè gravissimi abusi
erano succeduti in addietro a cagion delle franchigie, pretese da'
ministri de' principi in Roma per l'asilo che in esse trovavano tutti i
malviventi, e per li contrabbandi che tuttodì si facevano, intimò loro
di rimediarvi; altrimenti, giacchè Dio l'avea messo in quel governo
con obbligo di vegliare alla quiete della città e al pubblico bene, vi
avrebbe egli trovato il rimedio. Tosto ancora spedì a tutti i principi
cristiani lettere esortatorie alla pace, esibendosi pronto ad andare
in persona ad un congresso, se fosse necessario, purchè si tenesse
in qualche città cattolica, a fin di procurare un tanto bene. Per lo
contrario, esortò il re di Polonia _Giovanni Sobieschi_ a sostener
la guerra contro de' Turchi, finchè avesse ricuperato dalle lor mani
Caminietz, e gl'inviò nello stesso tempo un sussidio di cinquanta mila
scudi. Con questi passi diede principio l'incomparabile Innocenzo XI
alla carriera del suo pontificato, continuamente pensando alla riforma
degli abusi, al sollievo de' suoi popoli e al bene della cristianità.
Qui perdè la voce Pasquino; e se internamente si lagnavano i cattivi
di sì rigoroso ad austero papa, ne esultavano ben pubblicamente tutti i
buoni.
Gran teatro di guerra fu in questo anno la Sicilia. Dacchè si avvide la
corte di Spagna che con tutti gli sforzi suoi apparenza non v'era di
snidar da Messina i Franzesi, e di rimettere alla primiera ubbidienza
quella città, fece ricorso alla collegata Olanda, per aver dei soccorsi
e forze tali da abbattere la flotta franzese, che ne' mari di Sicilia
mantenea la ribellion de' Messinesi. Fu dunque spedita una flotta
olandese composta di ventiquattro vascelli da guerra sotto il comando
del viceammiraglio _Ruyter_, il cui solo nome valeva un'armata per
le tante segnalate sue azioni in combattimenti navali. Giunsero gli
Olandesi sul fine del precedente anno a Melazzo, e, congiunti con nove
galee ed altri legni spagnuoli, andavano rondando per qualche impresa;
quando in quei mari capitò sciolta da Tolone e Marsiglia la flotta
franzese comandata dai _signor di Quene_, in numero di venti navi da
guerra e sei brulotti. Vennero alle mani presso di Stromboli, nel dì
7 di gennaio, le due nemiche armate; gran cannonamento, gran danno
seguì da ambe le parti. Dopo molte ore di fiera battaglia cessarono le
offese, con ritirarsi gli Olandesi a Melazzo, ed entrare i Franzesi nel
porto di Messina, dove sbarcarono le munizioni da bocca e da guerra
che seco aveano condotto. Seguì poscia una ben calda mischia nel dì
28 di marzo fra gli Spagnuoli e Franzesi uniti coi Messinesi; perchè
avendo i primi occupato il monistero di San Basilio fuor di Messina,
il _marchese di Vilavoir_ con sei mila armati andò ad assalirli.
Non solamente perderono gli Spagnuoli quel posto, ma ancora più di
ottocento dei lor soldati col conte di Buquoy, che li comandava. Già
dicemmo che nell'agosto dell'anno precedente s'erano impadroniti i
Franzesi della città di Augusta e delle sue fortezze. Al vicerè di
Sicilia stava sul cuore la perdita di quella città, e però nell'aprile
passò colà per tentare di riacquistarla, e pregò l'ammiraglio olandese
Ruyter di secondar l'impresa per mare, siccome egli fece spiegando le
vele a quella volta colla sua flotta. Colà comparve ancora il signor
di Quene comandante della dotta franzese, e nel dì 22 di aprile si
attaccò di nuovo fra loro un'aspra battaglia che durò più ore con
gravissimo danno dell'una e dell'altra parte, e con restar conquassati
i lor legni, ed esserne alcun d'essi affondato. Ognuno si attribuì la
vittoria, secondo il solito dei combattimenti dubbiosi, e massimamente
del mare, dove non è facile il conoscere l'altrui danno. Ma se non
altro, un grave colpo toccò agli Olandesi, perchè il loro famoso
Ruyter vi restò malamente ferito, e da lì a pochi giorni terminò la
vita in Siracusa, dove s'era ritirata la sua flotta, che poi passò a
racconciarsi a Palermo.
Ma qui non finì la voglia di combattere. Nel dì 21 di giugno
pervennero a Messina venticinque galee, partite da Marsiglia con
tre vascelli da guerra. Ingagliardito da questo soccorso il _duca di
Vivona_, viceammiraglio franzese, determinò di fare una visita senza
complimenti all'armata navale olandese e spagnuola che riposava nel
porlo di Palermo. Ventotto vascelli, venticinque galee e nove brulotti
componevano la di lui armata. Contavansi in quella degli Olandesi e
Spagnuoli ventisette vascelli e diecinove galee con quattro brulotti.
Nel dì 2 di giugno s'azzuffarono le nemiche flotte; le artiglierie,
ma spezialmente i brulotti, portarono un grande squarcio nella flotta
degli Spagnuoli, che vi perderono almen sette vascelli e due galee,
colla morte di gran gente, per confession degli stessi Olandesi. Ma,
secondo la relazion de' Franzesi, la perdita degli Olandesi e Spagnuoli
fu di dodici de' lor migliori vascelli, di sei galee, di settecento
pezzi di cannone e di cinque mila persone. In gran credito salirono
per questi conflitti i Franzesi, avendo fatto conoscere che non erano
invincibili gli Olandesi, tenuti in addietro per sì formidabili in
mare. E certamente di simili danze non ne vollero più essi Olandesi nel
Mediterraneo, e se ne ritornarono poscia a casa loro. Essendo dunque
rimasti i Franzesi padroni del mare in queste parti, ed avendo ricevuto
da Tolone nel settembre un rinforzo di tre mila uomini, e nell'ottobre
altri mille e cinquecento fanti e cinquecento cavalli, fecero in
appresso delle incursioni in Calabria; nella Sicilia s'impadronirono
dell'importante piazza di Taormina colla spada alla mano; presero la
Scaletta e la demolirono, e si impossessarono di alcuni piccoli luoghi
di quell'isola. Ancorchè mi faccia restare perplesso l'asserzione del
veneto elegante storico Giovanni Graziani, che riferisce al precedente
anno la morte di _Niccolò Sagredo_ doge di Venezia; pure, seguitando
io il Vianoli ed altre memorie, non crederei d'ingannarmi, con dirla
accaduta verso la metà d'agosto nell'anno presente. Un avvenimento poi
insolito, o almeno da gran tempo non veduto in quella sì ben regolata
repubblica, diede molto da discorrere alla gente. Secondo i riti
dell'ingegnoso ballottamento che si pratica per l'elezione dei dogi,
era caduta la sorte in _Giovanni Sagredo_, personaggio certamente degno
di quella dignità. Ma allorchè fu annunziato dal balcone il suo nome al
folto popolo, raunato nella piazza, cominciarono pochi dell'infinita
plebe a gridar con alte voci: _Nol volemo_; e crebbe appresso a
dismisura questo tumulto. Allora i saggi nel gran consiglio giudicarono
meglio non approvar la elezione del Sagredo, a cui per ricompensa
conferirono poscia altri dei principali onori della patria, ed elessero
doge Luigi Contarino. Seguitò ancora in questo anno l'ostinata guerra
della Francia contra de' collegati, le cui principali imprese furono
la presa di Filisburgo fatta dal _duca di Lorena_, e l'assedio di
Mastrich formato da _Guglielmo principe di Oranges_, ma con poca
riuscita, avendolo costretto i Franzesi a ritirarsi. Intanto era stata
destinata Nimega per trattarvi di pace colla mediazione di _Carlo II
re_ d'Inghilterra. Benchè si trattasse d'una città sottoposta agli
eretici, pure tale era la premura del pontefice per questo gran bene,
che s'indusse ad inviar colà _monsignor Bevilacqua_, per dar braccio
e calore alla concordia, per cui nondimeno s'impiegarono invano parole
e ripieghi nell'anno presente: sì alte erano le pretensioni d'ambe le
parti.


Anno di CRISTO MDCLXXVII. Indiz. XV.
INNOCENZO XI papa 2.
LEOPOLDO imperadore 20.

Non rallentava i suoi pensieri lo zelante _pontefice Innocenzo XI_ per
mettere in istato l'alma città di Roma da poter servire d'esempio alle
altre nella riforma de' costumi. Sopra tutto mirava egli di mal occhio
il soverchio lusso, padre o fomentatore di molti vizii e divorator
delle famiglie. Dopo aver preceduto colla moderazione introdotta nel
proprio palazzo, dove era cessata la pompa e introdotta la modestia,
nè si ammetteva se non chi portava la raccomandazione della probità
di costumi, cassò anche una parte della guardia de' cavalli leggeri,
perchè accresciuta senza necessità e mantenuta con troppa spesa. Poscia
in concistoro fece un sensato discorso, riprendendo i cardinali, che
parendo dimentichi di essere persone ecclesiastiche, e personaggi
posti sul candelliere per dar luce agli altri, usavano sì superbe
carrozze e livree cotanto sfoggiate, raccomandando loro di regolarsi
più modestamente in avvenire. Non mancavano a lui persone che di mano
in mano il ragguagliavano di chi spezialmente della nobiltà menava
vita dissoluta. A questi tali era immediatamente intimato lo sfratto,
acciocchè il loro libertinaggio non animasse altri all'imitazione, o
non servisse agli scorretti di scusa. Furono in oltre vietati tutti
i giuochi illeciti, e le bische o case dove si tenevano assemblee
scandalose di giuochi da invito. E perciocchè pel suddetto lusso i
baroni romani, non volendo gli uni essere da meno degli altri, quanta
facilità mostravano a far dei debiti, altrettanta difficoltà provavano
a pagarli, con grandi sciami dei mercatanti e creditori; ne ordinò il
santo padre al _cardinale Cibò_ una esatta ricerca, e di fargli pagare
con danari della camera, la qual poscia avea delle buone maniere per
esigere quei crediti. E perchè si trovò non essere sufficiente un
tal rimedio, continuando quei nobili a far delle spese eccessive e
debiti, che in progresso di tempo condurrebbono alla rovina le lor
case; con pubblico editto proibì ai bottegai, merciai, fornaci ed altri
negozianti di vendere ad essi robe senza il danaro contante sotto pena
di perdere i lor crediti. Erano poi in addietro giunte all'episcopato
persone non assai degne di così illustre e gelosa dignità. Per ovviare
a sì fatto abuso deputò il sommo pontefice quattro dei più zelanti
cardinali e quattro prelati, per esaminar la vita, i costumi e il
sapere di chi aspirasse al pastorale impiego in avvenire.
Quel nondimeno che teneva in non poca agitazione l'animo del saggio
pontefice, era la prepotenza de' ministri ed ambasciatori delle corone,
che in Roma da gran tempo tagliavano le gambe alla giustizia, ed
erano giunti sì oltre, che non solamente nei lor palazzi prestavano un
asilo più sicuro che quel dei luoghi sacri a gran copia di sgherri, dì
scellerati e malviventi; ma pretendeano eziandio che si stendessero
i lor privilegii ed esenzioni anche a qualsivoglia lor dipendente e
patentato, e a tutte le case adiacenti e vicine ai lor palazzi. Fece
di gran doglianze Innocenzo XI per questo alle varie corti, ma senza
frutto; nè volendo sofferire che coll'arrogarsi tanta autorità gli
stranieri ministri si scemasse ed avvilisse la propria, cominciò con
petto forte ad opporsi a sì fatto abuso. Fu il primo passo quello
di vietar con rigoroso editto che niuno potesse alzar sopra le sue
case o botteghe le armi di qualsivoglia monarca e principe secolare
ed ecclesiastico, protestando di voler egli essere il padrone e
l'amministratore della giustizia in Roma, come erano gli altri principi
in casa loro. A quella augusta città giunto il _marchese del Carpio_
ambasciatore del re Cattolico, quivi si diede a far leva di soldati
pel bisogno della Sicilia, col pretesto che altrettanto avessero fatto
i Franzesi. Ma perchè la gente ricusava di prendere partito, per la
fama che non correano le paghe, e perchè si dicea maltrattato chi
si arrolava; si sparse voce, per essere mancate varie persone, senza
sapersi dove fossero andate, che gli Spagnuoli le avessero rapite, e
poi segretamente inviate in Sicilia. Vera o falsa che fosse tal voce,
la plebe romana tal odio concepì contro la nazione spagnuola, che ne
facea scherni dappertutto, e ne seguirono non poche baruffe con delle
morti e ferite: perlochè non osavano più gli Spagnuoli di uscir dei lor
quartieri, o ne uscivano con pericolo. Ancorchè il papa si studiasse
col gastigo dei più colpevoli di far conoscere la rettitudine sua e il
suo rispetto alla corona cattolica, non rifiniva l'ambasciatore di far
ogni dì più gravi doglianze, e di chiedere maggiori soddisfazioni. Nè