Annali d'Italia, vol. 6 - 84

ma con genio affatto diverso, perchè il Richelieu, uomo collerico,
violento ed implacabile, non meditava che vendette e guai a chi cadeva
dalla sua grazia; laddove il Mazzarino con somma placidezza trattava
i grandi affari, dolce con tutti, e fin verso i nemici, ch'egli si
studiava di guadagnare col perdono e colla liberalità, fondato in
quella massima: _Che il mondo bisogna comperarlo_. Per cagione di
questa sua mansuetudine e generosità, arrivò a morire in grazia del
re, e compianto anche da lui: locchè non era avvenuto al Richelieu.
Lasciò di bei ricordi al re Cristianissimo pel buon governo, e quello
spezialmente di non tenere in avvenire favoriti, ma di partir gli
uffizii in politico, militare ed economico: regolamento che il _re
Lodovico XIV_ molto bene eseguì, con prender egli in mano le redini
del regno; e n'era ben capace per l'elevatezza della sua mente. Nel
dì 19 d'aprile seguì con gran solennità nel palazzo reale di Parigi
lo sposalizio di madamigella _Margherita Luigia_, figlia del defunto
_duca d'Orleans_, col principe di Toscana _Cosimo de Medici_. Il duca
di Guisa procuratore del principe la sposò. Condotta questa principessa
in Toscana, si trovò onorata da magnifiche feste ed allegrezze di tutti
que' popoli. A godere di questi spettacoli fu anche invitato _Alfonso
IV_ duca di Modena, e vi andò con ricco corteggio. Nel giorno primo di
novembre per la nascita di un Delfino tutto il regno di Francia diede
in trasporti di giubilo; nè minor fu la consolazione degli Spagnuoli,
per aver la loro regina dato alla luce, nel dì 6 d'esso mese, un
principe, che fu poi _Carlo II_ re di Spagna.
Ora prosperosi ed ora infelici riuscirono in quest'anno i successi
dell'armi venete nella guerra col Turco. Non si sa il perchè _papa
Alessandro VII_, a cui pure stava molto a cuore il pubblico bene
della cristianità, non somministrasse in questi tempi all'aiuto loro
le sue galee. Gli avea lasciato il _cardinal Mazzarino_ ducento mila
scudi da impiegare nella guerra contro il nemico comune. Non meno
l'_imperadore Leopoldo_ che i _Veneziani_ aspiravano a questo boccone;
ma, per attestato dello storico Valiero, passato questo danaro a
Roma, svanì facilmente anche con poco vantaggio di Cesare. Accorsero
bensì ad unirsi coi Veneti sette galee degli zelanti Maltesi. Se
ne tornò intanto a Venezia il valoroso capitan generale _Francesco
Morosino_, con cedere il comando a _Giorgio Morosino_, il quale,
desideroso di qualche fatto glorioso, andò in traccia dell'armata
turchesca uscita dei Dardanelli. Trovata parte d'essa nelle vicinanze
dell'isola di Milo, diede nel dì 25 d'agosto la caccia a que' legni.
Sette galee turchesche, prese dallo spavento, andarono ad urtare in
terra, lasciandole infrante con salvarsi la gente. Due altre galee
vennero in potere de' Veneti, ed altrettante de' Maltesi. Il resto di
que' legni andò disperso, ed alcuni si ruppero ai lidi. Circa mille
Turchi dei rifugiati in terra dai Veneti furono condotti schiavi. Con
egual felicità anche Antonio Priuli espugnò alquante navi turchesche
da carico, con impadronirsi d'alcune e bruciarne delle altre. Questi
felici avvenimenti furono contrappesati da alquante perdite di navi
venete, che rimasero in altri luoghi preda dei corsari barbareschi:
dopo di che tutti si ridussero ai quartieri d'inverno. Trattavasi
intanto dal pontefice una lega fra i principi cristiani contra
del Turco; ma con ritrovare il re Cattolico impegnato contra dei
Portoghesi; il re Cristianissimo inceppato dall'antica amicizia coi
Turchi, e l'imperadore più disposto a conservare con qualche danno la
tregua colla Porta, che ad entrare nel periglioso giuoco della guerra.
Lo stesso papa, benchè bramasse la gloria di stabilir essa lega almeno
con Cesare e con i Veneziani, pure si raccapricciava, allorchè udiva il
suono delle spese occorrenti. La conclusione fu che i Veneti restarono
soli in ballo con loro incredibile dispendio, stante il dover essi
sostenere una sì lunga guerra contro una sì smisurata potenza, e in
paese lontano mille e ducento miglia, e coll'abborrimento ancora della
gente a passar il mare, perchè piena di apprensione di non tornarsene
poi mai più indietro.


Anno di CRISTO MDCLXII. Indizione XV.
ALESSANDRO VII papa 8.
LEOPOLDO imperadore 5.

Trovavasi in questi tempi il re di Francia _Lodovico XIV_ nel bollore
della sua gioventù, senza impegno di guerra, ma con gran desiderio di
farla, siccome avido di gloria, e più di dilatare i confini del suo
regno: sete inestinguibile di quasi tutti i principi della terra. Sopra
ogni cosa gli stava a cuore il conciliar dappertutto un gran rispetto
alla sua corona e potenza; e con tutto che incominciasse nel presente
anno a dar congedo alla continenza, conservata non ostante la sua
avvenenza e robustezza con ammirazion d'ognuno, per quanto fu creduto,
fin qui, coll'invischiarsi negli amori della Valiera: pur questi nulla
scemavano la sua applicazione al governo, a mettere in buono stato le
finanze, e a preparar forze per rendersi formidabile ad ognuno. Perchè
il barone di Batteville, ambasciatore di Spagna in Londra, volle in
un accompagnamento precedere colla sua carrozza a quella del conte
d'Estrades ambasciador di Francia, ne nacque perciò gran baruffa, con
riportarne i Franzesi bastonate e ferite; prese tal fuoco il re Luigi
a questo avviso, portatogli nel dì 16 di ottobre dell'anno precedente,
che cacciò tosto da Parigi e dal regno il conte di Fuensaldagna
ambasciatore di Spagna, il quale da lì a poco terminò i suoi giorni.
Se il re Cattolico non calmava quello sdegno con dar delle pretese
soddisfazioni, già tutto si disponeva per una nuova guerra. Nell'anno
presente un'altra novità occorse. Si doveva essere messo in testa
quel monarca di rendersi formidabile anche alla corte di Roma, giacchè
per motivi precedenti si dichiarava mal soddisfatto della altura de'
Chigi, e gli parea di trovar sempre delle durezze in qualunque cosa
ch'egli chiedesse al sommo pontefice. Mandò pertanto a Roma con titolo
di ambasciatore di ubbidienza il _duca di Crequì_ suo primo gentiluomo
di camera, personaggio d'umor fiero ed alto, poco amico dei preti,
avvezzo alle bruscherie della guerra, e non già alle manierose qualità
che richiede un'ambasceria. Seco erano molti uffiziali riformati e
genti di armi. Gli accorti Romani s'immaginarono tosto che spedizion
sì fatta tendesse a suscitar de' garbugli in Roma. Giudicò bene _don
Mario Chigi_ fratello del papa di accrescere cento cinquanta Corsi ai
soliti della guardia per maggior sicurezza della pubblica quiete. Chi è
vago di liti, dura poca fatica a trovarne. Varie insolenze e violenze
andarono facendo quei della famiglia dell'ambasciadore: e tutto si
tollerò. Ma un giorno tre soldati della pattuglia che allora si facea
per Roma, entrati per bere in una taverna, vi trovarono un mastro di
scherma franzese ed altri suoi compagni. Con varie villanie furono i
Corsi disarmati e cacciati. Dal _cardinale Imperiali_ governatore di
Roma questo schermitore processato, ebbe il bando della vita. Venne il
dì 20 di agosto, in cui due Franzesi, avvenutisi in tre soldati corsi,
attaccarono rissa; essendo incalzati, vennero in favor de' Franzesi i
famigli di stalla del duca di Crequì, che diedero una mortal ferita ad
un altro Corso che non era della rissa. Per questo accidente infuriati
i Corsi ch'erano di guardia alla Trinità, senza che gli uffiziali
potessero ritenerli, toccarono il tamburo, e coll'armi andarono al
palazzo Farnese, abitato allora dall'ambasciator di Francia, sparando
archibugiate contro chiunque era creduto franzese. Vi restò morto un
lacchè di un gentiluomo franzese e il garzone di un libraio. Per questo
rumore affacciatosi il duca di Crequì ad un balcone, volendo sgridare i
Corsi, n'ebbe per risposta qualche archibugiata, che il fece ritirare
ben tosto: il che nondimeno vien riputato falso nelle relazioni di
Roma. Lo stesso avvenne ad alcuni suoi gentiluomini, usciti per frenare
quell'empito, essendo rimasto ferito anche il capitan delle guardie
dell'ambasciatore. Dacchè videro i Corsi chiuse le porte del palazzo,
si ritirarono; ma passò questo inconveniente a maggiori eccessi;
perciocchè, incontratisi essi Corsi nella carrozza dell'ambasciatrice
di Francia (era di notte), spararono ancora più archibugiate,
con uccidere un paggio, ed anche un povero facchino accorso a
raccomandargli, come potea, l'anima. Ferirono anche un gentiluomo
nella seconda carrozza. Fuggì l'ambasciatrice piena di spavento nel
palazzo del cardinal d'Este. Perchè niuna pronta giustizia fu fatta
dell'insolenza dei Corsi, anzi si lasciarono fuggire i delinquenti, e
don Mario fece entrare in Roma molte compagnie di persone armate, con
formare due corpi di guardia in qualche lontananza dal palazzo Farnese,
il duca di Crequì nel dì 31 d'agosto si ritirò da Roma in Toscana coi
cardinali dipendenti dalla Francia, e non cessò di accendere sempre più
il già acceso re Cristianissimo con relazioni alterate contro la corte
di Roma, siccome diremo all'anno seguente.
Terminò nel presente la carriera del suo vivere _Alfonso IV d'Este_
duca di Modena in età di soli ventotto anni, principe mansuetissimo
e giusto, e però amatissimo da' popoli suoi. La podagra fu quella
che il tolse dal mondo nel dì 16 di luglio. Restò di lui un solo
principe, cioè _Francesco II_ nato nel dì 6 di marzo l'anno 1660, e
una principessa, cioè Maria Beatrice, che fu poi regina d'Inghilterra,
amendue sotto la cura e tutela della _duchessa Laura_ lor madre, donna
virile, in cui grande era il senno, maggiore la pietà. Maraviglioso
poi fu il governo di questa principessa, e lungamente ne durò una dolce
memoria. Le imprese fatte in quest'anno dall'armi venete si ridussero
a varie prede fatte di legni turcheschi. Venne a sapere il loro capitan
generale che a Scio era pervenuta la carovana navale dei Turchi che da
Costantinopoli passava in Egitto, portando preziose merci e gran regali
destinati per la Mecca. Spiegò le vele a quella volta. Dieci di quelle
navi da carico a questa vista diedero a terra, ed, essendo fuggiti i
soldati e marinari, rimasero in poter de' Veneziani. Essendosi ritirati
i vascelli di quella carovana nel porto di Coo, correndo il dì 29 di
settembre, i Veneziani con isforzo di battaglia cotanto si adoperarono,
che riuscì loro di prenderne tre. L'avidità maggiore della milizia era
contra del più grosso di que' vascelli, sapendo che veniva in esso un
agà eunuco del serraglio con carico (secondo l'opinione di molti) di
mezzo milione d'oro. Ma questo miseramente restò incendiato, e l'agà,
nuotando per salvarsi, rimase prigione. Di ventotto saiche nemiche
dieciotto furono prese, e dieci consumate dal fuoco. Si diede fine nel
presente anno alle controversie insorte fra la repubblica veneta e la
corte di Savoia, per cagione del titolo di re di Cipro e per altre
simili differenze. Dall'anno 1630 in qua avevano i Veneziani tenuto
presidio in Mantova, per sicurezza di quella città contro i tentativi
dei Franzesi e Spagnuoli. Essendo già passato ogni pericolo, ed avendo
fatta istanza l'_imperador Leopoldo_, protettor della casa Gonzaga, che
si ritirasse quella gente, vi acconsentì senza difficoltà il senato
veneto. Perciò il _duca Carlo II_ spedì tosto a Venezia il marchese
Odoardo Valenti Gonzaga a render le dovute grazie alla repubblica
dell'assistenza fin qui prestata a' suoi Stati.


Anno di CRISTO MDCLXIII. Indizione I.
ALESSANDRO VII papa 9.
LEOPOLDO imperadore 6.

Troviamo descritta nelle Storie di Andrea Valiero senator veneto,
del conte Gualdo Priorato, del Gazzoti e di altri autori la rottura
della corte di Francia con quella di Roma per l'accidente dei Corsi.
Spezialmente è da vedere sopra ciò un libro intitolato: _Racconto
dell'accidente occorso in Roma_, ec., e stampato alla macchia in
Montechiaro. A misura delle parzialità, secondo il solito, diversamente
si vide dipinto quel fatto. Puossi nondimeno accertare che niuna
parte ebbero i Chigi in tale emergente, e molto meno il povero papa,
che solamente la mattina seguente ne fu informato. Un mero furioso
ammutinamento de' Corsi ingiuriati, e con ferite maltrattati dai
Franzesi, cagionò tutto il disordine. Ora aveva già nel precedente
anno il _re Luigi XIV_ fatto seguire al tuono delle sue minaccie il
fulmine, con inviare sotto guardia di cinquanta moschettieri il nunzio
pontifizio _Piccolomini_ fuori del regno, fattolo accompagnare sino
ai confini della Savoia, senza permettergli di parlare se non ai suoi
domestici. Si credette _papa Alessandro VII_ di dare una soddisfazione
ai Franzesi con levare al _cardinale Imperiali_ il grado di governator
di Roma, giacchè la corte di Francia imputava spezialmente a lui e
a _don Mario Chigi_ la passata violenza, quasichè fatta d'ordine o
consenso loro, quando manifesto era che dalla sola bestialità de'
Corsi era avvenuto tutto lo sconcerto. Ma perchè data fu ad esso
cardinale la legazione della Marca, più onorevole e fruttuosa del
precedente suo posto, il duca di Crequì prese questo per maggiore
affronto, pretendendo che, invece di essere gastigato il porporato
suddetto, fosse anzi premiato. Eransi interposti il _duca Ferdinando
II_, i _Veneziani_ ed altri principi, per trattare di aggiustamento,
quando si ingropparono nel negoziato le pretensioni del duca di Modena
per le valli di Comacchio, e del duca di Parma per Castro contro la
camera apostolica, sostenute dalla Francia, che rendevano sempre
più difficoltosa la concordia. Laonde non si volle più fermare in
Italia il duca di Crequì, e dalla Toscana passò a Tolone, lasciando
più che mai imbrogliate le carte. Intanto il re Cristianissimo, per
maggiormente battere la corte di Roma, fatta nascere sedizione nella
città d'Avignone, mandò per sì procurato pretesto le sue milizie ad
impossessarsene, siccome di tutto il contado Venosino, spettante
alla Chiesa romana, sfoderando appresso delle rancide o, per dir
meglio, delle aeree ragioni sopra quegli Stati. Fece anche decretare
sul fine di luglio dal senato di Aix, che si riunivano quegli Stati
alla Provenza, come illegittimamente alienati una volta, quando erano
trecento anni che la Chiesa romana li possedeva. Nè ciò bastandogli,
cominciò a far sfilare in Provenza alquanti reggimenti di fanteria e
cavalleria, e farli anche dopo non molto calare in Italia ad alloggiare
nei ducati di Modena e Parma, col pretesto di difesa d'essi principi,
ma con intenzione di atterrir la corte di Roma e di condurla ai suoi
voleri; giacchè non par credibile che un re, il quale, al pari dei suoi
gloriosi antenati, si gloriava di essere il figlio primogenito della
Chiesa, covasse disegno di muovere veramente guerra ad un pontefice,
in cui non cadeva reità per gli altrui falli, ed offeriva anche
convenevoli soddisfazioni, senza però credersi obbligato ad accordare
le esorbitanti pretensioni della corte di Francia.
Tuttavia le correnti diavolerie suscitarono degli altri mali umori
in Francia, che fecero poi maggiore strepito negli anni susseguenti.
Imperciocchè in questi tempi comparvero alla luce alcune tesi della
Sorbona, per le quali si pretendeva che il papa senza il concilio non
fosse infallibile nei decreti del dogma; ch'egli fosse sottoposto al
concilio universale, che non si stendesse punto la di lui autorità
sopra il temporale dei principi; nè potesse egli deporre i re, nè
assolvere i sudditi dal giuramento di fedeltà: il che fece temere che
si pensasse a qualche scandaloso scisma nella Chiesa di Dio. In sì
scabrose contingenze non mancarono (nè mancano mai) animosi consiglieri
che persuasero a _papa Alessandro VII_ di fare il bravo e di sostenere
il decoro e la libertà del suo principato coll'armi; e però determinò
egli di ammassar ventimila fanti e duemila cavalli, con ordinar leve
di soldati anche negli Svizzeri e in Germania: al qual fine approntò
la somma di un milione e mezzo, prendendone una parte a frutto,
che probabilmente sta tuttavia a carico della camera apostolica, ed
esigendo dal monachismo d'Italia, ma non dello Stato veneto, trecento
mila scudi, oltre a quei di altre somme, che per altre cagioni dianzi
erano state sopra i loro fondi imposte. Quindi si diede a muovere i
principi della cristianità in difesa della Chiesa contro le violenze
che usava, e più minacciava d'usare il re di Francia. Andarono Brevi,
parlarono i suoi ministri; ma dappertutto si trovarono orecchie sorde;
e fin lo stesso re di Spagna, preoccupato dalla Francia, non diede se
non amorevoli consigli di aggiustare il meglio che si poteva questo
imbroglio, non sofferendo gli affari suoi per la guerra del Portogallo,
di sposare le altrui querele. Nè lasciava infatti il pontefice di
battere di buon cuore le vie dell'accordo, avendo a questo fine inviato
in Francia monsignor _Cesare Rasponi_, uomo assai destro e saggio per
trattar di concordia. Non fu questi ammesso nel regno, e solamente
a Ponte Buonvicino sui confini della Savoia seguì l'abboccamento suo
col _duca di Crequì_, e quivi colla mediazione dei ministri di Spagna
e di Venezia si spianarono i principali punti dell'accomodamento.
Tutto nondimeno andò in fascio, perchè insistendo il plenipotenziario
franzese, che precedesse la disincamerazione di Castro, intorno a
che non aveva facoltà il Rasponi, nè potè ottenerla da Roma, convenne
sciogliere l'assemblea, e lasciasse gli affari inviluppati come prima.
L'aprile dell'anno presente restò funestato dalla morte di _Margherita
di Savoia_, la quale, non avendo mai potuto conseguir la corona di
Francia, nè pur potè lungamente godere del suo matrimonio con _Ranuccio
II duca_ di Parma. Morì essa di parto. Però non tardò questo principe
ad intavolare un altro accasamento con la principessa _Isabella di
Este_, figlia del fu _Francesco I duca_ di Modena, a cui, siccome
diremo, si diede compimento nell'anno seguente. Similmente nel dì 6
di maggio dell'anno presente _Carlo Emmanuele II duca_ di Savoia con
pompa insigne introdusse nella città di Torino la nuova sua consorte,
cioè _Francesca di Borbone_ di Valois, figlia del fu _duca d'Orleans
Gastone_, cioè di un fratello del _re Lodovico XIII_ e sorella della
gran duchessa di Toscana Margherita Luigia. Ma le tante allegrezze
fatte da quella corte per queste nozze non uguagliarono il dispiacere
che vi si provò per la morte di Cristina di Francia, sorella del
suddetto re Lodovico XIII, e madre del regnante duca di Savoia:
principessa che con incomparabil prudenza, costanza, pietà ed amor
della giustizia avea per tanti anni governati quegli Stati in mezzo
ad infinite burrasche che servirono a far maggiormente conoscere la
grandezza del suo animo ed il complesso delle molte sue virtù. Mancò
essa di vita nel dì 27 di dicembre, lasciando un'immortal memoria di
sè in quella corte e nelle storie. Niuno avvenimento somministra la
guerra di Candia all'anno presente, essendo rivolti gli occhi d'ognuno
all'altra guerra che in questi tempi mosse il sultano de' Turchi
all'_imperadore Leopoldo_. Se ne stava questo buon monarca mirando con
tutta pace la guerra da tanto tempo mossa e continuata da quel tiranno
alla repubblica veneta, e parea che nol toccassero punto i di lui
progressi nell'altra che facea contro la Transilvania, senza pensare
che l'ingrandimento maggiore della smisurata potenza turchesca, già
padrona di gran parte della Ungheria, dovea tenere in continuo timore
ed allarme i suoi Stati e quei della Germania. Però immerso Leopoldo
nello amor della pace, e troppo fidante delle belle parole della Porta
Ottomana, si trovava mal provveduto di forze; quando all'improvviso gli
mossero guerra i Turchi con tal terrore, che fin si paventò di vederli
sotto Vienna, città, la quale con varie fortificazioni e colla spianata
dei borghi si preparò alla difesa. Presero i Turchi la forte piazza di
Neuheusel, occuparono Nitria, s'impadronirono di Novegradi e Levenz,
siccome nella Transilvania conquistarono Claudepoli. Allora svegliato
l'imperadore, con lettere ricorse a tutti i principi della cristianità,
andò in persona alla dieta di Ratisbona per implorar soccorsi; e trattò
di tirare in lega il papa e i Veneziani. Ma gl'imbrogli della corte di
Roma colla Francia frastornarono ogni altro affare. Raunò Cesare quante
forze potè in quella improvvisata, e buone speranze di aiuti riportò
dai principi dell'imperio.


Anno di CRISTO MDCLXIV. Indizione II.
ALESSANDRO VII papa 10.
LEOPOLDO imperadore 7.

Credevano gli antichi Romani che il loro dio Termino non sapesse
mai rinculare, cioè che, fatto l'acquisto di qualche paese, questo
non potesse più uscir delle loro mani: immaginazione derisa da
sant'Agostino, che fa vedere più d'una volta obbligata Roma a
restituire il tolto. Io non so se ne' moderni Romani fosse passata
una somigliante fantasia: solamente so, che avendo il papa incamerato
Castro e Ronciglione, volle più tosto rompere ogni trattato
d'accomodamento colla Francia, che indursi a disincamerarli, con far
valere le bolle pontifizie che lo vietavano. Ma nelle umane cose la
necessità dura maestra si fa conoscere superiore alle leggi. Erano
già pervenuti nel Parmigiano e Modenese sei mila fanti e quasi due
mila cavalli spediti dal re Cristianissimo; cresceva il tuono delle
minaccie de' Franzesi contro gli Stati della Chiesa, nè si trovava
pur uno che alzasse un dito in difesa del pontefice. Conoscevasi
da' saggi in Roma che esso papa avea già consumato gran danaro in
mettere insieme otto mila fanti e due mila cavalli, e in procurar
leve d'altra gente fuori d'Italia, nè restava nerbo di cassa e di
milizie per sostenere e continuare il preso impegno contro di un re
potentissimo. Però in fine si trovò che quella autorità che avea un
papa di fare un decreto in materia di beni temporali, non mancava ai
suoi successori per annullarlo. Con tal fondamento, e per l'urgenza
premurosa di guarir la presente piaga, ancorchè la guarigione dovesse
costar del dolore, _papa Alessandro VII_ disincamerò Castro, ed aprì di
nuovo la strada a ripigliare il negoziato di concordia col re _Luigi
XIV_. Unironsi dunque in Pisa _monsignore Rasponi_, plenipotenziario
del pontefice, e _monsignor Luigi di Bourlemont_, auditore di Rota,
plenipotenziario del re Cristianissimo; e perciocchè esso re di Francia
avea chiaramente protestato, che se per tutto il dì 15 di febbraio
presente non fosse compiuto l'accordo, egli intendeva di restare in
piena libertà di cercar quelle soddisfazioni che fossero competenti
alla sua corona, nella guisa che gli fosse sembrata più valevole e
propria: perciò nel dì 12 del suddetto mese furono da que' ministri
sottoscritti i capitoli della concordia fra sua santità ed esso
monarca. Poco profittò la casa Farnese in tal congiuntura; perchè fu
ben rimessa a lei la facoltà di riacquistar Castro nel termine di otto
anni, ma con restar vivi i debiti suoi ascendenti a più d'un milione
e secento mila scudi; e con tutte le apparenze che il _duca Ranuccio
II_ mai non ricupererebbe quello Stato, siccome in fatti avvenne. Meno
ne profittò la casa d'Este, perchè con trecento quarantacinque mila
scudi si pretese di quetar le sue sì fondate pretensioni, ascendenti
a più milioni. La principal cura de' Franzesi fu di spremere dalla
corte di Roma tutte anche le più esorbitanti soddisfazioni in ristoro
dell'affronto che pretendeano fatto al decoro della corona. Vollero
dunque che il _cardinal Chigi_ andasse con titolo di legato a Parigi
a scusare l'occorso accidente. Che altrettanto facesse il cardinale
Imperiali, già cacciato da Genova per le istanze del re. Che _don
Mario Chigi _ uscisse di Roma con protesta di non aver avuta parte in
quell'attentato, nè vi potesse tornare se non dappoichè il cardinal
Chigi avesse portato le discolpe della sua casa alla corte di Francia.
Finalmente vollero che si dichiarasse la nazion corsa da lì innanzi
incapace di servire a' papi, e che si alzasse in Roma una piramide
con iscrizione contenente questo decreto contra de' Corsi. Con sì
fatta disgustosa concordia, contra di cui fece dipoi il papa una
segreta protesta, ebbero fine i garbugli suddetti. Richiamò il re
Cristianissimo in Francia le sue fanterie, e lasciò che la cavalleria
passasse dipoi al servigio dell'imperadore. Ma niun saggio vi fu che
non disapprovasse un sì rigoroso e prepotente procedere della Francia
contra del vicario di Cristo, e tanto più per accidente avvenuto senza
menoma colpa del medesimo papa e de' suoi parenti.
Venivano intanto da Vienna calde e frequenti istanze al pontefice per
soccorsi, stante la guerra suscitata dal gran signore in Ungheria.
Trovò il papa un pronto spediente di aiutar l'imperadore, e di sgravare
nel medesimo tempo sè stesso da un grave fardello. Cioè gli esibì gli
otto mila fanti e due mila cavalli già da lui assoldati. Ma perchè
voleva concedere i soli uomini senza spendere un soldo da lì innanzi,
la corte di Vienna non vi si sapeva accomodare, e massimamente essendo
quella gente collettizia ed inesperta nel mestiere dell'armi. Mentre
su questo si va disputando, il papa, che non potea più sopportar quel
peso, impazientatosi, licenziò, nel dì 3 d'aprile, quasi tutta quella
gente, e lasciò malcontenti i ministri di Cesare, che avrebbero almen
presa la cavalleria; e nè pure procurò almeno di somministrar quelle
milizie ai Veneziani. Diede impulso questa risoluzione a non poche
declamazioni in Roma stessa contra del pontefice, che si leggono
nelle storie d'allora, quasi che egli si mostrasse così ritenuto ne'
bisogni urgenti della cristianità, quando poi compariva sì prodigo
in arricchir la propria casa, e profondeva danari in fabbriche non
necessarie. Giunsero fino a dire, essersi egli prevaluto in suo
uso dei duecento mila scudi lasciati dal _cardinal Mazzarino_ da
impiegarsi contra del Turco, e di parte ancora delle decime imposte
agli ecclesiastici, e destinate alla guerra stessa: il che nondimeno
si sa da storie migliori essere stato una calunnia. Lagnavansi ancora
ch'egli non trovasse danaro per aiuto di Cesare, quando si erano ben
approntati ducento mila scudi, acciocchè con gran fasto e vanità il
nipote cardinale comparisse alla corte di Parigi. S'impadronirono
in quest'anno l'armi dell'imperadore della città di Cinque Chiese;
e il valoroso Nicolò conte di Zrin fece altre prodezze. Ma, impreso
l'assedio di Canissa, convenne poi abbandonarlo. Sei mila Franzesi
furono spediti dal re Cristianissimo in aiuto di Cesare, che sotto il
comando del signor di Colignì diedero anch'essi de' begli attestati del
loro valore. Parimente Nitria fu ricuperata e Levenz, sotto la quale
ultima il maresciallo di Souches diede una rotta ai Turchi. Ma famosa
sopra tutto riuscì e ragguardevole la vittoria riportata dal generale
supremo Montecuccoli Modenese nel dì 4 d'agosto al fiume Rab della
tanto superiore armata ottomana. Circa sedici mila Musulmani rimasero
estinti sul campo e nel fiume, se pur dicono il vero le relazioni
d'allora. Non cessava intanto Cesare di manipolar la pace co' Turchi,
e questa fu conchiusa nel dì 10 d'agosto, più tosto con biasimo che
lode sua, perchè fatta dopo i felici avvenimenti delle sue armi, e per
aver lasciata in mano de' nemici la considerabil fortezza di Neuheusel,
e deluse le speranze de' Veneti, che per quell'impegno di guerra si
figuravano omai facile il ricuperare in Candia i luoghi perduti. Non
erano per anche asciugate le lagrime nella corte di Torino per la
morte della impareggiabil _madama reale Cristina_, che nuovo motivo di
pianto sopravvenne per la morte ancora della duchessa _Francesca di
Borbon_, moglie del regnante _duca Carlo Emmanuele II_, principessa
di vita esemplarissima, rapita da questa vita dopo soli pochi mesi
del suo maritaggio. Ad amendue furono fatti insigni funerali. Passò
dipoi quel real sovrano alle seconde nozze colla principessa di Nemours
_Maria Giovanna Batista_ della casa di Savoia. Similmente nel febbraio,
festeggiato da grande splendidezza, si vide in Modena e poscia in
Parma il matrimonio della principessa _Isabella d'Este_, figlia del fu
_duca Francesco I_ con _Ranuccio II duca_ di Parma. Incamminatosi da
Roma il _cardinal Flavio Chigi_ nel dì 5 di maggio con suntuosissimo
corteggio verso la Francia, fece la sua solenne entrata in Parigi
nel dì 28 di luglio, e nel dì 9 di ottobre tornò a rendere conto al