Annali d'Italia, vol. 6 - 81

Caracalla_ Augusto. Sopra una gran base, che ha figura di uno scoglio,
ornato di belle statue, da cui scaturiscono quattro copiose fontane,
fu riposto quel prezioso monumento della più rimota antichità, ed altri
ornamenti si videro aggiunti alla medesima piazza.


Anno di CRISTO MDCLII. Indizione V.
INNOCENZO X papa 9.
FERDINANDO III imperad. 15.

Fu in quest'anno che _papa Innocenzo X_, considerando i molti e gravi
disordini provenienti alla regolar disciplina da tanti conventini di
frati, venne finalmente alla risoluzion di schiantarli. Non solamente
nelle castella, ma anche nelle picciole ville d'Italia aveano
essi frati a poco a poco piantato il nido, e quivi si godevano un
bell'ozio, sovente anche scandaloso, intenti, se poteano, a procurarsi
dalla divota gente de' buoni lasciti, per poter menare una vita più
deliziosa. Dimorandovi pochi religiosi, niuna osservanza restava fra
essi delle sante regole del loro istituto. Alla riforma dunque di
tali abusi mise man forte lo zelante pontefice, e nel dì 15 d'ottobre
suppresse e ridusse a stato secolare tutti que' conventi, dove pel
poco numero de' religiosi non si potesse osservare la disciplina
regolare. Moltissimi di fatto ne furono suppressi; ma ritrovaronsi
anche maniere e mezzi per farne sussistere assaissimi altri contro la
mente del papa, che a maraviglia intendeva di quanta corruttela degli
ordini religiosi fossero luoghi tali, dove ordinariamente si perde
tutto lo spirito religioso. In questi tempi ancora si vide cangiato
l'animo di esso pontefice verso de' Barberini, fin qui esuli da Roma,
e privi della di lui grazia. Si trovarono insussistenti e calunniose
tutte le accuse intentate contro di loro; giuste e lodevoli tutte
le loro azioni sotto il precedente pontificato. Gran teste erano i
due fratelli cardinali _Francesco_ ed _Antonio_. Il primo, siccome
savio ed esente da ogni reato, seppe conciliarsi la buona grazia de'
principi, e massimamente del gran duca di Toscana, e col favore del
suo partito nel sacro collegio superò dopo qualche tempo la tempesta,
e tornossene a Roma. Rimasto in Francia Antonio, profittò delle sue
disgrazie, con aver ottenuto da quella corte per mezzo dell'amicissimo
_Mazzarino_ pingui abbazie e vescovati, e il grado di limosiniere di
quella corona. Riconciliaronsi in questo anno essi barberini colla
repubblica veneta, con rilasciarle tutte le rendite sequestrate de'
lor benefizii, e donarle per soprappiù dodici mila ducati d'oro da
impiegare nella guerra col Turco. In ricompensa vennero aggregati alla
nobiltà veneta, e si portarono apposta a Venezia _Carlo_ e _Maffeo_
figli di don _Taddeo_ prefetto di Roma, già mancato di vita in Francia,
per ringraziare il senato di questo onore. Ora veggendo _donna Olimpia_
cognata del papa, e gli altri di casa Panfilia declinare all'occaso il
decrepito papa, si avvisarono di troncar la nemicizia coi Barberini, e
di assodar meglio le cose loro, con farsi amica una casa sì potente per
le ricchezze, per le protezioni e pel gran seguito nel sacro collegio.
Però, cancellati gli odii, tornò anche il cardinale Antonio a Roma, ben
accolto dal papa; si stabilirono le nozze di _don Maffeo_ con _donna
Olimpia_ Giustiniani pronipote d'esso pontefice; e a _Carlo Barberino_
per la restituzion del cappello fu conferita la sacra porpora: il che
succedette nell'anno seguente. Sicchè essendo già defunto nel 1646 il
_cardinal Antonio Barberino_ seniore, piissimo cappuccino, e fratello
de' suddetti due porporati, tornò quella casa ad aver tre cardinali
suoi nello stesso tempo viventi, e servirono ad essa le traversie
passate di gloria e di maggior grandezza.
Seguitava intanto ad essere agitata fra balzi ora favorevoli ora
contrarii la fortuna del _cardinal Mazzarino_ in Francia, tuttochè
si mirasse egli protetto dal giovinetto _re Luigi XIV_, che già
avea assunto le redini del governo, e molto più dalla regina madre.
Durando quelle guerre civili, restavano in gran depressione gli
affari dei Franzesi nel Piemonte. Bella congiuntura che era questa al
_marchese di Caracena_ governator di Milano per ricavarne profitto.
Sicuro egli che per le turbolenze suddette non potevano eglino sperar
soccorso, si avvisò di fare un bel colpo, cioè di cacciare il presidio
loro da Casale. Era il principio di maggio, e per coprire il suo
disegno, all'improvviso comparve con tutto l'esercito suo sopra la
città ben fortificata di Trino, ed affrettossi a tirar la linea di
circonvallazione, a formare approcci e mine, a postar artiglierie,
cominciando a bersagliar quella piazza. Si unirono Franzesi e Savoiardi
sotto il comando del giovine marchese Villa e del conte di Verrua,
per dare soccorso; ma ritrovato il Caracena uscito dalle linee in
ordinanza di battaglia per ben riceverli, troppo periglioso parve loro
il tentativo, e se ne tornarono indietro. Sicchè Trino dopo alquanti
giorni capitolò la resa, con avere il Caracena accordato quante
onorevoli condizioni potè mai chiedere il presidio. Dopo l'acquisto
di sì importante fortezza s'inoltrò l'esercito spagnuolo sotto
Crescentino, alla cui difesa trovò ottocento fanti e settanta cavalli,
che pareano risoluti di non volerne dimettere il possesso a chi che
fosse. Si diede principio alle offese, e contuttochè anche il cannone
di Verrua giacente sull'opposta riva del Po incomodasse non poco gli
assedianti, proseguirono vigorosamente, ciò non ostante, i lavori.
Essendo riuscita poco felicemente una sortita della guernigione, venne
essa infine obbligata a rendere la suddetta terra di Crescentino. Fu
dipoi preso anche il castello di Masino, e dato il sacco al paese posto
fra la Dora e il Po. Mandò poscia il Caracena le genti sue a ristorarsi
nel Monferrato, distribuendole in Occimiano, Rossignana, San Giorgio ed
altri luoghi, facendo intanto gli opportuni preparamenti pel sospirato
assedio di Casale.
Ossia che esso Caracena avesse trattato molto prima con _Carlo II duca
di Mantova_, come fu creduto, o che aspettasse a farlo dopo l'acquisto
di Crescentino; certo è che gli venne fatto d'indurre quel principe
a mettersi sotto la protezion della corona di Spagna, e a dar colore
a quella impresa, come progettata in benefizio di lui, e non già
per vantaggio alcuno degli Spagnuoli, a fin di quetar le gelosie che
ne potessero insorgere presso i principi d'Italia. Perciò il duca,
secondo l'uso o l'abuso già da gran tempo introdotto di giustificare
o inorpellare il movimento dell'armi, pubblicò un manifesto, con cui
si studiò di mostrar la necessità sua di aderire agli Spagnuoli, per
giusto timore di perdere tutto, se operava in contrario. Mandò poscia
dal Mantovano mille e cinquecento fanti e trecento cavalli, comandati
dal marchese Camillo Gonzaga, ad unirsi all'armata spagnuola. A questa
unione, siccome aperta dichiarazione del duca contro i Franzesi, tenne
tosto dietro una somma diffidenza fra essi e i cittadini di Casale,
con riguardar cadauna parte l'altra come nemica, non ostante il dover
gli uni e gli altri convivere insieme. Durò questo imbroglio finchè
comparvero ordini del duca a quel senato e preghiere ai Franzesi di
consegnar la città e le fortezze al legittimo lor padrone. Perciocchè
sì destramente allora seppero i cittadini concertar le loro faccende,
che obbligarono i Franzesi a ritirarsi nel castello e nella cittadella.
Ciò fatto, si videro spalancate le porte della città, e vi entrò don
Camillo Gonzaga col marchese di Caracena, il quale non perdè tempo
a formare gli approcci al castello. Questo solamente resistè per tre
giorni, ancorchè fosse ben munito, e il signor d'Espredele ne capitolò
la resa con patti onorevoli di guerra, e insieme con istupore di tutti.
Ma da lì a pochi dì cessò la maraviglia, perchè esso governatore,
incamminato verso il Piemonte, fallò la strada, e andò a finire il suo
viaggio a Mantova, dove fu cortesemente accolto dal duca. Fece dipoi
il signor di Sant'Angello, governatore della cittadella di Casale,
impiccare la di lui statua, se con danno o risentimento dell'originale,
nol dice la storia. Incredibil fu la sollecitudine del Caracena
in assalire la restante cittadella. Nel termine di quindici giorni
fu formata una terribil circonvallazione con fortini ben guerniti
d'artiglierie, e talmente condotti i lavori, che furono prese due mezze
lune e la strada coperta, e si giunse a pie' dei baloardi, sotto i
quali si diede principio a mine e fornelli. Avvegnachè gli assediati,
chiamati alla resa, si chiarissero del pericolo che lor sovrastava,
protestarono di volersi difendere sino all'ultimo sangue. Ma infine
alloggiatisi gli Spagnuoli sulla breccia, venne il tempo di rendersi
con tutti gli onori militari nel dì 22 di ottobre, giacchè non sapea
quel presidio essere in cammino un poderoso soccorso di Franzesi e
Piemontesi, che aveano già passato il Po a Verrua, e che ricuperarono
dipoi Crescentino e Masino. Da don Camillo Gonzaga furono introdotti
nella cittadella mille soldati mantovani e cinquecento monferrini: la
qual nuova sparsa per l'Italia fece rimbombar dappertutto gli encomii
e i plausi alla generosità spagnuola, la quale con tante spese avesse
guadagnata quella sì importante piazza non per sè, ma pel duca di
Mantova, e pareva a tutti un miracolo così gran disinteresse. I soli
Milanesi ne mormoravano, perchè avendo essi non solo con pubbliche,
ma con private contribuzioni ancora, cooperato a quell'acquisto,
aveano seminato e mietuto unicamente per comodo altrui. Essendo poi
venuto a Casale il duca di Mantova, ritirati i suoi dalla cittadella,
v'introdusse ottocento Alemanni della armata spagnuola, pagati da lì
innanzi dalla camera di Milano: con che parve che si scoprisse l'arcano
delle segrete capitolazioni seguite fra esso duca e il Caracena. La
verità nondimeno si è, che il duca vi mise il governatore, e parve far
da padrone anche della cittadella. Per questo negoziato e cangiamento
del duca si alterò forte contra di lui la corte di Parigi; ma il
_cardinal Mazzarino_ non lasciò di calmare, per quanto potè, lo sdegno
del re Cristianissimo.
Nulla di rilievo accadde in questo anno nella guerra più che mai viva
dei Turchi contro la veneta repubblica. Al servigio di essi Veneziani
spedì _Ranuccio duca di Parma_ due mila combattenti ben armati, e
insieme il principe _Orazio Farnese_ suo fratello, a cui fu conferito
il grado di generale della cavalleria veneta. Calarono in Italia
nella primavera gli arciduchi del Tirolo _Ferdinando_ e _Francesco
Sigismondo_ per visitare _Isabella Chiara_ duchessa di Mantova loro
sorella. Di molte feste furono in tal congiuntura fatte in quella
città, e v'intervenne anche _Francesco I duca_ di Modena. Invitati
quei principi da esso duca, vennero poi nel dì 10 di aprile insieme col
_duca Carlo II_ e colla duchessa di Mantova a Modena. E perciocchè uno
dei pregi dell'Estense era la magnificenza, trattenne egli per più dì
quell'illustre brigata con suntuosi divertimenti di commedie, caccie,
conviti e danze. Superbo spezialmente riuscì un torneamento a cavallo
fatto nella piazza del castello, per le ricche comparse, per la rarità
delle macchine, voli e battaglie: spettacolo descritto e pubblicato
dalla famosa penna del conte Girolamo Graziani segretario del duca.
Restò nulla di meno funestata sì allegra giornata da un sinistro
accidente, cioè dalla morte di Giovanni Maria Molza cavalier modenese,
il quale correndo colla lancia incontro al conte Raimondo Montecuccoli,
miseramente ferito alla gola perdè tosto la vita. Sì afflitto rimase
per questa disavventura il Montecuccoli, perchè suo grande amico era
il Molza, che non tardò a tornarsene in Germania, dove poi divenuto
generalissimo dell'imperadore, diede tanti saggi di valore e prudenza,
che il suo nome passerà chiarissimo anche ai secoli avvenire.


Anno di CRISTO MDCLIII. Indizione VI.
INNOCENZO X papa 10.
FERDINANDO III imperad. 16.

Nella storia ecclesiastica celebre riuscì l'anno presente per la
solenne condanna fatta, nel dì 31 di maggio, da _papa Innocenzo X_
delle cinque proposizioni di _Cornelio Giansenio_ vescovo d'Ipri,
accettata festosamente dai vescovi di Francia. Sì giusta fu la
sentenza pontificia, sì chiara intorno a questi punti è la dottrina
della Chiesa cattolica, che non osarono già i seguaci e fautori del
Giansenio di mettersi a cozzare coll'autorità della Sede apostolica
intorno a tal decreto; ma cangiarono batteria, pretendendo che le
condannate proposizioni non esistessero nelle opere del suddetto
Giansenio, morto in comunione della Chiesa. E qui ebbe principio una
sedizione d'ingegni, che tante scene ha poi dato alla Chiesa di Dio,
e che ora palese, ora occulta si mantien viva e pertinace tuttavia in
chi, gloriandosi di essere fedel discepolo di Sant'Agostino, si abusa
del suo nome per sostener dogmi riprovati dalla Chiesa di Dio. La
prosperità, dell'armi spagnuole in Italia cagion fu che i Franzesi,
per timore che il duca di Savoia _Carlo Emmanuele_ non si gittasse
anch'egli loro in braccio, addolcirono quella corte, con cederle il
possesso della fortezza di Verrua; ed altri aggiungono anche della
cittadella d'Asti, occupata fin qui dalle lor armi. Alcune picciole
fazioni militari si fecero dipoi tra i Franzesi ingrossati e l'esercito
spagnuolo: saccheggiarono i Piemontesi sul principio di quest'anno il
borgo di Sesia e poscia Serravalle; ma infine si ritirarono tutti ai
lor quartieri, risparmiando il sangue a miglior uso.
Senza azione alcuna degna di osservazione passò ancora la presente
campagna in Levante e in Dalmazia, quantunque la guerra turchesca
durasse coi Veneziani, i quali con tutto il loro sforzo mai non
mandavano tal nerbo di gente in soccorso di Candia che i lor generali
potessero tentar grandi imprese. Trovavasi anche sola in questo cimento
la repubblica, giacchè l'imperadore e la Polonia si studiavano di star
in pace col nemico comune. Miracolo perciò era che non andassero sempre
più peggiorando gl'interessi de' Veneti, troppo picciolo riuscendo al
bisogno loro il soccorso delle galee del papa e di Malta. In questi
tempi il duca di Mantova _Carlo II_ sostenuto dalla protezione della
_imperadrice Leonora_ sua sorella, e già tutto dichiarato del partito
degli Spagnuoli, ottenne di essere creato vicario imperiale in Italia:
novità che servì a far crescere i disgusti fra lui e la real casa di
Savoia, a cui già dai precedenti Augusti era stata conferita cotal
dignità. Nè si dee tacere che per le gravissime turbolenze intestine
della Francia era decaduto da qualche tempo in Italia il credito e
il potere dei Franzesi. Cominciarono in quest'anno a cambiar faccia
gli affari, coll'essere gloriosamente ritornato dopo l'esilio, dopo
tanti oltraggi, il _cardinal Mazzarino_ a Parigi, dove ripigliò la
primiera autorità presso il _re Luigi XIV_ e si diede a rimettere in
buon sesto lo sfasciato regno, e a tessere delle tele anche in Italia
per reprimere gli Spagnuoli. Arrivò egli in quest'anno a stabilire
il matrimonio di madamigella _Anna Maria Martonozzi_ sua nipote
con _Armanno principe di Contì_, fratello del Condè, cioè del gran
promotore di quelle guerre civili. Col mischiare il suo col sangue
reale di Francia si aprì egli la strada ad un'altra alleanza colla
nobilissima casa d'Este, siccome diremo. Maritò ancora in varii tempi
altre sue nipoti di casa Mancini con _Lodovico duca di Vandomo_, col
_principe Eugenio di Savoia_ conte di Soissons, col _contestabile
Colonna_ e col _duca di Buglione_. Ecco ciò che sa fare il senno colla
fortuna congiunto.


Anno di CRISTO MDCLIV. Indizione VII.
INNOCENZO X papa 11.
FERDINANDO III imperadore 17.

Pace non si godeva in Lombardia, e pur guerra non ci fu nell'anno
presente; e ciò perchè tutti stavano attenti ad un gagliardo armamento
marittimo che si faceva in Provenza, nè si sapea qual mira avesse
questo minaccioso temporale. Venne finalmente a scoprirsi che _Arrigo
di Lorena duca di Guisa_, che già dicemmo preso e poi liberato dalle
carceri di Spagna meditava di tentar di nuovo la fortuna con passare
nel regno di Napoli. Dopo la ribellione de' precedenti anni, molti
di que' nobili aveano più tosto eletto di abbandonar la patria, che
di restare esposti alla dubbiosa fede e nota crudeltà del _conte
di Ognate_ vicerè, ed erano stati per questo banditi da lui. Altri
ancora nel seno dello stesso regno dimoranti si rodevano di rabbia per
l'aspro governo degli Spagnuoli. Però volavano da più parti lettere
ed inviti al suddetto duca di Guisa, signore che per le sue obbliganti
maniere avea lasciato buon nome e non pochi amici in Napoli, affinchè
si presentasse con un'armata in quel regno, promettendo a lui mari e
monti di assistenze e di ribellioni. In chi già s'era veduto come re
in quel bel paese, nè avea mai saputo deporre il desio e forse nè pur
la speranza di conquistarlo, fecero facilmente breccia i conforti e
le promesse di tanti regnicoli, e il creduto universale odio di que'
popoli contro gli Spagnuoli. Comunicò il Guisa il suo pensiero alla
corte di Francia, che occupata da maggiori impegni non volle accudire
a sì perigliosa impresa. Ottenne nondimeno favori per poter armare,
ed anche intenzione di poderosi aiuti, qualora gli venisse fatto di
sbarcare nel regno di Napoli, e di far conoscere un bell'aspetto di
maggiori progressi. Raunato quanto danaro potè ricavar da' suoi proprii
beni e dalle borse de' suoi amici, si applicò a far massa di gente e
ad allestir gran copia di legni. Mal servito fu egli da chi avea tale
incumbenza, perchè gran tempo si consumò in apparato, e le navi si
trovarono dipoi mal corredate, nè a sufficienza fornite di marinaresca,
di attrezzi e di munizioni. Arrivò l'autunno, tempo poco propizio ai
naviganti; pure il duca salpò e fece vela verso il Levante. Ma eccoli
le tempeste mover guerra a lui, prima ch'egli la facesse agli altri.
Alcuni de' suoi legni, perchè deboli a quel conflitto, si perderono,
o rimasero ben conquassati. Contuttociò a' lidi di Napoli giunse
finalmente la flotta guisana, dove non si contavano più di quattro
mila uomini da sbarco: armata in vero troppo lieve per conquistare un
regno. Si aspettava il duca di vedere al suo arrivo fioccare a migliaia
i regnicoli sotto le sue bandiere: che tali erano state le lusinghevoli
promesse de' malcontenti. Poco tardò a conoscersi beffato, non trovando
se non de' nemici in quelle parti.
Aveano gli Spagnuoli preveduto che il preparamento di quella flotta
in Provenza avea per mira il regno di Napoli, nè mancò loro tempo per
premunirsi. Il vicerè, più accorto del duca, assai conoscendo qual
danno potesse provenire da tanti banditi, se giugnessero ad unirsi coi
Franzesi, si applicò al saggio consiglio di richiamarli per tempo,
concedendo grazia e restituzion di beni a tutti, purchè fedelmente
in questa congiuntura prestassero servigio alla corona. Concorsero
tutti al perdono, anteponendo il sicuro presente bene all'incerto del
patrocinio franzese; e però in vantaggio di lor soli si convertì la
spedizione del Guisa. Ciò non ostante, esso duca, avendo giudicato
utile ai suoi disegni l'acquisto di Castellamare, colà sbarcò le
milizie sue; e giacchè quel presidio alla dolce chiamata negò di
rendere la città, le artiglierie cominciarono a parlargli di altro
tuono. Formata la breccia, si venne ad un generale assalto, per cui
in meno di sei ore con poca perdita di gente il duca divenne padrone
della città e del castello. Ciò fatto, spedì egli il marchese Plessis
Belieure ad impossessarsi della Sarna, e ad occupare i mulini e ponti
della Persica e di Scaffati: il che avrebbe sommamente incomodata
la città di Napoli. Fu creduto che se il Guisa fosse marciato a
dirittura ai borghi di Napoli, avrebbe fatto progressi superiori
alla comune espettazione: tanta era la costernazion degli Spagnuoli,
la lor diffidenza de' Napoletani, e poche le presenti lor forze. Ma
perchè gli mancarono presto i viveri, e i soldati si abbandonarono
alla licenza per procacciarsene, il che fece fuggire i paesani; e
perchè sopraggiunse Carlo della Gatta con grossi rinforzi, perderono
in breve i Franzesi i posti occupati; ed in Castellamare, dopo aver
consumato quasi tutto il biscotto, si trovarono in tali angustie,
che il duca si vide forzato a rimbarcar la sua gente, e rivolgere di
nuovo le prore verso Ponente. Gran fatica durò per la contrarietà del
mare all'imbarco, e nel viaggio patì gravissimi disastri, ma in fine
si ridusse in Provenza, con aver perduto da secento de' suoi soldati,
e lasciate in preda alle onde alcune sue navi. Allora, benchè troppo
tardi, imparò qual pericolo sia il solcare in certi tempi il mare,
e il fidarsi di popoli tumultuanti e promettitori di gran cose in
lontananza, ma poi al bisogno atterriti e mancanti di parola. Se buona
piega prendevano gli affari del Guisa, pensava la Francia di spedirgli
per terra un corpo di cavalleria; e perciò il Caracena nello Stato di
Milano facea buone guardie a fine d'impedirne il passaggio. Andarono a
monte questi pensieri per la ritirata del Guisa, restando sommamente
ringalluzziti gli Spagnuoli al vedersi con tanta felicità liberi da
quella temuta invasione, e confuso l'ardire dei nemici Franzesi.
Poco prosperamente camminarono in quest'anno gli sforzi della veneta
repubblica nella guerra col Turco. Venuta la primavera, voglioso
Lorenzo Delfino, generale della Dalmazia, di far qualche gloriosa
impresa, con sei mila combattenti si portò ad assediare la forte
piazza di Chnin, e cominciò a batterla. Non passò gran tempo che
sopraggiunsero al soccorso cinque mila Musulmani, che obbligarono
i cristiani alla ritirata. Fu questa fatta con sì mal ordine, che
rimase divisa la fanteria dalla cavalleria, e perciò restarono amendue
sbaragliate con perdita di circa tre mila persone, di molte insegne e
cannoni: disgrazia amaramente sentita dal senato non men per lo danno
sofferto, che per lo scoraggimento delle rimanenti milizie. Seguì
ancora nel dì 11 di giugno ne' mari di Levante una fiera battaglia fra
l'armata navale turchesca e la veneta assai inferiore di forze. Con
tutta la disparità fecero maraviglie di valore i Veneziani, ed anche
incendiarono alcune navi nemiche; ma più n'ebbero incendiate delle
proprie, ed alcune altre rimasero prese. Grave nulladimeno essendo
stato il danno degli infedeli, ciascuna delle parti, secondo il solito
in simili casi, decantò la vittoria. Nè si dee tacere una curiosa
avventura di questi tempi. Ad alcuni religiosi minori osservanti,
il numero dei quali supera di gran lunga qualsivoglia altro ordine
religioso, cadde in pensiero di sacrificar le loro vite o sull'armata
navale, o in Candia, per difesa della religion cristiana. Proposto
nella congregazion di Roma il loro zelo e disegno, fu approvato con
alcune modificazioni, e restò disegnata più d'una città dove s'avea
da unire quest'armata fratesca. Ma si frappose il duca di Terranuova
ambasciatore di Spagna in Roma, facendo riflettere che portando i
Francescani l'armi contra del Turco, avrebbono perduti i luoghi santi
di Gerusalemme; e tanti altri dello stesso ordine, esistenti nelle
missioni del Levante, sarebbono rimasti esposti alla crudeltà de'
Turchi. Per tali opposizioni abortì il sopraddetto disegno. Molti
maneggi avea fatto _Francesco I duca_ di Modena per passare alle terze
nozze, siccome principe robusto e di delicata coscienza; ma svaniti
questi, infine s'appigliò a prendere _donna Lucrezia Barberini_, nipote
de' cardinali _Francesco_ ed _Antonio_, e pronipote del già _papa
Urbano VIII_, con dote di mezzo milione d'oro. Tale era il credito
e la potenza di quei porporati nella corte di Roma e di Francia,
che intervenendovi anche gli uffizii di _papa Innocenzo X_, divenuto
tutto Barberino, e del _cardinal Mazzarino_, sempre intento a procurar
parziali alla corona di Francia, che il duca di Modena riguardò tal
matrimonio come utile ai presenti suoi interessi. Fu poi sposata
questa principessa nel seguente anno in Loreto, e fece la sua entrata
nel dì 23 d'aprile in Modena. Il magnifico viaggio della medesima
si truova descritto da Leone Allacci celebre letterato. Più giorni
furono impiegati in sontuose feste e pubblici solazzi, e spezialmente
eccitò il plauso e l'ammirazione de' folti spettatori, sì del paese
che forestieri, un ingegnoso torneo, accompagnato da gran copia di
strane macchine, da ogni sorta di strumenti musicali, e dallo sfarzo
degli abiti, che fu in tal congiuntura eseguito dalla nobiltà modenese,
esercitata allora in somiglianti spettacoli.


Anno di CRISTO MDCLV. Indizione VIII.
ALESSANDRO VII papa 1.
FERDINANDO III imperad. 18.

Si vide il principio di quest'anno funestato dalla morte di _papa
Innocenzo X_ più che ottuagenario, succeduta nel dì 7 di gennaio, dopo
dieci anni, tre mesi e ventitrè giorni di pontificato. Principe fu
di rara prudenza nel governo, savio, circospetto nel parlare, tardo
a risolvere, per accettar meglio le risoluzioni, e perciò difficile
nelle grazie. Prelato Datario s'era acquistato il titolo di _monsignor,
non si può_. Per altro si diede sempre a conoscere amantissimo della
giustizia, e alle occorrenze la esercitò, ed anche andando per Roma
riceveva i memoriali de' poveri, per tenere in freno i ministri.
Inclinava forte all'economia e al risparmio talmente che di lui si
lagnarono forte i Veneziani, perchè non imitando egli tanti altri
zelanti papi, pochissimi aiuti contribuì alla difesa dei cristianesimo
nella guerra col Turco. Scusavasi esso pontefice coll'aver trovata
troppo esausta la camera apostolica, e col costante desiderio di non
aggravare i popoli (dal che ben si guardò), anzi di sgravarli: al qual
fine avea adunata gran somma di danaro, che servì poi a tutt'altro.
A riserva dell'affare di Castro, abborrì di entrare in alcun altro
impegno, tenendosi amico di tutti, creduto sul principio sommamente
parziale degli Spagnuoli, e sul fine tutto Franzese. Nella carestia
del popolo romano provvide al suo bisogno, e lasciò insigni memorie di
fabbriche nelle basiliche Lateranense e Vaticana, nel Campidoglio e in
altri luoghi. Quel solo che ecclissò alquanto la gloria d'Innocenzo X
fu l'aver avuto per cognata, cioè per moglie del defunto suo fratello
Panfilio Panfilii, _donna Olimpia Maidalchina_, donna di gran senno
bensì, e di non minore onestà ornata, ma insieme soggetta alta
vertigini dell'ambizione e dell'interesse. Ancorchè non avesse ella che
un figlio, cioè _don Camillo Panfilio_, atto a propagar la sua casa;
pure per dominare sotto la di lui ombra a palazzo, gli fece conferir
la porpora, e il titolo allora usato di cardinal padrone. Innamoratosi
questi poi della principessa di Rossano, deposta la porpora, passò
alle nozze; per la qual risoluzione, non approvata dalla madre, e
nè pure dal papa, restò poi escluso dalla corte ed anche da Roma.
Trovandosi allora il vecchio pontefice bisognoso di chi l'aiutasse a
portare la pesante soma del governo, donna Olimpia ebbe campo, siccome
donna virile, d'ingerirsi in tutti gli affari, di maniera che a lei
faceano capo anche gli ambasciatori, e per mezzo di lei si ottenevano
le grazie; per le quali vie giunse ella ad accumular tesori. Ora, al
vedere nel sacro palazzo un tal dispotismo, vie più improprio, perchè
di donna, tanti in fine furono gli schiamazzi, che avvedutosi il
buon pontefice che ne pativa la riputazione sua, rimosse non solo dai
pubblici affari, ma anche dal palazzo l'ambiziosa cognata. Effetto fu
della sua saviezza una tal risoluzione, ma effetto similmente della
sua debolezza l'avere di poi rimessa alquanto nella sua confidenza essa
donna Olimpia, la cui fortuna si sostenne da lì innanzi finchè visse il
papa, e provò poi anche dei balzi sotto il di lui successore.
Aprissi dopo l'esequie del defunto pontefice il sacro conclave, e si
consumarono quasi tre mesi in discordie e dibattimenti, finchè nel
dì 7 d'aprile cadde l'elezione nella persona del _cardinale Fabio
Chigi_, Sanese di patria, il quale assunse il nome di _Alessandro
VII_. Concorrevano in lui tali doti di pietà, di letteratura, di
saviezza, che quantunque in età di cinquantasei anni, e creato
cardinale solamente nel 1652, pure si trovò anteposto a tutti gli
altri più vecchi porporati. Gran plauso riportò da tutti questa
elezione. Sfavillava spezialmente in lui un vero zelo per la difesa