Annali d'Italia, vol. 6 - 80

Condè_, oppure del _duca d'Orleans_, fu rimesso in libertà. Tenne per
fermo la gente savia che se il Guisa colle parole avesse accompagnati
i fatti, con istabilire la repubblica di Napoli, dove avessero avuta
parte anche le altre provincie e città del regno, ed anche la nobiltà,
quivi sarebbe venuto meno il dominio spagnuolo. Ma perchè egli mirava
più alto, e pensava a sè stesso, non giovò al popolo e rovinò sè
medesimo. Similmente se i Franzesi fossero accorsi con poderose forze,
finchè il Guisa si trovava in vigore, non poteano reggere a una sì
gran tempesta gli Spagnuoli per mancanza di gente e di viveri. Arrivò
solamente sul principio d'agosto con una flotta numerosa di legni in
quei mari il principe Tommaso di Savoia, e misesi anche ad assediar
Salerno. Trovò troppo mutati gli affari, e fu forzato a ritornarsene
con poco onore. Si andò poi riducendo, benchè non senza fatica, alla
primiera ubbidienza il resto dello sconvolto regno di Napoli; ma si
diede principio ad un'altra non lieve tragedia in quelle parti. L'usar
clemenza e il perdonare per lo più non furono virtù favorite nella
nazione spagnuola. Però il _conte d'Agnate_ vicerè, che avea ritrovato
nella segreteria del duca di Guisa un arsenale di carte convincenti
di fellonia e di male intelligenze chiunque non amava il governo
spagnuolo, e voleva in oltre dare al popolo un esemplare gastigo della
passata ribellione, stancò da lì innanzi i tribunali coll'immensa
copia dei processi; infierì colle scuri e colle forche contra di chi
non s'era avvisato di fuggire; e coi bandi e confischi si vendicò di
chi avea saputo sottrarsi alle sue griffe. In una parola, si credè
risuscitato in lui il crudele duca d'Alva flagello della Fiandra.
Stesesi ancora il suo rigore contro la nobiltà, che pur tanto avea
fatto in servigio della corona di Spagna. E Gennaro Annese, non ostante
il merito che s'era acquistato colla corona suddetta, lasciò in fine il
capo sopra di un palco. Con più moderazione e prudenza attese in questi
tempi il _cardinal Trivulzio_ a rimettere la serenità in Palermo e nel
regno di Sicilia, in guisa che potè poi rinunziarlo tutto pacificato a
_don Giovanni d'Austria_, che a lui succedette in quel governo.
Fece orrore in quest'anno la congiura ordinata da alcuni tristi, cioè
da don Giovanni Gandolfo religioso dell'ordine di san Bernardo, da
Bernardo Sillano senator di Torino, e da Giovanni Antonio Gioia, contro
l'innocente vita del giovinetto duca di Savoia _Carlo Emmanuele_, e
di _madama reale Cristina_ sua madre. Cercandosi chi avesse composto
uno scandaloso almanacco che prediceva tragiche avventure, gastighi di
ministri e morti di gran personaggi, se ne scoprì autore il suddetto
religioso. Preso costui sul fine dell'anno precedente, venne poi
rivelando i complici, e il nero disegno da lor fatto di estinguere
il sovrano e la madre o con veleni o con fattucchierie. Erano costoro
del partito dei principi Maurizio e Tommaso zii del duca. Il Sillano
improvvisamente morì in prigione; ebbero il Gandolfo e il Gioia dalla
giustizia il meritato fine. Fu in tal congiuntura che madama reale
si vendicò del principe Tommaso. Mentre egli era impegnato nella
spedizione per Napoli, ella col figlio, verso il dì 20 di giugno,
fingendo una caccia, si appressò ad Ivrea, e ricevutavi dentro colle
sue guardie dall'incauto governatore, con galanteria se ne impossessò,
mandando a spasso la guernigion d'esso principe Tommaso. Le turbolenze
del regno di Napoli dovettero cagionar dei mali umori nella vicina
pontificia città di Fermo. Quivi la nobiltà per cagion dell'estrazione
dei grani superflui, comandata da Roma, se la prese contro l'innocente
governatore, cioè contra _monsignor Uberto Maria Visconte_; ed
attizzata la plebe, ne avvenne che al povero prelato tolta fu la vita
in quella sedizione. Accorse colà il _cardinal Montalto_, che colla
sua saviezza impedì il progresso nel pernicioso tumulto, finchè da lì
a poco sopraggiunse _monsignor Imperiale_ con due mila soldati, che
trovò fuggito il popolo. A molti di coloro costò la vita, o un rigoroso
bando la lor crudeltà e ribellione. Rimasto vedovo _Francesco I duca_
di Modena, con dispensa pontificia nel dì 12 di febbraio celebrò le
sue nozze colla _principessa Vittoria Farnese_, sorella del fu _duca di
Parma Odoardo_, e poi si preparò a fare una nuova campagna co' Franzesi
nello Stato di Milano. Giunse colà per governatore sul principio di
marzo il _marchese di Caracena_, cavaliere di sperimentato valore e
di grande attività, che trovati i Franzesi annidati a Casal Maggiore
e contorni, tosto cercò gli spedienti per cacciarli di colà. Passò
egli a Cremona con quante forze potè raunare, e andò, nel dì 25 di
maggio, ad impossessarsi di un'isola sul Po in faccia ad esso Casal
Maggiore, e bravamente ancora ne difese il possesso contro i Franzesi.
Sollecitava intanto il duca di Modena i soccorsi a lui promessi da
Parigi, e facea tutti i preparamenti per uscire in campagna colle sue
genti; e perchè Casal Maggiore scarseggiava di viveri, trovò maniera
di farvi giugnere quattrocento sacchi di farina. Ricevuto poi ch'egli
ebbe le truppe franzesi sbarcate a Lerice, ed unite colle sue, passò
il Po, e andò col _maresciallo di Plessis Pralin_ a congiugnersi col
_conte di Novaglies_, postato in Casal Maggiore, formando un'armata di
quattordici mila tra fanti e cavalli. S'erano gli Spagnuoli premuniti
con un terribil trincierone lungo alquante miglia, per tener lontano
da Cremona il nemico. Fu risoluto di levar tale ostacolo, e nel dì
30 di giugno s'andò all'assalto. Non lasciarono gli Spagnuoli di fare
una gran difesa, ma in fine si videro costretti alla fuga, con istrage
di molti di loro e perdita delle artiglierie. Qui tosto cominciò la
discordia. Voleva il duca correre subito all'assedio di Cremona. Era
egli general dei Francesi, non per comandar loro nelle cose d'onore, ma
per ubbidire in quelle di guerra. Il maresciallo di Plessis pretendeva
che si progredisse per entrar nel cuor di Milano; ma perchè tentato
più di una volta il passaggio dell'Adda non riuscì, condiscese in fine
di strignere Cremona. Pontava il duca Francesco che si prendesse prima
la città debole di mura; presa questa, facile sarebbe l'espugnazione
del castello; e tale era ancora il sentimento dei più saggi. Ma il
maresciallo si ostinò, e la volle vinta, che gli sforzi solamente si
facessero contra il castello, restando intanto al Caracena libero il
passo per Po a mandar gente e viveri nella città, che poi somministrava
quanto occorreva al castello medesimo. Fu creduto che al maresciallo di
Plessis non piacesse quell'acquisto, perchè destinato in pro del solo
duca, e non della Francia; ed altri vollero ch'egli cercasse un cattivo
esito a quell'impresa, per iscreditare il _cardinal Mazzarino_, contra
di cui tante tempeste nello stesso presente anno si svegliarono dai
fazionarii in Francia.
Ma lasciando stare gli astrusi gabinetti del cuore umano, quel che è
certo, con vigore fu impreso quell'assedio, e colà comparve ancora dal
Piemonte con giro fatto fino sul Reggiano il _marchese, Guido Villa_,
seco menando tre mila cavalli e due mila fanti, tutta gente scelta.
Non mi fermerò io a descrivere gli approcci, le mine, e gli assalti,
le sortite, e le altre fazioni militari ivi accadute con singola
bravura d'ambe le parti, e la mirabil assistenza data dal marchese
di Caracena ai difensori, che costò la morte di molta gente e di non
pochi distinti uffiziali. Merita spezialmente memoria il suddetto
marchese Villa nobile ferrarese, che mentre col duca di Modena e col
maresciallo franzese va speculando un posto de' nemici, colpito da una
palla di cannone nel dì 24 d'agosto lasciò ivi la vita: generale di
chiarissimo nome, e fedelissimo alla real casa di Savoia, alla quale
mancò un personaggio che in tanti fatti di guerra si era segnalato, e
godeva anche il titolo di tenente generale della Francia, benchè non
fosse ben veduto in tale occasione dal superbo maresciallo di Plessis.
Giunsero sino alla fossa del castello gli assedianti, ma con tutti
i loro sforzi non poterono mai superarla. Sopraggiunsero intanto le
pioggie, le strade rotte e le difficoltà di ricevere i foraggi e le
vettovaglie; laonde fu astretto l'esercito collegato a levar l'assedio,
e a ritirarsi parte a Casal Maggiore e nelle vicinanze, e parte negli
Stati del duca di Modena. Acquistarono nell'anno presente l'armi venete
l'importante fortezza di Clissa, e si diedero a munirla con maggiori
fortificazioni. Ma nel dì 7 di marzo una orribil tempesta conquassò
tutta la loro armata navale. Tre galee, fra le quali la capitana e
due vascelli, soccombendo al furore dei venti, s'affondarono, e fu
compianta la morte di assaissimi nobili, e massimamente quella del
capitan generale _Giambatista Grimani_, a cui fu sostituito _Luigi
Mocenigo_. Impresero in quest'anno i Turchi daddovero l'assedio della
città di Candia, riuscito dei più memorabili che ci abbia conservata la
storia antica e moderna, dove fece maraviglie di provvidenza e valore
la repubblica veneta. Nè si dee tacere che nell'anno presente, a dì
24 di ottobre, fu conchiusa in Munster la pace tra _Ferdinando III
imperadore, Lodovico XIV re_ di Francia, gli _Svezzesi_ e i _principi
dell'imperio_: pace sommamente pregiudiciale alla religion cattolica,
e favorevole ai protestanti. Ed ecco i maligni frutti di tante guerre
suscitate e fomentate, per abbattere la casa d'Austria, dalle gran
teste politiche de' cardinali _Richelieu e Mazzarino_, cadaun de' quali
niuno scrupolo si mettea, purchè soddisfacesse all'ambizione, se nello
stesso tempo veniva a deprimersi il cattolicismo e ad aumentarsi il
regno della eresia. Contra di questa pace protestò _monsignor Fabio
Chigi_, nunzio allora apostolico, che fu poi papa, e volle che si
cassasse il suo nome inserito in essa. Protestò ancora _papa Innocenzo
X_, ma con armi di carta, che non sogliono far paura ai potenti.


Anno di CRISTO MDCXLIX. Indizione II.
INNOCENZO X papa 6.
FERDINANDO III imperadore 12.

Avea fin qui la corte di Francia colle sue armate e co' suoi raggiri
tenuta in continui imbrogli l'Europa tutta, e se ne giva superba per
aver in più guise indebolita la potenza delle due linee austriache. Di
un po' d'umiliazione abbisognava ella, ed appunto cominciò a provarla,
perchè l'odio e l'invidia di molti contra del _cardinal Mazzarino_
proruppe in sedizioni, e finalmente si convertì in una guerra civile. A
me non appartiene di dirne di più. Il non potere per questo i Franzesi
accudire alle cose d'Italia, e l'essersi per le diserzioni e per le
malattie ridotta a poco la loro armata in Lombardia, cagioni furono che
il vigilante _marchese di Caracena_ giudicò venuto il tempo di mettere
in dovere _Francesco I duca_ di Modena, che tanto aveva osato contro
la corona di Spagna. Pertanto, senza voler aspettar la primavera, sul
principio di febbraio mossosi da Cremona con sei mila fanti e tre mila
cavalli, ricuperò Casal Maggiore, e, passato il Po, fece un'invasione
nello Stato d'esso duca. Giacchè la fortezza di Brescello ben munita
non mostrò paura alcuna di lui, s'impadronì di Castelnuovo, Gualtieri
e Boretto. Maneggiavasi intanto _Ranuccio II duca di Parma_ per quetar
questi rumori, considerandoli per troppo pregiudiciali anche al dominio
suo, e riuscì in fine ai suoi ministri di conchiudere la pace fra il
Caracena e il duca di Modena. Fu questa sottoscritta nel dì 27 del
suddetto mese di febbraio, per cui esso duca rinunziò alla lega co'
Franzesi, e promise che il _cardinale Rinaldo d'Este_ suo fratello
dimetterebbe la protezion della Francia, con fargli sperare gli
Spagnuoli una più rilevante ricompensa (fiori che non produssero mai
frutti), e con rimettere il duca in grazia e sotto la protezione del re
Cattolico. Tornò ancora in Correggio il presidio spagnuolo: condizione
che sopra tutto scottò all'Estense. Licenziò esso duca, venuta che fu
buona stagione, le truppe franzesi, che s'andarono ad unir coll'altre
del Piemonte. Niuna maggior prodezza fece dipoi nell'anno presente il
Caracena. Perchè è ben vero ch'egli sorprese nel mese di settembre la
terra di Ceva nel Piemonte, e si mise anche all'assedio del castello;
ma ritrovato assai duro quell'osso, grande difficoltà de' foraggi fra
quelle montagne, e mossa d'armi in soccorso di quella rocca, desistè
dall'impresa.
Calò nel giugno di quest'anno in Italia _Maria Anna_ figlia
dell'Augusto _Ferdinando III_ e dell'_imperadrice Maria_ sorella del
re Cattolico _Filippo IV_, destinata in moglie al medesimo re suo zio.
Con pomposa solennità fece ella la sua entrata in Milano, e andò poi
ad imbarcarsi al Finale, per passare in Ispagna. In tale occasione
il general Pimento, ch'era venuto a riceverla colla flotta spagnuola,
spedì gente ad impadronirsi d'Oneglia, marchesato del duca di Savoia
nel litorale della Liguria. Ma poco tardò il governator di Villafranca
a ripigliarla. Seguirono ancora nell'anno presente le nozze di _Carlo
II duca_ di Mantova con _Isabella Chiara_ arciduchessa d'Inspruch,
sorella dell'_arciduca Ferdinando_. Questo illustre matrimonio non
bastò a guarire quel principe dalla sua dissolutezza di vivere. Non si
sapeva intendere perchè il pontefice _Innocenzo X_, in tanto bisogno
della repubblica veneta per la guerra lagrimevole a lei mossa dai
Turchi in Candia, non le prestasse aiuti nell'anno presente, come
avea fatto in addietro, e neppure in soccorso di essa inviasse le sue
galee. Venne poi a scoprirsi l'arcano. Stava tuttavia sullo stomaco
della corte di Roma indigesto il ducato di Castro e Ronciglione,
pel cui acquisto s'erano sì inutilmente profusi tanti milioni nella
guerra di _papa Urbano VIII_. Fra il duca di Parma _Ranuccio_ e i
montisti insorgevano sovente delle controversie, perchè non correano
i frutti pattuiti; e la protezion del papa non mancava a questi
creditori. Furono spediti dalla camera pontificia commessarii colà,
per costringere il duca ai dovuti pagamenti; ma vi trovarono i di lui
soldati che non intendeano questa canzone, e si opposero; laonde furono
costretti a ritornarsene quali erano venuti. Se ne adirò forte il
papa, e fu creduto che il _cardinal Panciroli_ segretario di Stato, e
_donna Olimpia_ cognata del papa, siccome nemici del duca, attizzassero
maggiormente il fuoco. Facevansi perciò dei preparamenti per passare a
maggior rottura; ma interposti gli uffizii del gran duca _Ferdinando
II_ e del _cardinale Albornoz_, si sarebbe verisimilmente trovato
temperamento, se un atto bestiale de' ministri del duca, oppure di un
solo di essi, non avesse condotto al precipizio le cose.
Era stato eletto dal papa e consecrato vescovo di Castro _Cristoforo
Giarda_. Contuttochè fosse detto all'orecchio a questo prelato che
Ranuccio nol volea nei suoi Stati, pure, affidato dalla sua dignità,
e, come si può credere, spinto anche da Roma, colà s'inviò. Per
istrada da alquanti sicarii fu a lui tolta la vita, e la colpa di
questo orrido e sacrilego misfatto fondatamente si rovesciò sopra il
duca di Parma. Non istette più allora a segno il papa, e spedì tosto
il conte Davide Vidman e Girolamo Gabrielli con alcune migliaia di
armati a cignere Castro di assedio. A questo avviso anche il duca di
Parma si diede a far leva di gente; e figurandosi di poter distogliere
da quella impresa il papa, principe che non amava molto di spendere,
appena ebbe formato un picciolo corpo d'armata, che l'inviò alla
volta dello Stato pontificio, con ordine di pagar tutto, e di non
inferir molestia a chicchessia. Alla testa di questi bravi combattenti
marciava il marchese Gaufrido di nazion franzese, uomo di bassissima
condizione, che preso al servigio in qualità di maestro della lingua
franzese dal fu _duca Odoardo_, talmente s'era avanzato nella grazia
di lui e del figlio Ranuccio, che facea la figura di primo ministro
in quella corte. Costui dovea saper tutti i mestieri, e volle darsi
a conoscere anche per valoroso condottier d'armi. La disgrazia portò
che giunto sul Bolognese a San Pietro in Casale, ivi trovò il marchese
Luigi Mattei spedito con gente dal pontefice, ed assistito da molta
nobiltà bolognese e ferrarese, che colla strage di non pochi il mise
in rotta, e fecelo tornare pien di vergogna a Parma. Della lontananza
di lui e della sua sfortuna si prevalse intanto chi l'odiava per
iscreditarlo presso il duca Ranuccio, esagerando spezialmente che
da lui solo era proceduto l'ammazzamento del vescovo. Fu dunque il
Gaufrido immantinente cacciato in prigione e processato, e si trovarono
tali i suoi reati (se veri o falsi, nol so) che perdè la vita e quanti
beni aveva accumulato, cioè, per quanto fu creduto, di un valsente
di quattrocento mila scudi, rimasero applicati al fisco. Sperò ancora
Ranuccio di potere, col gastigo di costui, placare il papa. Ma questi,
dappoichè Castro, vinto dalla fame, fu costretto e rendersi, ordinò che
si demolisse del pari la fortezza, e quante chiese, conventi e case
ivi si contavano, che tutte furono uguagliate al suolo, con essersi
ivi alzata una sola colonna, dove era scritto: QUI FU CASTRO. La sedia
episcopale venne trasferita ad Acquapendente. Perchè il duca di Parma
mancava di forze per reggere a quel contrasto, anzi si facea correre
voce che l'armi pontificie intendeano di passare sul Parmigiano, si
appigliò al consiglio de' saggi, e si accordò colla camera apostolica,
cedendole Castro e Ronciglione, con riserbarsi la facoltà di ricuperar
quello Stato, pagando i debiti, de' quali intanto essa camera si
caricò.
Famoso fu quest'anno per avere l'iniquo Cromuele e i fanatici
parlamentarii condotto _Carlo I Stuardo re_ d'Inghilterra a lasciare il
capo sopra un pubblico palco in Londra: iniquità detestata dall'Europa
tutta. In Venezia, all'incontro, si fece gran festa per una vittoria
riportata da Jacopo da Riva contro l'armata navale de' Turchi. Ancorchè
questa si trovasse numerosa di settantadue galee, dieci maone ed undici
vascelli, e si fosse ricoverata nel porto di Focchie, il da Riva nel dì
6 di maggio animosamente colle navi venete, fra le quali erano alquanti
vascelli olandesi, andò ad assalirla. Attaccarono i Veneti il fuoco
ai legni nemici, tredici dei quali rimasero incendiati; e se il vento
non si voltava, anche il resto andava a perire. In mano de' Veneziani
vennero una nave turchesca, una galeazza e una galea sottile. Più di
quattro mila Turchi fra soldati e marinari fu creduto che perdessero
ivi la vita. Il Valiero nondimeno lascia intendere che tal vittoria
troppo fu amplificata, e riuscì più di nome che di fatti. Tali prodezze
bensì fecero in quest'anno i difensori della città di Candia, che i
Turchi slargarono quell'assedio, ritirandosi ai primi alloggiamenti;
ma non cessarono per questo i combattimenti in quelle parti. Nel
dicembre un'utile costituzione fu pubblicata da _papa Innocenzo
X_, in cui comandò che si desse nota fedele di tutti i monisteri e
conventi dell'Italia, delle loro rendite e del numero dei religiosi
ivi abitanti, proibendo intanto il vestire nuovi religiosi. Questo era
un preliminare della santa intenzione del pontefice di abolir tutti i
conventi, dove pel poco numero dei convittori non si potea conservar la
regolar disciplina.


Anno di CRISTO MDCL. Indizione III.
INNOCENZO X papa 7.
FERDINANDO III imperadore 13.

Nel dì 24 del precedente dicembre avea _papa Innocenzo_ aperta la porta
santa e dato principio al giubileo romano, che si vide poi celebrato
con copioso concorso di gente. Se grande fu la divozion de' popoli,
maggiore ancor fu la pietà e carità del vecchio pontefice, il quale con
profusion di limosine accolse i poveri pellegrini, assistè alle loro
mense, lavò loro i piedi, eccitando coll'esempio suo a fare altrettanto
la nobiltà romana. Varii principi della cristianità si portarono a
partecipar di quelle indulgenze. Trovavasi in questi tempi lacerata la
Francia dalle fazioni, sedizioni e guerre civili, senza rispetto alcuno
al medesimo giovinetto _re Luigi XIV_; nè restava luogo a quella corte
di sostenere gli affari suoi in Italia. Ciò considerato dal consiglio
di Spagna, e dai ministri del re Cattolico in Milano e Napoli, fu
presa la risoluzione di snidar da Piombino e Portolongone i Franzesi.
Erano divenute quelle due fortezze un ricettacolo di corsari, che
infestavano tutto il Mediterraneo. Cominciò dunque a farsi in Sicilia,
Napoli e Milano gran preparamento di navi e di combattenti. Per questo
minaccioso apparato restavano in apprensione il _gran duca Ferdinando_
e i _Genovesi_; ma cessò ogni lor sospetto, allorchè videro messi alla
vela tanti legni approdare ai lidi di Piombino. Sopra quella flotta
venivano spezialmente _don Giovanni d'Austria_, come generalissimo di
mare, il _conte d'Ognate_ vicerè di Napoli, e il _principe Ludovisio_,
a cui aveano già i Francesi tolta quella città e principato. Fu dato
principio all'assedio di Piombino, e le artiglierie cominciarono a
bersagliar quella mura; ma sostenendo con vigore i lor posti, e facendo
di tanto in tanto sortite i Franzesi, lentamente procedevano le offese.
La state bollente e l'aria malsana di quel basso paese cominciarono
a far guerra agli assedianti, con vedersi languire quegli ancora che
dianzi andavano con tanto coraggio incontro alle palle e spade nemiche.
Sicchè i comandanti, dappoichè furono rinfrescati di gente, che di mano
in mano veniva al lor campo, giudicarono meglio di tentar tutto, e di
passare alle scalate e agli assalti, che di veder perire l'armata di
sole malattie. Ributtati più volte con istrage dei più arditi, pure
sì ostinatamente continuarono questo giuoco, che vittoriosi entrarono
nella città. Ritiraronsi allora nel castello i Franzesi; ma perduta la
speranza di soccorso, da lì a non molto con patti onorevoli ne aprirono
le porte agli Spagnuoli.
Passò dipoi l'esercito sotto Portolongone, e colà giunse altresì colla
sua squadra e con gran copia di munizioni ed attrezzi il _duca di
Tursi_. Trovarono quella fortezza più dura e più difficile di quel che
si credevano, giacchè il signor di Novigliacco suo governatore non avea
lasciata indietro diligenza alcuna per ben munirla di fortificazioni
esteriori, e per provvederla di tutto il bisognevole. Tre mesi durò
quell'assedio, e tante azioni di bravura fecero non men gli aggressori
che i difensori, ch'esso divenne dei più celebri e memorabili di questi
tempi. Gran gente vi perì dalla parte degli Spagnuoli, e spezialmente
quivi lasciarono le lor ossa i Napoletani, siccome spinti più degli
altri ne' maggiori pericoli. Fu infin creduto dalla troppo maliziosa
gente che il conte d'Ognate apposta intavolasse quell'impresa, per
condurre al macello il fiore dei cavalieri e soldati di Napoli, per
vendicare, dopo tante altre pruove di crudeltà, anche con questa
invenzione la ribellione passata, ed impedirne altre in avvenire. Ma
di questo barbaro persecutore de' poveri Napoletani tante doglianze in
fine andarono alla corte di Madrid, che fu egli richiamato dal governo
di Napoli, e fu veduto partirne colle lagrime agli occhi. Terminò
in fine l'assedio di Portolongone, che sarebbe stato più lungamente
sostenuto dal valoroso Novigliaccio, se la sedizione e disubbidienza
dei soldati non l'avesse forzato a far tregua, e poscia a capitolar
la resa, dopo avere ottenuti tutti gli onori militari. Con qualche
felicità anche nell'anno presente proseguirono i Veneziani l'aspra
lor guerra contra dei Turchi, mostrandosi quegl'infedeli sempre più
accaniti dietro alla conquista dell'isola di Candia. Perchè si avvidero
che gran sangue e poco frutto costava loro il voler espugnar colla
forza la città capitale, ricorsero ad un altro ripiego; e fu quello di
fabbricare, oltre ad altri fortini precedentemente fatti, in vicinanza
di essa città una fortezza regolare, a cui posero il nome di Candia
Nuova: consiglio che riuscì sommamente pregiudiziale ai Veneti nei
tempi avvenire. Posto di molta importanza presso la Canea era il forte
di San Todero, ossia Teodoro. Sbarcati colà i coraggiosi Veneziani,
sì fattamente col furore delle artiglieria sbigottirono quel presidio,
che espose bandiera bianca, e diede la piazza. Immensi tesori intanto
consumava la repubblica in questa guerra per tanti legni che manteneva,
e per la esorbitante copia di gente che continuamente conveniva
inviare in Candia, dove le battaglie e le malattie mietevano a gara
le vite degli uomini. Nel dicembre di quest'anno seguì in Torino lo
sposalizio della principessa _Adelaide di Savoia_, sorella del regnante
duca _Carlo Emmanuele II_, col _principe Ferdinando_ primogenito di
_Massimiliano elettor_ di Baviera: funzione che fu solennizzata con
varietà di suntuose feste e di pubblici divertimenti. Non tardò molto
questa principessa ad assumere il titolo di elettrice per la morte del
suddetto elettore suocero suo. Non andò poi essa principessa se non nel
1652 in Baviera.


Anno di CRISTO MDCLI. Indizione IV.
INNOCENZO X papa 8.
FERDINANDO III imperad. 14.

Era tuttavia vivente l'imperadrice vedova _Leonora Gonzaga_, già
sorella di _Francesco Ferdinando_ e _Vincenzo_ duchi di Mantova.
Essendochè il regnante Augusto _Ferdinando III_ avea risoluto di
passare alle terze nozze, cotanto ella si adoperò, che portò al trono
imperiale un'altra _Leonora Gonzaga_, cioè la sorella del regnante duca
di Mantova _Carlo II_. Nel marzo del presente anno s'incamminò essa
alla volta di Vienna, accompagnata dalla _duchessa Maria_ sua madre,
dal _fratello duca_ e dalla cognata _Isabella Chiara_, d'Austria.
Divenne poi questa principessa generosa protettrice degl'Italiani in
quella corte. Gran pregio fu della casa Gonzaga l'avere in questi tempi
due imperadrici e una regina di Polonia viventi, se non che l'ultimo
parentado le costò ben caro, per aver dovuto impiegar buona parte di
quanto le restava in Francia di Stati, per costituire una pinguissima
dote ad essa regina di Polonia. Qualche tentativo fece in quest'anno
il _marchese di Caracena_ governator di Milano. Dopo aver presa
Castigliola nel territorio d'Asti, e demolite le sue fortificazioni,
lasciandosi indietro l'altre piazze, con somma sollecitudine s'inoltrò
fino a Moncalieri, tre miglia lungi da Torino. Per questa novità gravi
sospetti insorsero in mente del _principe Tommaso_ e de' Franzesi,
padroni della cittadella di Torino, che passasse qualche intelligenza
fra gli Spagnuoli e madama reale, per mettere l'assedio alla medesima
cittadella. Ma ad altro non tendevano le mire del Caracena che a
tirar la duchessa a qualche accomodamento: dal che si mostrò ella
troppo aliena. Essendo intanto pervenuto qualche soccorso di gente
ai Franzesi, smontato esso marchese da' suoi alti pensieri, tornò a
cercar la quiete nello Stato di Milano. Prosperamente camminarono in
questo anno gli affari della veneta repubblica nella guerra di Candia.
Nel dì 22 di giugno uscì pomposamente in mare l'armata turchesca,
composta di settantatrè galee sottili, di sei maone, di cinquantatrè
grosse navi e di altri legni minori. Fra le isole di Santorini e Scio
s'incontrò colla veneta armata, la quale, quantunque inferiore di
numero di legni, pur superiore di coraggio, si accinse alla battaglia,
e da lì a poco l'attaccò. Ma era tardi, e sopraggiunta la notte, divise
il conflitto. Nel giorno seguente si trovarono di nuovo a fronte
le due nemiche armate, e si ripigliò il terribile combattimento. La
vittoria si dichiarò in fine per li Veneziani, essendo stati costretti
i Turchi a ritirarsi. Presero i vincitori cinque grossi vascelli
barbareschi, tre altri turcheschi, con una maona e colla nave capitana
del rinegato bassà della Morea. Cinquecento furono i prigioni; degli
estinti dal ferro e dal mare non si potè sapere il numero. Fu anche
dipoi da essi Veneti messa a sacco l'isola di Leria, e incendiate
molte navi turchesche da carico. Non cessava intanto lo ambasciadore
di Francia in Costantinopoli di far proposizioni di pace, ma sempre
indarno, pretendendo pertinacemente la Porta che la comperassero i
Veneti colla cessione di Candia. Accrebbe in quest'anno il _pontefice
Innocenzo X_ un insigne ornamento alla mirabil città di Roma,
coll'avere disotterrato ed inalzato in piazza Navona un nobilissimo
obelisco, ossia guglia, già trasportata dall'Egitto a Roma da _Antonino