Annali d'Italia, vol. 6 - 79

torrione del Carmine e a provvedersi violentemente d'archibusi, spade,
lancie, polve da fuoco e palle, per tutte le botteghe e case, dove se
ne trovava. Concorrevano intanto dalle circonvicine ville rustici per
isperanza di bottino ad aumentare la truppa, risonando in ogni lato
trombe, tamburi, sventolando bandiere, e continuando ognuno a gridare:
_Fuora gabelle, Viva il re_. Per rinforzo del palazzo vi pose il vicerè
mille Tedeschi ed ottocento Spagnuoli, e fece far nuove fortificazioni
intorno ad esso e nella piazza. Ma il popolo, informato che venivano
da Puzzuolo cinquecento Alemanni e due compagnie d'Italiani, andò ad
incontrarli, ne uccise alcuni, altri menò prigioni, e dissipò il resto.
Tentò allora il vicerè di guadagnare il capo-popolo Mas-Aniello, con
iscrivergli un biglietto di esibizione d'abolir tutte le gabelle.
Ad altro non servì questa sommessione, se non a far maggiormente
insolentire chi si conosceva in avvantaggio, avendo Mas-Aniello coi
suoi seguaci sfoderate pretensioni anche di varii privilegi per la
plebe. Il vicerè, che non volea troncare per questo il trattato,
mosse alcuni della primaria nobiltà a frapporsi per l'aggiustamento,
ed avendo questi per il bene della patria assunto un tale impegno,
ridussero a tale il maneggio che parvero soddisfatti i sollevati,
qualora, oltre alle cose richieste, fosse confermato il privilegio
conceduto dall'imperadore Carlo V alla città, del qual documento
richiedevano essi l'originale.
Per quante ricerche facesse fare il vicerè, questo originale non si
trovava. Credendosi perciò burlato l'inquieto popolaccio, si ruppe
coi nobili mediatori, e carcerò anche il duca di Matalona, che trovò
maniera di fuggire dalle lor mani. Avuta poi nota di settanta case di
ministri e d'altri che aveano maneggiati i dazii e l'altre gravezze
del pubblico, di mano in mano si portarono i sediziosi a bruciarle
senza remissione, con gittar giù dalle finestre tutti i mobili, e fin
gli ori, argenti e danari e farne falò; giacchè severissimo ordine
v'era che niuno ne profittasse. E perciocchè premeva a costoro di
farsi padroni della torre di San Lorenzo e di quel monistero, colà
furibondi corsero in numero di dieci mila armati con un grosso cannone,
e gran copia di fascine per appiccarvi il fuoco. Da questo apparato
atterrite le guardie di quel posto, capitolarono la resa. Di là con
gran festa trassero i sollevati gran copia d'armi da fuoco e sedici
pezzi di cannone. Erasi intanto ritrovato l'originale del privilegio
di Carlo V, e il _cardinale Filamarino_, che facea la figura di padre
comune fra il vicerè e il popolo, con questa carta pecora in mano
si portò al Carmine, e alla presenza di Mas-Aniello, già dichiarato
capitan generale del popolo, e assistito dalla sua corte plebea la fece
leggere. Dopo di che manipolò l'accordo, con avere il vicerè conceduto
un perdon generale abolite le gravezze, confermato il privilegio, e
promessa loro dalla corte la conferma di tutto. Ma perchè si dicea di
perdonare ogni reato incorso per quella ribellione, fu cagion questa
parola che si guastasse tutta la tela. Non cessò l'arcivescovo pien
di zelo di rimediare, ed ottenne in fine dal vicerè un biglietto, per
cui pienamente si soddisfaceva alle premure del popolo. Ma il buon
prelato si trovò fra poco burlato. Mentre s'era raunato al Carmine
tutto il popolo, aspettando che intervenisse anche il vicerè per
cantare il _Te Deum_, eccoti comparire colà cinquecento banditi (altri
scrivono solamente ducento), tutti ben montati a cavallo, che si
fingevano venuti in servigio del popolo. Il servigio che intendevano
di prestargli era quello di trucidar Mas-Aniello, e poi di fare un
macello della gente colta all'improvviso. Se ne insospettì Mas-Aniello,
e mandò ordine che smontassero: non vollero ubbidire. Comandò che
andassero ad un posto assegnato; ed essi, per lo contrario, entrarono
così a cavallo in chiesa. Allora egli gridò: _Tradimento_; e i banditi
spararono contro di lui alquante archibugiate; e maraviglia fu che di
tante palle niuna il colpì. Il pazzo popolo attribuì ciò a miracolo,
credendo assistito dalla divinità il suo gran generale; pretendendo,
all'incontro, i buoni frati che lo scapolare da lui portato gli avesse
servito d'ingermatura. Allora l'infuriata plebe si scagliò addosso a
quanti di quei banditi potè cogliere, e li trucidò. Per confessione
di uno di essi si scoprì essere stata mandata quella gente dal duca di
Matalona e da don Giuseppe, volgarmente chiamato don Peppo Caraffa. Che
il vicerè fosse consapevole del fatto, si potè ben sospettare, ma niuno
il nominò; ed egli sopra di questo fece l'indiano. Cercato il Matalona,
ebbe la fortuna di salvarsi. Non così avvenne a don Peppo, che fu
scoperto e tuttochè forse non avesse mano in quel fatto, gli fu reciso
il capo, e si vide trascinato il cadavere per la città. Ciò non ostante
il cardinal arcivescovo raggruppò il negoziato dell'accomodamento,
e lo trasse a fine; accordando il vicerè quanto si volle dal popolo,
con disegno non di meno che soltanto durasse la sua promessa finchè
venisse il tempo e il comodo della vendetta; non sapendo inghiottire
un animo spagnuolo il mirar ridotta a sì vile stato l'autorità sua, e
la riputazion della nazione da un miserabile pescivendolo, giunto a far
tremare tutta Napoli.
Volendo poi l'arcivescovo condurre a palazzo Mas-Aniello, bisognò
che adoperasse gli argani per farlo spogliare de' suoi poveri cenci,
e prendere veste di tela d'argento e cappello con pennacchiera.
Accompagnato fino a palazzo da tutto il basso popolo in armi, che si
credette ascendere a cento cinquanta mila persone, prima di entrare
fece un patetico discorso a tutti, esortandoli a gridare: _Viva il
re di Spagna_; e ricordando loro che egli era nato povero, e tale
voler anche morire; e che l'operato da lui finora non era proceduto da
ambizione, nè da voglia di guadagnare un soldo, nè di fare ribellione
al re, ma solamente di liberarli tutti dal troppo gravoso mal governo
finora patito. E siccome egli non si fidava del vicerè, così aggiunse,
che se fra un'ora noi rivedessero, pensassero a vendicar la sua
morte. Venne egli poscia accolto colle più vistose carezze, e con
dimostrazioni anche esorbitanti di onore dal vicerè, e furono lette
le capitolazioni, ed approvate. Ossia che si spendesse gran tempo
in questo, e che il popolo, per non vederlo tornare, dal bisbiglio
passasse ad un gran rumore; o ciò accadesse per altra cagione; di tanto
strepito s'impazientava il vicerè. Allora Mas-Aniello, affacciatosi ad
un balcone, e datosi a conoscere, coll'indice alla bocca fece segno
che tacessero. In quell'istante niuno osò più di zittare, stupendo
il vicerè allo scorgere tanta ubbidienza a quell'uomicciattolo. Si
esibì Mas-Aniello di rinunziare il comando; ma per suoi fini politici
non lo permise il vicerè. Fu poi col cardinal Filamarino ricondotto a
casa il gran generale; e dappoichè furono con gran solennità giurate
le capitolazioni dal vicerè nella metropolitana, tornò la quiete
nella città. Continuando nondimeno Mas-Aniello a far da governatore
del popolo, pubblicava editti, governava le guardie, intento sopra
tutto a torre di mezzo i banditi e malviventi. Con aria severa sempre
comandava, temuto perciò ed ubbidito da tutti. Un suo solo cenno
bastava per una sentenza di morte. Perchè gli furono sparate contro
alcune archibugiate, vietò a chi che sia il portar vesti lunghe e
mantelli, affinchè si conoscesse chi andava con armi. Non vi fu prete
o frate che non ubbidisse. E certamente tanto egli che la moglie sua
cominciavano a grandeggiare, e a gustare il comando e le distinzioni.
Pretese l'insuperbito pescivendolo, che il cardinale _Trivulzio_
andasse a fargli una visita. Il prudente porporato, per non incorrere
in qualche pericolo, volle soddisfarlo, ed andato il trattò con titolo
d'_illustrissimo_. Questo Arlichino finto principe gli rispose: _La
visita di vostra eminenza, benchè tarda, ci è cara_. Ma, a guisa
dei fenomeni, ben corta durata ebbe l'esaltazion dell'ardito plebeo.
Eccolo vaneggiare, eccolo divenuto forsennato, e talvolta furibondo.
Non si sa, se perchè le applicazioni e vigilie gli avessero di troppo
riscaldata la nuca; o perchè nella visita a palazzo egli avesse
votate alquante caraffe di lagrima, al che non era avvezzo; oppure
perchè qualche ingegnoso veleno gli fosse stato in quella congiuntura
somministrato; andò crescendo la sua frenesia, di modo che dopo alcune
scene di leggierezza o crudeltà, il popolo l'abbandonò, e il vicerè
ebbe modo nel dì 16 di luglio con quattro archibugiate di farlo levar
dal mondo. Sicchè soli sei giorni durò il regno di Mas-Aniello, e
quattro il suo vaneggiamento, ristringendosi in questo poco di tempo
tutte le peripezie fin qui raccontate, oltre a tante altre che mi è
convenuto lasciare indietro.
Credevansi gli Spagnuoli per la morte di costui omai liberi da ogni
impaccio; ma s'ingannarono a partito. Nel dì seguente, giorno 17 d'esso
luglio, pentito il popolo, corse a raccogliere il corpo di Mas-Aniello,
che era stato strascinato per la città, l'unirono alla testa che gli
era stata tagliata, e sopra un cataletto lo portarono alla chiesa del
Carmine, prorompendo in alte acclamazioni di liberator della patria,
di padre della povertà. Ne fecero fino un santo, come divenuto martire
in benefizio del pubblico. A udire que' pazzi, la testa s'era unita
col busto, avea lor parlato e data la benedizione; correndo perciò la
stolta gente a baciarlo e a toccarlo colle corone. Vollero ancora,
che gli si facesse un superbo funerale con isterminata e suntuosa
processione, coronata dai sospiri e dal pianto di ciascuno, e a gara
tutti si procacciavano il suo ritratto; se con piacere degli Spagnuoli,
non occorre che io lo dica. Poco in fatti durò la quiete. Scorgendo
il popolo che non gli si mantenevano le capitolazioni giurate, e
che si trovavano appesi alla forca di tanto in tanto alcuni del loro
seguito, di nuovo si sollevò, e ito al palazzo per chiedere udienza al
vicerè, attaccò un'aspra zuffa colle guardie che durò ben tre giorni.
Quanti Spagnuoli furono colti, rimasero vittima del furor popolare; il
vicerè fu costretto a ritirarsi in Castel Nuovo, all'espugnazion del
quale si accinsero i sediziosi, siccome ancora di castello Sant'Ermo,
dando principio sotto d'esso ad una mina. Perchè mancava loro un capo,
fecero forza a don Francesco Toralto principe di Massa della casa di
Aragona, acciocchè assumesse il grado di lor capitan generale. Accettò
egli, confortato anche dal vicerè, con animo di servir meglio al re
che alla plebe in sì scabrosa occasione: siccome egli fece coll'andare
destramente distornando la loro furia da maggiori risoluzioni, con
promuovere una suspension d'armi, tanto che le fortezze, già ridotte
in angustia, si potessero vettovagliare. Oltre a ciò, per addormentare
e deludere il più che mai tumultuante popolo, il vicerè nel dì 7
di settembre confermò di nuovo le grazie e capitolazioni ad esso
accordate. Grande fu l'allegrezza d'ognuno, ma che restò in breve
amareggiata per la nuova sparsasi che _don Giovanni d'Austria_, figlio
bastardo del re Cattolico, giunto in Sardegna con poderosa flotta, si
preparava per dirizzar le prore alla volta di Napoli. Comparve egli in
fatti alla vista di quella città nel dì primo di ottobre, e chiesero
i popolari udienza per parlargli, ma non l'ottennero. Per consiglio
del vicerè, fu fatto loro intendere che don Giovanni non metterebbe il
piede a terra, s'essi prima non deponessero e rinunziassero l'armi,
rimettendosi alla clemenza del figlio del re: proposizione che parve
troppo dura e pericolosa a chi conosceva di che buono stomaco fossero
gli Spagnuoli. Per maneggio del Toralto fu conchiuso che rilascerebbono
solamente l'armi, e sarebbono lor confermate le grazie e i capitoli
precedenti. E però nel dì 4 del suddetto ottobre fu data esecuzione
al trattato, nè si videro che bandiere bianche per la città e segni
d'allegrezza.
Ma altro non meditando gli Spagnuoli che gastigo e vendetta,
determinarono di sterminar colla forza nel dì seguente quella pertinace
canaglia. Per quanto il cardinal Trivulzio e i più saggi consiglieri
dissuadessero sì fiera esecuzione, prevalse l'opinione del vicerè e
d'altri pochi. E però avendo don Giovanni trattenuto presso di sè il
general Toralto, con cui probabilmente era fatto il concerto, nel dì
6 d'ottobre uscirono tutti i combattenti dalle navi, e quanti ancora
poterono uscir dei castelli, e in ordine di battaglia andarono ad
assalire i posti dei popolari, che non si aspettavano una tal visita.
Nello stesso tempo da tutte le navi e dai castelli si diede principio a
fulminar la città con cannonate, a gittar bombe e fuochi artifiziali.
Parve allora Napoli la casa del diavolo: tanto era il rumor delle
artiglierie, il martellar delle campane, gli urli e le grida delle
donne e de' fanciulli. Corse il popolo a barricar le strade, ad
afferrare i posti, e le donne dalle finestre gittavano sassi, tegole ed
acqua bollente. Seguitò l'orrido conflitto per più ore; ed accorgendosi
in fine gli Spagnuoli del poco profitto che faceano i lor cannoni e
mortai, e che andava crescendo la forza e furia del popolo, cessarono
dalle ostilità, e con esporre bandiera bianca invitarono il popolo
a qualche concordia. Ma questo non rispose, se non coll'inalberare
bandiera nera, risoluto di azzardar tutto, piuttosto che fidarsi della
corrotta fede e dei violati giuramenti degli Spagnuoli. Si combattè
anche ne' giorni seguenti; e il vicerè fece ricorso al cardinal
Filamarino, che s'interponesse; ma questo arcivescovo, certamente
fedele al re, siccome quegli che non lasciava di amare anche il povero
suo popolo, disapprovando il tradimento fattogli dopo tanti giuramenti,
mostrò delle difficoltà a mischiarsi di nuovo in questi imbrogli.
Non gliela perdonarono mai più i vendicativi Spagnuoli. Giacchè niun
effetto ebbero i tentativi fatti per altri mediatori di venire alla
concordia, continuarono le ostilità. Crebbero intanto i sospetti
del popolo contro il lor generale Toralto, imputandolo di segrete
intelligenze col vicerè, e di aver impedito l'acquisto di Sant'Ermo.
Veri o falsi che fossero questi reati, è certo che nel dì 22 d'ottobre
posto prigione e processato, ebbe troncato il capo, e il corpo suo per
un piede fu appiccato alla forca. In luogo di lui fu eletto per capo
del popolo Gennaro Annese, uomo di bassa condizione.
Conoscendo nulladimeno i più saggi del popolo che a lungo andare non
potrebbero tener forte contro la potenza e rabbia degl'implacabili
Spagnuoli, e tanto più perchè la nobiltà del regno, per la morte data a
don Peppo Caraffa, sembrava dichiarata contro la plebe; si avvisarono
di fare ricorso alla corona di Francia, ben consapevoli del pronto
volere de' Franzesi in tutto ciò che tendeva alla depression della
monarchia di Spagna. Il _marchese di Fontanay_ ambasciator di Francia,
e i cardinali franzesi esistenti in Roma non lasciarono cadere in terra
le preghiere ed esibizioni dei Napoletani; ne scrissero alla corte, ne
riportarono magnifiche promesse di soccorsi. Trovavasi allora in Roma
_Arrigo di Lorena duca di Guisa_, nelle cui vene circolava il sangue
degli antichi re angioini. Fu egli creduto a proposito, siccome signore
di gran vaglia, per sostenere questa impresa; ed egli l'accettò,
col mostrarsi in apparenza unicamente mosso dall'amor della gloria
in liberare il popolo di Napoli dalla oppressione e tirannia degli
Spagnuoli, e di ridurre Napoli a forma di repubblica; ma con desiderio
segreto, e non senza speranza, che assistendogli la fortuna, potesse
la corona di Napoli cader sul suo capo. Nel dì 13 di novembre si
mosse egli da Roma con poche feluche, ed ebbe la sorte di felicemente
sbarcare a Napoli, dove da quel popolo fu accolto con incredibil
allegrezza; e dopo aver fatte alcune prodezze, ottenne il comando
dell'armi, continuando nondimeno Gennaro Annese nella superiorità del
governo civile. Ma non andò molto che cominciarono gare e gelosie fra
questi due capipopolo; pure il Guisa seppe far tanto, che si fece
proclamar duca ossia doge della repubblica di Napoli. Più curiosa
cosa fu il veder comparire alla vista di quella gran città il duca
di Richelieu con potente flotta franzese, ma senza mai accordarsi col
duca di Guisa e col popolo. Chi disse perchè il Guisa, che avea molto
alzata la cresta e tendeva alla corona, non volle che i Franzesi gli
sturbassero quella caccia, sperando di compierla senza di loro; chi,
perchè il popolo napoletano, se ammetteva i Franzesi, temeva di mutar
solamente il giogo, laddove intenzione sua era di scuoterlo affatto;
e chi, che il duca di Guisa odiava il _cardinal Mazzarino_, ovvero
che il cardinale mirava lui di mal occhio, e che, per conseguente, i
Franzesi non vollero porgergli aiuto, e se ne tornarono colla flotta a
Portolongone. Non mi stenderò io più oltre in questo racconto. Esistono
in franzese e in italiano le memorie del medesimo duca di Guisa,
tramandate col mezzo della stampa ai posteri, dove egli dipinse quegli
affari secondo che a lui parve il meglio.
E pur qui non finirono le novità di Italia nell'anno presente.
Perchè in Piemonte scarseggiavano di forze i Franzesi nulla poterono
operare, anzi lasciarono che il governator di Milano s'impadronisse
di Nizza della Paglia, senza neppur tentarne il soccorso. Ma intanto
il gabinetto di Francia lavorava per muovere contro lo Stato di Milano
dei nuovi nemici, e gli venne fatto di tirar nel suo partito _Francesco
I d'Este_ duca di Modena. Non avea questo principe ommessa diligenza
veruna per attestare il suo ossequio alla corona di Spagna; le aveva
anche offerto il suo servigio. Trovò sempre dal ministero milanese
attraversato, anzi contrariato ogni suo maneggio; e spezialmente ebbe
a dolersi perchè gli Spagnuoli gli negavano il possesso di Correggio,
che pur gli era stato venduto dall'imperadore. Si prevalse il Mazzarino
di questi dissapori per condurre sul principio di settembre esso duca
in lega colla Francia, la quale, facendo la liberale colla roba altrui,
facilmente accordava che tutte le conquiste da farsi nello Stato di
Milano sarebbono in pro di chi le facesse, con obbligo nondimeno di
prendere il possesso di ogni acquisto a nome del re, il qual poscia
a suo tempo ne darebbe fedelmente il possesso ai conquistatori.
Quattro mila fanti e mille e cinquecento cavalli franzesi vennero da
Piombino sul Reggiano, ai quali il duca Francesco unì un pari numero
di combattenti. Riuscì al duca con questa gente sul fine del suddetto
mese di valicare il Po, e di spargere il terrore fra gli Spagnuoli,
che tutti si ritirarono alla difesa di Cremona. Colà comparve
l'esercito gallo-estense, e si fecero alcune fazioni, e il tutto
finì in far solamente paura agli Spagnuoli. Non andando d'accordo col
duca gli uffiziali franzesi; non venendo mai il _principe Tommaso_,
benchè chiamato a questa impresa, e crescendo ogni dì più le pioggie
e i fanghi dell'ottobre, bisognò battere la ritirata. Si ridusse
quell'esercito ai quartieri di verno nella ricca e nobil terra di
Casal Maggiore del Cremonese, dove patì de' gran disagi per mancanza di
foraggi e d'altre provvisioni. Nell'isola di Candia poco profittarono
in quest'anno le armi venete, anzi riuscì a' Turchi di accostarsi
alla città di Candia stessa, e di fortificarsi in quei contorni.
Celebre nondimeno riuscì la nave capitana di Tommaso Morosino, che
contro cinquantadue galee nemiche valorosamente si difese. Vi lasciò
gloriosamente la vita il prode generale, ma vi perirono de' Turchi più
di mille e cinquecento persone. Maggior felicità provarono i Veneziani
nella Dalmazia, dove ricuperarono Novigrado, difesero bravamente
Sebenico, e ridussero alla loro ubbidienza Nadino, Scardona, Zemonico
ed altri luoghi.


Anno di CRISTO MDCXLVIII. Indizione. I.
INNOCENZO X papa 5.
FERDINANDO III imperad. 11.

Sul fine dall'anno precedente il _duca di Guisa_, non contento di far
guerra in Napoli agli Spagnuoli, pensò a conquistar anche varie città
del regno, e mosse in quante parti potè banditi e mal affetti al nome
spagnuolo, dispensando a larga mano patenti ed uffizii. Sopra tutto
a lui premeva la città d'Aversa, troppo importante pel trasporto dei
viveri. Era questa per ordine del vicerè divenuta piazza d'armi dei
baroni napoletani commossi alla difesa della corona, sotto il comando
di don Vicenzo Tuttavilla. Ma fra questi nobili non mancavano di
quelli che mal sofferivano la dominazione spagnuola. Con più di dieci
mila armati andò a quella volta il Guisa, e in diversi incontri ne
riportò delle spelazzate. Tuttavia avendo le sue genti occupata Nola ed
Avellino, ed essendosi ribellate le provincie di Salerno e Basilicata,
restò Aversa in grave pericolo, perchè priva di soccorso. Tanto innanzi
crebbero quivi le angustie, che que' nobili di colà si ritirarono
a Capoa, lasciando la città nella vigilia dell'Epifania in potere
del Guisa, la cui gente tenne lor dietro, e mise il campo anche alla
stessa Capoa. L'acquisto di Aversa portò grande onore al Guisa, e somma
allegrezza ai popolari; ed egli poi fece ogni sforzo per trarre nel
suo partito i nobili, ma senza poterli rimuovere dalla fedeltà verso
il re di Spagna. Era intanto il vicerè _duca di Arcos_ odiato a morte
dal popolo, e neppure ben veduto dalla nobiltà di Napoli. Ora facendo
i più saggi ministri amatori della patria delle segrete consulte per
trovare riparo alle presenti piaghe, e tenendo anche intelligenza con
Gennaro Annese capo del popolo, che era col cuore alienato affatto dal
duca di Guisa: fu in fine creduto il mezzo più proprio di giugnere alla
sospirata pace, quello di rimuovere dal governo esso duca di Arcos,
e di sostituire in esso pro interim _don Giovanni d'Austria_, che
tuttavia colla flotta spagnuola si tratteneva in quei mari. Il non aver
egli reato alcuno presso il popolo, l'essere figlio del re, e giovane
assai amabile, e il potersi sperare che quanto egli promettesse,
riporterebbe l'approvazione della corte, animò ciascuno a desiderare
questa mutazione. Contuttochè il _cardinal Filamarino_ arcivescovo
fosse mirato con occhio bieco dagli Spagnuoli, perchè in questi viluppi
faceva la figura di neutrale e manteneva buona corrispondenza col duca
di Guisa e col popolo, pure fu interrogato del suo parere. E siccome di
cuore desiderava questo porporato il bene della patria e insieme l'onor
della corona di Spagna, concorse anch'egli a consigliare la deposizione
del vicerè, come il migliore spediente agli affari, che per altro
minacciavano precipizio: e tanto più perchè riuscì al duca di Guisa
di occupare il borgo di Chiaia, che tagliava la comunicazion degli
Spagnuoli per terra col resto del regno. Talmente dunque si adoperarono
col duca d'Arcos i suoi confidenti, che l'indussero ad imbarcarsi, e
ad abbandonar Napoli nel dì 26 di febbraio. Servì la sua partenza a
maggiormente unire il baronaggio al partito e servigio reale.
Nè mancò don Giovanni d'Austria, assistito da saggi consiglieri, di
promuovere a tutto potere la concordia coi popolari, esibendo general
perdono e aumento di grazie. Ma cotanto era cresciuto lo sconcerto
delle cose, che troppo difficile alle pruove si trovò il rimedio.
Imperciocchè la malattia di Napoli s'era dilatata dappertutto il regno;
e il duca di Guisa, siccome ben provveduto di spie, venendo a scoprire
i segreti maneggi, sturbava tutto, ed avrebbe anche volentieri messe
le mani addosso a Gennaro Annese, se non l'avesse ritenuto il sapere
ch'egli teneva filo colla corte di Francia, e che da essa veniva
stimato non poco. Con tutte non di meno le sue lusinghe e raggiri non
potè mai esso duca ottenere il suo primario oggetto, che era quello
di farsi proclamare re. Dissi sconvolto anche il regno, e volli dire
che non v'era provincia o città dove non regnasse la discordia, e
succedessero frequenti tumulti ed uccisioni, sostenendo gli uni la
libertà, e gli altri la regale autorità. Trovaronsi allora nobili che
sposarono il partito de' popolari; e il Guisa faceva trapelare in ogni
parte i suoi emissarii. In Taranto, in Ariano, in Chieti, nell'Aquila
e in altre principali città penetrò quel pernicioso influsso. E
basti questo poco, giacchè io non posso tener dietro a tutte le
fila di questa imbrogliatissima matassa, e al lettore riuscirà più
caro d'intendere come la provvidenza degli uomini favorita da Dio la
sbrogliasse: il che accadde nel presente anno. Non avea già dimenticato
il duca di Guisa di essere franzese. In mezzo ai grandi affari marziali
trovava egli il comodo di divertirsi, e di spendere più ore con
principesse e dame; e parea che più dell'altre gli piacessero le più
belle. Molto di questo si parlava, anzi si sparlava per Napoli; e ai
saggi del suo seguito, e più ai mariti delle persone da lui amate, al
maggiore segno dispiaceva questo suo rituale. Sapeva in oltre Gennaro
Annese (personaggio di tanto polso fra' popolari) qual segreta rabbia
contra di lui covasse in suo petto il duca; nè sapea digerire che
dopo tante intenzioni date da lui di formare il senato della nuova
repubblica, non ne venisse mai quel dì. Si aggiunse, che portato a
notizia del medesimo duca che Antonio Basso e un suo fratello, amendue
di corte del cardinale arcivescovo, il mettevano in canzone quasi egli
fosse venuto a Napoli per darsi spasso, per utilizzar la sua persona
e per deludere il povero popolo, li fece prendere, e, al dispetto di
tutte le preghiere del cardinale, del suddetto Annese e degli altri
maggiori del popolo, li fece decapitare. Per questa indiscretezza
e crudeltà, e per altri suoi passi violenti, si alterarono forte i
maggiori del popolo; e però nel dì 10 di marzo esso Annese, Vincenzo
d'Andreis provveditore generale, ed Antonio Mazzela eletto del popolo,
che erano ruote principali della repubblica popolare, spalleggiati da
quattro mila persone, marciarono verso il duca con animo di portare
in trionfo la sua testa. Avvisatone il Guisa, salì tosto a cavallo, e
colla sua guardia di moschettieri sì intrepidamente andò loro incontro,
che appena sparato alcune archibugiate dai suoi all'aria, i capi
presero la fuga. Essendo rimasto confuso quel popolaccio, appena udì
le maestose e insieme tenere parole dell'eloquente duca, che tutti
si diedero a gridare: _Viva il duca di Guisa_. Tante cabale poscia
ordì il Guisa per far credere il Mazzela eletto del popolo venduto
agli Spagnuoli e ai nobili, che gli riuscì di fargli mozzare il capo.
L'Annese allora e gli altri suoi seguaci trattarono segretamente
col vicerè novello per liberar la patria dal Guisa, e restituirle la
quiete.
Era venuto a quel governo, con assenso e volere del giovinetto _don
Giovanni d'Austria_, poco prima, _don Ignigo Velez di Guevara conte
d'Agnate_. Con lui concertò lo stesso Annese le maniere di dar la
caccia al duca di Guisa, e di liberar la città da tanti travagli.
Correvano i primi giorni di aprile, quando il vicerè spedì tre galee
ad occupar Nisita fuori di Napoli, immaginando che per l'importanza
del posto vi accorrerebbe tosto il duca, siccome in fatti avvenne,
avendo egli condotto seco circa otto mila persone. In questo mentre,
cioè nella notte precedente al dì sei del suddetto aprile, usciti dai
castelli don Giovanni ed esso vicerè, e quanti mai nobili erano con
loro, facendo marciare in ordinanza quasi tutte le truppe spagnuole,
andarono senza resistenza a prendere le porte e i posti principali
della città, e spezialmente fu loro consegnato dall'Annese il torrione
del Carmine, cioè la principal fortezza del popolo. In una parola
pacificamente s'impadronirono di tutta la città. Qualche difesa fu
fatta al palazzo dove abitava il duca, ma poco durò. Non si trovò
persona che facesse la carità di bruciar la segreteria di lui, dove
si trovarono tutte le corrispondenze ch'egli avea tenuto con tanti
regnicoli: il che fu poi la rovina di assaissime persone. Avvisatone il
Guisa, fece quanto potè per rientrare in città, ma non gli venne fatto.
Però col seguito di pochi suoi fedeli si mise in viaggio alla volta
di Roma. O per accidente o per tradimento, nel passar fuori d'Aversa
andando a Capua, fu scoperto, perseguitato e preso. Condotto in
prigione a Gaeta, venne poi trasportato in Ispagna, dove chiuso in una
fortezza, ebbe quanto tempo volle per digerire le memorie ch'egli ci
lasciò; e in fine, nell'anno 1652, per intercessione del _principe di