Annali d'Italia, vol. 6 - 78
pure sempre gloriosa al nome veneto. Fu essa descritta dal conte Gualdo
Priorato, dal senatore Andrea Veliero, da Girolamo Brusoni, da Vittorio
Siri, da Alessandro Maria Vianoli, e da altri in lingua volgare,
ed ultimamente anche in testo latino dalla felice penna del signor
Giovanni Graziani pubblico lettore nell'università di Padova.
Anno di CRISTO MDCXLVI. Indiz. XIV.
INNOCENZO X papa 3.
FERDINANDO III imperadore 9.
Avea, siccome dicemmo, il _marchese di Vellada_ sul fine dell'anno
precedente messo l'assedio a Vigevano, risoluto di ricuperarlo dalle
mani dei Franzesi. La città si arrendè tosto, e però tutti gli sforzi
si rivolsero contro la rocca, dove s'era ritirato tutto il presidio.
La stagione cattiva e le strade fangose non permisero al _principe
Tommaso_ di recarle soccorso; laonde nel dì 16 gennaio dell'anno
presente i difensori con patti onorevoli ne accordarono la resa. Ne
fu ben lieta la città di Milano. Essendo poi stato richiamato in
Ispagna esso Vellada, a lui succedette nel governo dello Stato di
Milano il _contestabile di Castiglia_, il quale, trovandosi scarso
di forze, nulla di rilevante potè operare in quest'anno, se non che
sul principio d'agosto fece una irruzione verso la città d'Acqui, e
con poche cannonate se ne impadronì. Passato di là sotto il castello
di Ponzone, colle artiglierie e colle mine nel dì 17 d'esso mese lo
costrinse alla resa. Niuna altra bravura di lui si conta sotto il
presente anno. Quello che più diede da discorrere in questi tempi
all'Italia, fu un insolito preparamento di un'armata fatta dai Franzesi
in Tolone. Consisteva in trentasei vascelli da guerra, venti galee,
diciotto barche incendiarie, più di cento tartane, ed altri legni da
carico. Circa sei mila fanti da sbarco vi erano sopra, e per terra
doveano essere secondate le navi d'altri aiuti. Erasi invogliato il
_cardinal Mazzarino_ di far meglio conoscere agl'Italiani la potenza
della Francia, con isperanza di far conquiste nelle maremme di Siena,
dove gli Spagnuoli possedevano alcune fortezze. Più in là ancora
tendevano le ben alte mire sue, cioè nel regno di Napoli, dove il
principe Tommaso di Savoia nudriva delle intelligenze. Il cardinale
l'avea già fatto re di Napoli; la possanza spagnuola in Italia passava
oramai in sua mente per interamente abbattuta. Imbarcossi in quella
flotta esso principe, come generalissimo dell'armi franzesi, e sotto di
lui l'ammiraglio _duca di Brezè_ giovane di gran valore, e di non minor
perizia, con assai altri riguardevoli uffiziali. Nel dì 20 di maggio
pervenuta questa flotta a Monte Argentaro, poco ebbe da faticare per
impadronirsi del forte delle Saline, di Talamone, e di Santo Stefano.
Dopo di che andò ad accamparsi intorno ad Orbitello, vigorosa piazza
sì per la sua situazione, che per le fortificazioni. Il duca di Arcos,
in questi tempi vicerè di Napoli, avea per precauzione spedito prima
colà con della gente don Carlo della Gatta capitano, che gran nome avea
conseguito nelle guerre passate. Cominciò questi di buona ora a far
intendere ai Franzesi, esservi nella piazza gente pronta a sacrificar
le vite, e che sapea far sortite e guastare i lavori nemici.
Ora il vicerè suddetto rivenuto dal sospetto e timore che le forze
franzesi a dirittura piombassero sul regno di Napoli, attese da lì
innanzi al soccorso dell'assediato Orbitello. Felicemente per mare
inviò a Porto Ercole un rinforzo di settecento fanti. Indi unite le
galee di Napoli e di Sicilia alla flotta spagnuola, ordinò che essa
dalla Sardegna venisse a chiedere conto ai Franzesi del loro ardire.
Era composta di venticinque vascelli d'alto bordo, di trentuna galee,
e dieci barche incendiarie sotto il comando di don Antonio, ossia
Francesco Pimiento. Allorchè giunse tal nuova al duca di Brezè,
tutto allegro mosse anch'egli la maggior parte della sua flotta,
e benchè alquanto inferiore nel numero dei legni, si preparò alla
battaglia. Nel dì 14 di giugno verso le coste di Talamone furono a
vista le nemiche armate, e cominciarono a salutarsi con una tempesta
di cannonate. Crebbe l'ardore del conflitto, ma sempre con riguardo
di non affratellarsi troppo, come in tante altre simili battaglie di
mare succede, cioè unicamente combattendo da lungi colle artiglierie.
Seguitò questa terribil danza, finchè sorse un fierissimo vento,
che obbligò cadauna parte a cercare ricovero nei porti, andandosene
tutte quelle navi maltrattate, e cantando non meno i Franzesi che gli
Spagnuoli, e molto più i loro oziosi parziali, la vittoria. In tali
incertezze solamente certo è che, colpito da una palla d'artiglieria,
perì l'ammiraglio franzese duca di Brezè, compianto da ognuno; un
vascello franzese andò per accidente in aria; e nel dì seguente fu
presa una galea parimente franzese dagli Spagnuoli, che abbruciarono
ancora da ottanta tartane franzesi. Molte altre fazioni militari
accaddero sotto Orbitello, quando si udì che marciavano per terra, e
si avvicinava un corpo di cavalleria napoletana; e per mare alcune
migliaia di fanti, per soccorrere quella terra, e per inquietare
gli assedianti; i quali per le malattie e diserzioni s'erano molto
indeboliti. Cominciò per questo a consultarsi nel campo franzese, se
meglio fosse il battere la ritirata. A far prendere tal risoluzione
sommamente contribuì una furiosa sortita fatta nel dì 18 di luglio
da don Carlo della Gatta, a cui riuscì d'inchiodar molti cannoni, e
di spianare un trincieramento dei nemici. Levarono dunque il campo
i Franzesi, e si ritirarono, pizzicati alla coda dagli Spagnuoli, in
mano dei quali restò ancora qualche pezzo di artiglieria. Abbandonarono
inoltre essi Franzesi Talamone.
L'esito infelice di questa impresa non si può dire a quanti
schiamazzi desse occasione in Francia contra del _principe Tommaso_,
e incomparabilmente più contra del _cardinale Mazzarino_, imputando ai
lor capricci la perdita della riputazion della Francia in Italia. Ma il
cardinale, benchè si mordesse le labbra, pure, nulla curando l'abbaiar
della gente, nè sgomentato dai soffii della fortuna contraria, pensò
tosto a riparar l'onore del regno con altra spedizione, che niuno
mai si sarebbe aspettato. Ordinò dunque che dalla Provenza s'inviasse
verso Levante una poderosa flotta di navi con molte truppe, sotto il
comando del _maresciallo della Migliarè_, sulla quale ad Oneglia andò
ad imbarcarsi anche il _maresciallo di Plessis Pralin_ con cinque
mila persone. Passò quest'armata a dirittura all'isola dell'Elba,
dove all'improvviso sul principio d'ottobre sbarcò due mila soldati,
indi si avviò in terra ferma a cignere d'assedio Piombino. Pochi
dì impiegò in approcci e mine, perchè quel governatore Francesco
Bezza, più allettato dalle lusinghe ed esibizioni del Migliarè, che
spaventato dalle minaccie, rendè non solamente la città, ma anche
la cittadella, passando poi al servigio della Francia con grave suo
disonore. Rivolsero poscia i due marescialli tutti i loro sforzi
all'isola dell'Elba, dove, dopo aver occupato le torri del porto di
Portolongone, impresero l'assedio della medesima terra. Fece quanta mai
si può ostinata difesa quel presidio spagnuolo e napoletano; ma in fine
alloggiatisi sulla breccia i non men coraggiosi Franzesi, sull'ultimo
giorno d'ottobre si vide forzato ad esporre bandiera bianca, con
ottener buoni patti dai vincitori. Per tali successi in Parigi chiunque
dianzi si scatenava contra del cardinal Mazzarino, imparò a tessergli
degli elogii, e gran feste ne furono ivi fatte.
Ancorchè _Francesco I duca_ di Modena avesse nelle passate guerre
dati più attestati dell'attaccamento suo alla corona di Spagna,
spezialmente col somministrar soccorsi allo Stato di Milano, pure
cominciò ad osservar molto freddo in quella corte verso la sua casa;
e maggiormente se ne accertò, perchè concorrendo il _cardinale Rinaldo
d'Este_ suo fratello alla protezion dell'imperio, gli Spagnuoli tanto
attraversarono i suoi negoziati, che ne restò privo. Ma servì questa
ripulsa per fargli ottenere la protezion della Francia, godendo quella
corte di tirar nel suo partito un porporato tale, che in elevatezza
di mente non si lasciava torre la mano da alcuno. Appena fu egli in
possesso di tal carica, che giunse a Roma l'_almirante di Castiglia_,
ambasciatore del re Cattolico, il quale dichiarò di non voler invitare
il cardinal d'Este alla sua cavalcata. Poco questo importava al
cardinale, ma veggendo farsi dallo Spagnuolo massa d'armati al suo
palazzo, anch'egli per non rimanere esposto alle superchierie, si
armò. Gli venne da Modena gran copia di bravi e di nobili, con armi
ancora per quattrocento persone. Non si aspettavano i Romani, se non
qualche sconcerto fra le due fazioni; però il papa, e varii porporati
e principi si interposero per l'accomodamento. Perchè saldo stava
l'Estense nelle sue convenienze e sicurezze, continuò l'imbroglio,
finchè, incontratesi nel fin d'aprile le carrozze del cardinale e
dell'almirante, non so come, presso la piazza del Gesù, si udì uno
sparo di pistola. Dal numeroso popolo colà concorso fu preso questo per
un segnale della zuffa, e tutti si diedero ad una precipitosa fuga,
massimamente perchè le genti dell'almirante scaricarono le lor armi
ed uccisero e ferirono alcuni di quegl'innocenti. Poscia, credendo
anch'esse che le squadre dell'Estense volessero venire all'assalto,
si abbandonarono ud una vergognosa fuga, lasciando nelle peste il
padrone, che se ne tornò a casa, senza che gli armati del cardinale
Rinaldo facessero nè a lui nè ai suoi insulto alcuno. Inviperito
l'almirante per tale avvenimento spedì al vicerè di Napoli, chiedendo
soccorso di gente e di danaro; ma disapprovato da esso vicerè il di
lui irregolare impegno, ciò diede campo al papa di troncar questo
incamminamento a maggiori disordini; e però alla presenza della
Santità sua nel dì 3 di maggio si riconciliarono i due contendenti,
con ricevere dipoi l'Estense delle grandi acclamazioni dai Romani,
per aver con tanto decoro sostenuta la riputazion della Francia,
e mortificata l'imperiosa nazione spagnuola. Dacchè il pontefice
si mostrava cotanto alterato contra dei Barberini, il _cardinal
Francesco_ e _don Taddeo_ giudicarono anch'essi meglio di sottrarsi
ai minacciati rigori. Fatte pertanto a poco a poco imbarcare in varii
legni le preziose lor suppellettili, menando seco esso Taddeo anche
i figli, segretamente nel gennaio di quest'anno passarono in Francia
a trovare il _cardinale Antonio_ lor fratello. Per tempesta insorta
in quella stagion poco propria alla navigazione, ebbero fatica a
ridursi colà in salvo. A me ha asserito persona degna di fede di
aver più volte inteso dal _cardinal Carlo Barberino_, che in questo
passaggio un di quei legni restò preda dell'onde, con perire uno
inestimabil valsente di argenterie, gioie, pitture ed altri ricchissimi
mobili. Maggiormente si esacerbò per tal fuga _papa Innocenzo X_,
nè vi era chi non predicesse la rovina di quella casa. Ma il saggio
pontefice, allorchè sempre più venne scorgendo con che calore avesse
la corte di Francia preso il patrocinio dei Barberini, cominciò a
prestar l'orecchio a chi gli parlava di rimetterli in sua grazia, e
maggiormente raddolcito si mostrò dappoichè le armi francesi orgogliose
comparvero sotto Orbitello, e molto più dacchè misero il piede in
Piombino e Portolongone. Era Piombino del _principe Lodovisio_ suo
nipote, e per desiderio di riaverlo, disarmò l'ira contra di essi
Barberini. Non ottennero già eglino grazia, ma cessarono i processi,
e per soddisfazione della Santità sua passarono per qualche tempo ad
Avignone.
Accudirono con tutto vigore nel verno dell'anno presente i Veneziani
alla guerra di Candia, e dovendosi eleggere un capitan generale delle
forze di mare, nel gran consiglio aveano universalmente acclamato per
questa carica lo stesso _Francesco Erizzo_ doge di quella repubblica:
cosa insolita, ed illustre attestato del di lui merito. Benchè
settuagenario, pien di spiriti generosi pel pubblico bene, accettò
egli questo peso. Ma quella che sì sovente sconvolge i disegni dei
mortali, il tolse dal mondo nel dì tre di gennaio di quest'anno. A
lui succedette nel ducato il procurator _Francesco Molino_, e capitan
generale fu eletto Giovanni Cappello, che poscia mal corrispose
all'aspettazione che si aveva di lui. Tuttochè ascendesse l'armata
veneta a sessantasei galee, sei galeazze e quaranta grosse navi,
oltre a molti altri legni minori, e si potesse impedire ai Turchi
l'uscita dai Dardanelli, anzi battere la loro armata, pure nulla di
bene si eseguì. All'incontro i Turchi iti all'assedio della città di
Retimo, se ne impadronirono, e in Dalmazia, dove pur si guerreggiava,
tolsero Novigrado ai Veneziani. Intanto non men per la guerra, che
per la peste, si aumentava la desolazione dell'isola di Candia, e a
questi flagelli soccombevano tanto i cristiani che i Turchi. Diede
fine al suo vivere in età di quarant'anni nel dì 12 di settembre
dell'anno presente _Odoardo Farnese duca_ di Parma. Fu in concetto
di uno degli spiritosi ingegni del suo tempo; incantava la gente
col suo bel parlare, ma inclinando non poco alla satira; il che nei
privati è pericoloso e molto men conviene a principi e gran signori.
La splendidezza, la generosità e la liberalità si contarono fra i suoi
pregi. Teneva ministri, non per udire i lor consigli, ma solamente per
esecutori della sua volontà, credendo capace la testa sua di tutto.
E siccome egli era un cervello caldo, risentito al maggior segno, e
portato a cose grandi, così era facile a prendere risse e risoluzioni
superiori alle forze sue. Di _Margherita de Medici_ sorella del _gran
duca Ferdinando II_ lasciò quattro maschi, cioè _Ranuccio II_, che fu
suo successor nel ducato, _Alessandro, Orazio e Pietro_, oltre a due
principesse. Fu corpulento e grasso, e questa sua non desiderabile
costituzione di corpo passò in eredità anche ai suoi figli e nipoti.
Sorella di esso duca Odoardo fu _Maria Farnese_, duchessa di Modena.
Era essa mancata di vita nel dì 25 di giugno dell'anno presente
nel parto di un principino, che poco sopravvisse alla madre. Questa
principessa si portò dietro il cuore d'ognuno; tanto era amata e degna
veramente dell'amore di tutti.
Anno di CRISTO MDCXLVII. Indizione XV.
INNOCENZO X papa 4.
FERDINANDO III imperadore 10.
Tali e tanti furono in quest'anno i funesti avvenimenti e
sconvolgimenti d'Italia, spezialmente per le sollevazioni di Napoli
e Palermo, che han servito di largo campo ad alcuni scrittori per
tesserne particolari istorie, e mettere in mostra le verità di tutti
quegli accidenti e delle lor circostanze. Non uscirò io dei miei
confini, e basterammi d'accennare il massiccio delle avventure,
potendo, chi più ne desidera, ricorrere a chi con libri _ex professo_
lasciarono descritte le rivoluzioni dell'anno presente. Da molto
tempo era sossopra l'Europa tutta, durante le guerre delle provincie
della Germania, de' Paesi Bassi, dell'Inghilterra, Francia e Spagna,
maneggiandosi, siccome abbiam veduto, le armi anche in Italia,
con essersi ultimamente aggiunta alle altre sciagure la guerra del
Turco coi Veneziani. Le sollevazioni occorse in questi ultimi anni
del Portogallo e della Catalogna contro la monarchia di Spagna, non
è improbabile che influissero coll'esempio ad animar altri popoli
malcontenti alla ribellione se pure unicamente non s'ebbero a rifondere
i lor movimenti sull'insofferenza degli aggravii pubblici troppo
cresciuti, e sul poco saggio governo dei pubblici ministri. Nella
Sicilia, che pur vien riguardata come un granaio d'Italia, si provava
in questi tempi la carestia, flagello ordinariamente dei soli poveri.
Fece _don Pietro Faiardo_ marchese de los Velez, e onoratissimo
vicerè di quel regno, quanto potè per aiutare il numeroso popolo di
Palermo. Ma il volgo, che non pesa le cose, nè intende ragione, il
pagava con sole maledizioni, per non aver quanto voleva. Però nel dì
20 di maggio attruppatisi circa ducento della feccia d'esso popolo,
andarono alla casa del pretore caricandolo a gran voci d'ingiurie.
Essendo sconsigliatamente uscita la famiglia, ed avendo cominciato a
percuotere quella disarmata canaglia, trasse a quelle grida gran gente,
e bastoni e coltelli fecero ritirar quei del pretore. Furono accumulate
legna e fascine alla porta di quel palazzo, locchè fece risolvere il
pretore e alcuni senatori a fuggirsene per la porta di dietro. Affin di
quetare la matta furia di costoro saltarono fuori i padri Teatini, con
promettere a tutti che si farebbe il pane più grosso. Ma non prestando
loro fede, volarono al palazzo del vicerè, chiedendo sollievo. Dalla
finestra esso marchese de los Velez, e molti nobili usciti fuori
assicurarono i tumultuanti, che s'era dato l'ordine per dar loro
soddisfazione, ed arrivata la notte, parve dileguato quel nuvolo.
Ma sulle tre ore della notte, a cagion di molti che nulla aveano da
perdere e molto speravano di guadagnare nella rivolta, maggiormente
s'aumentò il tumulto: furono rotte le carceri e data la libertà
a circa settecento facinorosi; e dipoi s'inviò l'infuriata plebe
alla casa del duca della Montagna, maestro razionale del patrimonio
reale, per bruciarla. Colà bensì accorsero i padri Gesuiti, portando
processionalmente il Santissimo Sacramento; ma non conoscendo allora
il popolo imbestialito nè moderazion nè religione, si vide perduto il
rispetto ad essi religiosi (alcuni de' quali rimasero anche feriti)
e al Sacramento stesso, convenendo loro di ritirarsi in fretta. Iti
alla doganella e ai luoghi dove si riscotevano i dazii e le gabelle ne
stracciarono tutti i libri e registri.
Fatto giorno, si portò il sedizioso popolo al palazzo del vicerè,
gridando: _Fuora gabelle_; ma ritrovatolo ben custodito dalle guardie,
non osarono di tentarne l'assalto. Intanto non pochi della nobiltà, la
qual tutta stette sempre fedele al re, usciti a cavallo si studiarono
di calmare il fuoco, e indussero il vicerè a pubblicar un editto,
per cui si levavano le gabelle sopra la farina, carne, olio, vino
e formaggio, come le più gravose al popolo. E nè pur questo bastò,
temendo i sollevati di essere sotto quell'apparenza ingannati; e
però avvenutisi in don Francesco Ventimiglia marchese di Gierace,
personaggio amato da ognuno, il proclamarono per lor signore e capo.
A questo inaspettato e non voluto onore inorridì il cavaliere, e
consigliato il popolo a gridare _viva il re di Spagna,_ si applicò
poi da saggio a trattar di concordia fra essi e il governo, ottenendo
lor molte grazie e privilegii: locchè servì a quetare e rallegrare i
sediziosi. Ma perciocchè dai bottegai e dai rivenderuoli non si volle
stare al fissato calmiere dei commestibili, tornò più pazzamente di
prima ad infuriar la plebe, e andò per insignorirsi della casa dove si
conserva il tesoro del re; ma vi trovò un corpo di cavalleria che mandò
a monte i loro disegni. Fu consigliato il vicerè di mettere in armi
gli artisti, e così fatto. La nobiltà stessa e fin gli ecclesiastici
presero dipoi l'armi contra la plebe: nel qual tempo colti alcuni
capi degli ammutinati, a terrore degli altri furono impiccati. Ma
non andò molto, che anche gli artisti si unirono col popolaccio;
e perciocchè chiamati a palazzo due consoli dell'arti per trattare
d'accordo, tardarono a tornare indietro, sparsasi voce che fossero
stati strangolati (locchè era falso), vieppiù allora divampò la furia
della gente; e benchè comparissero liberi i consoli, non rallentò
punto l'ardore dei sediziosi. Con sì strepitose scene, che durarono
per più settimane, s'era giunto al dì 15 d'agosto, quando Giuseppe
da Lesi, tiradore d'oro, fattosi capo-popolo, e gridando: _Muoia il
mal governo_, condusse tutti i suoi seguaci all'armeria regale, dove
ciascun si provvide d'armi, di polve da fuoco, e di ogni munizione da
guerra; ed avendo anche tratto da un baluardo un cannone e un sagro,
condusse la truppa al palazzo e sparò quell'artiglieria verso la porta.
Allora il vicerè prese il partito d'uscire segretamente, e di salvarsi
nelle galee, e la viceregina si ritirò anch'ella a Castellamare. Allora
spezialmente fu, che s'unirono molti nobili per opporsi ai ribelli,
i quali perchè s'insospettirono del loro capo, cioè di Giuseppe da
Lesi, per aver egli messe guardie acciocchè non fosse dato il sacco
al palazzo, si rivoltarono contro di lui. Usciti i nobili a cavallo
cominciarono a dar la caccia ai plebei. Fu ucciso il suddetto Giuseppe
con Francesco suo fratello. Dei presi nel dì 22 d'agosto ne furono
strozzati tredici, ed altri menati alle prigioni.
Si era restituito il _marchese de los Velez_ a Castellamare, e quivi
coi suoi consiglieri andava studiando le maniere di dar fine alla
tragedia, con pubblicare un perdon generale, e promettere l'abolizione
delle gabelle; e furono anche distesi molti capitoli di miglior
regolamento in avvenire per bene ed appagamento del popolo. Ma quando
egli si credea d'essere in porto, si trovava di nuovo in tempesta,
perchè i Siciliani, nazion vivacissima, quanto facili sono a prendere
fuoco, altrettanto son difficili a quietarsi. Perciò durò il torbido
sino al dì 13 di novembre, in cui il vicerè sì per le vigilie e
crepacuori patiti, come per veder disapprovata dalla corte la sua
condotta, per non aver egli mai, siccome signore d'animo misericordioso
e buono, voluto domar colla forza il forsennato popolo, oppresso dagli
affanni cessò di vivere. Era già destinato a quel governo il _cardinal
Teodoro Trivulzio_, persona di gran mente e prudenza, e che sapeva far
anche alle occasioni da bravo, con averne dati più saggi nella difesa
dello Stato di Milano. Arrivò egli nel dì 17 del suddetto novembre
a Palermo, e, contro il parere di chi gli consigliava d'andar prima
a Messina, oppure, andando a Palermo, di ricoverarsi nel castello,
sbarcato che fu, passò francamente alla chiesa maggiore fra la gran
folla del popolo, che venerando l'alta sua dignità, e giubilando
per ricevere un vicerè italiano, lo accompagnò colà con incessanti
acclamazioni. Altro non rispondeva egli, se non: _Pace e libro nuovo_.
Come se riputasse quieti gli animi di tutti, cominciò a dar udienze ad
ognuno, a rimettere in autorità i magistrati, a gastigare animosamente
chi ricalcitrava, con opprimere dipoi varie congiure che di mano in
mano si andavano tessendo dai restanti malviventi. In una parola, con
tal dolcezza e insieme con tal forza maneggiò quei focosi cervelli,
che fece tornar la quiete e l'ubbidienza tanto in Palermo che in altre
parti della Sicilia, dove si era dilatata quella mala influenza.
Vegniamo a Napoli, città, che per essere tanto più abbondante di
popolo, e popolo anch'esso sommamente spiritoso ed inquieto, maggiori
e più strepitose scene, che quelle di Palermo fece vedere nella
sollevazion sua, appartenente anch'essa all'anno presente. Erasi
in quella gran città per li correnti bisogni della corona, a cagion
delle guerre, che in tante parti l'infestavano, istituita una gabella
sopra le frutta, che perciò si vendevano più care, ed eretta una
baracca nella piazza del Mercato, dove stavano i ministri deputati
per esigerla. Al basso popolo, che spezialmente si pasce di pane e
frutta, intollerabil parea questo nuovo aggravio, e non s'udiva che
mormorazione e digrignar di denti. Trovossi una mattina abbruciata
la baracca: locchè fece riflettere a _don Rodrigo Ponze di Leon duca
d'Arcos_, e vicerè molto savio, che non era da caricar la povera gente
di quel dazio, e doversi ricavar da altra parte quella somma di danaro.
Pure cedendo al parer di coloro, ai quali fruttava essa gabella, rimise
la baracca come prima. Ora avvenne che un certo _Tommaso Aniello_ da
Amalfi, comunemente appellato _Mas-Aniello_, giovane di ventiquattro
anni, di vivace ingegno, e pescatore di professione, introducendo
pesce senza aver pagata la gabella, fu maltrattato dagli esecutori
della giustizia e perdè quel pesce. Tutto collera ne giurò vendetta,
e cominciò a persuadere ai compagni, che se il seguitassero, gli
dava l'animo di liberar la città da tanta oppression di gravezza,
e indusse ancora i bottegai fruttaruoli a non comperar frutta che
pagasse gabella. Gran rumore facea allora anche nel popolo più vile la
sollevazion di Palermo. Ora mancando le frutta nel dì 7 di luglio, si
svegliò un tumulto nella piazza, ed accorso Andrea Anaclerio eletto del
popolo per quetarlo, corse pericolo d'essere lapidato. Fuggito che egli
fu, Mas-Aniello salito sopra una tavola (era bel parlatore) talmente
esagerò le miserie del povero popolo, assassinato dal presente governo,
che si trasse dietro una brigata di cinquecento uomini e fanciulli
della vil feccia, soprannominati Lazzari, che poco appresso s'accrebbe
fino a due mila persone. Acclamato da costoro per capo, ordinò tosto
che si attaccasse fuoco alla baracca, e ai libri e mobili di quei
gabellieri, e fu prontamente ubbidito.
Di là passò la baldanzosa canaglia (provvedutisi molti di picche e
d'altre armi) alle case dove si riscotevano le gabelle della farina,
carne, pesce, sale, olio ed altri commestibili, e della seta. A niuna
d'esse perdonò. Tanto esse, che i mobili tutti, fra i quali ricche
tappezzerie, argenti, danari ed armi furono consegnate alle fiamme,
comandando Mas-Aniello che nulla si riserbasse. Insuperbiti costoro per
non trovare chi lor facesse fronte, e cresciuti fino a dieci mila, si
portarono alle carceri di San Giovanni degli Spagnuoli, e furiosamente
rottele, quanti prigioni vi erano, posti in libertà s'unirono con gli
altri ammutinati. Allora tutti s'inviarono al palazzo del vicerè, con
alte voci gridando; _Viva il re di Spagna e muoia il mal governo_.
Affacciatosi ad una finestra il duca di Arcos, promise loro di levar
le gabelle della frutta, e parte di quelle della farina. _Tutte le
vogliamo levate_, replicava la plebe; e intanto entrando a furia per la
porta, e messe in fuga le guardie tedesche e spagnuole, presero quelle
alabarde, e cominciarono a scorrere per le camere del palazzo, con
dare il sacco a quanto trovavano. Portarono rispetto all'appartamento
dove stava il _cardinal Trivulzio_, dimorante allora in Napoli. Gittò
bensì il vicerè da una finestra biglietti sigillati col sigillo reale,
coi quali assicurava il popolo di sgravarlo da tutte la gabelle;
ma insistendo coloro di volergli parlare, egli animosamente scese a
basso, e con dolci parole cercando di ammansarli, confermò la promessa.
Tuttavia benchè molti gli baciassero mani e ginocchia, scorgendo egli
il bollore di quelle teste riscaldate, destramente salì in carrozza
per sottrarsi alla loro insolenza. Gli corsero dietro, e fermarono la
carrozza, ma egli con adoperare il preparato recipe d'alcuni pugni di
zecchini, che sparse fra loro, scappò lor dalle mani, e si salvò nella
chiesa e nel monistero di San Luigi, facendo tosto serrar le porte.
Sopraggiunti colà i sediziosi atterrarono la prima porta, e lo stesso
avrebbono fatto del resto, se non sopraggiugneva il cardinale Ascanio
Filamarino arcivescovo, che s'interpose per la concordia, e presentò
poi a quella furiosa gente una scrittura del vicerè con belle promesse.
Ma perchè questa non conteneva se non l'abolizione della gabella
delle frutta, e di parte di quella della farina, più che mai dierono
nelle furie: locchè servì d'impulso al vicerè di ritirarsi in castello
Sant'Ermo.
Accortasi di ciò la tumultuante canaglia, cresciuta fino al numero
di cinquanta mila persone, si voltò a rompere tutte le altre carceri
della città, portando riverenza alle sole dell'arcivescovato, della
nunziatura e della vicaria, con bruciar tutti i processi. Trovato per
istrada _don Tiberio Caraffa_ principe di Bisignano, il pregarono di
essere lor capitano. Nata in lui speranza di calmare sì gran movimento,
salì in pulpito nella chiesa del Carmine, e con un crocifisso alla mano
caldamente esortò ciascuno alla quiete. Tutto indarno: il mare era
troppo in furore, ed altro vi volea che parole a quietarlo. Pertanto
il buon cavaliere con bella maniera se la colse, e andò a chiudersi
in Castel Nuovo; nella qual fortezza passarono anche il vicerè e il
cardinale Trivulzio, per essere più alla portata di cercare riparo a
tanti disordini. Ma perciocchè si erano disposte numerose guardie nella
piazza e intorno al castello, apprendendo i sollevati che si avesse
a venire alle armi, corsero a sonare a martello la grossa campana del
Priorato, dal senatore Andrea Veliero, da Girolamo Brusoni, da Vittorio
Siri, da Alessandro Maria Vianoli, e da altri in lingua volgare,
ed ultimamente anche in testo latino dalla felice penna del signor
Giovanni Graziani pubblico lettore nell'università di Padova.
Anno di CRISTO MDCXLVI. Indiz. XIV.
INNOCENZO X papa 3.
FERDINANDO III imperadore 9.
Avea, siccome dicemmo, il _marchese di Vellada_ sul fine dell'anno
precedente messo l'assedio a Vigevano, risoluto di ricuperarlo dalle
mani dei Franzesi. La città si arrendè tosto, e però tutti gli sforzi
si rivolsero contro la rocca, dove s'era ritirato tutto il presidio.
La stagione cattiva e le strade fangose non permisero al _principe
Tommaso_ di recarle soccorso; laonde nel dì 16 gennaio dell'anno
presente i difensori con patti onorevoli ne accordarono la resa. Ne
fu ben lieta la città di Milano. Essendo poi stato richiamato in
Ispagna esso Vellada, a lui succedette nel governo dello Stato di
Milano il _contestabile di Castiglia_, il quale, trovandosi scarso
di forze, nulla di rilevante potè operare in quest'anno, se non che
sul principio d'agosto fece una irruzione verso la città d'Acqui, e
con poche cannonate se ne impadronì. Passato di là sotto il castello
di Ponzone, colle artiglierie e colle mine nel dì 17 d'esso mese lo
costrinse alla resa. Niuna altra bravura di lui si conta sotto il
presente anno. Quello che più diede da discorrere in questi tempi
all'Italia, fu un insolito preparamento di un'armata fatta dai Franzesi
in Tolone. Consisteva in trentasei vascelli da guerra, venti galee,
diciotto barche incendiarie, più di cento tartane, ed altri legni da
carico. Circa sei mila fanti da sbarco vi erano sopra, e per terra
doveano essere secondate le navi d'altri aiuti. Erasi invogliato il
_cardinal Mazzarino_ di far meglio conoscere agl'Italiani la potenza
della Francia, con isperanza di far conquiste nelle maremme di Siena,
dove gli Spagnuoli possedevano alcune fortezze. Più in là ancora
tendevano le ben alte mire sue, cioè nel regno di Napoli, dove il
principe Tommaso di Savoia nudriva delle intelligenze. Il cardinale
l'avea già fatto re di Napoli; la possanza spagnuola in Italia passava
oramai in sua mente per interamente abbattuta. Imbarcossi in quella
flotta esso principe, come generalissimo dell'armi franzesi, e sotto di
lui l'ammiraglio _duca di Brezè_ giovane di gran valore, e di non minor
perizia, con assai altri riguardevoli uffiziali. Nel dì 20 di maggio
pervenuta questa flotta a Monte Argentaro, poco ebbe da faticare per
impadronirsi del forte delle Saline, di Talamone, e di Santo Stefano.
Dopo di che andò ad accamparsi intorno ad Orbitello, vigorosa piazza
sì per la sua situazione, che per le fortificazioni. Il duca di Arcos,
in questi tempi vicerè di Napoli, avea per precauzione spedito prima
colà con della gente don Carlo della Gatta capitano, che gran nome avea
conseguito nelle guerre passate. Cominciò questi di buona ora a far
intendere ai Franzesi, esservi nella piazza gente pronta a sacrificar
le vite, e che sapea far sortite e guastare i lavori nemici.
Ora il vicerè suddetto rivenuto dal sospetto e timore che le forze
franzesi a dirittura piombassero sul regno di Napoli, attese da lì
innanzi al soccorso dell'assediato Orbitello. Felicemente per mare
inviò a Porto Ercole un rinforzo di settecento fanti. Indi unite le
galee di Napoli e di Sicilia alla flotta spagnuola, ordinò che essa
dalla Sardegna venisse a chiedere conto ai Franzesi del loro ardire.
Era composta di venticinque vascelli d'alto bordo, di trentuna galee,
e dieci barche incendiarie sotto il comando di don Antonio, ossia
Francesco Pimiento. Allorchè giunse tal nuova al duca di Brezè,
tutto allegro mosse anch'egli la maggior parte della sua flotta,
e benchè alquanto inferiore nel numero dei legni, si preparò alla
battaglia. Nel dì 14 di giugno verso le coste di Talamone furono a
vista le nemiche armate, e cominciarono a salutarsi con una tempesta
di cannonate. Crebbe l'ardore del conflitto, ma sempre con riguardo
di non affratellarsi troppo, come in tante altre simili battaglie di
mare succede, cioè unicamente combattendo da lungi colle artiglierie.
Seguitò questa terribil danza, finchè sorse un fierissimo vento,
che obbligò cadauna parte a cercare ricovero nei porti, andandosene
tutte quelle navi maltrattate, e cantando non meno i Franzesi che gli
Spagnuoli, e molto più i loro oziosi parziali, la vittoria. In tali
incertezze solamente certo è che, colpito da una palla d'artiglieria,
perì l'ammiraglio franzese duca di Brezè, compianto da ognuno; un
vascello franzese andò per accidente in aria; e nel dì seguente fu
presa una galea parimente franzese dagli Spagnuoli, che abbruciarono
ancora da ottanta tartane franzesi. Molte altre fazioni militari
accaddero sotto Orbitello, quando si udì che marciavano per terra, e
si avvicinava un corpo di cavalleria napoletana; e per mare alcune
migliaia di fanti, per soccorrere quella terra, e per inquietare
gli assedianti; i quali per le malattie e diserzioni s'erano molto
indeboliti. Cominciò per questo a consultarsi nel campo franzese, se
meglio fosse il battere la ritirata. A far prendere tal risoluzione
sommamente contribuì una furiosa sortita fatta nel dì 18 di luglio
da don Carlo della Gatta, a cui riuscì d'inchiodar molti cannoni, e
di spianare un trincieramento dei nemici. Levarono dunque il campo
i Franzesi, e si ritirarono, pizzicati alla coda dagli Spagnuoli, in
mano dei quali restò ancora qualche pezzo di artiglieria. Abbandonarono
inoltre essi Franzesi Talamone.
L'esito infelice di questa impresa non si può dire a quanti
schiamazzi desse occasione in Francia contra del _principe Tommaso_,
e incomparabilmente più contra del _cardinale Mazzarino_, imputando ai
lor capricci la perdita della riputazion della Francia in Italia. Ma il
cardinale, benchè si mordesse le labbra, pure, nulla curando l'abbaiar
della gente, nè sgomentato dai soffii della fortuna contraria, pensò
tosto a riparar l'onore del regno con altra spedizione, che niuno
mai si sarebbe aspettato. Ordinò dunque che dalla Provenza s'inviasse
verso Levante una poderosa flotta di navi con molte truppe, sotto il
comando del _maresciallo della Migliarè_, sulla quale ad Oneglia andò
ad imbarcarsi anche il _maresciallo di Plessis Pralin_ con cinque
mila persone. Passò quest'armata a dirittura all'isola dell'Elba,
dove all'improvviso sul principio d'ottobre sbarcò due mila soldati,
indi si avviò in terra ferma a cignere d'assedio Piombino. Pochi
dì impiegò in approcci e mine, perchè quel governatore Francesco
Bezza, più allettato dalle lusinghe ed esibizioni del Migliarè, che
spaventato dalle minaccie, rendè non solamente la città, ma anche
la cittadella, passando poi al servigio della Francia con grave suo
disonore. Rivolsero poscia i due marescialli tutti i loro sforzi
all'isola dell'Elba, dove, dopo aver occupato le torri del porto di
Portolongone, impresero l'assedio della medesima terra. Fece quanta mai
si può ostinata difesa quel presidio spagnuolo e napoletano; ma in fine
alloggiatisi sulla breccia i non men coraggiosi Franzesi, sull'ultimo
giorno d'ottobre si vide forzato ad esporre bandiera bianca, con
ottener buoni patti dai vincitori. Per tali successi in Parigi chiunque
dianzi si scatenava contra del cardinal Mazzarino, imparò a tessergli
degli elogii, e gran feste ne furono ivi fatte.
Ancorchè _Francesco I duca_ di Modena avesse nelle passate guerre
dati più attestati dell'attaccamento suo alla corona di Spagna,
spezialmente col somministrar soccorsi allo Stato di Milano, pure
cominciò ad osservar molto freddo in quella corte verso la sua casa;
e maggiormente se ne accertò, perchè concorrendo il _cardinale Rinaldo
d'Este_ suo fratello alla protezion dell'imperio, gli Spagnuoli tanto
attraversarono i suoi negoziati, che ne restò privo. Ma servì questa
ripulsa per fargli ottenere la protezion della Francia, godendo quella
corte di tirar nel suo partito un porporato tale, che in elevatezza
di mente non si lasciava torre la mano da alcuno. Appena fu egli in
possesso di tal carica, che giunse a Roma l'_almirante di Castiglia_,
ambasciatore del re Cattolico, il quale dichiarò di non voler invitare
il cardinal d'Este alla sua cavalcata. Poco questo importava al
cardinale, ma veggendo farsi dallo Spagnuolo massa d'armati al suo
palazzo, anch'egli per non rimanere esposto alle superchierie, si
armò. Gli venne da Modena gran copia di bravi e di nobili, con armi
ancora per quattrocento persone. Non si aspettavano i Romani, se non
qualche sconcerto fra le due fazioni; però il papa, e varii porporati
e principi si interposero per l'accomodamento. Perchè saldo stava
l'Estense nelle sue convenienze e sicurezze, continuò l'imbroglio,
finchè, incontratesi nel fin d'aprile le carrozze del cardinale e
dell'almirante, non so come, presso la piazza del Gesù, si udì uno
sparo di pistola. Dal numeroso popolo colà concorso fu preso questo per
un segnale della zuffa, e tutti si diedero ad una precipitosa fuga,
massimamente perchè le genti dell'almirante scaricarono le lor armi
ed uccisero e ferirono alcuni di quegl'innocenti. Poscia, credendo
anch'esse che le squadre dell'Estense volessero venire all'assalto,
si abbandonarono ud una vergognosa fuga, lasciando nelle peste il
padrone, che se ne tornò a casa, senza che gli armati del cardinale
Rinaldo facessero nè a lui nè ai suoi insulto alcuno. Inviperito
l'almirante per tale avvenimento spedì al vicerè di Napoli, chiedendo
soccorso di gente e di danaro; ma disapprovato da esso vicerè il di
lui irregolare impegno, ciò diede campo al papa di troncar questo
incamminamento a maggiori disordini; e però alla presenza della
Santità sua nel dì 3 di maggio si riconciliarono i due contendenti,
con ricevere dipoi l'Estense delle grandi acclamazioni dai Romani,
per aver con tanto decoro sostenuta la riputazion della Francia,
e mortificata l'imperiosa nazione spagnuola. Dacchè il pontefice
si mostrava cotanto alterato contra dei Barberini, il _cardinal
Francesco_ e _don Taddeo_ giudicarono anch'essi meglio di sottrarsi
ai minacciati rigori. Fatte pertanto a poco a poco imbarcare in varii
legni le preziose lor suppellettili, menando seco esso Taddeo anche
i figli, segretamente nel gennaio di quest'anno passarono in Francia
a trovare il _cardinale Antonio_ lor fratello. Per tempesta insorta
in quella stagion poco propria alla navigazione, ebbero fatica a
ridursi colà in salvo. A me ha asserito persona degna di fede di
aver più volte inteso dal _cardinal Carlo Barberino_, che in questo
passaggio un di quei legni restò preda dell'onde, con perire uno
inestimabil valsente di argenterie, gioie, pitture ed altri ricchissimi
mobili. Maggiormente si esacerbò per tal fuga _papa Innocenzo X_,
nè vi era chi non predicesse la rovina di quella casa. Ma il saggio
pontefice, allorchè sempre più venne scorgendo con che calore avesse
la corte di Francia preso il patrocinio dei Barberini, cominciò a
prestar l'orecchio a chi gli parlava di rimetterli in sua grazia, e
maggiormente raddolcito si mostrò dappoichè le armi francesi orgogliose
comparvero sotto Orbitello, e molto più dacchè misero il piede in
Piombino e Portolongone. Era Piombino del _principe Lodovisio_ suo
nipote, e per desiderio di riaverlo, disarmò l'ira contra di essi
Barberini. Non ottennero già eglino grazia, ma cessarono i processi,
e per soddisfazione della Santità sua passarono per qualche tempo ad
Avignone.
Accudirono con tutto vigore nel verno dell'anno presente i Veneziani
alla guerra di Candia, e dovendosi eleggere un capitan generale delle
forze di mare, nel gran consiglio aveano universalmente acclamato per
questa carica lo stesso _Francesco Erizzo_ doge di quella repubblica:
cosa insolita, ed illustre attestato del di lui merito. Benchè
settuagenario, pien di spiriti generosi pel pubblico bene, accettò
egli questo peso. Ma quella che sì sovente sconvolge i disegni dei
mortali, il tolse dal mondo nel dì tre di gennaio di quest'anno. A
lui succedette nel ducato il procurator _Francesco Molino_, e capitan
generale fu eletto Giovanni Cappello, che poscia mal corrispose
all'aspettazione che si aveva di lui. Tuttochè ascendesse l'armata
veneta a sessantasei galee, sei galeazze e quaranta grosse navi,
oltre a molti altri legni minori, e si potesse impedire ai Turchi
l'uscita dai Dardanelli, anzi battere la loro armata, pure nulla di
bene si eseguì. All'incontro i Turchi iti all'assedio della città di
Retimo, se ne impadronirono, e in Dalmazia, dove pur si guerreggiava,
tolsero Novigrado ai Veneziani. Intanto non men per la guerra, che
per la peste, si aumentava la desolazione dell'isola di Candia, e a
questi flagelli soccombevano tanto i cristiani che i Turchi. Diede
fine al suo vivere in età di quarant'anni nel dì 12 di settembre
dell'anno presente _Odoardo Farnese duca_ di Parma. Fu in concetto
di uno degli spiritosi ingegni del suo tempo; incantava la gente
col suo bel parlare, ma inclinando non poco alla satira; il che nei
privati è pericoloso e molto men conviene a principi e gran signori.
La splendidezza, la generosità e la liberalità si contarono fra i suoi
pregi. Teneva ministri, non per udire i lor consigli, ma solamente per
esecutori della sua volontà, credendo capace la testa sua di tutto.
E siccome egli era un cervello caldo, risentito al maggior segno, e
portato a cose grandi, così era facile a prendere risse e risoluzioni
superiori alle forze sue. Di _Margherita de Medici_ sorella del _gran
duca Ferdinando II_ lasciò quattro maschi, cioè _Ranuccio II_, che fu
suo successor nel ducato, _Alessandro, Orazio e Pietro_, oltre a due
principesse. Fu corpulento e grasso, e questa sua non desiderabile
costituzione di corpo passò in eredità anche ai suoi figli e nipoti.
Sorella di esso duca Odoardo fu _Maria Farnese_, duchessa di Modena.
Era essa mancata di vita nel dì 25 di giugno dell'anno presente
nel parto di un principino, che poco sopravvisse alla madre. Questa
principessa si portò dietro il cuore d'ognuno; tanto era amata e degna
veramente dell'amore di tutti.
Anno di CRISTO MDCXLVII. Indizione XV.
INNOCENZO X papa 4.
FERDINANDO III imperadore 10.
Tali e tanti furono in quest'anno i funesti avvenimenti e
sconvolgimenti d'Italia, spezialmente per le sollevazioni di Napoli
e Palermo, che han servito di largo campo ad alcuni scrittori per
tesserne particolari istorie, e mettere in mostra le verità di tutti
quegli accidenti e delle lor circostanze. Non uscirò io dei miei
confini, e basterammi d'accennare il massiccio delle avventure,
potendo, chi più ne desidera, ricorrere a chi con libri _ex professo_
lasciarono descritte le rivoluzioni dell'anno presente. Da molto
tempo era sossopra l'Europa tutta, durante le guerre delle provincie
della Germania, de' Paesi Bassi, dell'Inghilterra, Francia e Spagna,
maneggiandosi, siccome abbiam veduto, le armi anche in Italia,
con essersi ultimamente aggiunta alle altre sciagure la guerra del
Turco coi Veneziani. Le sollevazioni occorse in questi ultimi anni
del Portogallo e della Catalogna contro la monarchia di Spagna, non
è improbabile che influissero coll'esempio ad animar altri popoli
malcontenti alla ribellione se pure unicamente non s'ebbero a rifondere
i lor movimenti sull'insofferenza degli aggravii pubblici troppo
cresciuti, e sul poco saggio governo dei pubblici ministri. Nella
Sicilia, che pur vien riguardata come un granaio d'Italia, si provava
in questi tempi la carestia, flagello ordinariamente dei soli poveri.
Fece _don Pietro Faiardo_ marchese de los Velez, e onoratissimo
vicerè di quel regno, quanto potè per aiutare il numeroso popolo di
Palermo. Ma il volgo, che non pesa le cose, nè intende ragione, il
pagava con sole maledizioni, per non aver quanto voleva. Però nel dì
20 di maggio attruppatisi circa ducento della feccia d'esso popolo,
andarono alla casa del pretore caricandolo a gran voci d'ingiurie.
Essendo sconsigliatamente uscita la famiglia, ed avendo cominciato a
percuotere quella disarmata canaglia, trasse a quelle grida gran gente,
e bastoni e coltelli fecero ritirar quei del pretore. Furono accumulate
legna e fascine alla porta di quel palazzo, locchè fece risolvere il
pretore e alcuni senatori a fuggirsene per la porta di dietro. Affin di
quetare la matta furia di costoro saltarono fuori i padri Teatini, con
promettere a tutti che si farebbe il pane più grosso. Ma non prestando
loro fede, volarono al palazzo del vicerè, chiedendo sollievo. Dalla
finestra esso marchese de los Velez, e molti nobili usciti fuori
assicurarono i tumultuanti, che s'era dato l'ordine per dar loro
soddisfazione, ed arrivata la notte, parve dileguato quel nuvolo.
Ma sulle tre ore della notte, a cagion di molti che nulla aveano da
perdere e molto speravano di guadagnare nella rivolta, maggiormente
s'aumentò il tumulto: furono rotte le carceri e data la libertà
a circa settecento facinorosi; e dipoi s'inviò l'infuriata plebe
alla casa del duca della Montagna, maestro razionale del patrimonio
reale, per bruciarla. Colà bensì accorsero i padri Gesuiti, portando
processionalmente il Santissimo Sacramento; ma non conoscendo allora
il popolo imbestialito nè moderazion nè religione, si vide perduto il
rispetto ad essi religiosi (alcuni de' quali rimasero anche feriti)
e al Sacramento stesso, convenendo loro di ritirarsi in fretta. Iti
alla doganella e ai luoghi dove si riscotevano i dazii e le gabelle ne
stracciarono tutti i libri e registri.
Fatto giorno, si portò il sedizioso popolo al palazzo del vicerè,
gridando: _Fuora gabelle_; ma ritrovatolo ben custodito dalle guardie,
non osarono di tentarne l'assalto. Intanto non pochi della nobiltà, la
qual tutta stette sempre fedele al re, usciti a cavallo si studiarono
di calmare il fuoco, e indussero il vicerè a pubblicar un editto,
per cui si levavano le gabelle sopra la farina, carne, olio, vino
e formaggio, come le più gravose al popolo. E nè pur questo bastò,
temendo i sollevati di essere sotto quell'apparenza ingannati; e
però avvenutisi in don Francesco Ventimiglia marchese di Gierace,
personaggio amato da ognuno, il proclamarono per lor signore e capo.
A questo inaspettato e non voluto onore inorridì il cavaliere, e
consigliato il popolo a gridare _viva il re di Spagna,_ si applicò
poi da saggio a trattar di concordia fra essi e il governo, ottenendo
lor molte grazie e privilegii: locchè servì a quetare e rallegrare i
sediziosi. Ma perciocchè dai bottegai e dai rivenderuoli non si volle
stare al fissato calmiere dei commestibili, tornò più pazzamente di
prima ad infuriar la plebe, e andò per insignorirsi della casa dove si
conserva il tesoro del re; ma vi trovò un corpo di cavalleria che mandò
a monte i loro disegni. Fu consigliato il vicerè di mettere in armi
gli artisti, e così fatto. La nobiltà stessa e fin gli ecclesiastici
presero dipoi l'armi contra la plebe: nel qual tempo colti alcuni
capi degli ammutinati, a terrore degli altri furono impiccati. Ma
non andò molto, che anche gli artisti si unirono col popolaccio;
e perciocchè chiamati a palazzo due consoli dell'arti per trattare
d'accordo, tardarono a tornare indietro, sparsasi voce che fossero
stati strangolati (locchè era falso), vieppiù allora divampò la furia
della gente; e benchè comparissero liberi i consoli, non rallentò
punto l'ardore dei sediziosi. Con sì strepitose scene, che durarono
per più settimane, s'era giunto al dì 15 d'agosto, quando Giuseppe
da Lesi, tiradore d'oro, fattosi capo-popolo, e gridando: _Muoia il
mal governo_, condusse tutti i suoi seguaci all'armeria regale, dove
ciascun si provvide d'armi, di polve da fuoco, e di ogni munizione da
guerra; ed avendo anche tratto da un baluardo un cannone e un sagro,
condusse la truppa al palazzo e sparò quell'artiglieria verso la porta.
Allora il vicerè prese il partito d'uscire segretamente, e di salvarsi
nelle galee, e la viceregina si ritirò anch'ella a Castellamare. Allora
spezialmente fu, che s'unirono molti nobili per opporsi ai ribelli,
i quali perchè s'insospettirono del loro capo, cioè di Giuseppe da
Lesi, per aver egli messe guardie acciocchè non fosse dato il sacco
al palazzo, si rivoltarono contro di lui. Usciti i nobili a cavallo
cominciarono a dar la caccia ai plebei. Fu ucciso il suddetto Giuseppe
con Francesco suo fratello. Dei presi nel dì 22 d'agosto ne furono
strozzati tredici, ed altri menati alle prigioni.
Si era restituito il _marchese de los Velez_ a Castellamare, e quivi
coi suoi consiglieri andava studiando le maniere di dar fine alla
tragedia, con pubblicare un perdon generale, e promettere l'abolizione
delle gabelle; e furono anche distesi molti capitoli di miglior
regolamento in avvenire per bene ed appagamento del popolo. Ma quando
egli si credea d'essere in porto, si trovava di nuovo in tempesta,
perchè i Siciliani, nazion vivacissima, quanto facili sono a prendere
fuoco, altrettanto son difficili a quietarsi. Perciò durò il torbido
sino al dì 13 di novembre, in cui il vicerè sì per le vigilie e
crepacuori patiti, come per veder disapprovata dalla corte la sua
condotta, per non aver egli mai, siccome signore d'animo misericordioso
e buono, voluto domar colla forza il forsennato popolo, oppresso dagli
affanni cessò di vivere. Era già destinato a quel governo il _cardinal
Teodoro Trivulzio_, persona di gran mente e prudenza, e che sapeva far
anche alle occasioni da bravo, con averne dati più saggi nella difesa
dello Stato di Milano. Arrivò egli nel dì 17 del suddetto novembre
a Palermo, e, contro il parere di chi gli consigliava d'andar prima
a Messina, oppure, andando a Palermo, di ricoverarsi nel castello,
sbarcato che fu, passò francamente alla chiesa maggiore fra la gran
folla del popolo, che venerando l'alta sua dignità, e giubilando
per ricevere un vicerè italiano, lo accompagnò colà con incessanti
acclamazioni. Altro non rispondeva egli, se non: _Pace e libro nuovo_.
Come se riputasse quieti gli animi di tutti, cominciò a dar udienze ad
ognuno, a rimettere in autorità i magistrati, a gastigare animosamente
chi ricalcitrava, con opprimere dipoi varie congiure che di mano in
mano si andavano tessendo dai restanti malviventi. In una parola, con
tal dolcezza e insieme con tal forza maneggiò quei focosi cervelli,
che fece tornar la quiete e l'ubbidienza tanto in Palermo che in altre
parti della Sicilia, dove si era dilatata quella mala influenza.
Vegniamo a Napoli, città, che per essere tanto più abbondante di
popolo, e popolo anch'esso sommamente spiritoso ed inquieto, maggiori
e più strepitose scene, che quelle di Palermo fece vedere nella
sollevazion sua, appartenente anch'essa all'anno presente. Erasi
in quella gran città per li correnti bisogni della corona, a cagion
delle guerre, che in tante parti l'infestavano, istituita una gabella
sopra le frutta, che perciò si vendevano più care, ed eretta una
baracca nella piazza del Mercato, dove stavano i ministri deputati
per esigerla. Al basso popolo, che spezialmente si pasce di pane e
frutta, intollerabil parea questo nuovo aggravio, e non s'udiva che
mormorazione e digrignar di denti. Trovossi una mattina abbruciata
la baracca: locchè fece riflettere a _don Rodrigo Ponze di Leon duca
d'Arcos_, e vicerè molto savio, che non era da caricar la povera gente
di quel dazio, e doversi ricavar da altra parte quella somma di danaro.
Pure cedendo al parer di coloro, ai quali fruttava essa gabella, rimise
la baracca come prima. Ora avvenne che un certo _Tommaso Aniello_ da
Amalfi, comunemente appellato _Mas-Aniello_, giovane di ventiquattro
anni, di vivace ingegno, e pescatore di professione, introducendo
pesce senza aver pagata la gabella, fu maltrattato dagli esecutori
della giustizia e perdè quel pesce. Tutto collera ne giurò vendetta,
e cominciò a persuadere ai compagni, che se il seguitassero, gli
dava l'animo di liberar la città da tanta oppression di gravezza,
e indusse ancora i bottegai fruttaruoli a non comperar frutta che
pagasse gabella. Gran rumore facea allora anche nel popolo più vile la
sollevazion di Palermo. Ora mancando le frutta nel dì 7 di luglio, si
svegliò un tumulto nella piazza, ed accorso Andrea Anaclerio eletto del
popolo per quetarlo, corse pericolo d'essere lapidato. Fuggito che egli
fu, Mas-Aniello salito sopra una tavola (era bel parlatore) talmente
esagerò le miserie del povero popolo, assassinato dal presente governo,
che si trasse dietro una brigata di cinquecento uomini e fanciulli
della vil feccia, soprannominati Lazzari, che poco appresso s'accrebbe
fino a due mila persone. Acclamato da costoro per capo, ordinò tosto
che si attaccasse fuoco alla baracca, e ai libri e mobili di quei
gabellieri, e fu prontamente ubbidito.
Di là passò la baldanzosa canaglia (provvedutisi molti di picche e
d'altre armi) alle case dove si riscotevano le gabelle della farina,
carne, pesce, sale, olio ed altri commestibili, e della seta. A niuna
d'esse perdonò. Tanto esse, che i mobili tutti, fra i quali ricche
tappezzerie, argenti, danari ed armi furono consegnate alle fiamme,
comandando Mas-Aniello che nulla si riserbasse. Insuperbiti costoro per
non trovare chi lor facesse fronte, e cresciuti fino a dieci mila, si
portarono alle carceri di San Giovanni degli Spagnuoli, e furiosamente
rottele, quanti prigioni vi erano, posti in libertà s'unirono con gli
altri ammutinati. Allora tutti s'inviarono al palazzo del vicerè, con
alte voci gridando; _Viva il re di Spagna e muoia il mal governo_.
Affacciatosi ad una finestra il duca di Arcos, promise loro di levar
le gabelle della frutta, e parte di quelle della farina. _Tutte le
vogliamo levate_, replicava la plebe; e intanto entrando a furia per la
porta, e messe in fuga le guardie tedesche e spagnuole, presero quelle
alabarde, e cominciarono a scorrere per le camere del palazzo, con
dare il sacco a quanto trovavano. Portarono rispetto all'appartamento
dove stava il _cardinal Trivulzio_, dimorante allora in Napoli. Gittò
bensì il vicerè da una finestra biglietti sigillati col sigillo reale,
coi quali assicurava il popolo di sgravarlo da tutte la gabelle;
ma insistendo coloro di volergli parlare, egli animosamente scese a
basso, e con dolci parole cercando di ammansarli, confermò la promessa.
Tuttavia benchè molti gli baciassero mani e ginocchia, scorgendo egli
il bollore di quelle teste riscaldate, destramente salì in carrozza
per sottrarsi alla loro insolenza. Gli corsero dietro, e fermarono la
carrozza, ma egli con adoperare il preparato recipe d'alcuni pugni di
zecchini, che sparse fra loro, scappò lor dalle mani, e si salvò nella
chiesa e nel monistero di San Luigi, facendo tosto serrar le porte.
Sopraggiunti colà i sediziosi atterrarono la prima porta, e lo stesso
avrebbono fatto del resto, se non sopraggiugneva il cardinale Ascanio
Filamarino arcivescovo, che s'interpose per la concordia, e presentò
poi a quella furiosa gente una scrittura del vicerè con belle promesse.
Ma perchè questa non conteneva se non l'abolizione della gabella
delle frutta, e di parte di quella della farina, più che mai dierono
nelle furie: locchè servì d'impulso al vicerè di ritirarsi in castello
Sant'Ermo.
Accortasi di ciò la tumultuante canaglia, cresciuta fino al numero
di cinquanta mila persone, si voltò a rompere tutte le altre carceri
della città, portando riverenza alle sole dell'arcivescovato, della
nunziatura e della vicaria, con bruciar tutti i processi. Trovato per
istrada _don Tiberio Caraffa_ principe di Bisignano, il pregarono di
essere lor capitano. Nata in lui speranza di calmare sì gran movimento,
salì in pulpito nella chiesa del Carmine, e con un crocifisso alla mano
caldamente esortò ciascuno alla quiete. Tutto indarno: il mare era
troppo in furore, ed altro vi volea che parole a quietarlo. Pertanto
il buon cavaliere con bella maniera se la colse, e andò a chiudersi
in Castel Nuovo; nella qual fortezza passarono anche il vicerè e il
cardinale Trivulzio, per essere più alla portata di cercare riparo a
tanti disordini. Ma perciocchè si erano disposte numerose guardie nella
piazza e intorno al castello, apprendendo i sollevati che si avesse
a venire alle armi, corsero a sonare a martello la grossa campana del
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