Annali d'Italia, vol. 6 - 72

principi italiani, che mal sofferivano la prepotenza degli Spagnuoli, e
la troppa possanza del regnante Augusto.
Avea esso cardinale, dopo l'acquisto di Pinerolo, già fatti i conti
che questo avesse ad essere un nido sicuro e durevole per li Franzesi;
e già ne avea imprese le fortificazioni. Ma in vigor della pace di
Ratisbona, sì Pinerolo che Susa, Saluzzo, la Savoia ed ogni altro
occupato luogo si aveano a rendere al duca di Savoia. Non si fermò
per questo il Richelieu. Spinse addosso al _duca Vittorio Amedeo_
il sagacissimo Mazzarino, e questi pose in campo il desiderio del
cardinale per la ritenzion di Pinerolo, e sfoderò quanti argomenti gli
somministrò la sua giudiziosa eloquenza per persuaderne la cessione,
facendo gustare al duca la restituzione della Savoia, e di tutti altri
luoghi, alla quale, coll'aver negata la ratificazione della pace,
non si tenea obbligata la Francia. Promise di fargli avere un buon
compenso colla città di Alba, con altri luoghi del duca di Mantova, e
con altre esibizioni che superavano il valore di Pinerolo. Aggiunse,
quella essere la maniera di farlo rispettar dagli Spagnuoli, e di
mantener sempre buona amicizia colla Francia, da cui più potea sperar
la casa di Savoia che dalla corte di Spagna. In una parola, tanto
fece, tanto disse l'accorto Mazzarino, che il duca si arrendè, e nel dì
ultimo di marzo con un trattato raccomandato ad un'estrema segretezza
si accordò di cedere al re Cristianissimo la città e il castello di
Pinerolo, Riva, Budenasco, il forte della Perosa, ed altri luoghi,
cioè una lingua di terreno che per la valle di Perosa si attaccava con
gli Stati del Delfinato. Ciò fatto, seguì poi l'accordo di Cherasco,
pel quale si stabilì chiaramente la restituzione di tutto il tolto al
duca di Savoia, e nominatamente di Pinerolo, mentre nel medesimo tempo
dovea farsi quella di Mantova, Casale e Canneto al duca di Mantova,
e liberarsi la Valtellina. Per l'esecuzione ancora d'esso accordo
furono dati ostaggi a _papa Urbano VIII_, che non ricusò di riceverli
e tenerli finattantochè ciascuna delle parti avesse fedelmente
adempiuti i capitoli di quella concordia. Ma come coprire agli occhi
degl'imperiali e Spagnuoli questa innovazione e contravvenzione alla
pace, e non render Pinerolo? Ecco ciò che per beffarli tutti seppe
inventare la fina politica del Richelieu e del mediatore Mazzarino,
il quale in tal congiuntura non ebbe difficoltà d'ingannare lo stesso
monsignor _Panciroli_ suo superiore ne' maneggi, tuttochè anch'egli
fosse in concetto di essere cima di uomo nella simulazione ed
accortezza.
Perchè il Richelieu non si fidava del duca di Savoia, volle che il
_cardinal Maurizio_ e il _principe Tommaso_, fratelli di esso duca,
passassero a Parigi, col pretesto di andarsene in Fiandra, e quivi come
ostaggi si fermassero, finchè la trama fosse compiuta. Nè questo bastò.
Si fecero rinchiudere in un segreto granaio, ed altri nascondigli
della cittadella di Pinerolo, trecento fanti franzesi con viveri per
un mese, e sparsa voce che fosse entrata la peste in quella fortezza,
affinchè si sbrigassero presto i commissarii imperiali e Spagnuoli
da quella visita, spalancate le porte, uscì nel dì 20 di settembre il
resto del presidio franzese, e fu data la consegna di tutto al conte
di Verrua pel duca di Savoia. Visitarono i commissarii tutti i siti,
nè trovandovi più alcun Franzese, sottoscrissero l'attestato della
restituzion seguita di Pinerolo. Alcuni dì prima era stato evacuato
il Piemonte, il Monferrato e la Savoia da' Franzesi, la Rhetia
dagli Alemanni; al duca Carlo Gonzaga consegnato Porto e Canneto,
e susseguentemente nello stesso dì 20 anche la città di Mantova,
giacchè a lui era pervenuta l'imperiale investitura di quel ducato e
del Monferrato, di quel nondimeno che restava in suo dominio. Portati
a Ferrara gli autentici attestati della piena esecuzione di tutti i
capitoli formati in Ratisbona e Cherasco, furono messi in libertà gli
ostaggi dianzi consegnati al pontefice romano. Restava da farsi l'altra
scena, cioè di cavar dalle tane i Franzesi occultati in Pinerolo, e
di dare un buon colore alla occupazione, ch'erano per far di nuovo
di quella città e cittadella, e si trovarono altre frodi. Perchè
il duca di Feria non fece bastevole disarmamento di milizie, e lo
scaltro Mazzarino lo indusse a far delle doglianze contro i Franzesi,
perchè parte d'essi fosse restata al servigio del Gonzaga in Mantova
e Casale; mostrandosi il Richelieu pien di gelosie o sospetti, come
se gli Spagnuoli macchinassero qualche superchieria o tradimento,
fece fare istanza al duca di Savoia (andavano ben di concerto) che
gli consegnasse per qualche tempo due piazze in Piemonte, cioè Susa
ed Avigliana, oppure Pinerolo colla Perosa, ovvero Demont o Cuneo,
tanto che si vedesse ben assodata la quiete in Italia. Fintosi il duca
sorpreso da tal dimanda, e pien di timore per le minaccie aggiuntevi
ricorse al duca di Feria, chiedendogli aiuto. Essendosi mostrato pronto
il Feria, talmente fu poi ingrandito dal duca di Savoia il bisogno di
gente e danaro, che il governatore diede indietro; ed allora il duca
Vittorio Amedeo, come necessitato ad acconsentire e accomodarsi, e con
protesta di venire ad una convenzione per esentar lo Stato suo e di
Milano dai mali maggiori, nel dì 22 di ottobre stese una capitolazione
col ministro franzese, di dare in deposito al re Cristianissimo
Pinerolo coi forti della Perosa per soli sei mesi, che aveano poi
da essere secoli; e che vi si tenesse presidio di Svizzeri, che poi
diventarono Franzesi. In somma non si può dire quante e quali fossero
le furberie e gli artifizii usati da quelle volpi e dal duca di Savoia
per giuntare gli Austriaci in questi negoziati, con giugnere a gabbare
infino i ministri propri. Azioni tali fra il basso popolo son chiamate
cabale, ma fra i principi e gran ministri prendono l'aria di cose
gloriose, e truovano chi altamente le loda.
Eppure, qui non terminò le serie di tanti viluppi. Era rientrato
in possesso de' suoi Stati il _duca Carlo Gonzaga_, ma con trovarsi
in un miserabilissimo stato, perchè cangiato in uno scheletro quel
fertilissimo paese, smembrata tanta parte del Monferrato, venduti o
impegnati i suoi beni e stati di Francia, per sostenersi nel passato
terribile impegno. Più non correvano i soliti tributi, essendo rimaste
spopolate ed incolte le campagne, talmente che appena egli avea di che
vivere. Alle sue afflizioni si aggiunsero due anche più acuti colpi per
la morte di _Carlo_ già _principe di Rhetel_ suo primogenito, mancato
di vita in Goito sei giorni prima della restituzion di Mantova, con
restar di lui un picciolo figlio in fasce, che fu poi _Carlo II duca_
di Mantova, ed una bambina. Parimente da lì a pochi mesi diede fine
al suo vivere in Casale _Ferdinando duca d'Umena_, altro suo figlio:
con che si ridusse tutta la sua speranza e prole maschile al mentovato
suo picciolo nipote. Forze intanto a lui mancavano per sostenere un
sufficiente presidio in Mantova e in Casale, e ogni dì temea insulti
dal governator di Milano, irritato per lo affare di Pinerolo. Gli
convenne dunque ricorrere alla repubblica veneta, che vi mandò, e
lungamente ancora vi tenne, una guernigion sufficiente. All'incontro,
collo stesso infelice duca tanto si adoperarono gli accorti Franzesi
con segreti maneggi, mettendogli sempre davanti l'orgoglio e
l'insaziabilità degli Spagnuoli, che gli cavarono di bocca l'assenso di
assicurar eglino con presidio Casale. Però all'improvviso comparvero
colà alcuni reggimenti di fanteria e sei compagnie di cavalleria, che
assunsero la guardia di quella città, castello e cittadella alla barba
del governator di Milano e della corte di Spagna, che fecero per questo
mille schiamazzi e doglianze contra del Richelieu, come di un gran
traditore, ma senza frutto. Restò Pinerolo ai Franzesi in proprietà,
Casale in guardia. Non pochi declamarono allora contro il duca di
Savoia, per aver messa la sua sovranità in ceppi, ed esposti i suoi
Stati alla gallica ambizione; ma gli altri principi d'Italia sommamente
si rallegrarono di quell'avvenimento, per cui pareva contrappesata la
soverchia potenza degli Austriaci in Italia; e restava aperto il varco
all'armi di Francia secondo il bisogno dei loro interessi.
Giunto era all'età di ottantadue anni Francesco Maria duca d'Urbino,
e dimorava in Castel Durante, attendendo agli affari dell'anima sua,
quando venne Dio a chiamarlo all'altra vita. Mancò in lui la famiglia
della Rovere, che tanto s'era segnalata nel valore dell'armi, nella
protezione dei letterati, e nel giusto e dolce governo dei suoi popoli,
che amaramente lo piansero, e videro poi scaduto Urbino e quello Stato
dall'antica popolazione e magnificenza. Già dicemmo che di quel ducato
avea dianzi preso possesso la camera apostolica. Ora maggiormente se
ne consolidò in lei il pieno dominio senza che si sentisse alcuna
sostanziale opposizione per questo; se non che, avendo _Ferdinando
II gran duca_ di Toscana sposata in quest'anno _Vittoria_, nipote del
defunto duca, pretese ed ottenne l'eredità di tutti i preziosi mobili
ed allodiali di quella casa, ed alcune castella ancora con titoli
particolari acquistate da quei duchi: il che non passò senza molte
liti. Fu da alcuni principi e da assaissimi adulatori consigliato ed
istigato _papa Urbano VIII_ ad investire di quel ducato uno dei suoi
nipoti; ma egli seppe vincere sè stesso, e volle che se ne facesse
l'unione con lo Stato ecclesiastico. Seguirono in questo anno le
nozze di _Francesco I d'Este_ duca di Modena colla _principessa Maria
Farnese_, sorella di _Odoardo duca_ di Parma. Nel dì poi 16 di dicembre
ebbe principio l'incendio del monte Somma, ossia del Vesuvio, che fu
uno dei più spaventosi e memorabili che mai abbia patito la regal città
di Napoli. L'interno orribile ruggito del monte scoppiò finalmente in
terribili tuoni, in fiamme e in un fumo puzzolente, che levava il fiato
alla gente, e in una sì prodigiosa caligine e pioggia di cenere, che
coprì tutta Napoli, e portata dal vento si sparse fin sopra le città
della Dalmazia e dell'Arcipelago. I sassi da quella bocca infernale
gittati in aria furono innumerabili, ed alcuni caddero cento miglia
lungi di là, se pur ciò è da credere. Intanto il mare anch'esso
rumoreggiava, e ritirandosi le acque, lasciarono asciutto il molo, e
un lungo tratto di quelle spiaggie. In Sorrento si allontanò quasi un
miglio dal lido. Oltre a ciò, frequenti erano le scosse dei tremuoti,
e giunse quel baratro finalmente a vomitare un'immensa copia di bitume
acceso, che, scendendo in varii torrenti dalla montagna atterrò quante
case e ville incontrò nel suo scendere al mare, colla morte di non
pochi uomini e bestie, e col rendere incolta la campagna tutta per
dove passò. Credeva il popolo di Napoli che fosse venuto il fine del
mondo, e si aspettava a momenti l'ultimo eccidio, nè altro s'udiva
per quella città che urli e grida di pentimento, correndo ognuno ad
accomodar le partite dell'anima sua, e alle divote processioni che in
abito di penitenza si andarono facendo. Cessò finalmente lo sdegno del
monte, cessò l'indicibile spavento, e tornò a poco a poco la gente ai
soliti affari e alla consueta allegria; se non che si trovò molta gente
mendica, di ricca che era prima, per la desolazione di tanti poderi
continuando in essa i motivi di piagnere.


Anno di CRISTO MDCXXXII. Indizione XV.
URBANO VIII papa 10.
FERDINANDO II imperad. 14.

Rifiorirono oramai i tempi della tranquillità in Italia per la pace
del precedente anno, restando solamente in moto un po' di marea per
lo sdegno della corte cesarea e del duca di Feria contro i Franzesi, e
pel poco loro buon animo verso il duca di Savoia _Vittorio Amedeo_, a
cui imputavano la trasgression della pace di Ratisbona, e il ritorno
dell'armi di Francia in Italia. Non lasciò per questo esso duca
di stipulare, nel dì 5 di luglio, un trattato coi ministri del re
Cristianissimo, pel quale appariva come cosa nuova che egli cedesse
alla Francia in perpetua proprietà Pinerolo colla valle di Perosa,
e formava una lega difensiva con esso re Cristianissimo. Questo
trattato non comparve alla luce, se non dappoichè il duca ebbe inviato
alla corte cesarea il marchese di Pianezza a chiedere l'investitura
della parte del Monferrato che gli era toccata. Molte opposizioni
s'incontrarono a sì fatta richiesta; ma ritrovandosi allora in pessimo
stato gli affari dell'imperadore in Germania, la maestà sua, per
togliere i semi di nuove turbolenze in Italia, non osò in fine di
negarla, e nel dì 17 d'agosto ne spedì il diploma. Tuttavia ancora
duravano le controversie ed anche la nemicizia fra il duca suddetto
e la repubblica di Genova, per cagion massimamente del marchesato di
Zuccherello. Compromessa questa loro pendenza nella corte di Madrid,
sul fine di novembre dell'anno precedente era uscito un laudo che
ai Genovesi parve gravoso, e pure l'accettarono; ma fu apertamente
rigettato dal duca di Savoia. Capitò poi in Italia, nell'anno seguente
1633, il _cardinal infante don Ferdinando_, fratello del re di Spagna,
incamminato per governatore in Fiandra. S'interpose egli, e indusse
il duca alla pace con alcune dichiarazioni aggiunte al decreto di
Madrid. Insorsero ancora alcuni piccioli vapori di dissensione fra la
corte di Roma ed alcuni potentati, per aver _papa Urbano VIII_, nel
giugno del 1630, senza participazion d'alcuno, conferito e riserbato ai
cardinali, ai tre elettori ecclesiastici e al gran mastro di Malta il
titolo di _eminentissimi_: al che in alcune corti fu fatto contrasto.
Avea eziandio esso pontefice trasferita nel nipote _Taddeo Barberino_,
principe di Palestrina, l'antica dignità di prefetto di Roma, vacata
per la morte del duca d'Urbino. Nacque per questo qualche scompiglio
nella corte di Roma, dove si fa quel caso delle formalità che nelle
altre per le sanguinose battaglie e per le importanti conquiste; perchè
il nuovo prefetto pretendeva la preminenza sopra gli ambasciatori delle
teste coronate, e questi ebbero ordine di astenersi dall'intervenire
alle cappelle pontifizie. Inoltre a particolari amarezze con esso
prefetto tirata fu la repubblica veneta; ma frappostisi mediatori di
ripieghi e di pace, si risolsero in nulla queste caccie di mosche.
Piena nondimeno di sospetti e paure fu l'Italia tutta nell'anno
presente, per le terribili guerre che sconvolsero e rovinarono infinito
paese della Germania. In sì grave pericolo, come ora, non si era
mai trovata l'augusta casa d'Austria per li continui progressi che
tutto di faceva il formidabil re di Svezia _Gustavo Adolfo_, unito
coll'_elettor di Sassonia_ e con altri principi, o disgustati del
regnante imperadore, o istigati dalla Francia, o insperanziti delle
spoglie della monarchia austriaca. La religion cattolica sopra tutto si
vide alla vigilia di una gran sovversione sotto l'armi vittoriose di
quel re eretico, il quale, maestro di guerra, sempre più s'inoltrava
nel cuor della Germania. Fu ridotto a tanto l'Augusto _imperador
Ferdinando_, che si vide forzato a richiamare al comando delle sue
armate il superbo _duca di Fridland Vallestain_, e colla dura condizion
di cedergli, per così dire, la metà della corona, perchè costui giunse
ad esigere ed ottenere una suprema e illimitata autorità di guerra e di
pace. Voce correva, e forse non menzognera, che Gustavo, se proseguiva
il favorevole vento della sua fortuna, meditasse di passar anche in
Italia, e di terminare i suoi trionfi in Roma stessa. Il perchè grande
occasione di maraviglia, e fino di mormorazioni, diede _papa Urbano_
colla sua incredibil freddezza in tempi sì disastrosi, e minaccianti
un fiero eccidio alla cattolica religione. Altro infatti non s'udiva
allora che sconfitte di cattolici, avanzamenti giornalieri e crudeltà
degli eretici gotici e tedeschi, in ispogliare ed incendiar templi e
conventi, e in fare dappertutto scene in beffe e scherno dei ministri
di Dio e del loro visibile capo, con evidente pericolo di mali maggiori
pel cattolicismo, ed anche per l'Italia. E pure quantunque in Roma
il _cardinale Pasman_, spedito apposta dall'imperadore, ed altri
porporati e ben affetti alla casa d'Austria, e spezialmente il _Borgia_
ambasciatore di Spagna, perorassero, insistessero ed usassero anche
parole forti, altro non ispuntarono che di aguzzar l'ira del papa,
naturalmente facile a prendere fuoco, senza mai poterlo muovere a
prestar soccorso alcuno in tante necessità al pericolante imperadore.
Per la guerra passata di Mantova, e per l'eccedente anterior potenza
e fortuna del regnante Cesare, troppo s'era alienato dall'amor degli
Austriaci il cuore d'Urbano, e sembrava desideroso che venisse ridotta
a più giusta misura la creduta alterigia di quel monarca: sentimento
scusabile anche in un papa come principe, ma non comportabile per le
presenti circostanze in lui come pontefice, destinato da Dio ad essere
il primario promotore e difensore della religione ortodossa. Nel dì
8 di marzo si venne alle brutte in concistoro. Il Borgia parlò alto
al pontefice; Urbano gli comandò di tacere e di uscire. E perchè il
Borgia seguitava ad alzar la voce, il _cardinal di Santo Onofrio_,
cappuccino, fratello del papa, se gli accostò, e, presolo pel mantello,
il volle tirar per forza di là. Poco mancò che non si perdesse il
rispetto alla santa sua barba. Consegnò il Borgia al papa una scrittura
contenente delle proteste che sommamente gli spiacquero. Urbano fece
per questo rumore dei gravi risentimenti contro i cardinali _Ubaldino_,
_Ludovisio_ e _Aldobrandino_, il primo dei quali ebbe sì poco coraggio,
che si lasciò ammazzar dal cordoglio.
Andò a finir tutta quella baruffa in non volere il papa lasciar
cadere una stilla delle sue rugiade sui bisogni dell'imperadore; ma
ciò ch'egli non fece, lo fecero in parte i varii successi delle armi.
Imperciocchè nel dì 16 di novembre dell'anno presente a Lutzen, dodici
miglia lungi da Lipsia, vennero alle mani i due potenti eserciti,
condotti l'uno dal re _Gustavo Adolfo_, e l'altro dal _duca di
Fridland_. Orribile fu quel fatto d'armi; in esso per più ferite lasciò
la vita il gotico valoroso re, già divenuto il terror della Germania;
ma essendosi tenuta celata la sua morte, continuarono gli Svezzesi ad
incalzare i cesarei, finchè la notte mise fine alla strage. La peggio
senza fallo toccò all'armata imperiale; ma equivalse bene ad una gran
vittoria l'essere restata libera la Germania da un sì feroce principe,
che ucciso in età di soli trentotto anni, se più oltre stendeva il suo
vivere, prometteva di sè un nuovo Alessandro. Forse anche n'avrebbe
pianto l'Italia, e più papa Urbano, placido spettatore della rovina
dell'imperio germanico, e che non con altro finora cooperò al sollievo
dell'imperadore che colla pubblicazione di un divoto giubileo. Altra
prole non lasciò Gustavo che una principessa in età di soli sei anni,
col nome di _Cristina_, che ereditò quel regno, e fece col tempo tanta
figura in Italia, dacchè abbracciò la religion cattolica romana. Segni
di gran valore nella giornata di Lutzen diedero _Borso_ e _Foresto
principi estensi, Mattias e Francesco principi della casa de Medici_,
il _conte Ernesto Montecuccoli_ Modenese generale dell'artiglieria,
_Ottavio Piccolomini duca_ di Amalfi, insigne generale di Cesare,
_Luigi_ ed _Annibale Gonzaghi_ e uno _Strozzi_ colonnelli. Alle truppe
del Piccolomini fu attribuita la gloria d'aver tolto dal mondo il fiero
Gustavo Adolfo. Altri non pochi nobili italiani militavano allora
al servigio dell'imperadore. Il _gran duca di Toscana_, il _duca di
Modena_ e i _Lucchesi_ diedero ad esso Augusto quell'aiuto che poterono
in sì gran bisogno.


Anno di CRISTO MDCXXXIII. Indizione I.
URBANO VIII papa 11.
FERDINANDO II imperad. 15.

Perchè fioriva la pace in Italia, niun considerabil avvenimento
somministrò essa alla storia del presente anno. Erano rivolti gli
occhi di tutti alla Germania, che continuava ad essere il teatro delle
miserie, perchè desolata egualmente da amici e nemici. S'era creduto
che colla caduta del temuto _re Gustavo_ avesse la fortuna dell'armi
da dar l'ultimo addio agli Svezzesi. Così non fu. Sorsero tre altri
insigni capitani, cioè il _duca di Vaimar_ Sassone, _Gustavo Horn_ e
_Giovanni Bannier_, che alla testa del già vittorioso esercito degli
eretici più che mai tennero in piedi la guerra con assedii nuovi,
combattimenti e stragi, ora in questa, ora in quella provincia,
fiancheggiati sotto mano dai danari della Francia, tutta intenta a
deprimere l'_imperador Ferdinando II_. All'incontro, non lasciava
anche dal canto suo il re Cattolico Filippo IV di porgere soccorsi di
pecunia al parente Augusto; e nell'anno presente fece di più, perchè
ordinò al _duca di Feria_ governator di Milano di passare in Germania
in aiuto di lui con un corpo di dieci mila fanti e mille e cinquecento
cavalli, parte Spagnuoli e Lombardi e parte Napoletani. Passò il Feria
per la Valtellina nella Svevia, e senza sfoderare spada fece ritirar
da Costanza e da Brisacco l'armi nemiche, ma senza altre prodezze.
S'era avuto a male il superbo _Vallestain_ duca di Fridland, che
questo generale spegnuolo fosse entrato in Germania con indipendenza
dal sublime suo grado di generalissimo, e però fra loro entrò una
irreconciliabil discordia. Oltre a ciò, non avvezzi gl'italiani
ai rigori del freddo germanico, cominciarono a lasciar sotto quel
diverso cielo le vite, o pure a disertare; di maniera che l'armata del
Feria notabilmente si sminuì; ed egli stesso sul fine di quest'anno
gravemente infermatosi, non reggendo ai malori del corpo, alle
afflizioni dell'animo, terminò poi in Monaco il suo vivere nel dì 14 di
gennaio dell'anno seguente, con lasciar dopo di sè gloriosa memoria di
una rara integrità, per non aver mai defraudato un soldo alle milizie,
non accumulate ricchezze, ma speso sempre anche del suo patrimonio.
Dichiarò egli prima di morire successor suo nella carica di generale
_pro interim_ il conte _Giovanni Serbellone_, cavalier milanese,
personaggio di lunga sperienza militare e di molta stima presso il
re Cattolico. Si videro finalmente in quest'anno inviati da _papa
Urbano VIII_ in sussidio della lega cattolica di Germania cinquanta
mila scudi: picciolo refrigerio in vero alla sete e al bisogno di que'
cattolici, ma pure refrigerio.
Da varii scrittori vien riferita al primo di dicembre dell'anno
presente la morte d'_Isabella Clara_, già moglie dell'_arciduca
Alberto_ e governatrice de' Paesi Bassi cattolici: ma essendo certo
che _Ferdinando cardinale_ infante di Spagna nel presente anno passò
per mare in Italia, destinato al governo d'essa Fiandra, parrebbe
che la morte di quella principessa appartenesse al precedente anno.
Quando veramente questa succedesse nel presente, si avrà a credere
che precedesse una lunga malattia di lei, per cui il re Cattolico
determinasse di inviar preventivamente il fratello al governo di quei
popoli per resistere agli Olandesi, ai quali era riuscito in questi
ultimi anni di far non poche conquiste sopra i cattolici. Sul principio
di maggio arrivò esso cardinale infante a Villafranca, accompagnato da
una bella flotta di galee, e dal corteggio di molti magnati di Spagna e
di non poche milizie. Colà si portò a visitarlo _Vittorio Amedeo duca_
di Savoia, usandogli finezze tali, come se si fosse trattato di un
re. Giunto che fu a Genova, fu accolto parimente con immensi onori da
quella repubblica, e di là poi passò a Milano, facendovi la sua pomposa
e solenne entrata nel dì 24 del mese suddetto, dove trovò tuttavia
il _duca di Feria_, che si andava allestendo per la sua andata in
Germania. Perchè dall'armi dei collegati protestanti restavano chiusi
i passi per penetrare in Fiandra, si vide egli obbligato a riposar
lungo tempo in Milano, sperando sempre che il Feria gli aprisse il
passaggio a quella volta. Non istette egli intanto co' suoi ministri
ozioso, se pur si seppe il netto del fatto che son per dire. Trovavasi
in questi tempi in Mantova l'_infanta Margherita_, sorella del _duca di
Savoia_ e vedova del fu _Francesco Gonzaga duca_ di Mantova, ita colà
a visitar la _principessa Maria_ sua figlia, vedova del fu _principe_
o sia duca di Rhetel, e nuora del duca regnante di Mantova _Carlo
Gonzaga_. Perchè non mancavano di que' legisti che imbrogliavano il
mondo, e che tenevano essere quella principessa unica e vera erede
dei ducati di Mantova e di Monferrato, ad esclusione della linea di
Nevers, fu consigliata la figlia dalla madre di fare una pubblica
protesta per man di notaio e testimonii, che annullava qualsisia atto
da lei fatto in età pupillare; e a lei restavano allora solamente due
giorni per entrare nell'anno venticinquesimo di sua età. Gran rumore
fece un tale atto nella corte di Mantova, e fu creduto che l'infanta
Margherita sua madre, portata da un parzialissimo genio verso gli
Spagnuoli, tramasse di maritar la figlia coll'infante cardinale: il
che non si sa ben intendere, perchè di essa Maria e del principe di
Rhetel restava vivente un picciolo figlio, a cui negar non si poteva la
successione di quei ducati. Giunto l'avviso di questa gran novità alla
corte di Francia, non vi fu chi non credesse, queste essere orditure
della sagacità spagnuola; e però vennero pressanti lettere del re
Cristianissimo al duca Carlo di Mantova di cacciar di là la duchessa
madre, e alla repubblica veneta premurosi uffizii per dare assistenza
al duca. Dopo aver fatta gran resistenza e querele, si ritirò l'infanta
Margherita a Gualtieri, terra del duca di Modena, cioè di un figlio di
una sua sorella. Ma ecco da lì a non molto altre fulminanti lettere
di Francia ad esso duca di Modena, che l'obbligarono a far ritirare
anche di là l'infanta suddetta. S'indusse poi la principessa Maria a
ritrattare il fatto, e sua madre tal merito si acquistò nella corte
del re Cattolico Filippo IV, che col tempo passata in Ispagna, fu
creata viceregina di Portogallo, dove con gran prudenza esercitò il suo
governo fino alla rivoluzion di quel regno.
Venne a scoprirsi nel presente anno in Roma un pazzo ed insieme orrido
attentato contro la vita del pontefice _Urbano VIII_. Giacinto Centino,
nipote sconsigliato del saggio e pio _cardinal Felice_ Centino da
Ascoli, infatuato del desiderio e della sognata idea di veder lo zio
nella cattedra di San Pietro, si diede in preda allo studio delle
malie; e coll'aiuto di alcune persone religiose, ma indegnissime di
questo nome, fabbricò una statua di cera, per cui, secondo la stolta
o almen sacrilega persuasion dei fattucchieri, disegnava di condurre
a morte il pontefice. Da chi prese l'impunità fu rivelato l'empio
disegno; vi andò la testa del Centino; gli altri complici furono
bruciati, o pur condannati alla galea o a perpetuo carcere, a misura
della lor condizione e reato. Fu in questi tempi che il duca di Savoia
_Vittorio Amedeo_, per farsi conoscere superiore al grado dei cardinali
esaltati da papa Urbano, cominciò pubblicamente ad intitolarsi _re
di Cipro_: il che dispiacendo alla repubblica veneta, siccome atto
contrario alle sue pretensioni, cagion fu che s'interrompesse il
commercio fra loro. Uscì anche fuori in Torino un libro apposta per
provar dovuto al duca il titolo regio, in cui perchè non si parlava col
rispetto convenevole al _gran duca_ di Toscana, venne fuori perciò in
Firenze una risposta al medesimo libro. Fu il duca Vittorio il primo
che cominciasse ad usare e ad esigere il titolo di _altezza reale_.
Gran rumore fece in questi tempi, e maggiormente l'ha fatto dipoi, la
condanna emanata in Roma, non già con editto _ex cathedra_ del sommo
pontefice, ma della congregazione del santo Uffizio, contro la sentenza
del Copernico, sostenente il moto della terra intorno al sole. Diede
occasione a cotal proibizione _Galileo Galilei_ Fiorentino, uno dei più
insigni filosofi matematici ed astronomi che abbia prodotto l'Europa, e
a cui si professano debitori tutti coloro che si son poscia esercitati
in somiglianti studii. Gli era stato ordinato di non tenere e difendere
quella opinione, ed egli avea promesso di farlo; ma non attenne la
parola. Laonde chiamato a Roma in età di settanta anni, fu obbligato
a condannarla, e a sofferire una specie di piacevol prigionia in Roma,
e poscia in Firenze. Ciò non ostante, sappiamo avere oggidì gran voga