Annali d'Italia, vol. 6 - 71
tutto il suo territorio; perciocchè, venuta la primavera, fu di nuovo
stretta quella città dall'armi cesaree, rinforzate con altri soccorsi,
calati di fresco dalla Germania. Il _maresciallo di Etrè_ (già marchese
di Coeuvres) pervenuto da Venezia a Mantova nel dì 8 di aprile, non
vi portò se non parole e speranze. Vani non solamente, ma dannosi
riuscirono al duca Carlo i tentativi da lui fatti a Rodigo ed Ostiglia
per ricuperar que' luoghi. Altra speranza a lui non restava che nei
soccorsi della repubblica veneta, impegnata forte a sostenerlo, eppure
lentissima a farlo. Tanto nondimeno perorò in Venezia l'ambasciator
franzese, che si spiccò ordine di tentar la sorte per introdurre
nell'affannata città di Mantova un buon sussidio di gente e di
vettovaglia. A tal fine, fatta piazza d'armi a Valleggio, tentarono
poscia i Veneziani di occupare alcuni vicini luoghi del Mantovano,
necessarii al passaggio dei soccorsi; ma ebbero a fronte dieci mila
Tedeschi, che misero in rotta le lor genti con tal precipizio, che
anche Valleggio fu lasciato alla lor discrezione. Restò dunque più che
mai angustiata Mantova. Dentro vi facea strage immensa la peste; eransi
ridotti a poco numero i difensori, e questi atterriti; e le guardie con
troppa svogliataggine si faceano. Non ignoravano i Tedeschi l'infelice
stato della città, e però segretamente si accinsero per sorprenderla.
Si disputò allora, e tuttavia si disputa fra gli scrittori, se in
quella tragedia intervenisse tradimento dal canto dei Mantovani
stessi, oppure se l'industria sola dei capitani tedeschi formasse e
perfezionasse tutta quella funestissima mina. Il cavalier Nani e il
Vianoli nelle loro storie venete, il conte Loschi ed altri sostentano
passate intelligenze fra i Tedeschi ed alcuni cittadini, nominando
anche espressamente uno dei marchesi Gonzaga, cioè il marchese
Gian-Francesco, perchè fu poi dichiarato governatore di Mantova. Erano
essi nemici del nome franzese, ed inclinati all'_imperatrice Leonora_
di loro schiatta, e al duca di Guastalla, e però creduti che tenessero
mano alla rovina del _duca Carlo_. Vittorio Siri all'incontro, tuttochè
dei più acuti ricercatori delle cose segrete, il Capriata ed altri,
non seppero riconoscere tradimento, in quell'orrida tragedia, forse
figurandosi improbabile che alcuno almen nobile potesse concorrere
allo sterminio della patria sua, senza pensare che in essa anche egli
resterebbe involto; perchè chi può dar misura alla furia di truppe
scatenate ed ansanti di preda che prendano a viva forza una città?
Il conte Galeazzo Gualdo, che suppone anch'egli orditura interna di
qualche cittadino, siccome alquanto lontano di età da quella terribile
scena, non è bastante a decidere la controversia, e molto meno lo son
io. Quel che è certo, ossia che dal duca Carlo, dacchè fu ritornato
in Mantova, non si trovasse fondamento a tante dicerie e sospetti,
oppure che per tema e rispetto dell'imperadore si rimanesse dal pescare
ulteriormente in questo imbroglio, processo non fu fatto, e restò
solo in bocca del popolo e dei curiosi il pro e il contra di questa
particolarità.
Ora avendo i primarii uffiziali della armata cesarea, cioè i baroni
di Aldringher e Galasso (era forse allora in Piemonte, o infermo il
Collalto) fatto gran preparamento di barche nel lago, nella notte
precedente al dì 18 di luglio quetamente si accostarono al di sotto
del Ponte di San Giorgio, e al posto della Predella, nel quale stesso
tempo altri assalti diedero in altre parti. Fu dipoi attaccato il
petardo alla porta del Volto scuro guardato da pochi Svizzeri, e se
ne impadronirono, ed appresso anche del palazzo ducale. _Francesco
Orsino_ dei duchi di Lamentana e il Durante accorsero alla difesa;
ma il primo vi lasciò la vita, e il secondo con altri uffiziali restò
prigione. Saltati dal letto il duca e il maresciallo d'Etrè, sostennero
alquanto l'empito de' nemici; ma conosciuto infine disperato il caso,
si ritirarono nella fortezza di Porto, e salvossi in un monistero
la _principessa Maria_ col suo figliuolino. Trovavasi Porto dalla
parte della città sprovveduto di fortificazioni, dentro vi sguazzava
la pestilenza, pochi erano i difensori, e meno le munizioni e la
vettovaglia. Però avendo tosto gli uffiziali cesarei spedito colà per
esplorar le intenzioni del duca, il trovarono disposto per necessità
a capitolare la resa. Incaricato dunque da lui il marchese Strozzi,
conchiuse nello stesso dì 18 di luglio che fosse lecito al duca Carlo,
alla nuora e al figlio di starsene in Mantova, oppure di ritirarsi nel
Ferrarese col bagaglio che aveano in Porto (ed era ben poco) senza
permetter loro che un giorno solo alla partenza; e che il giorno
seguente anche il maresciallo di Etrè potrebbe andarsene liberamente
colla sua famiglia. Furono accompagnati esso duca con tutti i suoi
e il maresciallo fino a Melara nel distretto ferrarese; e l'infelice
principe passò dipoi a Crespino a far delle tetre meditazioni sopra
la miseria del suo stato, avendo perduto tutto, e senzachè nè egli nè
la duchessa avessero potuto portar seco un soldo o una gioia da potere
almen vivere per qualche giorno. Al cumulo ancora delle disgrazie del
duca s'aggiunse il mancargli il compatimento di molti, che gli davano
la taccia d'essersi comperato il suo eccidio, coll'aver sempre ricusato
di chiedere perdono all'imperadore, e di non aver voluto accettare
alcuna della tante proposizioni d'accordo fattegli per parte dello
stesso imperadore e de' suoi ministri; perchè certamente gli fu più
volte esibita l'investitura di Mantova, se avesse voluto consentire per
onore di sua maestà ad accettar qualche presidio, potendo sperare di
riaver anche il Monferrato con un po' di pazienza e di maneggio. Dopo
il fatto costa pur poco il far da dottore. Non mancarono consiglieri,
ed anche di alta sfera, che impedirono sempre ad esso duca l'accettar
condizione alcuna. Ridotto in tanta povertà il duca Carlo, altro
partito non ebbe che di limosinar qualche aiuto di borsa dalla veneta
repubblica, e ne ottenne mille dobble, colle quali andò vivendo come
potè, aspettando miglior costellazione alla sua depressa fortuna.
Torniamo a Mantova. O perchè non si potè di meno, o perchè fu permesso
in ricompensa alla per altro poca fatica durata in quell'acquisto,
gl'infuriati Tedeschi si misero a saccheggiare la misera città,
e durò per tre giorni quella barbarica lagrimevole scena. Godeva
dianzi Mantova per la lunga pace, per la ricchezza dei dominanti e
dei cittadini, un delizioso e fioritissimo stato. Ma per la peste,
che avea già tagliato il filo della vita a quasi vinticinque mila
abitanti, e per questo orrido sacco, eccola precipitata in un baratro
di miserie. Fu messo a ruba tutto il palazzo ducale, dove i principi
Gonzaghi in tanti tempi addietro aveano ragunata gran copia di preziosi
mobili, pitture, tappezzerie, statue e vasi di squisito lavoro, dei
quali nondimeno ne avea il duca Carlo per le necessità della presente
guerra alienata parte, e ricavati secento mila scudi. Pochi furono
i palagi e le case che non soggiacessero alla rapacità militare con
tutti gli eccessi della licenza di quegli sfrenati masnadieri verso
le donne e verso i luoghi sacri, alcuni nondimeno dei quali rimasero
esenti dalla loro inumanità ed avarizia. Alessandro Zilioli nelle
sue Storie scrive che i buoni Tedeschi attesero molto a rubare,
poco a soddisfar la libidine. Nè solamente contro le persone e robe
degl'innocenti infierirono, ma anche contro le stesse case e muraglie,
o incendiandole, o rompendole per iscavarne i pretesi nascosi tesori.
Chi volle far ascendere il danno di quella città a diciotto milioni di
scudi, di che ricapiti si servì mai egli per tirar questo conto? Giunta
poi a Vienna la nuova di sì memorabile scempio, ne provò sommo orrore,
e ne restò altamente ferito il cuore del pio _Ferdinando imperadore_,
che avea appunto dati ordini di moderazione a tutti i suoi generali,
nè si sarebbe mai aspettato un colpo sì alieno dalla clemenza ed
intenzione sua. E l'_imperadrice Leonora_ Gonzaga consorte non sapea
dar fine agli urli e alle lagrime per tanta sventura della patria sua.
Succedette poi a tutti questi assassinii lo stesso che avvenne pel
sacco di Roma, perchè in breve perirono quasi tutti o per peste o per
morti subitanee, nè di quelle rapine goderono punto i loro eredi. Ma
questo nulla suffragò all'infelice città e al suo territorio, che forse
in peggior situazione restò, perchè spogliato di abitatori, di alberi e
di bestiame, colle case abbattute, o pure ridotte a nude mura, e que'
fertilissimi campi e giardini tutti incolti, divenuti una selva di
sterpi e spine. Rimasero da lì innanzi i miseri Mantovani esposti alle
continue angherie dell'Aldringher, che giunse fino ad intimare ad un
popolo spogliato di tutto una contribuzione di cento mila dobble: del
che avvertito l'imperadore, mandò ordini in contrario. Non si può dire
che odiosità contro il nome dell'imperadore e della nazion tedesca si
diffondesse per l'Italia a cagion della guerra e del sacco di quella
infelice città e territorio.
Poco dopo la tragedia deplorabile di Mantova, descritta da Alessandro
Zilioli, un'altra ne accadde in Piemonte. _Carlo Emmanuele duca_
di Savoia, circa il dì 20 di luglio, era passato a Savigliano con
tutte le forze sue e de' collegati, con animo di venire a battaglia
coi Franzesi che aveano occupato Saluzzo, oppure di impedire i lor
progressi. Dicono che fu preso da gente intestata dei pregiudizi del
paganesimo per cattivo augurio l'essere alcuni giorni prima caduto un
fulmine sopra l'albero maggiale piantato avanti al palazzo ducale in
Torino, coll'uccisione d'alcune guardie; e che in Savigliano posate
l'armi del duca sopra un tavolino, cinque volte caddero in terra senza
essere toccate da alcuno. Quivi esso duca colpito da apoplessia, fra
tre giorni passò all'altra vita nel dì 26 del mese suddetto in età
di sessantaotto anni, e quasi sette mesi. Comune opinione fu ch'egli
soccombesse agli affanni in mirare, dopo tante fatiche, spese, disegni
ed azioni sue, per ingrandire i propri Stati, andare a terminar
tutto nella perdita della Savoia e di Susa, Pinerolo e Saluzzo, porte
dell'Italia, divenuto per lui un insoffribil ceppo alla sua signoria;
e nella desolazion del Piemonte, lacerato e calpestato allora tanto dai
Franzesi che dagli Spagnuoli e Tedeschi; e finalmente nell'abbassamento
della sua riputazione, che per lui era la pupilla degli occhi, odiato
e deluso dai Franzesi, e mal corrisposto dagli Spagnuoli. Di questo
principe si trova una diversa pittura, lavorata a penna dalle passioni,
rappresentandolo alcuni per principe turbolento, ambiziosissimo,
incostante, infido, libidinoso e sanguinario, e che presumeva troppo
di sè stesso in ogni occasione. Negli ultimi periodi di sua vita,
dicono nullameno aver egli meditato d'invadere la Francia, e di
cacciar Spagnuoli e Tedeschi d'Italia. Dall'altro canto presso diversi
scrittori non fu defraudata la memoria sua di un compiuto e verace
elogio delle maravigliose doti e virtù che in lui si adunavano. Fuor
di dubbio è ch'egli in vivacità ed accortezza di mente andò innanzi
ad ogni principe e monarca della sua età. Nel suo picciolo e curvo
corpo alloggiava un cuor grande, un valore non inferiore a quello dei
maggiori eroi. Sapeva di tutto; peritissimo in ogni arte ed esercizio
di pace e di guerra, amante della storia, delle matematiche, delle
belle lettere, e perpetuo fautore e rimuneratore dei letterati. Nella
generosità, nella liberalità, affabilità ed eloquenza naturale non
avea pari; sapea comperarsi il cuore di chiunque trattava con lui.
Della sua pietà e magnificenza lasciò immortali memorie dappertutto con
tante fondazioni di monisteri, chiese, collegii, spedali, fortezze e
palagi. Non istavano mai in ozio i suoi pensieri per informarsi delle
azioni dei suoi ministri, ed anche dei suoi sudditi, e per penetrar nei
gabinetti di tutti i potentati d'Europa. A lui mancò solo la fortuna;
ma se le forze vennero meno ai voli troppo vasti da lui intrapresi,
meritò almeno l'ammirazione sì del suo che dei secoli avvenire. Lasciò
viventi dopo di sè _Vittorio Amedeo_ suo primogenito e successore
nel ducato, il _cardinal Maurizio_, e il _principe Tommaso_, oltre a
_Margherita_ vedova duchessa di Mantova, e due altre figlie religiose.
Con pensieri più regolati e discreti succedette al padre in età di
quarantatrè anni, ben addottrinato nel mestier della guerra e della
politica, il novello _duca Vittorio_ che, siccome cognato del re di
Francia, non tardò a mostrar segni di affettuosa divozione verso quella
corona, senza nondimeno alienar l'animo suo dal rispetto verso l'altra
di Spagna. Ma perchè egli si trovava a fronte l'esercito nemico dei
Franzesi, gli convenne sul principio difendersi dai loro insulti.
Eransi eglino ultimamente insignoriti di Carignano. Per ricuperar
quella terra si mosse nel dì 7 di agosto il duca con gli Alemanni
collegati, e venuto ad un conflitto, n'ebbe la peggio. Giuntogli
poi in aiuto il conte di Collalto con otto mila fanti e cinquecento
cavalli, avrebbe potuto sperar dei vantaggi, se non fosse giunto
al campo franzese con quattro mila fanti e cinquecento cavalli il
_maresciallo di Sciombergh_, il quale per viaggio ridusse alla sua
ubbidienza la terra e il castello di Avigliana. Intanto maggiormente
veniva stretto e bersagliato Casale dal _marchese Spinola_ con rabbia
dei Franzesi, vogliosi pure di soccorrerlo, ma impotenti a farlo. In
questi imbrogli, non mai stanco di fare il corriere e paciere Giulio
Mazzarino, s'interpose; e giacchè troppa difficoltà s'incontrava ad
una pace, tentò di guadagnare il punto che si venisse per ora ad una
tregua. Tanto fece che nel dì 4 di settembre questa fu stipulata per
tutto il dì 15 del prossimo ottobre, e in essa stabilito che la città e
il castello di Casale sarebbono tosto consegnati allo Spinola, e questi
obbligato a somministrar viveri alla cittadella di Casale, custodita
dal maresciallo franzese _Toiras_ fino al dì ultimo di ottobre. E
quando questa non fosse soccorsa per tutto quel dì dall'armi franzesi,
anch'essa fosse ceduta allo Spinola suddetto. All'incontro, essendo
essa entro quel tempo soccorsa, si obbligava lo Spinola di restituir
di nuovo ai Franzesi la città e il castello. Poca fortuna ebbe questa
sospension d'armi; nè pur volle ratificarla lo Spinola, credendola
troppo svantaggiosa, seppur non fu perchè adirato dall'averla il duca
e il Collalto conchiusa senza saputa sua. Ma essendo allora, o poco
prima, caduta in deliquio la sua sanità, nè solo del corpo, ma anche
della mente, venne a lui sostituito _pro interim_ il _marchese di Santa
Croce_ nel governo di Milano e dell'armata spagnuola; ed egli poi colla
fama di essere stato uno dei più gloriosi capitani del tempo suo, finì
i suoi giorni nel dì 25 di settembre; altri dicono nel dì 28. Approvò
il Santa Croce la tregua, e però la città di Casale col castello gli fu
consegnata, restando tuttavia la cittadella nelle mani dei Franzesi e
del duca d'Umena figlio di Carlo duca di Mantova, ma solamente di nome.
Fin qui era camminata tutta a seconda de' suoi voleri la fortuna
dell'_imperador Ferdinando II_ per tante vittorie riportate da' suoi
generali _Alberto Vallestain_ duca di Fridland, _Tilly_ e _Pappenaim_.
Se questo Augusto, principe per altro di gran pietà e saviezza, patisse
alcune di quelle vertigini, che suol produrre l'eccessiva prosperità,
nol so dir io. Egli è almen certo che la sua gran potenza cagionava dei
brutti sintomi in cuore della maggior parte dei principi dell'imperio,
od oppressi come nemici, o maltrattati come amici. Specialmente si
accordavano tutti in non poter più soffrire la superbia e l'insolenza
del Vallestain. Nelle fucine di questi malcontenti cominciò a soffiare
il _cardinale di Richelieu_, sì per ispirar loro il ripugnare ad esso
Augusto, desideroso dell'elezione di _Ferdinando re_ d'Ungheria suo
figlio in re dei Romani, e sì per formare una forte lega contro di
lui. Particolarmente si studiò il più politico che religioso porporato
di muovere a danni dell'imperadore il re di Svezia _Gustavo Adolfo_,
povero sì di forze, ma ricco di coraggio; e a dargli la spinta concorse
ancora con promessa di danaro il senato veneto, troppo alterato per
le peripezie di Mantova. Questo nero nuvolo accompagnato da fulmini
quel fu che rendè pieghevole l'Augusto Ferdinando alle proposizioni di
pace fatte nella dieta di Ratisbona dai ministri del papa e del re di
Francia, sostenute ancora dall'interposizione degli elettori. Furono
dunque nel dì 15 d'ottobre segnati i capitoli d'essa pace, e stabilito
che l'imperadore darebbe al duca Carlo Gonzaga l'investitura di Mantova
e Monferrato, con ritenere una sufficiente guernigione in Mantova e
Canneto. Che esso duca Carlo cederebbe al duca di Savoia Trino con
tante altre terre del Monferrato, di rendita annua di diciotto mila
scudi. Che al duca di Guastalla darebbe sei mila scudi di rendita in
tante terre (e ne ricevette poi Luzzara e Reggiuolo). Che tanto lo
imperadore dall'Italia che il re Cattolico da Casale e dal Piemonte
ritirerebbero le loro truppe; e lo stesso farebbe il re Cristianissimo
dalla cittadella di Casale, dal Piemonte e dalla Savoia, ritenendo solo
una discreta guernigione in Pinerolo, Susa, Bricherasco ed Avigliana.
Finalmente, dappoichè si fosse data esecuzione ai capitoli suddetti, si
avevano da ritirare le suddette guernigioni, lasciando libera Mantova,
Pinerolo, ec., ai duchi di Mantova e Savoia. Ma questa pace ebbe la
sfortuna di dispiacere al re Cattolico, perchè conchiusa senza di lui;
e ai duchi di Savoia e Mantova, perchè pretesa di sommo loro aggravio.
E il più bello fu che quel grande imbrogliatore di Richelieu, il quale
pure s'era servito di fra Giuseppe cappuccino, suo gran confidente e
del medesimo calibro, a quel trattato, proruppe in grandi schiamazzi
contro l'ambasciatore Brulart, e indusse il re Cristianissimo a non
ratificarlo.
Mentre in Germania si lavorava alla pace, i generali franzesi in
Piemonte pensavano alla guerra; e risoluti di tentare il soccorso della
cittadella di Casale, prima che spirasse il termine della tregua,
verso la metà d'ottobre si mossero a quella volta con circa venti
mila combattenti fra cavalleria e fanteria, e nel dì 26 del suddetto
mese furono a vista degli Spagnuoli e Tedeschi, possessori della
città di Casale, ben trincierati al di fuori, ed anche superiori di
forze. Si fece vista di voler attaccare la battaglia, senza volere
far caso della nuova già pervenuta della pace di Ratisbona; e il
Mazzarino iva galoppando di qua e di là per risparmiare il sangue
e seminar la concordia. Era egli già venduto a' Franzesi. Ora tanto
seppe questo forbito pacificatore intronare le orecchie del marchese
Santa Croce, personaggio di poco spirito, ed imbrogliato per la sua
poca perizia, che il trasse ai suoi consigli. Pertanto sul punto di
dar principio al fatto d'armi, uscì egli col cappello in mano verso
i Franzesi, gridando: _Alto, alto; pace, pace_. La pace fu che il
_maresciallo di Toiras_ colla guernigione uscirebbe della cittadella
di Casale, rinunziandola a Ferdinando duca d'Umena, figlio del duca
Carlo, il quale la terrebbe con guernigione di mille Monferrini a
nome dell'imperadore sotto un commissario imperiale da nominarsi
dal Collalto. Che i Franzesi si ritirerebbero nel giorno seguente
dal Monferrato, ed altrettanto farebbero gl'imperiali e Spagnuoli,
abbandonando Casale, il castello e tutti gli altri luoghi da loro
occupati in quella provincia. Non mancarono le fischiate dietro
a chi, sì vantaggiosamente postato, si lasciò condurre a quel sì
vergognoso accordo. Di peggio poi succedette; perciocchè, dopo aver gli
Spagnuoli valicato il Po, ed essere inviati i Franzesi alla volta del
Piemonte per l'altra riva, questi ultimi, tornati addietro, spinsero
due reggimenti in Casale, chi dice per avere scoperto che il Santa
Croce, pentito dell'accordo, tornava per occupar quella; e chi, con
più probabilità, perchè i marescialli franzesi iti a visitar la città
suddetta e la cittadella, le trovarono affatto sprovvedute di viveri,
e per timore che cadessero nelle mani degli Spagnuoli, se vi tornavano
sotto, non badarono a mancare di fede. Irritato per questo inganno il
Santa Croce, si mise ad inseguir gli altri Franzesi che marciavano
verso il Piemonte, e fu vicino ad attaccare il conflitto. Ma ecco a
cavallo il Mazzarino, che ora agli uni, ora agli altri applicando il
lenitivo della sua eloquenza, li fermò, e ne trasse un nuovo accordo,
per cui il duca di Savoia mandò per Po tre mila some di grano a
Casale: il che fatto, ne uscirono i Franzesi, e per la maggior parte si
ritirarono in Francia. Mancò intanto di vita il _conte di Collalto_,
uomo pien di orgoglio, che quasi sempre era stato o avea finto di
essere infermo, e maggiormente si trovava ora in pena, per essere stato
richiamato alla corte cesarea a rendere conto della sua nemicizia con
lo Spinola, del sacco di Mantova, e di aver fatto perdere Casale.
In questa maniera terminarono, se non in tutto, almeno in buona parte,
le tante brighe pel Monferrato, e insieme l'anno presente, riuscito
dei più calamitosi e funesti dell'Italia. Imperocchè dilatatasi la
peste già cominciata, e prevalendosi del buon veicolo della guerra,
che rompe ogni misura, precauzione e guardia in simili occasioni,
fece dipoi innumerabile strage in tante armate, e più senza paragone
negl'innocenti popoli. Passato questo terribil malore da Mantova a
Venezia, quivi portò al sepolcro sopra sessanta mila persone; e fu
creduto che perissero più di cinquecento mila nelle altre città, e
ville di terra ferma sottoposte a quella repubblica. Passò a Modena,
Reggio, Bologna, e più tardi poi nell'anno seguente ad altre città di
Toscana, Romagna, Piemonte e Lombardia, dove lasciò un orrido guasto di
viventi, e spezialmente infierì nella allora assai popolata città di
Milano: tutti frutti dell'incessante ambizion dei monarchi, che oltre
a tanti mali cagionò ancor questo. Mirabili cose operò _Ferdinando
II gran duca_ di Toscana in tal congiuntura per difesa e sollievo de'
suoi popoli, e massimamente della sua capitale, come già scrissi nel
mio Governo della peste. Dovea passar per Italia alla volta di Vienna
l'_infanta Maria_ sorella del re di Spagna, sposata a _Ferdinando III_
re d'Ungheria e figlio del regnante imperadore. A cagion della peste
che sì fieramente infestava la Lombardia, fu ella con sontuoso stuolo
di galee condotta fino a Napoli, e in esse pensava poi di passare a
Trieste. Gelosi i Veneti de' loro diritti nell'Adriatico, si opposero
al passaggio di quella flotta, esibendosi essi di servir la regina coi
loro legni. Pericolo vi fu di rottura; ma infine si accomodarono gli
Spagnuoli e Tedeschi al volere della repubblica, la quale trasportò
poi sul fine dell'anno quella gran principessa con tutto il suo
numerosissimo corteggio da Ancona a Trieste, facendole godere nel
viaggio ogni sorta di delizie a tenore della magnificenza e liberalità
ch'ella sempre usa in somiglianti congiunture. Terminò colla vita il
suo breve principato nel corrente anno _Niccolò Contarino_ doge di
Venezia, a cui fu sostituito dipoi _Francesco Erizzo_.
Anno di CRISTO MDCXXXI. Indizione XIV.
URBANO VIII papa 9.
FERDINANDO II imperadore 13.
Anno fu questo di spaventose guerre in Germania, di maravigliose cabale
ed inganni in Italia. Il _cardinale di Richelieu_ era in Parigi il
giratore di tutte le macchine anche più lontane. Contuttochè si fossero
congiurati contra di lui il _duca d'Orleans Gastone_ fratello del re,
e la _regina Maria_ madre d'amendue, con alcuni altri dei primarii
personaggi, tal polso e predominio ebbe egli nel cuore dello stesso re
_Lodovico XIII_, che abbattè ogni suo avversario. Il duca di Orleans
si fuggì in Lorena, la regina madre se n'andò in Fiandra: con che
maggiormente divenne quel porporato l'arbitro del regno, e padrone
del re suo signore. Egli fu, siccome già accennammo, che mise l'armi
in mano al feroce _Gustavo Adolfo_ re di Svezia contra l'_imperador
Ferdinando II_, e fece lega con gli Olandesi, e manipolò in Brandeburgo
e Sassonia buona armonia con lo Svevo, e ritirò la Baviera dall'unione
con Cesare. In addietro avea l'Augusto Ferdinando mietuti sempre allori
e cantati trionfi; ma senza far caso se egli in tanti guadagni avesse
perduto l'amore dei principi dell'imperio, valendosi _Vallestain_
_duca_ di Fridland, che calpestava egualmente amici e nemici, e da
cui ebbe origine quell'empia massima: _Che l'imperatore non poteva
mantener dodici mila armati: ma che gli era ben facile di mantenerne
cento mila_; perciocchè, come ognun intende, ad un poderoso esercito,
che per forza si fa ubbidir da ognuno, nulla può mancare. Si privò
Cesare di questo gran generale insieme ed assassino, per le istanze
degli elettori, e sbandò anche la maggior parte degli eserciti suoi.
Allora fu che il _re Sveco_ colle vittoriose sue armi si andò sempre
più inoltrando, e dopo la memorabil rotta di Lipsia, data nel dì 7 di
settembre al valoroso _Tilly_ generale cesareo, maggiormente s'internò
nel cuor dell'imperio, quasi minacciando di detronizzare lo stesso
Augusto. Di sì gravi sconcerti della Germania ho io fatto in passando
questo breve ricordo, perchè essi influirono non poco a dar la quiete
all'Italia, e alla esecuzione della pace di Ratisbona. L'Olivares,
ossia il _conte duca_, potente favorito in Ispagna del _re Filippo IV_,
avea disapprovata quella pace, e spedito apposta al governo di Milano
per disturbarla il _duca di Feria_ don Gonzalez di Cordova, già da noi
veduto nei prossimi passati anni governatore del medesimo Stato. Nè
mancò egli di fare il possibile per mantener la discordia. Ma perchè
l'imperadore, pressato dalle angustie sue in Germania, abbisognava
delle truppe, già inviate a Mantova, nè gli compliva il tener vivo
questo fuoco co' Franzesi tuttavia forti alle sboccature dell'Italia;
però spedì ordine e plenipotenza al baron Galasso di ultimar queste
pendenze. Ripigliaronsi dunque i trattati fra i ministri di _Francia_,
di _Vittorio Amedeo duca_ di Savoia, col medesimo Galasso, frapposta
sempre la mediazione di monsignor _Panciroli_ nunzio del papa, e
dell'accortissimo _Giulio Mazzarino_, il qual portava anch'esso il
titolo di ministro di sua santità.
Radunati questi ministri in Cherasco, cioè il _Galasso_ per
l'imperadore, e il _maresciallo di Toiras_ col signor di Servient pel
re Cristianissimo, nel dì 6 di aprile vennero al decisivo accordo, per
cui fu convenuto che in vece dei diciotto mila scudi di rendita annua
in tante terre da darsi al duca di Savoia nel Monferrato, se gliene
assegnassero solamente quindici mila, ma d'oro. E però si determinò
che Trino con una gran copia di altre terre castella e ville, che
erano il più fertile pezzo del Monferrato, colla giunta ancora della
città d'Alba e del suo territorio, a cui niuno in addietro avea mai
pensato, passasse in dominio del duca di Savoia, non senza ammirazione
e mormorazione di molti, perchè si togliesse allo sfortunato duca di
Mantova _Carlo Gonzaga_ una sì pingue porzione dei suoi Stati. Pure
consentì a tutto il Galasso, o perchè guadagnato con danaro, o perchè
troppo incitato da Vienna a troncare i viluppi coi Franzesi, i quali
furbescamente, non avendo voluto fin qui ratificar la pace suddetta
di Ratisbona, minacciavano sempre nuove rotture. Molto più si stupiva
la gente al vedere che i Franzesi, in vece di sostenere in quello
spartimento le ragioni del duca di Mantova, lor collegato ed alunno,
non promovessero, e con passione, se non i vantaggi del duca di Savoia,
principe che tuttavia tenea l'armi in mano contra di loro, e al quale
doveano poi essi restituire tutti gli Stati occupati di qua e di là dai
monti. Cessò col tempo lo stupore essendosi, dopo molti e molti mesi,
ritirata la cortina al mistero ed arcano, che ora non s'intendeva, del
procedere dei ministri gallici; essendosi trovato ch'eglino, col fare
i liberali della roba altrui, aveano fatto un acquisto per la corona di
Francia. Hassi dunque a sapere che il Richelieu, le cui ambiziose mire
si stendevano ai luoghi più remoti e ai tempi avvenire, s'era cacciato
in capo di ritenere un passo aperto in Italia all'armi franzesi.
Verisimilmente ancora a ciò l'istigavano le segrete insinuazioni de'
stretta quella città dall'armi cesaree, rinforzate con altri soccorsi,
calati di fresco dalla Germania. Il _maresciallo di Etrè_ (già marchese
di Coeuvres) pervenuto da Venezia a Mantova nel dì 8 di aprile, non
vi portò se non parole e speranze. Vani non solamente, ma dannosi
riuscirono al duca Carlo i tentativi da lui fatti a Rodigo ed Ostiglia
per ricuperar que' luoghi. Altra speranza a lui non restava che nei
soccorsi della repubblica veneta, impegnata forte a sostenerlo, eppure
lentissima a farlo. Tanto nondimeno perorò in Venezia l'ambasciator
franzese, che si spiccò ordine di tentar la sorte per introdurre
nell'affannata città di Mantova un buon sussidio di gente e di
vettovaglia. A tal fine, fatta piazza d'armi a Valleggio, tentarono
poscia i Veneziani di occupare alcuni vicini luoghi del Mantovano,
necessarii al passaggio dei soccorsi; ma ebbero a fronte dieci mila
Tedeschi, che misero in rotta le lor genti con tal precipizio, che
anche Valleggio fu lasciato alla lor discrezione. Restò dunque più che
mai angustiata Mantova. Dentro vi facea strage immensa la peste; eransi
ridotti a poco numero i difensori, e questi atterriti; e le guardie con
troppa svogliataggine si faceano. Non ignoravano i Tedeschi l'infelice
stato della città, e però segretamente si accinsero per sorprenderla.
Si disputò allora, e tuttavia si disputa fra gli scrittori, se in
quella tragedia intervenisse tradimento dal canto dei Mantovani
stessi, oppure se l'industria sola dei capitani tedeschi formasse e
perfezionasse tutta quella funestissima mina. Il cavalier Nani e il
Vianoli nelle loro storie venete, il conte Loschi ed altri sostentano
passate intelligenze fra i Tedeschi ed alcuni cittadini, nominando
anche espressamente uno dei marchesi Gonzaga, cioè il marchese
Gian-Francesco, perchè fu poi dichiarato governatore di Mantova. Erano
essi nemici del nome franzese, ed inclinati all'_imperatrice Leonora_
di loro schiatta, e al duca di Guastalla, e però creduti che tenessero
mano alla rovina del _duca Carlo_. Vittorio Siri all'incontro, tuttochè
dei più acuti ricercatori delle cose segrete, il Capriata ed altri,
non seppero riconoscere tradimento, in quell'orrida tragedia, forse
figurandosi improbabile che alcuno almen nobile potesse concorrere
allo sterminio della patria sua, senza pensare che in essa anche egli
resterebbe involto; perchè chi può dar misura alla furia di truppe
scatenate ed ansanti di preda che prendano a viva forza una città?
Il conte Galeazzo Gualdo, che suppone anch'egli orditura interna di
qualche cittadino, siccome alquanto lontano di età da quella terribile
scena, non è bastante a decidere la controversia, e molto meno lo son
io. Quel che è certo, ossia che dal duca Carlo, dacchè fu ritornato
in Mantova, non si trovasse fondamento a tante dicerie e sospetti,
oppure che per tema e rispetto dell'imperadore si rimanesse dal pescare
ulteriormente in questo imbroglio, processo non fu fatto, e restò
solo in bocca del popolo e dei curiosi il pro e il contra di questa
particolarità.
Ora avendo i primarii uffiziali della armata cesarea, cioè i baroni
di Aldringher e Galasso (era forse allora in Piemonte, o infermo il
Collalto) fatto gran preparamento di barche nel lago, nella notte
precedente al dì 18 di luglio quetamente si accostarono al di sotto
del Ponte di San Giorgio, e al posto della Predella, nel quale stesso
tempo altri assalti diedero in altre parti. Fu dipoi attaccato il
petardo alla porta del Volto scuro guardato da pochi Svizzeri, e se
ne impadronirono, ed appresso anche del palazzo ducale. _Francesco
Orsino_ dei duchi di Lamentana e il Durante accorsero alla difesa;
ma il primo vi lasciò la vita, e il secondo con altri uffiziali restò
prigione. Saltati dal letto il duca e il maresciallo d'Etrè, sostennero
alquanto l'empito de' nemici; ma conosciuto infine disperato il caso,
si ritirarono nella fortezza di Porto, e salvossi in un monistero
la _principessa Maria_ col suo figliuolino. Trovavasi Porto dalla
parte della città sprovveduto di fortificazioni, dentro vi sguazzava
la pestilenza, pochi erano i difensori, e meno le munizioni e la
vettovaglia. Però avendo tosto gli uffiziali cesarei spedito colà per
esplorar le intenzioni del duca, il trovarono disposto per necessità
a capitolare la resa. Incaricato dunque da lui il marchese Strozzi,
conchiuse nello stesso dì 18 di luglio che fosse lecito al duca Carlo,
alla nuora e al figlio di starsene in Mantova, oppure di ritirarsi nel
Ferrarese col bagaglio che aveano in Porto (ed era ben poco) senza
permetter loro che un giorno solo alla partenza; e che il giorno
seguente anche il maresciallo di Etrè potrebbe andarsene liberamente
colla sua famiglia. Furono accompagnati esso duca con tutti i suoi
e il maresciallo fino a Melara nel distretto ferrarese; e l'infelice
principe passò dipoi a Crespino a far delle tetre meditazioni sopra
la miseria del suo stato, avendo perduto tutto, e senzachè nè egli nè
la duchessa avessero potuto portar seco un soldo o una gioia da potere
almen vivere per qualche giorno. Al cumulo ancora delle disgrazie del
duca s'aggiunse il mancargli il compatimento di molti, che gli davano
la taccia d'essersi comperato il suo eccidio, coll'aver sempre ricusato
di chiedere perdono all'imperadore, e di non aver voluto accettare
alcuna della tante proposizioni d'accordo fattegli per parte dello
stesso imperadore e de' suoi ministri; perchè certamente gli fu più
volte esibita l'investitura di Mantova, se avesse voluto consentire per
onore di sua maestà ad accettar qualche presidio, potendo sperare di
riaver anche il Monferrato con un po' di pazienza e di maneggio. Dopo
il fatto costa pur poco il far da dottore. Non mancarono consiglieri,
ed anche di alta sfera, che impedirono sempre ad esso duca l'accettar
condizione alcuna. Ridotto in tanta povertà il duca Carlo, altro
partito non ebbe che di limosinar qualche aiuto di borsa dalla veneta
repubblica, e ne ottenne mille dobble, colle quali andò vivendo come
potè, aspettando miglior costellazione alla sua depressa fortuna.
Torniamo a Mantova. O perchè non si potè di meno, o perchè fu permesso
in ricompensa alla per altro poca fatica durata in quell'acquisto,
gl'infuriati Tedeschi si misero a saccheggiare la misera città,
e durò per tre giorni quella barbarica lagrimevole scena. Godeva
dianzi Mantova per la lunga pace, per la ricchezza dei dominanti e
dei cittadini, un delizioso e fioritissimo stato. Ma per la peste,
che avea già tagliato il filo della vita a quasi vinticinque mila
abitanti, e per questo orrido sacco, eccola precipitata in un baratro
di miserie. Fu messo a ruba tutto il palazzo ducale, dove i principi
Gonzaghi in tanti tempi addietro aveano ragunata gran copia di preziosi
mobili, pitture, tappezzerie, statue e vasi di squisito lavoro, dei
quali nondimeno ne avea il duca Carlo per le necessità della presente
guerra alienata parte, e ricavati secento mila scudi. Pochi furono
i palagi e le case che non soggiacessero alla rapacità militare con
tutti gli eccessi della licenza di quegli sfrenati masnadieri verso
le donne e verso i luoghi sacri, alcuni nondimeno dei quali rimasero
esenti dalla loro inumanità ed avarizia. Alessandro Zilioli nelle
sue Storie scrive che i buoni Tedeschi attesero molto a rubare,
poco a soddisfar la libidine. Nè solamente contro le persone e robe
degl'innocenti infierirono, ma anche contro le stesse case e muraglie,
o incendiandole, o rompendole per iscavarne i pretesi nascosi tesori.
Chi volle far ascendere il danno di quella città a diciotto milioni di
scudi, di che ricapiti si servì mai egli per tirar questo conto? Giunta
poi a Vienna la nuova di sì memorabile scempio, ne provò sommo orrore,
e ne restò altamente ferito il cuore del pio _Ferdinando imperadore_,
che avea appunto dati ordini di moderazione a tutti i suoi generali,
nè si sarebbe mai aspettato un colpo sì alieno dalla clemenza ed
intenzione sua. E l'_imperadrice Leonora_ Gonzaga consorte non sapea
dar fine agli urli e alle lagrime per tanta sventura della patria sua.
Succedette poi a tutti questi assassinii lo stesso che avvenne pel
sacco di Roma, perchè in breve perirono quasi tutti o per peste o per
morti subitanee, nè di quelle rapine goderono punto i loro eredi. Ma
questo nulla suffragò all'infelice città e al suo territorio, che forse
in peggior situazione restò, perchè spogliato di abitatori, di alberi e
di bestiame, colle case abbattute, o pure ridotte a nude mura, e que'
fertilissimi campi e giardini tutti incolti, divenuti una selva di
sterpi e spine. Rimasero da lì innanzi i miseri Mantovani esposti alle
continue angherie dell'Aldringher, che giunse fino ad intimare ad un
popolo spogliato di tutto una contribuzione di cento mila dobble: del
che avvertito l'imperadore, mandò ordini in contrario. Non si può dire
che odiosità contro il nome dell'imperadore e della nazion tedesca si
diffondesse per l'Italia a cagion della guerra e del sacco di quella
infelice città e territorio.
Poco dopo la tragedia deplorabile di Mantova, descritta da Alessandro
Zilioli, un'altra ne accadde in Piemonte. _Carlo Emmanuele duca_
di Savoia, circa il dì 20 di luglio, era passato a Savigliano con
tutte le forze sue e de' collegati, con animo di venire a battaglia
coi Franzesi che aveano occupato Saluzzo, oppure di impedire i lor
progressi. Dicono che fu preso da gente intestata dei pregiudizi del
paganesimo per cattivo augurio l'essere alcuni giorni prima caduto un
fulmine sopra l'albero maggiale piantato avanti al palazzo ducale in
Torino, coll'uccisione d'alcune guardie; e che in Savigliano posate
l'armi del duca sopra un tavolino, cinque volte caddero in terra senza
essere toccate da alcuno. Quivi esso duca colpito da apoplessia, fra
tre giorni passò all'altra vita nel dì 26 del mese suddetto in età
di sessantaotto anni, e quasi sette mesi. Comune opinione fu ch'egli
soccombesse agli affanni in mirare, dopo tante fatiche, spese, disegni
ed azioni sue, per ingrandire i propri Stati, andare a terminar
tutto nella perdita della Savoia e di Susa, Pinerolo e Saluzzo, porte
dell'Italia, divenuto per lui un insoffribil ceppo alla sua signoria;
e nella desolazion del Piemonte, lacerato e calpestato allora tanto dai
Franzesi che dagli Spagnuoli e Tedeschi; e finalmente nell'abbassamento
della sua riputazione, che per lui era la pupilla degli occhi, odiato
e deluso dai Franzesi, e mal corrisposto dagli Spagnuoli. Di questo
principe si trova una diversa pittura, lavorata a penna dalle passioni,
rappresentandolo alcuni per principe turbolento, ambiziosissimo,
incostante, infido, libidinoso e sanguinario, e che presumeva troppo
di sè stesso in ogni occasione. Negli ultimi periodi di sua vita,
dicono nullameno aver egli meditato d'invadere la Francia, e di
cacciar Spagnuoli e Tedeschi d'Italia. Dall'altro canto presso diversi
scrittori non fu defraudata la memoria sua di un compiuto e verace
elogio delle maravigliose doti e virtù che in lui si adunavano. Fuor
di dubbio è ch'egli in vivacità ed accortezza di mente andò innanzi
ad ogni principe e monarca della sua età. Nel suo picciolo e curvo
corpo alloggiava un cuor grande, un valore non inferiore a quello dei
maggiori eroi. Sapeva di tutto; peritissimo in ogni arte ed esercizio
di pace e di guerra, amante della storia, delle matematiche, delle
belle lettere, e perpetuo fautore e rimuneratore dei letterati. Nella
generosità, nella liberalità, affabilità ed eloquenza naturale non
avea pari; sapea comperarsi il cuore di chiunque trattava con lui.
Della sua pietà e magnificenza lasciò immortali memorie dappertutto con
tante fondazioni di monisteri, chiese, collegii, spedali, fortezze e
palagi. Non istavano mai in ozio i suoi pensieri per informarsi delle
azioni dei suoi ministri, ed anche dei suoi sudditi, e per penetrar nei
gabinetti di tutti i potentati d'Europa. A lui mancò solo la fortuna;
ma se le forze vennero meno ai voli troppo vasti da lui intrapresi,
meritò almeno l'ammirazione sì del suo che dei secoli avvenire. Lasciò
viventi dopo di sè _Vittorio Amedeo_ suo primogenito e successore
nel ducato, il _cardinal Maurizio_, e il _principe Tommaso_, oltre a
_Margherita_ vedova duchessa di Mantova, e due altre figlie religiose.
Con pensieri più regolati e discreti succedette al padre in età di
quarantatrè anni, ben addottrinato nel mestier della guerra e della
politica, il novello _duca Vittorio_ che, siccome cognato del re di
Francia, non tardò a mostrar segni di affettuosa divozione verso quella
corona, senza nondimeno alienar l'animo suo dal rispetto verso l'altra
di Spagna. Ma perchè egli si trovava a fronte l'esercito nemico dei
Franzesi, gli convenne sul principio difendersi dai loro insulti.
Eransi eglino ultimamente insignoriti di Carignano. Per ricuperar
quella terra si mosse nel dì 7 di agosto il duca con gli Alemanni
collegati, e venuto ad un conflitto, n'ebbe la peggio. Giuntogli
poi in aiuto il conte di Collalto con otto mila fanti e cinquecento
cavalli, avrebbe potuto sperar dei vantaggi, se non fosse giunto
al campo franzese con quattro mila fanti e cinquecento cavalli il
_maresciallo di Sciombergh_, il quale per viaggio ridusse alla sua
ubbidienza la terra e il castello di Avigliana. Intanto maggiormente
veniva stretto e bersagliato Casale dal _marchese Spinola_ con rabbia
dei Franzesi, vogliosi pure di soccorrerlo, ma impotenti a farlo. In
questi imbrogli, non mai stanco di fare il corriere e paciere Giulio
Mazzarino, s'interpose; e giacchè troppa difficoltà s'incontrava ad
una pace, tentò di guadagnare il punto che si venisse per ora ad una
tregua. Tanto fece che nel dì 4 di settembre questa fu stipulata per
tutto il dì 15 del prossimo ottobre, e in essa stabilito che la città e
il castello di Casale sarebbono tosto consegnati allo Spinola, e questi
obbligato a somministrar viveri alla cittadella di Casale, custodita
dal maresciallo franzese _Toiras_ fino al dì ultimo di ottobre. E
quando questa non fosse soccorsa per tutto quel dì dall'armi franzesi,
anch'essa fosse ceduta allo Spinola suddetto. All'incontro, essendo
essa entro quel tempo soccorsa, si obbligava lo Spinola di restituir
di nuovo ai Franzesi la città e il castello. Poca fortuna ebbe questa
sospension d'armi; nè pur volle ratificarla lo Spinola, credendola
troppo svantaggiosa, seppur non fu perchè adirato dall'averla il duca
e il Collalto conchiusa senza saputa sua. Ma essendo allora, o poco
prima, caduta in deliquio la sua sanità, nè solo del corpo, ma anche
della mente, venne a lui sostituito _pro interim_ il _marchese di Santa
Croce_ nel governo di Milano e dell'armata spagnuola; ed egli poi colla
fama di essere stato uno dei più gloriosi capitani del tempo suo, finì
i suoi giorni nel dì 25 di settembre; altri dicono nel dì 28. Approvò
il Santa Croce la tregua, e però la città di Casale col castello gli fu
consegnata, restando tuttavia la cittadella nelle mani dei Franzesi e
del duca d'Umena figlio di Carlo duca di Mantova, ma solamente di nome.
Fin qui era camminata tutta a seconda de' suoi voleri la fortuna
dell'_imperador Ferdinando II_ per tante vittorie riportate da' suoi
generali _Alberto Vallestain_ duca di Fridland, _Tilly_ e _Pappenaim_.
Se questo Augusto, principe per altro di gran pietà e saviezza, patisse
alcune di quelle vertigini, che suol produrre l'eccessiva prosperità,
nol so dir io. Egli è almen certo che la sua gran potenza cagionava dei
brutti sintomi in cuore della maggior parte dei principi dell'imperio,
od oppressi come nemici, o maltrattati come amici. Specialmente si
accordavano tutti in non poter più soffrire la superbia e l'insolenza
del Vallestain. Nelle fucine di questi malcontenti cominciò a soffiare
il _cardinale di Richelieu_, sì per ispirar loro il ripugnare ad esso
Augusto, desideroso dell'elezione di _Ferdinando re_ d'Ungheria suo
figlio in re dei Romani, e sì per formare una forte lega contro di
lui. Particolarmente si studiò il più politico che religioso porporato
di muovere a danni dell'imperadore il re di Svezia _Gustavo Adolfo_,
povero sì di forze, ma ricco di coraggio; e a dargli la spinta concorse
ancora con promessa di danaro il senato veneto, troppo alterato per
le peripezie di Mantova. Questo nero nuvolo accompagnato da fulmini
quel fu che rendè pieghevole l'Augusto Ferdinando alle proposizioni di
pace fatte nella dieta di Ratisbona dai ministri del papa e del re di
Francia, sostenute ancora dall'interposizione degli elettori. Furono
dunque nel dì 15 d'ottobre segnati i capitoli d'essa pace, e stabilito
che l'imperadore darebbe al duca Carlo Gonzaga l'investitura di Mantova
e Monferrato, con ritenere una sufficiente guernigione in Mantova e
Canneto. Che esso duca Carlo cederebbe al duca di Savoia Trino con
tante altre terre del Monferrato, di rendita annua di diciotto mila
scudi. Che al duca di Guastalla darebbe sei mila scudi di rendita in
tante terre (e ne ricevette poi Luzzara e Reggiuolo). Che tanto lo
imperadore dall'Italia che il re Cattolico da Casale e dal Piemonte
ritirerebbero le loro truppe; e lo stesso farebbe il re Cristianissimo
dalla cittadella di Casale, dal Piemonte e dalla Savoia, ritenendo solo
una discreta guernigione in Pinerolo, Susa, Bricherasco ed Avigliana.
Finalmente, dappoichè si fosse data esecuzione ai capitoli suddetti, si
avevano da ritirare le suddette guernigioni, lasciando libera Mantova,
Pinerolo, ec., ai duchi di Mantova e Savoia. Ma questa pace ebbe la
sfortuna di dispiacere al re Cattolico, perchè conchiusa senza di lui;
e ai duchi di Savoia e Mantova, perchè pretesa di sommo loro aggravio.
E il più bello fu che quel grande imbrogliatore di Richelieu, il quale
pure s'era servito di fra Giuseppe cappuccino, suo gran confidente e
del medesimo calibro, a quel trattato, proruppe in grandi schiamazzi
contro l'ambasciatore Brulart, e indusse il re Cristianissimo a non
ratificarlo.
Mentre in Germania si lavorava alla pace, i generali franzesi in
Piemonte pensavano alla guerra; e risoluti di tentare il soccorso della
cittadella di Casale, prima che spirasse il termine della tregua,
verso la metà d'ottobre si mossero a quella volta con circa venti
mila combattenti fra cavalleria e fanteria, e nel dì 26 del suddetto
mese furono a vista degli Spagnuoli e Tedeschi, possessori della
città di Casale, ben trincierati al di fuori, ed anche superiori di
forze. Si fece vista di voler attaccare la battaglia, senza volere
far caso della nuova già pervenuta della pace di Ratisbona; e il
Mazzarino iva galoppando di qua e di là per risparmiare il sangue
e seminar la concordia. Era egli già venduto a' Franzesi. Ora tanto
seppe questo forbito pacificatore intronare le orecchie del marchese
Santa Croce, personaggio di poco spirito, ed imbrogliato per la sua
poca perizia, che il trasse ai suoi consigli. Pertanto sul punto di
dar principio al fatto d'armi, uscì egli col cappello in mano verso
i Franzesi, gridando: _Alto, alto; pace, pace_. La pace fu che il
_maresciallo di Toiras_ colla guernigione uscirebbe della cittadella
di Casale, rinunziandola a Ferdinando duca d'Umena, figlio del duca
Carlo, il quale la terrebbe con guernigione di mille Monferrini a
nome dell'imperadore sotto un commissario imperiale da nominarsi
dal Collalto. Che i Franzesi si ritirerebbero nel giorno seguente
dal Monferrato, ed altrettanto farebbero gl'imperiali e Spagnuoli,
abbandonando Casale, il castello e tutti gli altri luoghi da loro
occupati in quella provincia. Non mancarono le fischiate dietro
a chi, sì vantaggiosamente postato, si lasciò condurre a quel sì
vergognoso accordo. Di peggio poi succedette; perciocchè, dopo aver gli
Spagnuoli valicato il Po, ed essere inviati i Franzesi alla volta del
Piemonte per l'altra riva, questi ultimi, tornati addietro, spinsero
due reggimenti in Casale, chi dice per avere scoperto che il Santa
Croce, pentito dell'accordo, tornava per occupar quella; e chi, con
più probabilità, perchè i marescialli franzesi iti a visitar la città
suddetta e la cittadella, le trovarono affatto sprovvedute di viveri,
e per timore che cadessero nelle mani degli Spagnuoli, se vi tornavano
sotto, non badarono a mancare di fede. Irritato per questo inganno il
Santa Croce, si mise ad inseguir gli altri Franzesi che marciavano
verso il Piemonte, e fu vicino ad attaccare il conflitto. Ma ecco a
cavallo il Mazzarino, che ora agli uni, ora agli altri applicando il
lenitivo della sua eloquenza, li fermò, e ne trasse un nuovo accordo,
per cui il duca di Savoia mandò per Po tre mila some di grano a
Casale: il che fatto, ne uscirono i Franzesi, e per la maggior parte si
ritirarono in Francia. Mancò intanto di vita il _conte di Collalto_,
uomo pien di orgoglio, che quasi sempre era stato o avea finto di
essere infermo, e maggiormente si trovava ora in pena, per essere stato
richiamato alla corte cesarea a rendere conto della sua nemicizia con
lo Spinola, del sacco di Mantova, e di aver fatto perdere Casale.
In questa maniera terminarono, se non in tutto, almeno in buona parte,
le tante brighe pel Monferrato, e insieme l'anno presente, riuscito
dei più calamitosi e funesti dell'Italia. Imperocchè dilatatasi la
peste già cominciata, e prevalendosi del buon veicolo della guerra,
che rompe ogni misura, precauzione e guardia in simili occasioni,
fece dipoi innumerabile strage in tante armate, e più senza paragone
negl'innocenti popoli. Passato questo terribil malore da Mantova a
Venezia, quivi portò al sepolcro sopra sessanta mila persone; e fu
creduto che perissero più di cinquecento mila nelle altre città, e
ville di terra ferma sottoposte a quella repubblica. Passò a Modena,
Reggio, Bologna, e più tardi poi nell'anno seguente ad altre città di
Toscana, Romagna, Piemonte e Lombardia, dove lasciò un orrido guasto di
viventi, e spezialmente infierì nella allora assai popolata città di
Milano: tutti frutti dell'incessante ambizion dei monarchi, che oltre
a tanti mali cagionò ancor questo. Mirabili cose operò _Ferdinando
II gran duca_ di Toscana in tal congiuntura per difesa e sollievo de'
suoi popoli, e massimamente della sua capitale, come già scrissi nel
mio Governo della peste. Dovea passar per Italia alla volta di Vienna
l'_infanta Maria_ sorella del re di Spagna, sposata a _Ferdinando III_
re d'Ungheria e figlio del regnante imperadore. A cagion della peste
che sì fieramente infestava la Lombardia, fu ella con sontuoso stuolo
di galee condotta fino a Napoli, e in esse pensava poi di passare a
Trieste. Gelosi i Veneti de' loro diritti nell'Adriatico, si opposero
al passaggio di quella flotta, esibendosi essi di servir la regina coi
loro legni. Pericolo vi fu di rottura; ma infine si accomodarono gli
Spagnuoli e Tedeschi al volere della repubblica, la quale trasportò
poi sul fine dell'anno quella gran principessa con tutto il suo
numerosissimo corteggio da Ancona a Trieste, facendole godere nel
viaggio ogni sorta di delizie a tenore della magnificenza e liberalità
ch'ella sempre usa in somiglianti congiunture. Terminò colla vita il
suo breve principato nel corrente anno _Niccolò Contarino_ doge di
Venezia, a cui fu sostituito dipoi _Francesco Erizzo_.
Anno di CRISTO MDCXXXI. Indizione XIV.
URBANO VIII papa 9.
FERDINANDO II imperadore 13.
Anno fu questo di spaventose guerre in Germania, di maravigliose cabale
ed inganni in Italia. Il _cardinale di Richelieu_ era in Parigi il
giratore di tutte le macchine anche più lontane. Contuttochè si fossero
congiurati contra di lui il _duca d'Orleans Gastone_ fratello del re,
e la _regina Maria_ madre d'amendue, con alcuni altri dei primarii
personaggi, tal polso e predominio ebbe egli nel cuore dello stesso re
_Lodovico XIII_, che abbattè ogni suo avversario. Il duca di Orleans
si fuggì in Lorena, la regina madre se n'andò in Fiandra: con che
maggiormente divenne quel porporato l'arbitro del regno, e padrone
del re suo signore. Egli fu, siccome già accennammo, che mise l'armi
in mano al feroce _Gustavo Adolfo_ re di Svezia contra l'_imperador
Ferdinando II_, e fece lega con gli Olandesi, e manipolò in Brandeburgo
e Sassonia buona armonia con lo Svevo, e ritirò la Baviera dall'unione
con Cesare. In addietro avea l'Augusto Ferdinando mietuti sempre allori
e cantati trionfi; ma senza far caso se egli in tanti guadagni avesse
perduto l'amore dei principi dell'imperio, valendosi _Vallestain_
_duca_ di Fridland, che calpestava egualmente amici e nemici, e da
cui ebbe origine quell'empia massima: _Che l'imperatore non poteva
mantener dodici mila armati: ma che gli era ben facile di mantenerne
cento mila_; perciocchè, come ognun intende, ad un poderoso esercito,
che per forza si fa ubbidir da ognuno, nulla può mancare. Si privò
Cesare di questo gran generale insieme ed assassino, per le istanze
degli elettori, e sbandò anche la maggior parte degli eserciti suoi.
Allora fu che il _re Sveco_ colle vittoriose sue armi si andò sempre
più inoltrando, e dopo la memorabil rotta di Lipsia, data nel dì 7 di
settembre al valoroso _Tilly_ generale cesareo, maggiormente s'internò
nel cuor dell'imperio, quasi minacciando di detronizzare lo stesso
Augusto. Di sì gravi sconcerti della Germania ho io fatto in passando
questo breve ricordo, perchè essi influirono non poco a dar la quiete
all'Italia, e alla esecuzione della pace di Ratisbona. L'Olivares,
ossia il _conte duca_, potente favorito in Ispagna del _re Filippo IV_,
avea disapprovata quella pace, e spedito apposta al governo di Milano
per disturbarla il _duca di Feria_ don Gonzalez di Cordova, già da noi
veduto nei prossimi passati anni governatore del medesimo Stato. Nè
mancò egli di fare il possibile per mantener la discordia. Ma perchè
l'imperadore, pressato dalle angustie sue in Germania, abbisognava
delle truppe, già inviate a Mantova, nè gli compliva il tener vivo
questo fuoco co' Franzesi tuttavia forti alle sboccature dell'Italia;
però spedì ordine e plenipotenza al baron Galasso di ultimar queste
pendenze. Ripigliaronsi dunque i trattati fra i ministri di _Francia_,
di _Vittorio Amedeo duca_ di Savoia, col medesimo Galasso, frapposta
sempre la mediazione di monsignor _Panciroli_ nunzio del papa, e
dell'accortissimo _Giulio Mazzarino_, il qual portava anch'esso il
titolo di ministro di sua santità.
Radunati questi ministri in Cherasco, cioè il _Galasso_ per
l'imperadore, e il _maresciallo di Toiras_ col signor di Servient pel
re Cristianissimo, nel dì 6 di aprile vennero al decisivo accordo, per
cui fu convenuto che in vece dei diciotto mila scudi di rendita annua
in tante terre da darsi al duca di Savoia nel Monferrato, se gliene
assegnassero solamente quindici mila, ma d'oro. E però si determinò
che Trino con una gran copia di altre terre castella e ville, che
erano il più fertile pezzo del Monferrato, colla giunta ancora della
città d'Alba e del suo territorio, a cui niuno in addietro avea mai
pensato, passasse in dominio del duca di Savoia, non senza ammirazione
e mormorazione di molti, perchè si togliesse allo sfortunato duca di
Mantova _Carlo Gonzaga_ una sì pingue porzione dei suoi Stati. Pure
consentì a tutto il Galasso, o perchè guadagnato con danaro, o perchè
troppo incitato da Vienna a troncare i viluppi coi Franzesi, i quali
furbescamente, non avendo voluto fin qui ratificar la pace suddetta
di Ratisbona, minacciavano sempre nuove rotture. Molto più si stupiva
la gente al vedere che i Franzesi, in vece di sostenere in quello
spartimento le ragioni del duca di Mantova, lor collegato ed alunno,
non promovessero, e con passione, se non i vantaggi del duca di Savoia,
principe che tuttavia tenea l'armi in mano contra di loro, e al quale
doveano poi essi restituire tutti gli Stati occupati di qua e di là dai
monti. Cessò col tempo lo stupore essendosi, dopo molti e molti mesi,
ritirata la cortina al mistero ed arcano, che ora non s'intendeva, del
procedere dei ministri gallici; essendosi trovato ch'eglino, col fare
i liberali della roba altrui, aveano fatto un acquisto per la corona di
Francia. Hassi dunque a sapere che il Richelieu, le cui ambiziose mire
si stendevano ai luoghi più remoti e ai tempi avvenire, s'era cacciato
in capo di ritenere un passo aperto in Italia all'armi franzesi.
Verisimilmente ancora a ciò l'istigavano le segrete insinuazioni de'
- Parts
- Annali d'Italia, vol. 6 - 01
- Annali d'Italia, vol. 6 - 02
- Annali d'Italia, vol. 6 - 03
- Annali d'Italia, vol. 6 - 04
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