Annali d'Italia, vol. 6 - 68

disputandosi a chi dovesse toccare il mantenimento di que' presidii,
ne voleano per onore tutto il peso gli Spagnuoli, mentre all'incontro
pretendeano anche i Franzesi per loro decoro concorrere alla metà
della spesa; e intanto, senza mai accordarsi, venne a restar quella
milizia tutta a carico della sola camera apostolica. Fioccavano poi le
istanze di Francia, Venezia e Savoia, per ultimar questo affare, e il
papa non ne trovava la via, per non tirarsi addosso il disgusto della
corte di Madrid. Però con varii dibattimenti, ma senza conclusione
alcuna intorno a quegli affari, passò l'anno presente. Merito grande
s'era acquistato coll'imperador _Ferdinando II_ il cattolico duca
di Baviera _Massimiliano_ pel suo valore in avere restituito alla
casa d'Austria il regno della ribellata Boemia, ed avere atterrato
l'eretico palatino _Federigo_, tuttochè della propria casa. Volle
l'Augusto signore premiarlo, e compensarlo ancora per le immense spese
fatte in difesa sua; e però, oltre all'avergli dato il dominio del
Palatinato superiore, trasferì eziandio in lui nel dì 25 di febbraio
la dignità elettorale, tolta già al duca _Gian-Federigo_ suo antenato
dall'imperador Carlo V. A tal disposizione gran contrasto fecero
alquanti principi, e massimamente i protestanti; ma infine ebbe
adempimento la cesarea volontà, con singolar approvazione della corte
di Roma. Pagò nel dì 12 d'agosto dell'anno presente il tributo della
mortalità _Antonio Priuli_ doge di Venezia, e in luogo suo fu eletto
_Francesco Contarino_. Venne parimente a morte _Federigo della Rovere_
principe d'Urbino, unico figlio di _Francesco Maria duca_ di quelle
contrade; nè del suo matrimonio con _Claudia de Medici_ figlia di
_Ferdinando I gran duca_ di Toscana (la qual poscia passò alle seconde
nozze coll'arciduca Leopoldo) altra prole restò che una picciola
principessa per nome _Vittoria_. E perciocchè non v'era apparenza che
il vecchio duca potesse più avere successione legittima maschile, la
corte di Roma cominciò tosto ad adocchiar quel ducato, come Stato
vicino a ricadere alla camera apostolica, e a far preparamenti per
assicurarsene in avvenire il dominio.


Anno di CRISTO MDCXXIV. Indizione VII.
URBANO VIII papa 2.
FERDINANDO II imperadore 6.

_Armando di Plessis di Richelieu_, già vescovo di Luzzon, s'era saputo
così bene introdurre nella grazia di _Maria de Medici regina_ vedova
di Francia, e poscia del _re Luigi XIII_, che dopo la riconciliazione
della madre col figlio fu introdotto nel real consiglio, ed arrivò
a lasciarsi indietro ogni altro ministro della corona, e a diventar
l'arbitro di quella corte. Mirabile era la penetrazion del suo ingegno,
la sua attività, la sua accortezza; e maggiormente crebbe il credito
e l'autorità di lui, dappoichè al merito suo personale s'aggiunse il
lustro della sacra porpora, conferitagli da _papa Gregorio XV_ nel
dì 5 di settembre del 1622. E siccome egli nulla altro meditava che
di rimettere in miglior sistema e riputazione la corona di Francia,
che parea scaduta per la melensaggine del precedente ministero, e
specialmente ardiva di voglia di reprimere la da lui appellata baldanza
dell'una e dell'altra casa d'Austria; così pensò agli affari della
Valtellina, e a muovere altri turbini in Italia contra degli Spagnuoli.
A questo l'incitavano ancora le doglianze continue de' _Veneziani_ e
di _Carlo Emmanuele duca_ di Savoia, nel cui capo non aveano mai posa
i desiderii di nuove guerre, e soprattutto di vedere alle mani tra
loro i due monarchi di Francia e Spagna, per isperanza di profittare
della lor disunione. Affin di potere con più sicurezza promuovere i
suoi grandiosi disegni, il Richelieu fece un trattato cogli Olandesi,
e felicemente ridusse a buon termine il matrimonio di _Enrichetta_
sorella del re Lodovico con _Carlo principe di Galles_ figlio di
_Giacomo re_ della Gran Bretagna, avendone impetrata la dispensa
dalla santa Sede per li vantaggi che si sperava averne da provenire
alla religione cattolica nella monarchia inglese. Erano fin qui stati
fluttuanti i negoziati per la Valtellina; perciocchè avea bensì il
_pontefice Urbano VIII_ abbozzato un accomodamento, per cui fosse
restituita ai Grigioni quella provincia colla reintegrazione e garanzia
della religione cattolica; ma perchè si era preservato il passo libero
per quelle parti ai vicendevoli soccorsi delle due potenze austriache
(punto egualmente disapprovato dalla Francia e dalla repubblica
veneta), restò priva d'effetto la buona volontà e determinazione della
corte di Roma. Pertanto, a tenore de' maneggi del duca di Savoia,
tenuta fu una gran conferenza in Susa fra esso duca e il _Lesdiguieres_
gran contestabile di Francia, e gli ambasciatori di Venezia, dove si
sottoscrisse la lega della Francia, repubblica veneta e duca di Savoia,
per liberar la Valtellina. Nè qui si fermò il corso delle pretensioni.
Fremeva forte esso duca contro la repubblica di Genova, sì perchè
era stato suppiantato da essa nell'acquisto fatto del marchesato di
Zuccherello sui confini del Piemonte, il quale dalla camera imperiale
fu aggiudicato ai Genovesi, e sì ancora perchè in Genova era trascorsa
la plebe in alcuni dileggiamenti della persona del medesimo duca. Ma
quel che più l'accendeva a romperla co' Genovesi, era la facilità da
lui ideata di conquistare un buon tratto del loro dominio. Propose
dunque alla Francia, come maniera più acconcia di deprimere il fasto
spagnuolo in Italia, la conquista della città di Genova e della riviera
di Levante, che dovessero venire in preda a' Franzesi, restando a lui
quella di Ponente. Forse crederà taluno che non fossero approvati da'
Franzesi tutti questi ideali progetti. La verità non di meno è ch'egli
imbarcò la corte di Francia anche in sì vistoso disegno, e che non meno
i Franzesi che i Veneziani si servirono qui di un ripiego della creduta
fina politica. Imperciocchè i Franzesi voleano solamente entrarvi come
ausiliarii del duca, dei Grigioni e Svizzeri collegati, senza dichiarar
guerra aperta alla Spagna; e i Veneziani intendeano anche essi di
somministrar danari e munizioni per la Valtellina, ma con ritenere per
quanto potessero le loro milizie ai confini dello Stato di Milano, e
senza approvare i disegni contra di Genova.
Accordate che furono in questa guisa le pive, si diedero i collegati a
preparar l'opportuno armamento. Intanto i Franzesi non parlavano alla
corte di Madrid se non di pace, e di un amichevole temperamento per
finir quella briga: il che fu cagione che per quanto il duca di Feria
governator di Milano scrivesse lettere sopra lettere, rappresentando
le mene da lui scoperte degli alleati, e insistendo per soccorsi, pure
fossero sempre valutate per soli spauracchi le di lui insinuazioni.
Dall'altro canto il re Cristianissimo fece vieppiù incalzare il
pontefice, affinchè o determinasse in breve la controversia della
Valtellina, ovvero rinunziasse al deposito, rimettendo le fortezze
ai Grigioni, oppure agli Spagnuoli; altrimenti intendeva di aver le
mani slegate, e di essere in libertà di valersi di mezzi efficaci
per sollievo dei Grigioni suoi collegati. Ma il papa, tra perchè
i Valtellini faceano replicate istanze di sottomettersi al dominio
pontificio (canto che non dispiaceva alle orecchie romane), e per
la persuasione che niun de' principi cattolici avesse da perdere
il rispetto alle bandiere di San Pietro, andava barcheggiando,
senza venire a risoluzione alcuna. Intanto il marchese di Coeuvres,
ambasciatore del re Cristianissimo, colle calde sue insinuazioni, e
molto più colla potente retorica del danaro franzese e veneto, mosse
gli Svizzeri e i Vallesani a far leva di gente, ed animò i Grigioni
alla sollevazione. Sul fine poi di novembre il marchese suddetto, di
pacifico ambasciatore divenuto capitano guerriero della lega, messosi
alla testa delle truppe adunate, improvvisamente entrò nella Rhetia, e
dopo avere sloggiate da alcuni posti le truppe dell'arciduca Leopoldo,
passò nella Valtellina, cominciando ad impossessarsi di que' luoghi,
che non poteano fare resistenza. Non sapea darsi pace Niccolò Guidi
marchese di Bagno, luogotenente generale delle armi pontificie in
quella provincia, che un ministro di Francia procedesse sì avanti con
vilipendio della dignità della santa Sede, e ne fece delle replicate
doglianze. Ma poco stette a veder comparire lo stesso marchese di
Coeuvres sotto Tirano, dove, come in luogo più forte, teneva il Guidi
il maggior suo presidio. Perchè non si fidava degli abitanti di quella
terra, si ritirò esso marchese di Bagno nel castello. Seguirono delle
ostilità; ma perchè giunsero artiglierie spedite da' Veneziani, il
Guidi nel dì 8 di dicembre capitolò, che se per tutto il dì 10 seguente
non gli arrivava soccorso, cederebbe il castello, ed egli colle sue
genti se ne tornerebbe negli Stati della Chiesa. Nel dì 11 se ne andò
il Bagno, e con poca fatica da lì innanzi il Coeuvres s'impadronì di
Sondrio, Morbegno, Bormio, in una parola, di tutta la Valtellina,
a riserva di Riva ben guernita dagli Spagnuoli, non senza biasimo
degli uffiziali e soldati del papa, che come pecore si lasciarono
cacciar dai luoghi capaci di buona difesa. Gente non di meno vi fu, e
specialmente in Ispagna, che sospettò un segreto concerto del papa co'
Franzesi di lasciarsi forzare, per isciogliere una volta quel nodo,
giacchè _Urbano VIII_ non avea mai approvato l'impegno preso dal suo
predecessore _Gregorio XV_. Ciarle furono tutte queste. Certo è che
di grandi esclamazioni e vere querele fece il papa a Parigi per tale
invasione e violenza all'armi sue, ma senza voler entrare in più gravi
e dispendiosi risentimenti. Più ancora ne fecero gli Spagnuoli. Il
_cardinale di Richelieu_, parte con parole dolci, parte colle brusche,
si cavò fuori d'intrico, e seguitò francamente le tele precedenti per
effettuare gli altri suoi disegni.


Anno di CRISTO MDCXXV. Indizione VIII.
URBANO VIII papa 3.
FERDINANDO II imperadore 7.

Si celebrò in quest'anno il giubileo della santa Chiesa romana,
intimato da papa _Urbano VIII_; ma non vi si mirò il gran concorso de'
pellegrini divoti, come in altri precedenti. La pestilenza insorta in
Palermo ed altri luoghi della Sicilia facea quivi terribile strage, e
sommo spavento eziandio recava all'Italia. Oltre a ciò, le turbolenze
della Valtellina, e un fiero temporale insorto contra della repubblica
di Genova, intorbidavano in questi tempi la quiete della Lombardia e
dei circonvicini paesi: tutti ostacoli alla divozione pellegrinatoria
de' fedeli. Si videro nondimeno comparire a Roma in sì pia congiuntura
_Uladislao principe_ di Polonia, figlio dell'invitto _re Sigismondo_
trionfatore de' Turchi, e poscia l'_arciduca Leopoldo_, i quali dal
pontefice riceverono ogni maggior contrassegno di stima e di affetto.
Poco godè dell'illustre sua dignità _Francesco Contarino_ doge di
Venezia, perchè fu in quest'anno rapito dalla morte, ed ebbe per
successore _Giovanni Cornaro_. Concepì speranze di grandi vantaggi
il cattolicismo per le nozze di _Carlo I re_ della Gran Bretagna (il
cui padre _Giacomo Stuardo re_ era dianzi nel mese di aprile mancato
di vita) celebrate nel mese di luglio con _Enrichetta principessa_
sorella di _Lodovico XIII_ re di Francia: ma queste speranze col tempo
si ridussero a sole foglie e fiori. Nè si dee tacere per gloria di uno
de' gran capitani, figli dell'Italia, che avendo _Ambrosio Spinola_,
generale dell'armi spagnuole in Fiandra, nel mese d'agosto del
precedente anno, assediata Bredà, piazza pel sito e per le innumerabili
fortificazioni creduta inespugnabile, in vicinanza del mare e di
Anversa, gli riuscì di rendersene padrone nel dì 5 di giugno dell'anno
presente. Celebre sopra modo fu quell'assedio, incredibile l'industria,
il senno e la costanza dello Spinola in sostener quell'impresa contro
tutti gli sforzi dell'Inghilterra e di Maurizio di Nassau principe
Oranges e generale degli Olandesi, che appunto finì i suoi giorni sul
principio di maggio del presente anno, lasciando fama di essere stato
uno de' primi guerrieri del suo tempo.
Qualche azion militare si fece in questi giorni anche nella Valtellina,
ma di sì poco rilievo, che non occorre farne menzione. Il _duca di
Feria_ governator di Milano avea già in pronto un sufficiente esercito,
che servì a frastornare ogni ulterior progresso de' Franzesi e Veneti
in quelle parti. Avrebbe egli anche potuto far di più, se non fosse
stato costretto a tener gli occhi aperti ad un maggior temporale
che scoppiò contro i Genovesi. Era riuscito, siccome dicemmo, a
_Carlo Emmanuele_ duca di Savoia d'ubbriacare i Franzesi colla da
lui rappresentata agevolissima conquista di Genova, rappresentando
quella città tanto illustre e ricchissima ormai invecchiata e sopita
nell'ozio, infiacchita nelle delizie, sprovveduta di fortificazioni
moderne e di soldatesche, con supporre ancora ai medesimi, e non senza
ragione, di tener buone intelligenze con alcuni malcontenti nel cuore
della medesima città. Perciò, come se avessero in pugno la preda, con
alcune capitolazioni la spartirono fra loro; anzi fecero i conti fin
d'allora sullo Stato di Milano, sul Monferrato, sulla Corsica, formando
varii patti di divisione: che di tali magnifiche idee era mirabilmente
fornito l'animo grande di esso duca. Avea la corte di Francia a questo
fine fatto un trattato cogli Olandesi, che s'impegnarono d'inviare
venti grossi vascelli ben corredati in rinforzo dell'armi di Savoia.
Le galee ancora e i galeoni di Francia, benchè solamente i fusti, e
senza inalberarvi lo stendardo reale, doveano servire al duca, e il
contestabile di Lesdiguieres come ausiliario assistergli con grosso
nerbo di gente, pretendendo con ciò di non far guerra dichiarata: tele
di ragno, colle quali vanno anche oggidì i principi del mondo coprendo
gli ambiziosi loro disegni. Non concorsero i Veneziani collegati in
questa diversione, anzi positivamente la riprovarono; e se pure si
volea far guerra, la desideravano contro lo Stato di Milano: cotanto
si trovavano ora mal soddisfatti delle due potenti case d'Austria.
Fatta dunque nel dì 4 di marzo in Asti la rassegna generale delle
truppe franzesi e savoiarde, si trovò ascendere quell'armata a venti
quattro mila fanti e tre mila cavalli con buon treno di artiglieria.
A sì feroce insulto poco si trovavano preparati i Genovesi, perchè
niun giusto motivo nè dalla parte della Francia, nè da quella di
Savoia appariva di muoversi alla loro rovina: senza riflettere che ai
conquistatori non mancano mai pretesti per far guerra ai vicini; e che
se un confinante s'arma, s'ha sempre a temere. E quantunque sorgessero
sospetti che contro di loro si disponesse la danza, pure non voleano
prestar fede a chi gli assicurava della trama ordita; e però lentamente
procederono ad armarsi, e a raunar genti, viveri e danari per una
gagliarda resistenza; finchè, veduto vicino il nembo, si svegliarono.
Allora fu che si diedero a tempestare il duca di Feria in Milano, e
il re Cattolico _Filippo IV_ per poderosi aiuti, facendo con facilità
conoscere quanto comune fosse la causa. Perduta Genova, era perduto
lo Stato di Milano. Parimente fecero istanze ai lor corrispondenti
di Spagna per soccorso di pecunia, e questi non mancarono d'inviarne
dipoi in gran copia. Intanto si dilatò lo sbigottimento nella città;
e dappoichè si vide muoversi a quella volta il torrente, vennero non
pochi al disperato consiglio di abbandonar tutta la riviera di Ponente
e il di qua dall'Apennino, per ritirar tutte le forze alla difesa
del cuore. Ma prevalse il sentimento di Gian-Girolamo Doria, capitan
vecchio e di sperienza, e di Carlo Doria duca di Tursis, e di altri
più saggi e coraggiosi, che si sostenesse la città di Savona, e si
armassero i passi di Gavi e di Rossiglione, per trattenere, il più che
fosse possibile, lungi da Genova quell'impetuosa tempesta.
Entrò dunque l'esercito collegato dalla parte di Novi nel Genovesato,
e gli si arrenderono varii luoghi. Il _duca di Savoia, il principe di
Piemonte Vittorio Amedeo suo figlio_ e _Lesdiguieres_ in varii siti
di qua dall'Apennino fecero sì grande empito, che sconfissero nel
giorno di giovedì santo le truppe genovesi a Rossiglione, e poscia
diedero una rotta maggiore ad esse genti ad Ottaggio: disgrazie che
accrebbero forte lo spavento in Genova, e insieme lo sdegno contra del
duca, incredibilmente per altri motivi odiato da loro. Si rincorarono
poscia alquanto gli animi per l'arrivo colà di Lodovico Guasco con
due mila fanti e ducento cavalli, spediti per le vie di Levante in
loro aiuto. Ottaggio intanto fu preso, e dato a sacco, e rimasero
prigionieri i difensori. In quelle parti vi restava ancora Gavi da
espugnare, ma non si durò fatica a prendere quella terra col castello.
Gran dispareri poscia seguirono fra il duca e Lesdiguieres. Pieno di
fuoco e di speranze il primo, insisteva che si marciasse a dirittura a
Genova; laddove l'altro, considerando le forze e la gran popolazione di
quella città, e di che sia capace l'amore della libertà; e riflettendo
a ciò che potea avvenire, se il duca di Feria dalla parte di Milano
con assai schiere da lui allestite venisse a tagliar la comunicazione
colla Lombardia, e se inoltre sopraggiugnessero per mare i soccorsi
aspettati in Genova da Napoli e Sicilia; ripugnò a tal risoluzione.
Il perchè dal duca fu spedito il principe di Piemonte ad occupar la
riviera di Ponente, frutto che dovea a lui restare di questa guerra.
Andò egli; colla forza si impadronì della ricca terra della Pieva,
dove tutti corsero al saccheggio: ricuperò Oneglia, terra sua poco
prima occupata dai Genovesi; e vennero poscia alle sue mani la città
di Albenga e Ventimiglia, e le terre di Alassio, Porto Maurizio, San
Remo, Loano, Castel Diano, in una parola, tutta la suddetta riviera,
cominciando dal Finale sino a Villafranca per lo spazio di sessanta
miglia. Non dimenticarono i vittoriosi soldati di far quanto spoglio
poterono in quelle parti. Continuava nulladimeno il duca nel disegno
di passar sotto Genova; al qual fine facea di gran preparativi: ed
essendosi impossessato di Savignone, sei miglia vicino alla città,
se l'aspettavano a momenti i Genovesi sotto le mura. Giunse a tempo
a calmare la costernazione di quel popolo una galea che di Spagna
recava un milione di ducati d'oro, e ne sopraggiunsero poi altre che
condussero di colà (per quanto fu detto) sei altri milioni, spettanti
ai privati Genovesi, ma somministrati al bisogno della repubblica.
Quel nondimeno che maggiormente fece dar bando al timore, fu che il
cavalier Pecchio arrivò a Genova con circa tre mila fanti dei terzi di
Modena e Parma, inviati dal duca di Feria. In quei mari ancora comparve
il marchese di Santa Croce con trentatrè galee di Spagna, sopra le
quali erano quasi quattro mila fanti, la maggior parte gente veterana.
Da Napoli vennero alcuni galeoni con mille e cinquecento uomini, e
le galee di Sicilia con secento Spagnuoli, e parimente il marchese
di Bozzolo con ottocento fanti e ducento cavalli, condotto da quella
repubblica: con che si trovò aver già in pronto i Genovesi un'armata di
circa dodici mila fanti.
Contuttociò fu creduto in Genova miglior consiglio di nulla azzardare,
se prima non usciva in campagna il duca di Feria. I soli popoli della
Pozzevera infestavano il campo gallo-savoiardo, e giunsero ad assediare
in Savignone il principe di Piemonte, che fu liberato dal padre. Erano
in questo mentre le forze principali dello Stato di Milano impiegate
nella difesa di Riva, luogo vilissimo sul lago di Chiavenna, ma ben
fortificato dal governator di Milano. Al comando di esse stava il conte
Giovanni Serbellone, che varie pruove diede in ributtare il marchese
di Coeuvres, ito più volte, ma indarno, ad assalire quel sito. Tante
nondimeno furono le istanze de' Genovesi, che il Feria passò infine
con quante genti potè raunare a Pavia, e intanto andarono giugnendo
in Lombardia i Tedeschi, assoldati specialmente coll'oro de' Genovesi.
Se si ha da credere al Capriata, erano circa sedici mila combattenti,
comandati dal barone di Pappenaim, e dai conti di Solm e di Scultz, ed
inoltre non poche squadre di cavalleria feroce, venuta dalla Polonia
e Croazia, che, unita ai Lombardi e Napoletani, ascendeva a cinque
mila cavalli. Mossesi allora il duca di Feria da Pavia con passare
ad Alessandria, e al movimento suo cominciarono ad eclissar le glorie
efimere del nemico esercito; e tanto più perchè erano cresciute le gare
e diffidenze fra il duca di Savoia e il contestabile Lesdiguieres,
sospettato, probabilmente senza ragione, corrotto dai regali segreti
dei Genovesi. Ritiraronsi dunque i Gallo-Savoiardi fuori dello Stato
di Genova, inseguiti sempre dal Feria, che volò ad impadronirsi della
città d'Acqui, dove fu ritrovato un magazzino di viveri e munizioni,
e la guardaroba del duca di Savoia con ricchi arredi, argenterie e
livree, colle quali si sparse voce che egli pensasse di far la sua
pomposa entrata nella debellata città di Genova. Grande onore acquistò
in tal congiuntura il principe Vittorio Amedeo, perchè, inseguito dagli
Spagnuoli, con buon ordine e bravura ridusse in salvo tutte le genti ed
artiglierie.
Ricuperarono intanto i Genovesi Gavi e Novi, e gli altri posti di qua
dall'Apennino, con cogliere in Gavi molti pezzi d'artiglieria del duca
di Savoia. Similmente il marchese di Santa Croce colle galee per mare,
e con otto mila fanti e due compagnie di cavalleria per terra, si
portò a liberar la riviera di Ponente dai nemici. In poche settimane
tornarono all'ubbidienza della repubblica Albenga, Ventimiglia e tutte
le altre terre di quelle parti. Nè di ciò contenta quell'armata, passò
ad assediar Ormea, terra del duca, con prendere a forza d'armi non
meno essa che il castello. Seguì ivi grande effusione di sangue, e
tutto andò a sacco. Da questo esempio sgomentati quei di Garessio e
di Bignasco, inviarono le chiavi al Santa Croce. Mentre tali imprese
si faceano nella Riviera, il duca di Feria, bramoso di qualche fatto
glorioso, si portò all'assedio della fortezza di Verrua, considerabile
allora per la situazione sua, ma non già per regolate fortificazioni;
vi passò nondimeno con tale lentezza, che diede tempo al duca di Savoia
di gittarsi in Crescentino, e di spingere un buon rinforzo di gente in
quella piazza, di farvi alcuni trincieramenti, e di fabbricare dipoi
un ponte, che congiugneva Crescentino con Verrua: ponte due volte rotto
dagli Spagnuoli, e sempre rifatto dall'intrepido duca Carlo Emmanuele.
Per quanti sforzi facesse dipoi il Feria sotto Verrua, tutti riuscirono
vani; laonde, accostandosi il verno, e ricevuta nuova che fossero
calati in Piemonte sei mila Franzesi, giudicò meglio il ritirarsi,
che di lasciar ivi a repentaglio gente ed onore. Ed ecco dove andò a
terminare sì strepitoso fenomeno, senza alcun frutto, e solo con danno
per parte del duca di Savoia, e con ignominia dal canto dei Franzesi,
che sì leggermente entrarono in questo impegno, e poi lasciarono il
duca in ballo senza soccorrerlo colla flotta del duca di Guisa, e con
valersi in proprio servizio dei venti vascelli olandesi, già promessi
per l'Italia. Si aggiunse, aver preteso nello stesso tempo di metter
eglino i presidii nelle terre che si andavano occupando. In somma
poco conto per lo più truovano gli altri animali in voler far lega col
lione.
Al pontefice _Urbano VIII_ sommamente dispiacevano queste funeste
brighe in Italia; laonde, per troncarne il corso, e massimamente per
impedire, se era possibile, che non venissero ad un'aperta rottura
le corone di Francia e di Spagna, determinò d'inviare a Parigi una
maestosa legazione; e fu scelto per essa il _cardinal Francesco
Barberini_ suo nipote, assai giovane di età, ma non di senno, ed anche
assistito dai prelati veterani nelle faccende del mondo. Giunto egli
colà nel mese di maggio, rinnovò i risentimenti per l'affronto fatto
all'armi della Chiesa nella Valtellina, chiedendone il risarcimento;
propose una sospension d'armi in Italia, e a tutto suo potere seminò
consigli di pace. Finezze e dimostrazioni di stima non mancarono
al legato; ma per conto dei suoi negoziati, si trovò egli tanto
inviluppato dagli artifizii di quella corte, che finalmente sul
fine dell'anno, veggendo andarvi del suo decoro nel continuare in sì
disutile impiego, si partì da Parigi, e tornossene poco contento a
Roma. Disgustato per questo il pontefice, parve disposto a voler far
prova della sua bravura nell'anno seguente, con assoldare infatti sei
mila fanti e cinquecento cavalli per rientrare nella Valtellina. Poca
durata ebbe poi questo fuoco, tra perchè s'intrecciarono varii privati
disegni dell'ingrandimento della propria casa, e perch'egli penetrò,
siccome diremo, gli occulti matteggi delle due corone, per venire senza
di lui alla concordia. Prosperarono cotanto in quest'anno non meno in
Ungheria che in Germania gli affari di _Ferdinando II_ imperadore, che
ottenne di far coronare re d'Ungheria il suo figlio _Ferdinando III_.


Anno di CRISTO MDCXXVI. Indizione IX.
URBANO VIII papa 4.
FERDINANDO II imperadore 8.

Si aspettava ognuno che più fiera che mai si riaccendesse la guerra
nell'anno presente in Italia, dacchè si vide inviato a Parigi il
_principe di Piemonte_ dal duca _Carlo Emmanuele_ suo padre a far
istanza per un più potente armamento; e molto più dacchè si seppe
che allo stesso principe era stato conferito il titolo di generale
dell'armi della Francia in Italia, senza dover dipendere dal
contestabile, o da altri pedanti nelle imprese militari. A maggiormente
poi accrescere nel mese di marzo questo timore servì l'arrivo in
Lombardia di _Torquato Conti_ duca di Guadagnolo, figlio del duca
di Poli, con sei mila fanti e secento cavalli stipendiati dal papa,
con ordine di accoppiarsi con gli Spagnuoli alla ricuperazion della
Valtellina, e a tornare in pristino il deposito di quella provincia.
Del che pervenuto l'avviso in Francia, furono spediti danari ed
ordini al marchese di Coeuvres, per far leva di nuove genti. Ma
eccoti all'improvviso contro l'espettazion d'ognuno saltar fuori la
pace tra la Francia e la Spagna, i cui articoli nel dì 5 oppure 6 di
marzo furono segnati in Monsone, terra d'Aragona, dal conte duca,
cioè dall'Olivares, e dal conte di Fargis ambasciatore di Francia,
ma pubblicati molto più tardi. Non si può spiegare quanti artifizii e
mascherate si facessero giocare in questo negoziato. Più d'una volta
fece vista la corte di Parigi di disapprovare il concordato dal suo
ministro in Ispagna, e di voler richiamare e gastigare lui stesso;
e pure gustò infine l'operato da lui. V'erano delle segrete ruote
che movevano il _Richelieu_ a voler quella pace, perchè abbondavano
in Francia i malcontenti ed invidiosi del soverchio suo dominio; nè
molto si stette a vederne lo scoppio. Era giunto il papa ad inviare
in Ispagna con titolo di legato lo stesso suo nipote _cardinale
Francesco_, voglioso di far una nuova comparsa anche in quella corte,
per tenere al sacro fonte una nuova figlia del re Cattolico, e per
trattar ivi della pace d'Italia, sperando miglior fortuna ivi di
quella che avea provato in Parigi. Arrivato che egli fu in Catalogna,
e volendosi mischiare nel trattato, gli diedero ad intendere già
terminato il negozio (che nondimeno era tuttavia pendente), e finsero
dipoi sottoscritti i capitoli nel dì suddetto di marzo. Nulla in Parigi
se ne comunicò al principe di Piemonte e al ministro veneto, se non
dopo il fatto con pascere intanto ambedue di pensieri ed apparati
di guerra. I principali articoli di questa concordia furono: Che
in perpetuo non sarebbe altro esercizio che quello della religion
cattolica romana nella Valtellina, contado di Bormio e Chiavenna. Che
fosse salva in que' luoghi la sovranità dei Grigioni, con pagar loro la
provincia un annuo tributo, ma con facoltà ai Valtellini di eleggere
liberamente i lor governatori e magistrati tutti cattolici; la quale
elezione fosse obbligata la repubblica dei Grigioni di ratificare. Che
tutti i forti di essa provincia sarebbono rimessi in mano del papa, e
poi demoliti e rasati. Fu riserbato ad arbitri e all'autorità delle due
corone di comporre le differenze civili rimaste fra i lor collegati.
Gran rumore, gran battaglia di sentimenti cagionò questa improvvisa