Annali d'Italia, vol. 6 - 62
loro trincieramenti, tanti i fossi e i canali che conveniva superare,
ch'egli, tuttochè provveduto di buon esercito, non si attentò mai di
mettersi a sì pericolosa impresa. Perciò, affine di fare una potente
diversione, elesse di passare all'assedio dell'Esclusa, piazza di mare
di tal conseguenza, che pareggiava, se non anche vantaggiava, Ostenda.
Colà si portò egli sul fine del mese di aprile, e, non ostante la
gran copia dei canali ed acque stagnanti che circondano quel luogo,
vi si accampò e trincierò con sicurezza d'impossessarsene, se non
coll'armi sue, colla fame degli assediati, che scarseggiavano non
men di munizioni da guerra che di viveri. Tentò il Velasco, generale
della cavalleria dell'arciduca, d'introdurvi soccorso; ma, sconfitto,
ebbe fatica a salvarsi con que' pochi che non restarono ivi uccisi o
prigioni. Venne il principio d'agosto; e perchè s'intese agonizzante
quella piazza, _Ambrosio Spinola_, benchè suo malgrado fu spinto
dall'arciduca a tentar pure miglior fortuna per soccorrerla; ma
anch'egli trovò insuperabili impedimenti, sicchè con perdita d'alcune
centinaia de' suoi fu forzato a retrocedere. Perciò non potendo più
reggere alla fame quel presidio di quasi quattro mila soldati, capitolò
con patti onorevoli la resa. Uscirono essi portando piuttosto l'effigie
di scheletri e cadaveri che di uomini viventi. Questa rilevante
perdita tal rabbia cagionò, e così accrebbe lo spirito del valore
nei cattolici assediatori di Ostenda, che a gara Italiani, Spagnuoli,
Valloni e Tedeschi, superato il fosso, presero anche due baluardi; e
benchè dietro ad essi trovassero nuovi tagli e ripari, erano pronti a
far le ultime pruove; quando gli assediati esposero bandiera bianca,
ed ottennero nel dì 21 di settembre onesta capitolazione. Se ne andò
libera quella guarnigione di quattro mila soldati tutti sani e vegeti,
perchè sempre era ivi stata abbondanza di viveri per li frequenti
soccorsi. Vi si trovò infatti tanta copia d'artiglierie, vettovaglie, e
munizioni, che fu una maraviglia. Così terminò l'assedio di Ostenda con
somma gloria del marchese Spinola, e gaudio inesplicabile dell'arciduca
Alberto: assedio memorando anche ai secoli venturi, sì per la sua lunga
durata di trentanove mesi, che per l'incredibil varietà dei lavori,
macchine, mine ed assalti, e, quel che è più, per la strage di più
di cento mila persone, che (al dir della fama di quei tempi) costò
l'offesa e difesa di sì forte piazza. Altri dicono di più, perchè
entro Ostenda, o per le battaglie o per la peste, si tiene che ve ne
perissero cinquanta mila. Ciò fatto, cercarono quelle armate riposo.
Gran differenza di guerreggiare da cento quarantadue anni in qua!
Tre anni e un quarto vi vollero allora per espugnare Ostenda; e otto
giorni o poco più ve ne hanno impiegato i Franzesi dei nostri tempi per
impadronirsene nell'anno 1745. Ma i difensori di oggidì non sono stati
come quei d'allora.
Mentre bolliva sì forte quella guerra, trattarono del pari di pace
_Filippo III re_ di Spagna e l'_arciduca Alberto_ con _Jacopo re_ della
Gran Bretagna, principe che, avendo già provate contraddizioni alla
sua grandezza, ed anche congiure, bramoso di assodarsi la corona in
capo, vi diede facilmente la mano. Fra le condizioni di questa nuova
amistà vi fu che il re inglese non invierebbe in avvenire soccorsi
agli Olandesi. Se poi l'eseguisse, nol so io dire. In Ungheria male
passarono gli affari dell'imperadore, perchè sebbene avendo i Turchi
stretta di assedio la città di Strigonia, furono con loro gran perdita
cacciati di là; pure i cristiani abbandonarono Pest per viltà del
loro comandante, il quale, appena udito che i Turchi fabbricavano
di sotto da Buda un ponte per passare coll'esercito loro, preso da
panico terrore, se ne ritirò colla sua gente, dopo avere attaccato
il fuoco a molte parti di quella città. In questi tempi _Ferdinando
gran duca_ di Toscana attendeva a popolare l'insigne terra o città di
Livorno. Perchè la fece divenire anche un asilo per le genti di mal
affare, non durò fatica ad accrescerne la popolazione. V'introdusse
ancora gran copia di Ebrei; ma avendo le sue galee fatto dipoi nel
1607 un disegno sopra Negroponte, si trovò precorso l'avviso colà di
tale spedizione, e ne fu data la colpa ad essi Giudei, creduti spioni
del Turco, per l'odio che professavano al cristianesimo. Accidente
occorse nell'anno presente a Roma, che sopra modo turbò il pontefice,
e creduto fu che contribuisse non poco ad accelerare da lì a due o
tre mesi la morte sua. Scappando dai birri un certo uomo, cercato
da essi non per alcun delitto, ma solamente per debito civile, si
rifugiò nel palazzo del _cardinale Odoardo Farnese_. Continuando gli
esecutori la lor caccia, vi entrarono anch'essi; ma trovatisi quivi
alcuni gentiluomini cortigiani del cardinale, fecero testa, ed avendo
maltrattati con parole i birri, diedero campo all'uomo di fuggirsene
per la porta di dietro. A tale avviso montò forte in collera il papa,
e ordinò che il governatore di Roma procedesse con tutto rigore contro
di que' gentiluomini, fermamente risoluto di volerli in mano, e di
farne anche aspro risentimento col cardinale. In difesa di questo
porporato accorsero non solamente molti baroni romani, ma lo stesso
ambasciatore di Spagna, e poco vi mancò che non ne seguisse qualche
strepitoso tumulto. Ma il saggio cardinale, per ovviare a maggiori
inconvenienti, giudicò meglio di ritirarsi fuor di Roma, con sì forte
accompagnamento nondimeno de' suoi parziali, e di nobili e di popolo,
che non paventò violenza alcuna in contrario. Del che maggiormente
concepì sdegno e si chiamò offeso il papa. Ma appena giunta a _Ranuccio
duca_ di Parma, marito della nipote del papa, e fratello del porporato,
la nuova di questo sconcerto, si portò egli per le poste a Roma, e
presentatosi al papa, adoperò sì buone maniere, assistito sempre dal
favore del suddetto ambasciatore del re Cattolico, che il placò. Non
piacque dipoi al pontefice, che tornando esso duca da monte Cavallo,
il popolo l'accompagnasse fino al suo palazzo, gridando: _Viva la casa
Farnese_. Seguì poscia accomodamento; ma di esso e del perdono dato
ai delinquenti niuno si fidò, di maniera che il cardinale, il duca
Gaetano ed altri principali di Roma stettero da lì innanzi alla larga,
aspettando maggior sicurezza dalla morte del papa, creduta vicina, e,
secondo il solito, sospirata da molti. Fu cagione questo imbroglio che
il pontefice, senza far caso dell'aggravio della camera, assoldasse e
chiamasse a Roma secento Corsi e ducento archibugieri a cavallo, che
facessero la guardia al palazzo pontificio, e ad altri luoghi di quella
gran città. Furono in quest'anno rimessi in varie città della Francia i
Gesuiti dal re _Arrigo_, che sempre più facea conoscere l'attaccamento
suo alla religione cattolica.
Anno di CRISTO MDCV. Indizione III.
LEONE XI papa 1.
PAOLO V papa 1.
RODOLFO II imperadore 30.
In occasione di un libro pubblicato negli anni addietro dal padre
Molina della compagnia di Gesù, in cui si trattava di concordare col
libero arbitrio dell'uomo la necessità della divina grazia, era insorta
in Ispagna una fierissima guerra di penne fra i Domenicani e i Gesuiti.
Al tribunal primario della fede, cioè a quello del romano pontefice,
fu portata questa sempre scabrosissima controversia, e deputata una
congregazion di cardinali e di dottissimi teologi, assistendovi in
persona lo stesso pontefice. Scelti i più valorosi campioni da amendue
le parti, gran tempo si arringò e disputò; ed allorchè parea che il
_pontefice Clemente_, inclinando alla parte dei domenicani, fosse per
venire alla definizion della lite, gli fu forza di rimetterla indecisa
al suo successore. Imperocchè, essendosi infievolita non solamente
la sua sanità, ma anche la sua testa, di modo che non battea più a
segno, nè egli era più atto agli affari, fu poi preso nel dì 10 di
febbraio più aspramente che mai dalla podagra, la quale da gran tempo
lo affliggeva, e crescendo ogni dì più il malore, finalmente nel dì 3
di marzo passò il santo padre a miglior vita, lasciando dopo di sè un
gran nome non meno pel suo zelo nel pastorale impiego che per la sua
severità ed attenzione al governo civile. Lasciò ancora in grande auge,
e con illustri parentele, e con gradi lucrosi, e con fabbriche sontuose
i suoi nipoti e pronipoti, tre dei quali fregiati della sacra porpora.
Ma parve che Dio, i cui giudizii son troppo occulti, non volesse
lasciar prendere le radici alla sua schiatta; perciocchè, siccome
scrisse con esclamazione e maraviglia il cardinale Bentivoglio, da lì
ad alquanti anni: _Morì papa Clemente, morì il cardinale Aldobrandino_
(dopo aver provato sotto Paolo V de' disgustosi contrattempi),
_son morti i cinque nipoti che aveano due altri cardinali fra loro;
mancarono tutti i maschi di quella casa, e mancò finalmente con essi
ogni successione, ed insieme ogni grandezza del sangue lor proprio_.
Entrati poscia i cardinali in conclave nel dì 14 di marzo, fu per più
giorni in predicamento e vicinanza al triregno il dignissimo _Cardinal
Baronio_. Ma in fine nel primo dì di aprile concorsero i voti del sacro
collegio nel _cardinale Alessandro de Medici_ Fiorentino, vecchio
di settanta anni, personaggio dotato di amabil gravità e prudenza,
e pieno di sante intenzioni, che assunse il nome di Leone XI. Creato
papa, senza dimora liberò le provincie da molte gravezze loro imposte
da Clemente VIII. E perchè erano assai conosciute le nobili sue
prerogative, straordinario fu il giubilo del popolo romano per la
di lui esaltazione, universali le speranze di goder sotto di lui un
felicissimo reggimento. Ma appena coronato nel dì 11 del suddetto mese
nella basilica Lateranense, cadde infermo, e nel dì 27 seguente chiuse
gli occhi alle umane grandezze, avendo goduto per soli ventisei giorni
il pontificato. Durante la sua malattia, benchè importunato da molti a
dare il suo cappello ad un suo pronipote, che per altro ne era degno,
non vi si seppe indurre, nè più volle vedere il suo confessore stesso,
che perorò per lui. Il cardinal di Perrona e il Doglioni scrivono che
fu sospettata la sua morte di veleno per una rosa a lui data nella
basilica Lateranense; ma, sparato il suo cadavero, si conobbe mancato
di morte naturale.
Raunatosi dunque di nuovo il sacro collegio, dopo gran dibattimento,
venuta la sera del dì 16 di maggio, cadde l'elezione nella persona
del _cardinal Camillo Borghese_, di origine Sanese, ma nato in Roma
nell'anno 1552, e promosso alla sacra porpora cardinalizia nel 1596
da _Clemente VIII_. Prese egli il nome di _Paolo V_. Perchè l'età
sua non era che di anni cinquantatrè, o pure cinquantaquattro,
l'esaltazione sua fu accolta con istupore, ma molto più con allegrezza,
e spezialmente del popolo romano, che non crede mai sì ben collocata
la tiara pontificia, che quando la vede in capo ai suoi cittadini.
Confessano tutti gli scrittori aver egli portato seco a sì eccelsa
dignità un complesso di tali virtù e prerogative sì di animo che
d'ingegno, che luogo non restò alla giusta censura, nè bisogno di
adulazione per tessere le sue lodi. Spezialmente campeggiava in lui
l'illibatezza dei costumi, l'amore e la pratica della religione, la
soavità del tratto, e un'altezza di pensieri desiderosa e capace di
cose grandi. Differì egli la sua coronazione sino al dì 5 di novembre,
nè volle nel bollore della sua creazione dispensar grazie, dicendo che
troppo facile era allora il chiedere e concedere disavvedutamente cose
ingiuste, e doversi con maturità accordar le giuste. Siccome questo
pontefice era, sopra ogni altra cosa, animato forte per sostenere
l'immunità e i privilegii del clero, così poco stette a far valere
questo suo spirito contra di varii principi d'Italia. Ma il più
strepitoso impegno suo fu quello ch'ei prese contro la repubblica
di Venezia, sì per aver ella fatto carcerare un canonico di Vicenza
e l'abbate di Nervesa, come ancora per avere rinnovato un antico
decreto, che non potessero gli ecclesiastici acquistar da lì innanzi
beni stabili, con obbligo, se loro ne fosse lasciato per testamento,
di venderli, e finalmente per essere stata proibita la fabbrica di
nuove chiese senza licenza del senato. Per questo concepì gran fuoco il
pontefice, e nel dicembre spedì un breve al _doge Marino Grimani_ con
intimazione di scomunica, se non si rivocavano quelle leggi, e non si
consegnavano quei prigioni al nunzio Mattei. Presentò esso nunzio nel
dì di Natale dell'anno presente questo breve ai consiglieri, giacchè il
doge suddetto si trovava agli estremi di sua vita; e in fatti cessò di
vivere in quello stesso giorno. Fu poscia eletto doge in suo luogo nel
dì 10 di gennaio dell'anno seguente _Leonardo Donato_.
Battaglia fu in quest'anno fra le armate navali spagnuola ed olandese
verso Cales colla peggio della prima. In Fiandra, dove militavano il
principe di Avellino, Francesco Colonna principe di Palestrina, Andrea
Acquaviva principe di Caserta, Alessandro del Monte, con altri nobili
e soldati d'Italia, si aprì la campagna dai cattolici, e il marchese
_Ambrogio Spinola_ generale dell'armi andò a mettere l'assedio ad
Oldensee, e poscia a Linghen, ed amendue que' luoghi vennero alla sua
ubbidienza. Di là passato a Vactendonch, vi trovò gran resistenza,
e seguì anche una calda azione fra i soldati del conte Maurizio e
dello Spinola, in cui colto da una cannonata, restò ucciso il conte
Trivulzio Milanese, e prigione Niccolò Doria parente dello Spinola.
Contuttociò, a forza di mine e di sanguinosi assalti fu parimente
quella piazza ridotta alla necessità di rendersi con buoni patti per
la guarnigione. Impadronissi lo Spinola anche di Cracove, piccolo sì,
ma forte castello. All'incontro, in Ungheria andarono le cose alle
peggio. Con un esercito di cinquanta mila combattenti impresero i
Turchi l'assedio dell'insigne città di Strigonia. Continuò questo per
un mese, sostenendo vigorosamente i cristiani ogni sforzo de' nemici
a costo delle loro vite, essendone stati uccisi circa novecento dei
più valorosi. Ma accesosi il fuoco nelle case de' soldati per cagion
di alcune mine, che scoppiarono, si rallentò la loro difesa, nè altro
da lì innanzi si udì, che istanze al comandante di rendere la città.
Il perchè venne essa in potere dei nemici nel dì 3 d'ottobre, e ne
uscirono salvi circa mille vili difensori cristiani: perdita di gran
considerazione per l'imperadore e per la fede di Cristo. Era intanto
incoraggito esso Augusto a proseguir la guerra dagli ambasciatori
del re di Persia, le cui armi riportarono in questi tempi non lievi
vantaggi sopra i Turchi.
Anno di CRISTO MDCVI. Indizione IV.
PAOLO V papa 2.
RODOLFO II imperadore 31.
Andò in quest'anno maggiormente crescendo l'incendio suscitato contro
la veneta repubblica dal _pontefice Paolo_. Si studiò ben quel senato
di far rappresentare alla santità sua le ragioni militanti in favore
delle proprie leggi ed antiche consuetudini, con ispecialmente allegare
i gravissimi disordini che potrebbono avvenire e che avvengono allo
stato secolare, qualora si lasci agli ecclesiastici senza limite alcuno
la facoltà di acquistar gli stabili de' paesi. Si trovò sempre il
pontefice più saldo che mai nelle sue determinazioni, fiancheggiate
da lui con una folla di canoni. E perciocchè neppure dal canto loro
mostravano i Veneziani voglia di piegare alle minaccie di parole, il
pontefice, nel dì 17 d'aprile, volendo venire ai fatti, raunato il
concistoro, pubblicò un terribile monitorio, in cui dichiarava incorso
nelle scomuniche il doge col senato, e s'intimava l'interdetto a
Venezia e a tutto lo Stato della repubblica, se entro il termine di
ventiquattro giorni non si rivocavano i decreti ed atti fatti contro
l'immunità e libertà ecclesiastica, e non si consegnavano al nunzio
i prigioni, con tutte le altre pene che tengono dietro alle censure e
all'interdetto. A questi fulmini si erano già preparati i Veneziani;
e però al primo avviso spedirono tosto ordini rigorosi che niuno
de' suoi lasciasse affiggere quel monitorio, che se ne portassero le
copie ai pubblici rappresentanti, e che si continuassero come prima
i divini uffizii, sotto gravi pene, e pena infin della vita. Non vi
furono che i gesuiti, i teatini, e i cappuccini, i quali giudicassero
dover preponderare l'osservanza dei decreti del romano pontefice al
rispetto per altro da essi professato al principe secolare. Perciò
tutti si partirono dagli Stati della repubblica, e, a distinzione degli
altri, i gesuiti processionalmente si ritirarono. A riserva di alcuni
altri particolari, il resto delle università religiose e gli altri
ecclesiastici stettero costanti nell'ubbidienza agli ordini del senato;
nè i cappuccini del territorio bresciano e bergamasco vollero seguitar
l'esempio degli altri, e continuarono ad abitar ne' loro conventi.
Intanto si cominciò una guerra di penne, avendo trovato la repubblica
persone che sostennero l'operato da lei. Senza paragone maggior numero
ne trovò il pontefice che entrarono in arringo per difesa dell'autorità
di lui, e per accreditar le scomuniche e l'interdetto. Specialmente si
distinsero in questo combattimento i due celebri porporati _Baronio_ e
_Bellarmino_. Forse ancora in alcune di quelle scritture non comparve
il vero nome degli autori. Nè qui si fermò il corso di questo impegno.
Il pontefice, o perchè veramente pensasse a volere dar braccio all'armi
spirituali colle temporali, o perchè ne credesse bastante la sola
apparenza, cominciò a far leva di gente, ed ebbe dalla corte di Spagna
belle promesse d'aiuto. Perlochè i Veneziani si diedero anch'essi a
formare un considerabile armamento, che nell'anno seguente, per quanto
fu detto, arrivò a dodici mila fanti e quattro mila cavalli, oltre alle
cernide. Intanto i ministri del re Cattolico, del gran duca Ferdinando
e di altri principi, ma sopra gli altri quei del _re di Francia
Arrigo IV_, che professava una particolare amicizia al senato veneto,
si sbracciavano per trovar temperamento e fine a questo scandaloso
litigio, che potea turbar la pace d'Italia. Seguì poi solamente nel
seguente anno la concordia, siccome diremo.
Un insoffribil peso riuscì all'_Augusto Rodolfo_ e all'_arciduca
Mattias_ la guerra d'Ungheria, perchè non solamente erano essi in
discordia co' Turchi, ma ancora cogli stessi Ungheri e col Botschaio,
principe o pure usurpatore della Transilvania. Perciò volentieri si
sentì Rodolfo parlare di pace; e questa in fatti fu conchiusa cogli
Ungheri e col Transilvano nel dì 14 di settembre. Ottenne con essa
il Botschaio di ritenere la signoria della Transilvania per sè e per
li suoi discendenti, salva nondimeno la dipendenza dell'alto dominio
spettante alla corona d'Ungheria. Venne poi costui a morte per veleno
nel fine dell'anno presente, senza figliuoli, e dovea quell'insigne
principato ricadere all'imperadore come re d'Ungheria; ma quei popoli
presero per loro principe Sigismondo Ragozzi calvinista di credenza.
Nè si può dire quanto gran pregiudizio risultasse alla religion
cattolica nel regno d'Ungheria e nella Transilvania da tante guerre
passate, perchè colà s'introdussero a migliaia famiglie di luterani,
calvinisti, Sociniani d'altre eresie, che vi si son poscia propagate,
con ottener anche la libertà dei riti loro dagli Augusti, forzati a far
quello che la lor pietà sommamente detestava. Trattossi parimente di
pace co' Turchi, i quali, siccome snervati dalla guerra co' Persiani
e da una fiera ribellione in Soria, vi acconsentirono. Non già pace,
ma tregua di venti anni si stabilì fra l'imperadore e il gran signore
Acmet, ritenendo cadauna delle parti ciò che restava in suo potere.
Quanto alla Fiandra, il prode _Ambrogio Spinola_, che nel verno del
presente anno era stato alla corte di Madrid per ottener soccorso di
danaro, tornato a Brusselles, non lasciò di aumentare il patrimonio
della sua gloria coll'espugnazione ed acquisto della fortezza di
Groll, che gli si arrendè nel dì 14 d'agosto. Rivolse di poi i passi
e le speranze all'altra di Rembergh, situata sulla riva del Reno,
ancorchè alla difesa vi si trovassero quattro mila fanti e più di
trecento cavalli con buon treno di artiglierie e di munizioni. Con
sommo vigore fu impreso quell'assedio, in cui specialmente faticarono
gl'Italiani. Fra gli altri si distinsero nelle fazioni il cavalier
Melzi Milanese, luogotenente della cavalleria, il marchese Sigismondo
d'Este, il marchese Ferrante e il cavalier Bentivoglio, quegli nipote e
questi fratello del _cardinal Bentivoglio_. Per quanto si studiasse il
conte Maurizio d'accostarsi coll'armi sue per soccorrere la piazza, o
sloggiar gli assedianti, sempre si trovò troppo dura l'impresa; e però
si ridusse il presidio di Rembergh a capitolare la resa. Scemossi poi
l'esercito cattolico per l'ammutinamento di un grosso corpo di soldati,
gente in quelle parti avvezza a simili scene, per lo più a cagion
delle paghe ritardate: lo che incoraggì il conte Maurizio a mettere
l'assedio intorno a Groll. Sarebbe ricaduta in sua mano quella piazza,
se l'animoso Spinola, colle milizie che potè radunare, non fosse
accorso con risoluzione di menar le mani; al qual fine avea già messe
in ordinanza le schiere. A questa vista il Nassau restò pensieroso,
poi, conoscendo che sì pericoloso giuoco era meglio il risparmiarlo,
bravamente si ritirò, lasciando libera la piazza: con che anche lo
Spinola ridusse ai quartieri i suoi. Ebbe fine in quest'anno la celebre
controversia degli aiuti della divina grazia e del libero arbitrio,
agitata in Roma con tante sessioni fra i domenicani e i gesuiti,
rimanendo indecisa, con libertà alle parti di sostenere le loro diverse
sentenze nelle scuole, senza condannar quelle degli avversarii.
Anno di CRISTO MDCVII. Indizione V.
PAOLO V papa 3.
RODOLFO II imperadore 32.
Sul principio di quest'anno non altro si mirava in Italia che
disposizioni del papa di prorompere in una più aperta rottura colla
repubblica di Venezia, giacchè questa si mostrava bensì sempre
costante nell'ossequio della fede e Chiesa cattolica, ma inflessibile
ne' suoi decreti, e sprezzante delle censure adoperate dal romano
pontefice. Fece dunque _papa Paolo_ massa grande d'armati, con
dichiararne generale Francesco Borghese suo fratello, e Mario Farnese
suo luogotenente. Spedì a Genova per arrolare quattro mila Corsi, e
agli Svizzeri per avere tre mila fanti di quella nazione. Accrebbe i
presidii e le fortificazioni di Ferrara e delle città marittime. In
somma avreste detto che Roma pensava daddovero a far delle prodezze.
E tanto più corse voce, perchè _Filippo III re_ di Spagna promise
d'entrare in questo ballo per sostenere l'autorità pontificia, e
andarono anche ordini di far gente al _conte di Fuentes_ governator
di Milano, ministro, che nulla più sospirava che il lucroso mestiere
di comandare a un'armata. Ma non dormivano i Veneziani; perchè,
oltre all'armamento da lor fatto in Italia, mossero Francesco conte
di Vaudemonte figlio del duca di Lorena, lor generale, a far leva
di molte migliaia di soldati alemanni. Altrettanto tentarono coi
Grigioni lor collegati e cogli Svizzeri, avendo colà inviate a questo
fine grosse rimesse di danaro. Allestirono medesimamente gran copia
di navi in mare, nel Po e nel lago di Garda, facendo intanto sapere
a tutti i principi d'essere pronti a sacrificar ogni cosa per nulla
cedere in questa controversia, persuasi che la ragione e la giustizia
fosse dal canto loro. Ma non pertanto non si lasciava di trattar di
pace, gareggiando in questo nobil uffizio per ottener la gloria del
primato i re di Francia e di Spagna, e i duchi di Savoia e di Firenze.
Ma _Arrigo IV re_ Cristianissimo, che andava innanzi agli altri
nell'amore verso il senato veneto, quegli fu che più ardentemente si
maneggiò per questo affare. Spedì egli in Italia _Francesco cardinale
di Gioiosa_, che verso la metà di febbraio comparve a Venezia. Trattò
il cardinale lungamente con quel senato, e, ben capita la lor mente,
si mosse dipoi alla volta di Roma, dove pervenne nel dì 22 di marzo,
e cominciò a far gustare il bene della concordia e i mali grandi della
discordia, rappresentando che se gli Spagnuoli, i quali non cessavano
di contrariar la buona intenzione del re Cristianissimo, fossero venuti
all'armi, non avrebbe potuto il suo re dispensarsi dall'opporsi ai loro
disegni. Che il re d'Inghilterra prometteva aiuti a Venezia, ed avrebbe
dichiarata la guerra alla Spagna. Che non erano più questi i secoli
barbarici, ed essersi coi tempi mutate anche le massime, e sminuite di
troppo le forze della camera apostolica. Ora il papa, che finalmente
s'era accorto qual poco capitale si potesse far dei sussidii del re
Cattolico, già titubante per timore di tirarsi addosso delle disgustose
brighe, e conosceva di non poter reggere solo a sì grave impegno;
concertate col Gioiosa le maniere di salvare il suo decoro, gli diede
facoltà, con istruzione sottoscritta di suo pugno, di conchiudere
l'accordo e di levar via l'interdetto.
Allegro il cardinale con prendere le poste arrivò di nuovo a Venezia
nel dì 9 di aprile, ed espose nel giorno seguente le commessioni sue
e le condizioni della concordia. A questa si trovò un grande intoppo,
perchè una delle maggiori premure del pontefice era che i gesuiti
fossero, come prima, rimessi nei primieri loro collegii in Venezia
e nelle altre città della repubblica: al che il senato si scoprì
sommamente renitente per varii motivi. Fece quanto potè il Gioiosa per
superar questa loro avversione, e vi si adoperò anche don Francesco
di Castro ambasciatore del re Cattolico, ma senza che alcuno potesse
vincere quella pugna. Non per questo cessò di farsi l'accordo. Pertanto
nella mattina del dì 21 di aprile furono consegnati all'ambasciatore di
Francia l'abbate di Nervesa e il canonico Vicentino, già prigioni, dal
segretario della repubblica, protestante di darli al re Cristianissimo
in segno della lor gratitudine ed ossequio senza pregiudizio della
autorità della repubblica. Questi poi vennero dati dal Gioiosa
al commessario del papa, mandato a tale effetto. Eseguito questo
preliminare, entrò il cardinale nel collegio, dove era il doge e i
savii, e quivi a porte chiuse fu rivocato l'interdetto colle censure,
e similmente rivocato dal senato ogni atto fatto in contrario. Furono
anche rimessi in grazia, a riserva de' gesuiti, gli altri religiosi, e
decretata la spedizion di un ambasciatore al pontefice, per rendergli
grazie, e per confermare alla santità sua la filial riverenza della
repubblica. Come passasse nel chiuso collegio la riconciliazione
suddetta, non trovo chi me ne possa accertare. Si dee tenere per certo,
che a Roma fu scritto, come il senato avea ricevuta l'assoluzione
dalle censure; ma i Veneziani l'hanno sempre negato. Resta nondimeno
una particolarità indubitata: cioè che quella repubblica continuò
dipoi, e tuttavia continua, a mantenere i suoi decreti intorno
ai beni stabili lasciati agli ecclesiastici, e alla fondazione di
nuove chiese, siccome anche l'autorità sua consueta di giudicare gli
ecclesiastici delinquenti. Fu data speranza al pontefice che quel
senato rallenterebbe fra qualche tempo il suo rigore contro i religiosi
della compagnia di Gesù; ma non seguì il ritorno loro in Venezia se non
l'anno 1657, siccome diremo.
Troppo oramai rincresceva all'_arciduca Alberto_ il peso della guerra
colle Provincie Unite; anzi non ne poteva di più, perchè trovava
come seccate le fontane dell'oro di Spagna, senza le quali a lui era
impossibile di sostentarsi: laddove gli Olandesi sempre più venivano
rinvigoriti dal loro commercio per mare, che ogni giorno andava
crescendo, sino a mettere flotte in mare, le quali non temevano
delle spagnuole, siccome in questo anno ancora avvenne, avendo nel
dì 24 d'aprile verso il promontorio di San Vincenzo essi Olandesi
data una rotta all'armata navale di Spagna, colla morte di circa
due mila persone dalla parte dei vinti e colla perdita di alquante
galee. Il perchè l'arciduca, ottenutane la permissione dalla corte
di Madrid, fece muovere parola di pace colle Provincie suddette. Non
negarono orecchio a qualche pratica di accomodamento gli Olandesi, con
richiedere nondimeno per preliminare che il re di Spagna e l'arciduca
ch'egli, tuttochè provveduto di buon esercito, non si attentò mai di
mettersi a sì pericolosa impresa. Perciò, affine di fare una potente
diversione, elesse di passare all'assedio dell'Esclusa, piazza di mare
di tal conseguenza, che pareggiava, se non anche vantaggiava, Ostenda.
Colà si portò egli sul fine del mese di aprile, e, non ostante la
gran copia dei canali ed acque stagnanti che circondano quel luogo,
vi si accampò e trincierò con sicurezza d'impossessarsene, se non
coll'armi sue, colla fame degli assediati, che scarseggiavano non
men di munizioni da guerra che di viveri. Tentò il Velasco, generale
della cavalleria dell'arciduca, d'introdurvi soccorso; ma, sconfitto,
ebbe fatica a salvarsi con que' pochi che non restarono ivi uccisi o
prigioni. Venne il principio d'agosto; e perchè s'intese agonizzante
quella piazza, _Ambrosio Spinola_, benchè suo malgrado fu spinto
dall'arciduca a tentar pure miglior fortuna per soccorrerla; ma
anch'egli trovò insuperabili impedimenti, sicchè con perdita d'alcune
centinaia de' suoi fu forzato a retrocedere. Perciò non potendo più
reggere alla fame quel presidio di quasi quattro mila soldati, capitolò
con patti onorevoli la resa. Uscirono essi portando piuttosto l'effigie
di scheletri e cadaveri che di uomini viventi. Questa rilevante
perdita tal rabbia cagionò, e così accrebbe lo spirito del valore
nei cattolici assediatori di Ostenda, che a gara Italiani, Spagnuoli,
Valloni e Tedeschi, superato il fosso, presero anche due baluardi; e
benchè dietro ad essi trovassero nuovi tagli e ripari, erano pronti a
far le ultime pruove; quando gli assediati esposero bandiera bianca,
ed ottennero nel dì 21 di settembre onesta capitolazione. Se ne andò
libera quella guarnigione di quattro mila soldati tutti sani e vegeti,
perchè sempre era ivi stata abbondanza di viveri per li frequenti
soccorsi. Vi si trovò infatti tanta copia d'artiglierie, vettovaglie, e
munizioni, che fu una maraviglia. Così terminò l'assedio di Ostenda con
somma gloria del marchese Spinola, e gaudio inesplicabile dell'arciduca
Alberto: assedio memorando anche ai secoli venturi, sì per la sua lunga
durata di trentanove mesi, che per l'incredibil varietà dei lavori,
macchine, mine ed assalti, e, quel che è più, per la strage di più
di cento mila persone, che (al dir della fama di quei tempi) costò
l'offesa e difesa di sì forte piazza. Altri dicono di più, perchè
entro Ostenda, o per le battaglie o per la peste, si tiene che ve ne
perissero cinquanta mila. Ciò fatto, cercarono quelle armate riposo.
Gran differenza di guerreggiare da cento quarantadue anni in qua!
Tre anni e un quarto vi vollero allora per espugnare Ostenda; e otto
giorni o poco più ve ne hanno impiegato i Franzesi dei nostri tempi per
impadronirsene nell'anno 1745. Ma i difensori di oggidì non sono stati
come quei d'allora.
Mentre bolliva sì forte quella guerra, trattarono del pari di pace
_Filippo III re_ di Spagna e l'_arciduca Alberto_ con _Jacopo re_ della
Gran Bretagna, principe che, avendo già provate contraddizioni alla
sua grandezza, ed anche congiure, bramoso di assodarsi la corona in
capo, vi diede facilmente la mano. Fra le condizioni di questa nuova
amistà vi fu che il re inglese non invierebbe in avvenire soccorsi
agli Olandesi. Se poi l'eseguisse, nol so io dire. In Ungheria male
passarono gli affari dell'imperadore, perchè sebbene avendo i Turchi
stretta di assedio la città di Strigonia, furono con loro gran perdita
cacciati di là; pure i cristiani abbandonarono Pest per viltà del
loro comandante, il quale, appena udito che i Turchi fabbricavano
di sotto da Buda un ponte per passare coll'esercito loro, preso da
panico terrore, se ne ritirò colla sua gente, dopo avere attaccato
il fuoco a molte parti di quella città. In questi tempi _Ferdinando
gran duca_ di Toscana attendeva a popolare l'insigne terra o città di
Livorno. Perchè la fece divenire anche un asilo per le genti di mal
affare, non durò fatica ad accrescerne la popolazione. V'introdusse
ancora gran copia di Ebrei; ma avendo le sue galee fatto dipoi nel
1607 un disegno sopra Negroponte, si trovò precorso l'avviso colà di
tale spedizione, e ne fu data la colpa ad essi Giudei, creduti spioni
del Turco, per l'odio che professavano al cristianesimo. Accidente
occorse nell'anno presente a Roma, che sopra modo turbò il pontefice,
e creduto fu che contribuisse non poco ad accelerare da lì a due o
tre mesi la morte sua. Scappando dai birri un certo uomo, cercato
da essi non per alcun delitto, ma solamente per debito civile, si
rifugiò nel palazzo del _cardinale Odoardo Farnese_. Continuando gli
esecutori la lor caccia, vi entrarono anch'essi; ma trovatisi quivi
alcuni gentiluomini cortigiani del cardinale, fecero testa, ed avendo
maltrattati con parole i birri, diedero campo all'uomo di fuggirsene
per la porta di dietro. A tale avviso montò forte in collera il papa,
e ordinò che il governatore di Roma procedesse con tutto rigore contro
di que' gentiluomini, fermamente risoluto di volerli in mano, e di
farne anche aspro risentimento col cardinale. In difesa di questo
porporato accorsero non solamente molti baroni romani, ma lo stesso
ambasciatore di Spagna, e poco vi mancò che non ne seguisse qualche
strepitoso tumulto. Ma il saggio cardinale, per ovviare a maggiori
inconvenienti, giudicò meglio di ritirarsi fuor di Roma, con sì forte
accompagnamento nondimeno de' suoi parziali, e di nobili e di popolo,
che non paventò violenza alcuna in contrario. Del che maggiormente
concepì sdegno e si chiamò offeso il papa. Ma appena giunta a _Ranuccio
duca_ di Parma, marito della nipote del papa, e fratello del porporato,
la nuova di questo sconcerto, si portò egli per le poste a Roma, e
presentatosi al papa, adoperò sì buone maniere, assistito sempre dal
favore del suddetto ambasciatore del re Cattolico, che il placò. Non
piacque dipoi al pontefice, che tornando esso duca da monte Cavallo,
il popolo l'accompagnasse fino al suo palazzo, gridando: _Viva la casa
Farnese_. Seguì poscia accomodamento; ma di esso e del perdono dato
ai delinquenti niuno si fidò, di maniera che il cardinale, il duca
Gaetano ed altri principali di Roma stettero da lì innanzi alla larga,
aspettando maggior sicurezza dalla morte del papa, creduta vicina, e,
secondo il solito, sospirata da molti. Fu cagione questo imbroglio che
il pontefice, senza far caso dell'aggravio della camera, assoldasse e
chiamasse a Roma secento Corsi e ducento archibugieri a cavallo, che
facessero la guardia al palazzo pontificio, e ad altri luoghi di quella
gran città. Furono in quest'anno rimessi in varie città della Francia i
Gesuiti dal re _Arrigo_, che sempre più facea conoscere l'attaccamento
suo alla religione cattolica.
Anno di CRISTO MDCV. Indizione III.
LEONE XI papa 1.
PAOLO V papa 1.
RODOLFO II imperadore 30.
In occasione di un libro pubblicato negli anni addietro dal padre
Molina della compagnia di Gesù, in cui si trattava di concordare col
libero arbitrio dell'uomo la necessità della divina grazia, era insorta
in Ispagna una fierissima guerra di penne fra i Domenicani e i Gesuiti.
Al tribunal primario della fede, cioè a quello del romano pontefice,
fu portata questa sempre scabrosissima controversia, e deputata una
congregazion di cardinali e di dottissimi teologi, assistendovi in
persona lo stesso pontefice. Scelti i più valorosi campioni da amendue
le parti, gran tempo si arringò e disputò; ed allorchè parea che il
_pontefice Clemente_, inclinando alla parte dei domenicani, fosse per
venire alla definizion della lite, gli fu forza di rimetterla indecisa
al suo successore. Imperocchè, essendosi infievolita non solamente
la sua sanità, ma anche la sua testa, di modo che non battea più a
segno, nè egli era più atto agli affari, fu poi preso nel dì 10 di
febbraio più aspramente che mai dalla podagra, la quale da gran tempo
lo affliggeva, e crescendo ogni dì più il malore, finalmente nel dì 3
di marzo passò il santo padre a miglior vita, lasciando dopo di sè un
gran nome non meno pel suo zelo nel pastorale impiego che per la sua
severità ed attenzione al governo civile. Lasciò ancora in grande auge,
e con illustri parentele, e con gradi lucrosi, e con fabbriche sontuose
i suoi nipoti e pronipoti, tre dei quali fregiati della sacra porpora.
Ma parve che Dio, i cui giudizii son troppo occulti, non volesse
lasciar prendere le radici alla sua schiatta; perciocchè, siccome
scrisse con esclamazione e maraviglia il cardinale Bentivoglio, da lì
ad alquanti anni: _Morì papa Clemente, morì il cardinale Aldobrandino_
(dopo aver provato sotto Paolo V de' disgustosi contrattempi),
_son morti i cinque nipoti che aveano due altri cardinali fra loro;
mancarono tutti i maschi di quella casa, e mancò finalmente con essi
ogni successione, ed insieme ogni grandezza del sangue lor proprio_.
Entrati poscia i cardinali in conclave nel dì 14 di marzo, fu per più
giorni in predicamento e vicinanza al triregno il dignissimo _Cardinal
Baronio_. Ma in fine nel primo dì di aprile concorsero i voti del sacro
collegio nel _cardinale Alessandro de Medici_ Fiorentino, vecchio
di settanta anni, personaggio dotato di amabil gravità e prudenza,
e pieno di sante intenzioni, che assunse il nome di Leone XI. Creato
papa, senza dimora liberò le provincie da molte gravezze loro imposte
da Clemente VIII. E perchè erano assai conosciute le nobili sue
prerogative, straordinario fu il giubilo del popolo romano per la
di lui esaltazione, universali le speranze di goder sotto di lui un
felicissimo reggimento. Ma appena coronato nel dì 11 del suddetto mese
nella basilica Lateranense, cadde infermo, e nel dì 27 seguente chiuse
gli occhi alle umane grandezze, avendo goduto per soli ventisei giorni
il pontificato. Durante la sua malattia, benchè importunato da molti a
dare il suo cappello ad un suo pronipote, che per altro ne era degno,
non vi si seppe indurre, nè più volle vedere il suo confessore stesso,
che perorò per lui. Il cardinal di Perrona e il Doglioni scrivono che
fu sospettata la sua morte di veleno per una rosa a lui data nella
basilica Lateranense; ma, sparato il suo cadavero, si conobbe mancato
di morte naturale.
Raunatosi dunque di nuovo il sacro collegio, dopo gran dibattimento,
venuta la sera del dì 16 di maggio, cadde l'elezione nella persona
del _cardinal Camillo Borghese_, di origine Sanese, ma nato in Roma
nell'anno 1552, e promosso alla sacra porpora cardinalizia nel 1596
da _Clemente VIII_. Prese egli il nome di _Paolo V_. Perchè l'età
sua non era che di anni cinquantatrè, o pure cinquantaquattro,
l'esaltazione sua fu accolta con istupore, ma molto più con allegrezza,
e spezialmente del popolo romano, che non crede mai sì ben collocata
la tiara pontificia, che quando la vede in capo ai suoi cittadini.
Confessano tutti gli scrittori aver egli portato seco a sì eccelsa
dignità un complesso di tali virtù e prerogative sì di animo che
d'ingegno, che luogo non restò alla giusta censura, nè bisogno di
adulazione per tessere le sue lodi. Spezialmente campeggiava in lui
l'illibatezza dei costumi, l'amore e la pratica della religione, la
soavità del tratto, e un'altezza di pensieri desiderosa e capace di
cose grandi. Differì egli la sua coronazione sino al dì 5 di novembre,
nè volle nel bollore della sua creazione dispensar grazie, dicendo che
troppo facile era allora il chiedere e concedere disavvedutamente cose
ingiuste, e doversi con maturità accordar le giuste. Siccome questo
pontefice era, sopra ogni altra cosa, animato forte per sostenere
l'immunità e i privilegii del clero, così poco stette a far valere
questo suo spirito contra di varii principi d'Italia. Ma il più
strepitoso impegno suo fu quello ch'ei prese contro la repubblica
di Venezia, sì per aver ella fatto carcerare un canonico di Vicenza
e l'abbate di Nervesa, come ancora per avere rinnovato un antico
decreto, che non potessero gli ecclesiastici acquistar da lì innanzi
beni stabili, con obbligo, se loro ne fosse lasciato per testamento,
di venderli, e finalmente per essere stata proibita la fabbrica di
nuove chiese senza licenza del senato. Per questo concepì gran fuoco il
pontefice, e nel dicembre spedì un breve al _doge Marino Grimani_ con
intimazione di scomunica, se non si rivocavano quelle leggi, e non si
consegnavano quei prigioni al nunzio Mattei. Presentò esso nunzio nel
dì di Natale dell'anno presente questo breve ai consiglieri, giacchè il
doge suddetto si trovava agli estremi di sua vita; e in fatti cessò di
vivere in quello stesso giorno. Fu poscia eletto doge in suo luogo nel
dì 10 di gennaio dell'anno seguente _Leonardo Donato_.
Battaglia fu in quest'anno fra le armate navali spagnuola ed olandese
verso Cales colla peggio della prima. In Fiandra, dove militavano il
principe di Avellino, Francesco Colonna principe di Palestrina, Andrea
Acquaviva principe di Caserta, Alessandro del Monte, con altri nobili
e soldati d'Italia, si aprì la campagna dai cattolici, e il marchese
_Ambrogio Spinola_ generale dell'armi andò a mettere l'assedio ad
Oldensee, e poscia a Linghen, ed amendue que' luoghi vennero alla sua
ubbidienza. Di là passato a Vactendonch, vi trovò gran resistenza,
e seguì anche una calda azione fra i soldati del conte Maurizio e
dello Spinola, in cui colto da una cannonata, restò ucciso il conte
Trivulzio Milanese, e prigione Niccolò Doria parente dello Spinola.
Contuttociò, a forza di mine e di sanguinosi assalti fu parimente
quella piazza ridotta alla necessità di rendersi con buoni patti per
la guarnigione. Impadronissi lo Spinola anche di Cracove, piccolo sì,
ma forte castello. All'incontro, in Ungheria andarono le cose alle
peggio. Con un esercito di cinquanta mila combattenti impresero i
Turchi l'assedio dell'insigne città di Strigonia. Continuò questo per
un mese, sostenendo vigorosamente i cristiani ogni sforzo de' nemici
a costo delle loro vite, essendone stati uccisi circa novecento dei
più valorosi. Ma accesosi il fuoco nelle case de' soldati per cagion
di alcune mine, che scoppiarono, si rallentò la loro difesa, nè altro
da lì innanzi si udì, che istanze al comandante di rendere la città.
Il perchè venne essa in potere dei nemici nel dì 3 d'ottobre, e ne
uscirono salvi circa mille vili difensori cristiani: perdita di gran
considerazione per l'imperadore e per la fede di Cristo. Era intanto
incoraggito esso Augusto a proseguir la guerra dagli ambasciatori
del re di Persia, le cui armi riportarono in questi tempi non lievi
vantaggi sopra i Turchi.
Anno di CRISTO MDCVI. Indizione IV.
PAOLO V papa 2.
RODOLFO II imperadore 31.
Andò in quest'anno maggiormente crescendo l'incendio suscitato contro
la veneta repubblica dal _pontefice Paolo_. Si studiò ben quel senato
di far rappresentare alla santità sua le ragioni militanti in favore
delle proprie leggi ed antiche consuetudini, con ispecialmente allegare
i gravissimi disordini che potrebbono avvenire e che avvengono allo
stato secolare, qualora si lasci agli ecclesiastici senza limite alcuno
la facoltà di acquistar gli stabili de' paesi. Si trovò sempre il
pontefice più saldo che mai nelle sue determinazioni, fiancheggiate
da lui con una folla di canoni. E perciocchè neppure dal canto loro
mostravano i Veneziani voglia di piegare alle minaccie di parole, il
pontefice, nel dì 17 d'aprile, volendo venire ai fatti, raunato il
concistoro, pubblicò un terribile monitorio, in cui dichiarava incorso
nelle scomuniche il doge col senato, e s'intimava l'interdetto a
Venezia e a tutto lo Stato della repubblica, se entro il termine di
ventiquattro giorni non si rivocavano i decreti ed atti fatti contro
l'immunità e libertà ecclesiastica, e non si consegnavano al nunzio
i prigioni, con tutte le altre pene che tengono dietro alle censure e
all'interdetto. A questi fulmini si erano già preparati i Veneziani;
e però al primo avviso spedirono tosto ordini rigorosi che niuno
de' suoi lasciasse affiggere quel monitorio, che se ne portassero le
copie ai pubblici rappresentanti, e che si continuassero come prima
i divini uffizii, sotto gravi pene, e pena infin della vita. Non vi
furono che i gesuiti, i teatini, e i cappuccini, i quali giudicassero
dover preponderare l'osservanza dei decreti del romano pontefice al
rispetto per altro da essi professato al principe secolare. Perciò
tutti si partirono dagli Stati della repubblica, e, a distinzione degli
altri, i gesuiti processionalmente si ritirarono. A riserva di alcuni
altri particolari, il resto delle università religiose e gli altri
ecclesiastici stettero costanti nell'ubbidienza agli ordini del senato;
nè i cappuccini del territorio bresciano e bergamasco vollero seguitar
l'esempio degli altri, e continuarono ad abitar ne' loro conventi.
Intanto si cominciò una guerra di penne, avendo trovato la repubblica
persone che sostennero l'operato da lei. Senza paragone maggior numero
ne trovò il pontefice che entrarono in arringo per difesa dell'autorità
di lui, e per accreditar le scomuniche e l'interdetto. Specialmente si
distinsero in questo combattimento i due celebri porporati _Baronio_ e
_Bellarmino_. Forse ancora in alcune di quelle scritture non comparve
il vero nome degli autori. Nè qui si fermò il corso di questo impegno.
Il pontefice, o perchè veramente pensasse a volere dar braccio all'armi
spirituali colle temporali, o perchè ne credesse bastante la sola
apparenza, cominciò a far leva di gente, ed ebbe dalla corte di Spagna
belle promesse d'aiuto. Perlochè i Veneziani si diedero anch'essi a
formare un considerabile armamento, che nell'anno seguente, per quanto
fu detto, arrivò a dodici mila fanti e quattro mila cavalli, oltre alle
cernide. Intanto i ministri del re Cattolico, del gran duca Ferdinando
e di altri principi, ma sopra gli altri quei del _re di Francia
Arrigo IV_, che professava una particolare amicizia al senato veneto,
si sbracciavano per trovar temperamento e fine a questo scandaloso
litigio, che potea turbar la pace d'Italia. Seguì poi solamente nel
seguente anno la concordia, siccome diremo.
Un insoffribil peso riuscì all'_Augusto Rodolfo_ e all'_arciduca
Mattias_ la guerra d'Ungheria, perchè non solamente erano essi in
discordia co' Turchi, ma ancora cogli stessi Ungheri e col Botschaio,
principe o pure usurpatore della Transilvania. Perciò volentieri si
sentì Rodolfo parlare di pace; e questa in fatti fu conchiusa cogli
Ungheri e col Transilvano nel dì 14 di settembre. Ottenne con essa
il Botschaio di ritenere la signoria della Transilvania per sè e per
li suoi discendenti, salva nondimeno la dipendenza dell'alto dominio
spettante alla corona d'Ungheria. Venne poi costui a morte per veleno
nel fine dell'anno presente, senza figliuoli, e dovea quell'insigne
principato ricadere all'imperadore come re d'Ungheria; ma quei popoli
presero per loro principe Sigismondo Ragozzi calvinista di credenza.
Nè si può dire quanto gran pregiudizio risultasse alla religion
cattolica nel regno d'Ungheria e nella Transilvania da tante guerre
passate, perchè colà s'introdussero a migliaia famiglie di luterani,
calvinisti, Sociniani d'altre eresie, che vi si son poscia propagate,
con ottener anche la libertà dei riti loro dagli Augusti, forzati a far
quello che la lor pietà sommamente detestava. Trattossi parimente di
pace co' Turchi, i quali, siccome snervati dalla guerra co' Persiani
e da una fiera ribellione in Soria, vi acconsentirono. Non già pace,
ma tregua di venti anni si stabilì fra l'imperadore e il gran signore
Acmet, ritenendo cadauna delle parti ciò che restava in suo potere.
Quanto alla Fiandra, il prode _Ambrogio Spinola_, che nel verno del
presente anno era stato alla corte di Madrid per ottener soccorso di
danaro, tornato a Brusselles, non lasciò di aumentare il patrimonio
della sua gloria coll'espugnazione ed acquisto della fortezza di
Groll, che gli si arrendè nel dì 14 d'agosto. Rivolse di poi i passi
e le speranze all'altra di Rembergh, situata sulla riva del Reno,
ancorchè alla difesa vi si trovassero quattro mila fanti e più di
trecento cavalli con buon treno di artiglierie e di munizioni. Con
sommo vigore fu impreso quell'assedio, in cui specialmente faticarono
gl'Italiani. Fra gli altri si distinsero nelle fazioni il cavalier
Melzi Milanese, luogotenente della cavalleria, il marchese Sigismondo
d'Este, il marchese Ferrante e il cavalier Bentivoglio, quegli nipote e
questi fratello del _cardinal Bentivoglio_. Per quanto si studiasse il
conte Maurizio d'accostarsi coll'armi sue per soccorrere la piazza, o
sloggiar gli assedianti, sempre si trovò troppo dura l'impresa; e però
si ridusse il presidio di Rembergh a capitolare la resa. Scemossi poi
l'esercito cattolico per l'ammutinamento di un grosso corpo di soldati,
gente in quelle parti avvezza a simili scene, per lo più a cagion
delle paghe ritardate: lo che incoraggì il conte Maurizio a mettere
l'assedio intorno a Groll. Sarebbe ricaduta in sua mano quella piazza,
se l'animoso Spinola, colle milizie che potè radunare, non fosse
accorso con risoluzione di menar le mani; al qual fine avea già messe
in ordinanza le schiere. A questa vista il Nassau restò pensieroso,
poi, conoscendo che sì pericoloso giuoco era meglio il risparmiarlo,
bravamente si ritirò, lasciando libera la piazza: con che anche lo
Spinola ridusse ai quartieri i suoi. Ebbe fine in quest'anno la celebre
controversia degli aiuti della divina grazia e del libero arbitrio,
agitata in Roma con tante sessioni fra i domenicani e i gesuiti,
rimanendo indecisa, con libertà alle parti di sostenere le loro diverse
sentenze nelle scuole, senza condannar quelle degli avversarii.
Anno di CRISTO MDCVII. Indizione V.
PAOLO V papa 3.
RODOLFO II imperadore 32.
Sul principio di quest'anno non altro si mirava in Italia che
disposizioni del papa di prorompere in una più aperta rottura colla
repubblica di Venezia, giacchè questa si mostrava bensì sempre
costante nell'ossequio della fede e Chiesa cattolica, ma inflessibile
ne' suoi decreti, e sprezzante delle censure adoperate dal romano
pontefice. Fece dunque _papa Paolo_ massa grande d'armati, con
dichiararne generale Francesco Borghese suo fratello, e Mario Farnese
suo luogotenente. Spedì a Genova per arrolare quattro mila Corsi, e
agli Svizzeri per avere tre mila fanti di quella nazione. Accrebbe i
presidii e le fortificazioni di Ferrara e delle città marittime. In
somma avreste detto che Roma pensava daddovero a far delle prodezze.
E tanto più corse voce, perchè _Filippo III re_ di Spagna promise
d'entrare in questo ballo per sostenere l'autorità pontificia, e
andarono anche ordini di far gente al _conte di Fuentes_ governator
di Milano, ministro, che nulla più sospirava che il lucroso mestiere
di comandare a un'armata. Ma non dormivano i Veneziani; perchè,
oltre all'armamento da lor fatto in Italia, mossero Francesco conte
di Vaudemonte figlio del duca di Lorena, lor generale, a far leva
di molte migliaia di soldati alemanni. Altrettanto tentarono coi
Grigioni lor collegati e cogli Svizzeri, avendo colà inviate a questo
fine grosse rimesse di danaro. Allestirono medesimamente gran copia
di navi in mare, nel Po e nel lago di Garda, facendo intanto sapere
a tutti i principi d'essere pronti a sacrificar ogni cosa per nulla
cedere in questa controversia, persuasi che la ragione e la giustizia
fosse dal canto loro. Ma non pertanto non si lasciava di trattar di
pace, gareggiando in questo nobil uffizio per ottener la gloria del
primato i re di Francia e di Spagna, e i duchi di Savoia e di Firenze.
Ma _Arrigo IV re_ Cristianissimo, che andava innanzi agli altri
nell'amore verso il senato veneto, quegli fu che più ardentemente si
maneggiò per questo affare. Spedì egli in Italia _Francesco cardinale
di Gioiosa_, che verso la metà di febbraio comparve a Venezia. Trattò
il cardinale lungamente con quel senato, e, ben capita la lor mente,
si mosse dipoi alla volta di Roma, dove pervenne nel dì 22 di marzo,
e cominciò a far gustare il bene della concordia e i mali grandi della
discordia, rappresentando che se gli Spagnuoli, i quali non cessavano
di contrariar la buona intenzione del re Cristianissimo, fossero venuti
all'armi, non avrebbe potuto il suo re dispensarsi dall'opporsi ai loro
disegni. Che il re d'Inghilterra prometteva aiuti a Venezia, ed avrebbe
dichiarata la guerra alla Spagna. Che non erano più questi i secoli
barbarici, ed essersi coi tempi mutate anche le massime, e sminuite di
troppo le forze della camera apostolica. Ora il papa, che finalmente
s'era accorto qual poco capitale si potesse far dei sussidii del re
Cattolico, già titubante per timore di tirarsi addosso delle disgustose
brighe, e conosceva di non poter reggere solo a sì grave impegno;
concertate col Gioiosa le maniere di salvare il suo decoro, gli diede
facoltà, con istruzione sottoscritta di suo pugno, di conchiudere
l'accordo e di levar via l'interdetto.
Allegro il cardinale con prendere le poste arrivò di nuovo a Venezia
nel dì 9 di aprile, ed espose nel giorno seguente le commessioni sue
e le condizioni della concordia. A questa si trovò un grande intoppo,
perchè una delle maggiori premure del pontefice era che i gesuiti
fossero, come prima, rimessi nei primieri loro collegii in Venezia
e nelle altre città della repubblica: al che il senato si scoprì
sommamente renitente per varii motivi. Fece quanto potè il Gioiosa per
superar questa loro avversione, e vi si adoperò anche don Francesco
di Castro ambasciatore del re Cattolico, ma senza che alcuno potesse
vincere quella pugna. Non per questo cessò di farsi l'accordo. Pertanto
nella mattina del dì 21 di aprile furono consegnati all'ambasciatore di
Francia l'abbate di Nervesa e il canonico Vicentino, già prigioni, dal
segretario della repubblica, protestante di darli al re Cristianissimo
in segno della lor gratitudine ed ossequio senza pregiudizio della
autorità della repubblica. Questi poi vennero dati dal Gioiosa
al commessario del papa, mandato a tale effetto. Eseguito questo
preliminare, entrò il cardinale nel collegio, dove era il doge e i
savii, e quivi a porte chiuse fu rivocato l'interdetto colle censure,
e similmente rivocato dal senato ogni atto fatto in contrario. Furono
anche rimessi in grazia, a riserva de' gesuiti, gli altri religiosi, e
decretata la spedizion di un ambasciatore al pontefice, per rendergli
grazie, e per confermare alla santità sua la filial riverenza della
repubblica. Come passasse nel chiuso collegio la riconciliazione
suddetta, non trovo chi me ne possa accertare. Si dee tenere per certo,
che a Roma fu scritto, come il senato avea ricevuta l'assoluzione
dalle censure; ma i Veneziani l'hanno sempre negato. Resta nondimeno
una particolarità indubitata: cioè che quella repubblica continuò
dipoi, e tuttavia continua, a mantenere i suoi decreti intorno
ai beni stabili lasciati agli ecclesiastici, e alla fondazione di
nuove chiese, siccome anche l'autorità sua consueta di giudicare gli
ecclesiastici delinquenti. Fu data speranza al pontefice che quel
senato rallenterebbe fra qualche tempo il suo rigore contro i religiosi
della compagnia di Gesù; ma non seguì il ritorno loro in Venezia se non
l'anno 1657, siccome diremo.
Troppo oramai rincresceva all'_arciduca Alberto_ il peso della guerra
colle Provincie Unite; anzi non ne poteva di più, perchè trovava
come seccate le fontane dell'oro di Spagna, senza le quali a lui era
impossibile di sostentarsi: laddove gli Olandesi sempre più venivano
rinvigoriti dal loro commercio per mare, che ogni giorno andava
crescendo, sino a mettere flotte in mare, le quali non temevano
delle spagnuole, siccome in questo anno ancora avvenne, avendo nel
dì 24 d'aprile verso il promontorio di San Vincenzo essi Olandesi
data una rotta all'armata navale di Spagna, colla morte di circa
due mila persone dalla parte dei vinti e colla perdita di alquante
galee. Il perchè l'arciduca, ottenutane la permissione dalla corte
di Madrid, fece muovere parola di pace colle Provincie suddette. Non
negarono orecchio a qualche pratica di accomodamento gli Olandesi, con
richiedere nondimeno per preliminare che il re di Spagna e l'arciduca
- Parts
- Annali d'Italia, vol. 6 - 01
- Annali d'Italia, vol. 6 - 02
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