Annali d'Italia, vol. 6 - 60
ricordargli vivamente ciò che tutti dobbiamo alla mortalità. Però fu
stabilita la pace, tenuta nondimeno per poco onorevole al re Cattolico,
i cui capitoli si leggono in varii libri e nelle raccolte dei trattati
pubblici. Non si può esprimere il giubilo che per questo felice accordo
si sparse per tutti i regni e principati cattolici. Il solo duca di
Savoia Cario Emmanuele quegli fu che n'ebbe a sospirare, avendo egli
provata quella disavventura a cui sovente sono esposti i principi
minori che si collegano coi maggiori, cioè di restar eglino, se non
anche sacrificati, almeno con un pugno di mosche ne' trattati di pace.
Fu ben egli compreso in quella pace, ma l'articolo del marchesato di
Saluzzo, che tanto a lui premeva, restò indeciso, con esserne stata
rimessa al papa come arbitro la decisione: il che tutti i saggi
politici ben riconobbero essere un fermento di nuova guerra. Pure
non potè esentarsi il duca dal sottoscrivere la pace tal quale era,
sperando che i suoi maneggi e la prudenza del pontefice troverebbono
proporzionati rimedii a questa piaga rimasta aperta. Trovavansi intanto
i suoi Stati di là e di qua dai monti afflitti dalla peste.
Andarono dipoi crescendo gl'incomodi della sanità del re Cattolico,
per cagion de' quali avea già rinunziato il governo degli Stati al
principe _don Filippo_ suo figlio. Si aggiunse anche una lenta febbre,
di modo che scorgendo appressarsi il fine de' suoi giorni, si fece
portare all'Escuriale, mirabil palazzo, monistero e chiesa, ch'egli
con ispesa almeno di due milioni d'oro avea fabbricato. Giunto colà nel
dì 2 di luglio, fu preso da una schifosa e penosa malattia, essendosi
inverminite le sue ulcere, ma ch'egli con eroica imperturbabilità
sofferì fino all'ultimo fiato. Ora, dopo aver lasciati nobilissimi
avvertimenti al figlio, e passati que' giorni di tribulazione in
continui esercizii di pietà, spirò finalmente l'anima nel dì 15 di
settembre. La gloriosa memoria di questo monarca, il quale per l'union
del Portogallo, fu allora considerato il maggiore o certamente uno
de' maggiori dell'universo, tanta era l'estensione de' suoi dominii
in tutte le quattro parti della terra, non ha bisogno che io mi fermi
a rammentare il suo impareggiabil senno, la somma sua religione, la
fermezza dell'animo, e tante altre sue lodevoli doti e virtù che in
lui si univano, perchè negli elogi suoi si sono impiegate le penne
di tutti gli scrittori cattolici. A lui succedette _Filippo III_ suo
figlio, principe inferiore di mente al padre, ma da preferirsi a lui
nell'amore della pace, cioè di un gran bene de' poveri popoli, siccome
all'incontro male grande suol essere la guerra desolatrice de' proprii
e degli altrui paesi. Considerabil fu nel presente anno in Ungheria il
riacquisto fatto dall'armi imperiali nel dì 29 di marzo dell'importante
fortezza di Giavarino. Perchè i Turchi credeano inespugnabil quella
piazza, non si metteano gran cura in custodirla. Informato della lor
trascuratezza Adolfo barone di Swarzemberg, luogotenente in Ungheria
dell'_arciduca Massimiliano_, con quattro mila soldati comparve colà
di buon mattino, e con tal felicità condusse l'affare che sorprese la
porta ed entrò. Gran conflitto seguì con quel presidio, che costò la
vita a circa mille e settecento Musulmani e a cinquecento cristiani,
restando in fine i cesarei padroni della terra e del castello. Dopo sì
rilevante acquisto s'impadronirono essi anche di San Martino, Tatta,
Vesprino e di altri luoghi. Poscia nel dì 9 di ottobre presero per
assalto la città bassa di Buda, ma senza poter forzare il castello; per
la cui resistenza, e per la voce di grosso esercito di Turchi ch'era in
marcia, uopo fu di abbandonare la stessa città. Restò intanto assediato
da' Turchi Varadino, ma sì ostinata fu la difesa de' cristiani, che
furono infine coloro obbligati a levare il campo. Prese in quest'anno
l'_arciduca Alberto_ il possesso della Fiandra, conceduta in dote
dal re Filippo II all'_infanta Isabella_ sua figlia; moglie di lui,
e in varii luoghi d'Italia furono celebrate solenni esequie d'esso
defunto re Filippo. Non poca apprensione diede il bassà Sinan Cicala
alla Sicilia, lasciandosi vedere con una potente flotta verso Messina;
ma andò a risolversi tutto lo spavento in aver solamente desiderato
quel famoso corsaro, di nazion Calabrese, di veder sua madre tuttavia
vivente: la qual grazia gli fu accordata dal vicerè con tutta cortesia,
ma con aver voluto per ostaggio il di lui figlio, affinchè fosse
restituita la donna.
Anno di CRISTO MDXCIX. Indizione XII.
CLEMENTE VIII papa 8.
RODOLFO II imperadore 24.
Nel dì 3 di marzo il _pontefice Clemente_ fece la promozione di alcuni
cardinali, tutti personaggi di gran merito, fra i quali spezialmente
si distinsero _Roberto Bellarmino_ della compagnia di Gesù, da Monte
Pulciano, _Arnaldo d'Ossat_ Franzese, e _Silvio Antoniano_ Romano. E
perciocchè nell'anno seguente si avea da celebrare il giubileo, nel
dì 19 di maggio ne intimò a tutti i fedeli la futura solennità. Non
potè poi nella vigilia del santo Natale, per ragion della podagra,
aprire la porta santa; ma soddisfece a questa cerimonia nell'ultimo
giorno dell'anno. Dopo essersi trattenuta in Milano per tutto il
verno la nuova regina di Spagna _Margherita_ coll'_arciduchessa_ sua
madre e coll'_arciduca Alberto_, per aspettar tempo propizio alla
navigazione, finalmente nel febbraio s'inviò alla volta di Genova.
Sommamente magnifici e riguardevoli furono gli apparati coi quali fu
ivi accolta da quella repubblica. Quarantadue galee, comandate dal
_principe Doria_, erano pronte per condurre in Ispagna la maestà sua
con tutta la sua gran corte. Essendone seguito l'imbarco nel dì 18
d'esso mese, arrivò poi, benchè non senza grave contrarietà di venti,
ai lidi di Valenza, nella qual città s'era portato il _re Filippo
III_ suo consorte. Seguì nel dì 18 di aprile la solenne entrata d'essa
regina in quella città colla magnificenza convenevole a que' monarchi.
Finite le feste, l'arciduca Alberto e l'_infanta Isabella_ sua moglie
e l'arciduchessa nel dì 7 di giugno si rimbarcarono, e pervennero nel
dì 18 a Genova. Indi passarono a Milano, dove con sontuosità di nuove
feste fu solennizzato il loro arrivo. Ad onorar questi principi colà
comparvero gli ambasciatori de' principi d'Italia, e papa Clemente vi
spedì con titolo di legato il _cardinale Francesco di Dietrichsteim_.
Doveva egli, secondo le istruzioni romane, essere ricevuto sotto il
baldacchino nell'entrare in Milano; ma vi si trovarono delle difficoltà
che non si poterono superare, essendochè il contestabile governatore di
quello Stato avea ricevuto ordine dal re di non compartire un sì fatto
onore all'arciduca Alberto; e dovendo esso cardinale essere incontrato
da esso arciduca, questi perciò sarebbe restato fuori del baldacchino;
oltre all'allegarsi ancora che negli Stati di Spagna al solo re e alla
regina era riserbata cotale onorificenza. Il cardinale, giacchè era
imminente la partenza di quei principi, non volle per questo desistere
dalla sua funzione: del che poi la corte di Roma mostrò non lieve
disgusto di lui.
Arrivò dopo molto tempo in Fiandra, esso arciduca coll'infanta,
ricevuto con giubilo universale da que' popoli lieti di aver ora
principe proprio e presente con isperanza che dopo gl'infiniti
passati travagli avessero una volta a migliorare i loro interessi.
Gareggiarono insieme quelle città nella magnificenza delle feste pel
suo ricevimento. L'_arciduca Andrea cardinale_, rinunziato il governo
di essa Fiandra, se ne andò in pellegrinaggio, e nell'anno seguente
in Roma terminò i suoi giorni. Ora il novello principe della Fiandra
Alberto non perdè tempo a troncare il corso ad una guerra mossa da
alcuni principi della Germania per cagion degli Spagnuoli che aveano
non solamente preso quartiere d'inverno nel paese di Cleves, ma ancora
occupati alquanti luoghi di quella contrada. Sicchè altri nemici non
ebbe egli da lì innanzi che gli Olandesi. In Ungheria continuò la
guerra coi Turchi, e ne riportarono molti vantaggi l'armi cristiane.
Diedero gli Ungheri una rotta ad un bassà che con tre mila de' suoi
andava a rinforzare il presidio di Buda, riportandone grosso bottino,
danari, gioie e cavalli. Tentò anche il conte di Swarzembergh la
stessa città di Buda. Essendogli convenuto ritirarsi, il bassà di
quella città uscì fuori per andare incontro ad un gran convoglio di
munizioni da bocca e da guerra che veniva a trovarlo; ma caduto in
una imboscata d'Aiduchi, restò prigione, e sconfitta la sua truppa,
siccome ancor quella del bassà di Bossina, accorsa in aiuto dell'altra.
Riuscì parimente al conte suddetto d'impadronirsi della città di Alba
Regale; ma ritrovata troppa resistenza nella guernigion del castello,
diede il sacco ad essa città, e poi la consegnò alle fiamme. Di maggior
conseguenza fu un altro fatto. S'intese che un grosso numero di barche
turchesche, cariche di vettovaglie, artiglierie e munizioni da guerra,
era pel Danubio indirizzato alla armata d'Ibraim bassà. Circa mille
e secento imperiali, spediti all'improvviso, trovarono quella flotta
al lido; e dopo aver tagliata a pezzi la maggior parte della scorta,
tal bottino ne riportarono, che la fama, verisimilmente poco in ciò
veritiera, lo fece ascendere ad un milione di ducati d'oro. Affondata
parte di quelle barche, tutti allegri se ne tornarono i cristiani al
loro campo, con aver anche dipoi data una percossa ai nemici sotto di
Agria: azioni tutte che sconcertarono affatto ogni disegno de' Turchi
nell'anno presente. Non provarono già egual felicità cinque galee
del gran duca di Toscana, le quali, comandate da Virginio Orsino,
corseggiavano nei mari di levante. Arrivate queste una notte all'isola
di Chio o Scio, sbarcarono trecento uomini, i quali valorosamente
assalirono quella città. Tal fu lo spavento degli abitanti, che, tutto
abbandonato, si rifugiarono al monte, sull'opinione che un nuvolo di
cristiani fosse venuto a visitarli. Ma, fatto giorno scorgendo che
si trattava di sole poche galee, con gran furia scesero contra gli
occupatori della città, de' quali, perchè a cagion del mare burrascoso
stentarono a rimbarcarsi, tra uccisi e prigioni ve ne restarono più di
cento col loro colonnello.
Grande strepito fece nell'anno presente in Roma e per tutta l'Italia
un raro caso di ribalderia e insieme di giustizia. Abbondava Francesco
Cenci nobile romano di ricchezze, perchè avea ereditato dal padre
ottanta mila scudi di rendita annuale; ma più abbondava d'iniquità.
Il minor vizio suo era quello di ogni più sozza e nefanda libidine;
il maggiore quello di essere privo affatto di religione. Dal primo suo
matrimonio ricavò cinque figli maschi e due femmine; niuno dal secondo.
L'inumanità da lui usata coi primi fu indicibile; non men bestiale
trattamento ne provarono le figlie. Avendo la maggiore di esse fatto
ricorso con memoriale al papa, si levò d'impaccio, perchè fu forzato
il padre a maritarla. Restò Beatrice la minore in casa, e fatta grande
e bella, soggiacque alle disordinate voglie di chi l'avea procreata,
giacchè le fece egli credere non peccaminoso un atto di tanta iniquità.
Non si vergognava il perverso uomo di abusarsi della figlia sugli
occhi della stessa sua moglie, matrigna di lei. Dacchè la fanciulla,
avvertita della brutalità del padre, cominciò a ripugnare, si passò
ad esigere colle battiture ciò che cogli inganni sulle prime si era
ottenuto. A sì miserabil vita dunque non potendo reggere la figlia,
dappoichè ebbe significato ai parenti i mali trattamenti del padre,
senza ricavarne profitto, animata dallo esempio della sorella, mandò
un ben composto memoriale al papa a nome ancor della matrigna. Fosse
questo o non fosse presentato, certo è che non ebbe effetto, e nè pur
fu ritrovato nella segreteria allorchè venne il bisogno. Intanto, ciò
penetrato dal padre, cagion fu che si aumentasse la sua crudeltà contro
la moglie e la figlia, sino a ritenerle chiuse in alcune camere sotto
chiave. Portate allora queste dalla disperazione, congiurarono la morte
di lui. Non riuscì difficile ad esse il trarre nel medesimo sentimento
Giacomo il maggiore de' figli, che avea già moglie e figliuoli, perchè
anche egli troppo si trovava tiranneggiato dal padre. Pertanto fu da
due sicarii nella propria casa l'addormentato vecchio ucciso una notte,
e congegnato sì fattamente il di lui cadavero in un ortaglio, che
parve accidentale la di lui caduta e morte. Ma non permise Iddio che si
vantasse di tanta felicità l'enorme delitto del parricidio. Scoperti e
presi i rei, cederono alla forza dei tormenti; ed avendo il pontefice
Clemente letto tutto il processo, tosto comandò che fossero strascinati
a coda di cavallo. E perciocchè si mossero i principali avvocati di
Roma in difesa dei rei, il papa alto alla mano negò loro di ascoltarli.
Riuscì nulladimeno al celebre Farinaccio d'ottenere udienza, e in
un colloquio di quattro ore tanto seppe dire delle scelleraggini
dell'ucciso, e degl'insoffribili torti fatti ai figliuoli, non per
levare la colpa loro, ma per isminuire la pena, che il santo padre si
calmò non poco, e fermò il corso della giustizia. Già si sperava che
fosse almeno in salvo la vita dei delinquenti, quando succedette in
altra casa nobile un matricidio, per cui esacerbato il papa, ordinò
che quanto prima si eseguisse la sentenza di morte contra di loro.
Nel dì 11 di settembre del presente anno nella piazza di Ponte sopra
eminente palco furono condotte le due donne con Giacomo e Bernardo
fratelli. All'ultimo di essi, perchè di età di quindici anni, e perchè
dichiarato non complice dal fratello prima di morire, fu salvata la
vita, e restituita dipoi la libertà. Ebbero le donne reciso il capo;
Giacomo a colpi di mazza restò conquiso. Tal compatimento svegliò in
cuore di tutti gli astanti questo sì tragico spettacolo col riandare
l'iniquità del padre, cagione di tanto disordine, e massimamente in
considerare l'età, la bellezza e lo straordinario coraggio della
giovinetta Beatrice, allorchè salì sul palco e si accomodò alla
mannaia, che più e più persone caddero tramortite. Altre non poche
rimasero per l'immensa folla del popolo soffocate, o stritolate o
malconce dalle indiscrete carrozze. Corse la relazione di quest'orrido
avvenimento per tutta l'Italia, e fu accolta con differenti giudizii.
Ne lasciò anche il Farinaccio autentica memoria nella qu. CXX, n. 172,
_de homicidio_, e nel lib. I, cons. LXVI dove scrive, che se si fosse
potuto provare la violenza inferita da Francesco alla figlia, questa
non si potea condannare alla morte, perchè cessa di essere padre chi si
lascia trasportare a tanta brutalità. Ma come poter concludentemente
provare atti tali, mancanti ordinariamente affatto di testimonii?
Confessa nondimeno il Farinaccio che comunemente si tenea per verissima
quell'infame azione del padre. E se fosse stata fatta giustizia di lui,
allorchè per tre volte fu messo in prigione a cagion del vizio nefando,
per cui si compose in ducento mila scudi, non sarebbero incorsi in così
lagrimevol disavventura i figli suoi.
Anno di CRISTO MDC. Indizione XIII.
CLEMENTE VIII papa 9.
RODOLFO II imperadore 25.
Celebrossi nel presente anno in Roma il giubileo, per cui la
provvidenza di _papa Clemente_ avea fatto ogni convenevole preparamento
di vettovaglia e di alberghi, affinchè nulla mancasse ai pellegrini
divoti, che ben si prevedeva avere da essere smisurata la copia
d'essi. Tale infatti si provò, essendosi fatto il conto che presso a
poco tre milioni di persone forestiere in tutto l'anno si portarono
a Roma a partecipar il perdono e le consuete indulgenze dell'anno
santo. Nel giorno di Pasqua si calcolò che si trovassero in quella
gran città presso a ducento mila cristiani stranieri di varie nazioni.
Ma laddove ne' primi tempi che fu istituita questa divozione, Roma
senza molto scomodo raccoglieva le limosine de' tanti cristiani che
concorrevano, e faceva gran guadagno delle sue derrate: in questi tempi
la carità del romano pontefice, dei cardinali e di tutto il popolo
romano mirabilmente sfavillò per le laute limosine fatte agli stessi
pellegrini, e per l'ospitalità e carità loro usata. Imperciocchè il
papa, preparato un palazzo in Borgo, quivi diede alloggio e vitto per
dieci giorni a qualsivoglia vescovo, prelato, sacerdote e cherico che
volle quivi albergare; e lo stesso santo padre sovente si portava a
visitarli, a lavar loro i piedi, e a servirli alla tavola. Oltre a
ciò, dispensò egli in altre limosine da trecento mila scudi, e fu
in continuo moto per esercitar gli atti della sua carità e pietà
a consolazione di tanti divoti cristiani. Maravigliose cose fece
l'arciconfraternita della Santissima Trinità, istituita appunto
per le opere di carità cristiana, perchè nel corso di quest'anno
diede ricetto e vitto per tre giorni a circa ducentocinquanta mila
pellegrini, e in oltre a ducento quarantotto compagnie forestiere,
ascendenti a cinquanta quattro mila persone. A servire con umiltà e
carità sì esorbitante copia di gente straniera non mancò mai tutta
la nobiltà romana, sì ecclesiastici che secolari: il che cagionava
non meno stupore che tenera edificazione a tante nazioni cristiane
colà concorse. A proporzione poi delle lor forze altrettanto fecero
l'altre arciconfraternite di Roma. In somma tali e tante furono le
opere di misericordia e pietà esercitate in sì pia occasione dal papa
e da' Romani; tale l'affluenza e il buon governo dei pellegrini, fra'
quali si contarono anche dei principi e gran signori incogniti, come
il _duca di Baviera_ e il _cardinale Andrea di Austria_, oltre ai
_duchi di Parma_ e di _Bar_, che un simile giubileo da gran tempo non
s'era veduto, e mai più non si vide dipoi. Vi concorsero ancora per
curiosità sconosciuti molti eretici, i quali, pieni di ammirazione per
sì grande apparato di cristiana pietà, e massimamente allo osservare
tanta esemplarità del papa e dei sacri ministri, o abbracciarono la
fede cattolica, o giunti a' lor paesi distrussero le calunnie solite a
spacciarsi dai protestanti contro la santa Sede e contro la religion
cattolica. Nè si dee tacere che avendo le acque, che scendono dalle
colline di Rieti nel lago Velino, ossia nella fossa Curiana, la
proprietà di pietrificare il fango ed altre materie, si era venuta
stringendo in tal maniera quella fossa, che restavano inondate le
fertili campagne all'intorno. Papa Clemente vi applicò il rimedio con
far di nuovo maggiormente slargar essa fossa, e fabbricarvi anche un
ponte: spesa che ascese a settantacinque mila scudi. Nel presente anno
terminato fu quel lavoro, come apparisce da una sua medaglia.
Da _Margherita di Valois regina_ sua moglie non avea, nè sperava più
successione _Arrigo IV re_ di Francia. Perciò si cercarono ragioni,
e si trovarono nel precedente anno per disciogliere il loro sacro
legume, consentendovi la stessa regina, che confessava d'averlo
contratto per forza. Portata la controversia davanti al papa, dopo
un serio esame restò dichiarato nullo esso matrimonio. Tutta questa
festa era principalmente fatta dal re per desiderio e con disegno
di sposare in appresso Gabriella d'Etrè cotanto favorita da esso
Arrigo, principe incredibilmente perduto negli amori delle donne,
che dal volgo veniva creduto ammaliato da essa. Gli avea la medesima
già partoriti due figli, Cesare ed Alessandro, che il re si figurava
di poter legittimare, benchè spurii, col susseguente matrimonio. Ma
le umane vicende vi provvidero, perchè Gabriella vicina al parto nel
dì 10 di aprile dell'anno antecedente presa da una fiera apoplessia
terminò i suoi giorni con infinito dispiacere del re, e forse non
senza dicerie del popolo. Si rivolse pertanto Arrigo a cercare una
più convenevol moglie, e _Ferdinando gran duca_ di Toscana seppe
prevalersi della congiuntura per promuovere a quelle nozze regali
_Maria de Medici_, figlia del già _gran duca Francesco_ suo fratello.
Condotto a fine questo trattato, nel dì 5 di ottobre fu sposata in
Firenze questa principessa a nome del re dal signor di Bellegarde suo
ambasciatore, eseguendo le funzioni della chiesa il _cardinal Pietro
Aldobrandino_ nipote del papa, colà spedito apposta con titolo di
legato. In magnifici sollazzi si spesero poi i seguenti giorni, finchè
nel dì 13 d'esso mese la regina accompagnata da _Cristina di Lorena
gran duchessa_ sua zia, da _Leonora duchessa_ di Mantova, sua sorella
maggiore, da _Virginio Orsino duca_ di Bracciano, e da una fioritissima
corte, andò ad imbarcarsi a Livorno nelle galee del papa, di Toscana e
di Malta. Approdò essa a Marsilia nel dì 3 di novembre, e passata dipoi
a Lione quivi aspettò il re, affaccendato nella guerra col duca di
Savoia. Giunto egli alla stessa città nel dì 9, la regina ben istruita
dal saggio suo zio gran duca, se gl'inginocchiò davanti. La sollevò il
re con abbracciarla e baciarla; e perciocchè il cardinale Aldobrandino,
a cagion della guerra suddetta, era ito a Sciambery, fu chiamato colà,
ed assistè alla solennità di quelle nozze che furono benedette da Dio,
con aver la regina da lì a dieci mesi partorito al re un delfino, che
fu poi _Lodovico XIII re_ di Francia.
Abbiano detto insorta guerra fra esso _re Arrigo_ e _Carlo Emmanuele_
duca di Savoia. Era stata rimessa nel pontefice la decisione della
controversia sopra il marchesato di Saluzzo, che già vedemmo occupato
dal duca, ma preteso dal re come dipendenza del delfinato. Spediti
nell'anno precedente i ministri del re e del duca a Roma, sfoderò
ciascuna delle parti le ragioni, credendo, giusta il solito, migliori
le sue. Ed era veramente imbrogliato l'affare per varii atti dei
passati marchesi in favore ora della Savoia ed ora della Francia.
Fu proposto dal papa che si depositasse in sua mano quel marchesato;
dopo di che egli giudicherebbe. Perchè spedito al re questo progetto
fu accettato, il duca s'insospettì di essere preso in mezzo; e perchè
lasciò traspirar questo suo sospetto, il pontefice, non sofferendo
che fosse messa in dubbio la sua onoratezza, rinunziò al compromesso.
Pensava il duca di poter egli riuscir meglio in questo affare,
trattandone a dirittura col medesimo re, giacchè niun principe viveva
allora che si potesse uguagliare nella perspicacia dell'ingegno e nella
vivacità dello spirito a Carlo Emmanuele, siccome confessò chiunque il
conobbe e praticò. Sul fine dunque dell'anno antecedente passò egli
in persona a Parigi con accompagnamento nobilissimo; e quantunque
il re avesse ordinato che gli fosse compartito ogni possibil onore,
pure egli, superiore alle formalità, lasciati indietro i suoi, quasi
solo e di notte a cavallo per le poste arrivò a trovare il re, da cui
fu ricevuto con ogni sorta di stima. Sì da lui col re, come da' suoi
ministri coi deputati del re, lungamente si trattò; ma con trovarsi
inespugnabile il re, pretendente prima la purgazion dello spoglio, e
che poi si conoscerebbono le ragioni. Tuttavia coll'interposizione
del Calatagirona ministro del papa già dichiarato patriarca di
Costantinopoli, si ottenne che il re accetterebbe una compensazion di
Stati in vece di Saluzzo, cioè il principato chiamato di Bressa con
altri luoghi, fra' quali Pinerolo. Fu dato al duca il tempo di tre mesi
a risolvere.
Pretendono alcuni storici che il duca di Savoia in quella occasione
proponesse al re l'acquisto del ducato di Milano (cosa da non credere
sì facilmente), e tutti poi convengono in dire ch'egli intavolò delle
trame col maresciallo di Birone contra del re. Infatti lo stesso
Guichenone, storico della real casa di Savoia, non ha avuto difficoltà
di confessarlo, stante l'aver il duca trovato in quel maresciallo
un uomo superbo, che sparlava del re come di un grande ingrato ai
rilevanti servigi suoi. Il cardinal Bentivoglio, fondato in una
relazione del cardinale Aldobrandino, scrive essere andato il duca
in Francia col fine principale di secretamente ordire e conchiudere
quella congiura contra del re Arrigo. Tornato egli a' suoi Stati,
dopo aver lasciato nel re e in tutta la corte di Francia un gran
concetto del suo mirabil talento, della sua liberalità, della sua
destrezza e affabilità, restò un pezzo irresoluto; e, o sia perchè
non sapesse accomodarsi ad alcuna delle condizioni proposte, o perchè
fosse dietro a tirare il re di Spagna e il conte di Fuentes governator
di Milano alla propria difesa, o perchè manipolasse degli imbrogli,
siccome principe di alte macchine e di vasti pensieri; lasciò spirare
il tempo dei tre mesi convenuti. Allora il re Arrigo mosse l'armi
sue sotto i marescialli di Lesdiguieres e Biron, che s'impadronirono
di Monmeliano, Sciambery e di tutta la Savoia prima che terminasse
l'anno. Intanto il pontefice, non men per proprio istinto che per le
sollecitudini dell'ambasciatore di Spagna, s'interpose per la pace, e
diede per questo pressanti ordini al cardinale Aldobrandino suo nipote,
il quale già abbiam veduto passato alla corte del re Cristianissimo.
Se ne trattò vivamente per tutto il verno; e ciò che ne avvenisse,
è riserbato all'anno seguente. Un bel servigio fece il re Arrigo
in questi tempi ai Ginevrini, per divozione probabilmente alla lor
pecunia; perchè avendo egli preso in Savoia il forte di Santa Caterina,
cioè una spina che stava negli occhi di quella città, patriarchessa
degli eretici, ordinò o permise che si demolisse: risoluzione che
sommamente alterò l'animo del legato apostolico, e poco mancò che non
andasse per terra tutto il quasi compiuto negozio della concordia.
Mi darà licenza il lettore che io vada brevemente ora accennando
gli affari della Fiandra e dell'Ungheria, perchè in fine assai
condottieri, uffiziali e milizie italiane ebbero parte anch'essi in
quelle guerre. Un bel regalo della buona fortuna parea all'_arciduca
Alberto_ l'acquisto fatto della Fiandra; ma gli restava una dura
pensione, cioè la guerra tuttavia viva cogli Olandesi, assistiti dalla
regina d'Inghilterra. Non ommise l'_imperadore Rodolfo_ di spedire
ambasciatori a fin di smorzare sì lungo incendio in quelle parti, e
seguirono eziandio molte conferenze; ma in fine le cose restarono
nel piede di prima. Trovavasi intanto l'arciduca sprovveduto di
quell'importante ingrediente, senza di cui chi vuole far guerra contra
di chi può resistere, può aspettarsi ogni sinistro evento. Per mancanza
appunto di paghe si ammutinarono in parte le milizie spagnuole, e
l'esempio loro si trasse dietro ancor quello delle italiane. Profittò
il conte Maurizio di Nassau di questo disordine, e s'impadronì di
Vacthendonch e del forte di Crevacuore, e poi di quello di Sant'Andrea.
Uscito di nuovo in campagna nel mese di giugno, inaspettatamente andò
a mettere l'assedio a Neoporto. Avendo l'arciduca trovata maniera di
ammansar gli ammutinati, si mosse per dar battaglia al Nassau, che in
questi tempi godeva, e con ragione, il concetto di essere uno dei più
prodi e sperti generali di armata. Perchè la cavalleria dei cattolici
sulle prime si disordinò e rovesciossi addosso alla fanteria, andò
sconfitto tutto l'esercito dell'arciduca, con perdita della gente più
fiorita e veterana. Vi perirono o restarono prigioni molti uffiziali
di conto, e fra gli altri e Italiani morti il cardinal Bentivoglio vi
conta un suo fratello e un nipote, giovani amendue di venti anni. Con
tutta nondimeno questa gran percossa, essendo riuscito ai cattolici
d'introdurre dipoi un soccorso di gente e di viveri in Neoporto, il
Nassau fu obbligato a ritirarsi da quello assedio. Federigo Spinola che
con quattro galee rondava per que' lidi, ed avea già recati non pochi
danni all'armata olandese, continuò ad infestar la lor gente imbarcata,
mentre si ritiravano.
In Ungheria continuò la guerra coi Turchi, e il pontefice mandò danari
in soccorso de' cristiani. Fu anche chiamato colà da Mantova don
Ferrante Gonzaga, siccome persona celebre pel suo valore e per la sua
sperienza militare, e dichiarato governatore dell'Ungheria superiore.
Perchè mille tra Valloni e Franzesi si trovavano di presidio in
Pappà, nè poteano aver le paghe, giunsero a tanta viltà e perfidia,
che venderono quel forte luogo ai Musulmani. Ciò riferito ai capitani
imperiali, volarono a cignere d'assedio quella piazza, e con sì
frequenti assalti la tempestarono, che ducento Franzesi ivi restati
presero la fuga di notte; ma scoperti, furono tutti parte uccisi e
stabilita la pace, tenuta nondimeno per poco onorevole al re Cattolico,
i cui capitoli si leggono in varii libri e nelle raccolte dei trattati
pubblici. Non si può esprimere il giubilo che per questo felice accordo
si sparse per tutti i regni e principati cattolici. Il solo duca di
Savoia Cario Emmanuele quegli fu che n'ebbe a sospirare, avendo egli
provata quella disavventura a cui sovente sono esposti i principi
minori che si collegano coi maggiori, cioè di restar eglino, se non
anche sacrificati, almeno con un pugno di mosche ne' trattati di pace.
Fu ben egli compreso in quella pace, ma l'articolo del marchesato di
Saluzzo, che tanto a lui premeva, restò indeciso, con esserne stata
rimessa al papa come arbitro la decisione: il che tutti i saggi
politici ben riconobbero essere un fermento di nuova guerra. Pure
non potè esentarsi il duca dal sottoscrivere la pace tal quale era,
sperando che i suoi maneggi e la prudenza del pontefice troverebbono
proporzionati rimedii a questa piaga rimasta aperta. Trovavansi intanto
i suoi Stati di là e di qua dai monti afflitti dalla peste.
Andarono dipoi crescendo gl'incomodi della sanità del re Cattolico,
per cagion de' quali avea già rinunziato il governo degli Stati al
principe _don Filippo_ suo figlio. Si aggiunse anche una lenta febbre,
di modo che scorgendo appressarsi il fine de' suoi giorni, si fece
portare all'Escuriale, mirabil palazzo, monistero e chiesa, ch'egli
con ispesa almeno di due milioni d'oro avea fabbricato. Giunto colà nel
dì 2 di luglio, fu preso da una schifosa e penosa malattia, essendosi
inverminite le sue ulcere, ma ch'egli con eroica imperturbabilità
sofferì fino all'ultimo fiato. Ora, dopo aver lasciati nobilissimi
avvertimenti al figlio, e passati que' giorni di tribulazione in
continui esercizii di pietà, spirò finalmente l'anima nel dì 15 di
settembre. La gloriosa memoria di questo monarca, il quale per l'union
del Portogallo, fu allora considerato il maggiore o certamente uno
de' maggiori dell'universo, tanta era l'estensione de' suoi dominii
in tutte le quattro parti della terra, non ha bisogno che io mi fermi
a rammentare il suo impareggiabil senno, la somma sua religione, la
fermezza dell'animo, e tante altre sue lodevoli doti e virtù che in
lui si univano, perchè negli elogi suoi si sono impiegate le penne
di tutti gli scrittori cattolici. A lui succedette _Filippo III_ suo
figlio, principe inferiore di mente al padre, ma da preferirsi a lui
nell'amore della pace, cioè di un gran bene de' poveri popoli, siccome
all'incontro male grande suol essere la guerra desolatrice de' proprii
e degli altrui paesi. Considerabil fu nel presente anno in Ungheria il
riacquisto fatto dall'armi imperiali nel dì 29 di marzo dell'importante
fortezza di Giavarino. Perchè i Turchi credeano inespugnabil quella
piazza, non si metteano gran cura in custodirla. Informato della lor
trascuratezza Adolfo barone di Swarzemberg, luogotenente in Ungheria
dell'_arciduca Massimiliano_, con quattro mila soldati comparve colà
di buon mattino, e con tal felicità condusse l'affare che sorprese la
porta ed entrò. Gran conflitto seguì con quel presidio, che costò la
vita a circa mille e settecento Musulmani e a cinquecento cristiani,
restando in fine i cesarei padroni della terra e del castello. Dopo sì
rilevante acquisto s'impadronirono essi anche di San Martino, Tatta,
Vesprino e di altri luoghi. Poscia nel dì 9 di ottobre presero per
assalto la città bassa di Buda, ma senza poter forzare il castello; per
la cui resistenza, e per la voce di grosso esercito di Turchi ch'era in
marcia, uopo fu di abbandonare la stessa città. Restò intanto assediato
da' Turchi Varadino, ma sì ostinata fu la difesa de' cristiani, che
furono infine coloro obbligati a levare il campo. Prese in quest'anno
l'_arciduca Alberto_ il possesso della Fiandra, conceduta in dote
dal re Filippo II all'_infanta Isabella_ sua figlia; moglie di lui,
e in varii luoghi d'Italia furono celebrate solenni esequie d'esso
defunto re Filippo. Non poca apprensione diede il bassà Sinan Cicala
alla Sicilia, lasciandosi vedere con una potente flotta verso Messina;
ma andò a risolversi tutto lo spavento in aver solamente desiderato
quel famoso corsaro, di nazion Calabrese, di veder sua madre tuttavia
vivente: la qual grazia gli fu accordata dal vicerè con tutta cortesia,
ma con aver voluto per ostaggio il di lui figlio, affinchè fosse
restituita la donna.
Anno di CRISTO MDXCIX. Indizione XII.
CLEMENTE VIII papa 8.
RODOLFO II imperadore 24.
Nel dì 3 di marzo il _pontefice Clemente_ fece la promozione di alcuni
cardinali, tutti personaggi di gran merito, fra i quali spezialmente
si distinsero _Roberto Bellarmino_ della compagnia di Gesù, da Monte
Pulciano, _Arnaldo d'Ossat_ Franzese, e _Silvio Antoniano_ Romano. E
perciocchè nell'anno seguente si avea da celebrare il giubileo, nel
dì 19 di maggio ne intimò a tutti i fedeli la futura solennità. Non
potè poi nella vigilia del santo Natale, per ragion della podagra,
aprire la porta santa; ma soddisfece a questa cerimonia nell'ultimo
giorno dell'anno. Dopo essersi trattenuta in Milano per tutto il
verno la nuova regina di Spagna _Margherita_ coll'_arciduchessa_ sua
madre e coll'_arciduca Alberto_, per aspettar tempo propizio alla
navigazione, finalmente nel febbraio s'inviò alla volta di Genova.
Sommamente magnifici e riguardevoli furono gli apparati coi quali fu
ivi accolta da quella repubblica. Quarantadue galee, comandate dal
_principe Doria_, erano pronte per condurre in Ispagna la maestà sua
con tutta la sua gran corte. Essendone seguito l'imbarco nel dì 18
d'esso mese, arrivò poi, benchè non senza grave contrarietà di venti,
ai lidi di Valenza, nella qual città s'era portato il _re Filippo
III_ suo consorte. Seguì nel dì 18 di aprile la solenne entrata d'essa
regina in quella città colla magnificenza convenevole a que' monarchi.
Finite le feste, l'arciduca Alberto e l'_infanta Isabella_ sua moglie
e l'arciduchessa nel dì 7 di giugno si rimbarcarono, e pervennero nel
dì 18 a Genova. Indi passarono a Milano, dove con sontuosità di nuove
feste fu solennizzato il loro arrivo. Ad onorar questi principi colà
comparvero gli ambasciatori de' principi d'Italia, e papa Clemente vi
spedì con titolo di legato il _cardinale Francesco di Dietrichsteim_.
Doveva egli, secondo le istruzioni romane, essere ricevuto sotto il
baldacchino nell'entrare in Milano; ma vi si trovarono delle difficoltà
che non si poterono superare, essendochè il contestabile governatore di
quello Stato avea ricevuto ordine dal re di non compartire un sì fatto
onore all'arciduca Alberto; e dovendo esso cardinale essere incontrato
da esso arciduca, questi perciò sarebbe restato fuori del baldacchino;
oltre all'allegarsi ancora che negli Stati di Spagna al solo re e alla
regina era riserbata cotale onorificenza. Il cardinale, giacchè era
imminente la partenza di quei principi, non volle per questo desistere
dalla sua funzione: del che poi la corte di Roma mostrò non lieve
disgusto di lui.
Arrivò dopo molto tempo in Fiandra, esso arciduca coll'infanta,
ricevuto con giubilo universale da que' popoli lieti di aver ora
principe proprio e presente con isperanza che dopo gl'infiniti
passati travagli avessero una volta a migliorare i loro interessi.
Gareggiarono insieme quelle città nella magnificenza delle feste pel
suo ricevimento. L'_arciduca Andrea cardinale_, rinunziato il governo
di essa Fiandra, se ne andò in pellegrinaggio, e nell'anno seguente
in Roma terminò i suoi giorni. Ora il novello principe della Fiandra
Alberto non perdè tempo a troncare il corso ad una guerra mossa da
alcuni principi della Germania per cagion degli Spagnuoli che aveano
non solamente preso quartiere d'inverno nel paese di Cleves, ma ancora
occupati alquanti luoghi di quella contrada. Sicchè altri nemici non
ebbe egli da lì innanzi che gli Olandesi. In Ungheria continuò la
guerra coi Turchi, e ne riportarono molti vantaggi l'armi cristiane.
Diedero gli Ungheri una rotta ad un bassà che con tre mila de' suoi
andava a rinforzare il presidio di Buda, riportandone grosso bottino,
danari, gioie e cavalli. Tentò anche il conte di Swarzembergh la
stessa città di Buda. Essendogli convenuto ritirarsi, il bassà di
quella città uscì fuori per andare incontro ad un gran convoglio di
munizioni da bocca e da guerra che veniva a trovarlo; ma caduto in
una imboscata d'Aiduchi, restò prigione, e sconfitta la sua truppa,
siccome ancor quella del bassà di Bossina, accorsa in aiuto dell'altra.
Riuscì parimente al conte suddetto d'impadronirsi della città di Alba
Regale; ma ritrovata troppa resistenza nella guernigion del castello,
diede il sacco ad essa città, e poi la consegnò alle fiamme. Di maggior
conseguenza fu un altro fatto. S'intese che un grosso numero di barche
turchesche, cariche di vettovaglie, artiglierie e munizioni da guerra,
era pel Danubio indirizzato alla armata d'Ibraim bassà. Circa mille
e secento imperiali, spediti all'improvviso, trovarono quella flotta
al lido; e dopo aver tagliata a pezzi la maggior parte della scorta,
tal bottino ne riportarono, che la fama, verisimilmente poco in ciò
veritiera, lo fece ascendere ad un milione di ducati d'oro. Affondata
parte di quelle barche, tutti allegri se ne tornarono i cristiani al
loro campo, con aver anche dipoi data una percossa ai nemici sotto di
Agria: azioni tutte che sconcertarono affatto ogni disegno de' Turchi
nell'anno presente. Non provarono già egual felicità cinque galee
del gran duca di Toscana, le quali, comandate da Virginio Orsino,
corseggiavano nei mari di levante. Arrivate queste una notte all'isola
di Chio o Scio, sbarcarono trecento uomini, i quali valorosamente
assalirono quella città. Tal fu lo spavento degli abitanti, che, tutto
abbandonato, si rifugiarono al monte, sull'opinione che un nuvolo di
cristiani fosse venuto a visitarli. Ma, fatto giorno scorgendo che
si trattava di sole poche galee, con gran furia scesero contra gli
occupatori della città, de' quali, perchè a cagion del mare burrascoso
stentarono a rimbarcarsi, tra uccisi e prigioni ve ne restarono più di
cento col loro colonnello.
Grande strepito fece nell'anno presente in Roma e per tutta l'Italia
un raro caso di ribalderia e insieme di giustizia. Abbondava Francesco
Cenci nobile romano di ricchezze, perchè avea ereditato dal padre
ottanta mila scudi di rendita annuale; ma più abbondava d'iniquità.
Il minor vizio suo era quello di ogni più sozza e nefanda libidine;
il maggiore quello di essere privo affatto di religione. Dal primo suo
matrimonio ricavò cinque figli maschi e due femmine; niuno dal secondo.
L'inumanità da lui usata coi primi fu indicibile; non men bestiale
trattamento ne provarono le figlie. Avendo la maggiore di esse fatto
ricorso con memoriale al papa, si levò d'impaccio, perchè fu forzato
il padre a maritarla. Restò Beatrice la minore in casa, e fatta grande
e bella, soggiacque alle disordinate voglie di chi l'avea procreata,
giacchè le fece egli credere non peccaminoso un atto di tanta iniquità.
Non si vergognava il perverso uomo di abusarsi della figlia sugli
occhi della stessa sua moglie, matrigna di lei. Dacchè la fanciulla,
avvertita della brutalità del padre, cominciò a ripugnare, si passò
ad esigere colle battiture ciò che cogli inganni sulle prime si era
ottenuto. A sì miserabil vita dunque non potendo reggere la figlia,
dappoichè ebbe significato ai parenti i mali trattamenti del padre,
senza ricavarne profitto, animata dallo esempio della sorella, mandò
un ben composto memoriale al papa a nome ancor della matrigna. Fosse
questo o non fosse presentato, certo è che non ebbe effetto, e nè pur
fu ritrovato nella segreteria allorchè venne il bisogno. Intanto, ciò
penetrato dal padre, cagion fu che si aumentasse la sua crudeltà contro
la moglie e la figlia, sino a ritenerle chiuse in alcune camere sotto
chiave. Portate allora queste dalla disperazione, congiurarono la morte
di lui. Non riuscì difficile ad esse il trarre nel medesimo sentimento
Giacomo il maggiore de' figli, che avea già moglie e figliuoli, perchè
anche egli troppo si trovava tiranneggiato dal padre. Pertanto fu da
due sicarii nella propria casa l'addormentato vecchio ucciso una notte,
e congegnato sì fattamente il di lui cadavero in un ortaglio, che
parve accidentale la di lui caduta e morte. Ma non permise Iddio che si
vantasse di tanta felicità l'enorme delitto del parricidio. Scoperti e
presi i rei, cederono alla forza dei tormenti; ed avendo il pontefice
Clemente letto tutto il processo, tosto comandò che fossero strascinati
a coda di cavallo. E perciocchè si mossero i principali avvocati di
Roma in difesa dei rei, il papa alto alla mano negò loro di ascoltarli.
Riuscì nulladimeno al celebre Farinaccio d'ottenere udienza, e in
un colloquio di quattro ore tanto seppe dire delle scelleraggini
dell'ucciso, e degl'insoffribili torti fatti ai figliuoli, non per
levare la colpa loro, ma per isminuire la pena, che il santo padre si
calmò non poco, e fermò il corso della giustizia. Già si sperava che
fosse almeno in salvo la vita dei delinquenti, quando succedette in
altra casa nobile un matricidio, per cui esacerbato il papa, ordinò
che quanto prima si eseguisse la sentenza di morte contra di loro.
Nel dì 11 di settembre del presente anno nella piazza di Ponte sopra
eminente palco furono condotte le due donne con Giacomo e Bernardo
fratelli. All'ultimo di essi, perchè di età di quindici anni, e perchè
dichiarato non complice dal fratello prima di morire, fu salvata la
vita, e restituita dipoi la libertà. Ebbero le donne reciso il capo;
Giacomo a colpi di mazza restò conquiso. Tal compatimento svegliò in
cuore di tutti gli astanti questo sì tragico spettacolo col riandare
l'iniquità del padre, cagione di tanto disordine, e massimamente in
considerare l'età, la bellezza e lo straordinario coraggio della
giovinetta Beatrice, allorchè salì sul palco e si accomodò alla
mannaia, che più e più persone caddero tramortite. Altre non poche
rimasero per l'immensa folla del popolo soffocate, o stritolate o
malconce dalle indiscrete carrozze. Corse la relazione di quest'orrido
avvenimento per tutta l'Italia, e fu accolta con differenti giudizii.
Ne lasciò anche il Farinaccio autentica memoria nella qu. CXX, n. 172,
_de homicidio_, e nel lib. I, cons. LXVI dove scrive, che se si fosse
potuto provare la violenza inferita da Francesco alla figlia, questa
non si potea condannare alla morte, perchè cessa di essere padre chi si
lascia trasportare a tanta brutalità. Ma come poter concludentemente
provare atti tali, mancanti ordinariamente affatto di testimonii?
Confessa nondimeno il Farinaccio che comunemente si tenea per verissima
quell'infame azione del padre. E se fosse stata fatta giustizia di lui,
allorchè per tre volte fu messo in prigione a cagion del vizio nefando,
per cui si compose in ducento mila scudi, non sarebbero incorsi in così
lagrimevol disavventura i figli suoi.
Anno di CRISTO MDC. Indizione XIII.
CLEMENTE VIII papa 9.
RODOLFO II imperadore 25.
Celebrossi nel presente anno in Roma il giubileo, per cui la
provvidenza di _papa Clemente_ avea fatto ogni convenevole preparamento
di vettovaglia e di alberghi, affinchè nulla mancasse ai pellegrini
divoti, che ben si prevedeva avere da essere smisurata la copia
d'essi. Tale infatti si provò, essendosi fatto il conto che presso a
poco tre milioni di persone forestiere in tutto l'anno si portarono
a Roma a partecipar il perdono e le consuete indulgenze dell'anno
santo. Nel giorno di Pasqua si calcolò che si trovassero in quella
gran città presso a ducento mila cristiani stranieri di varie nazioni.
Ma laddove ne' primi tempi che fu istituita questa divozione, Roma
senza molto scomodo raccoglieva le limosine de' tanti cristiani che
concorrevano, e faceva gran guadagno delle sue derrate: in questi tempi
la carità del romano pontefice, dei cardinali e di tutto il popolo
romano mirabilmente sfavillò per le laute limosine fatte agli stessi
pellegrini, e per l'ospitalità e carità loro usata. Imperciocchè il
papa, preparato un palazzo in Borgo, quivi diede alloggio e vitto per
dieci giorni a qualsivoglia vescovo, prelato, sacerdote e cherico che
volle quivi albergare; e lo stesso santo padre sovente si portava a
visitarli, a lavar loro i piedi, e a servirli alla tavola. Oltre a
ciò, dispensò egli in altre limosine da trecento mila scudi, e fu
in continuo moto per esercitar gli atti della sua carità e pietà
a consolazione di tanti divoti cristiani. Maravigliose cose fece
l'arciconfraternita della Santissima Trinità, istituita appunto
per le opere di carità cristiana, perchè nel corso di quest'anno
diede ricetto e vitto per tre giorni a circa ducentocinquanta mila
pellegrini, e in oltre a ducento quarantotto compagnie forestiere,
ascendenti a cinquanta quattro mila persone. A servire con umiltà e
carità sì esorbitante copia di gente straniera non mancò mai tutta
la nobiltà romana, sì ecclesiastici che secolari: il che cagionava
non meno stupore che tenera edificazione a tante nazioni cristiane
colà concorse. A proporzione poi delle lor forze altrettanto fecero
l'altre arciconfraternite di Roma. In somma tali e tante furono le
opere di misericordia e pietà esercitate in sì pia occasione dal papa
e da' Romani; tale l'affluenza e il buon governo dei pellegrini, fra'
quali si contarono anche dei principi e gran signori incogniti, come
il _duca di Baviera_ e il _cardinale Andrea di Austria_, oltre ai
_duchi di Parma_ e di _Bar_, che un simile giubileo da gran tempo non
s'era veduto, e mai più non si vide dipoi. Vi concorsero ancora per
curiosità sconosciuti molti eretici, i quali, pieni di ammirazione per
sì grande apparato di cristiana pietà, e massimamente allo osservare
tanta esemplarità del papa e dei sacri ministri, o abbracciarono la
fede cattolica, o giunti a' lor paesi distrussero le calunnie solite a
spacciarsi dai protestanti contro la santa Sede e contro la religion
cattolica. Nè si dee tacere che avendo le acque, che scendono dalle
colline di Rieti nel lago Velino, ossia nella fossa Curiana, la
proprietà di pietrificare il fango ed altre materie, si era venuta
stringendo in tal maniera quella fossa, che restavano inondate le
fertili campagne all'intorno. Papa Clemente vi applicò il rimedio con
far di nuovo maggiormente slargar essa fossa, e fabbricarvi anche un
ponte: spesa che ascese a settantacinque mila scudi. Nel presente anno
terminato fu quel lavoro, come apparisce da una sua medaglia.
Da _Margherita di Valois regina_ sua moglie non avea, nè sperava più
successione _Arrigo IV re_ di Francia. Perciò si cercarono ragioni,
e si trovarono nel precedente anno per disciogliere il loro sacro
legume, consentendovi la stessa regina, che confessava d'averlo
contratto per forza. Portata la controversia davanti al papa, dopo
un serio esame restò dichiarato nullo esso matrimonio. Tutta questa
festa era principalmente fatta dal re per desiderio e con disegno
di sposare in appresso Gabriella d'Etrè cotanto favorita da esso
Arrigo, principe incredibilmente perduto negli amori delle donne,
che dal volgo veniva creduto ammaliato da essa. Gli avea la medesima
già partoriti due figli, Cesare ed Alessandro, che il re si figurava
di poter legittimare, benchè spurii, col susseguente matrimonio. Ma
le umane vicende vi provvidero, perchè Gabriella vicina al parto nel
dì 10 di aprile dell'anno antecedente presa da una fiera apoplessia
terminò i suoi giorni con infinito dispiacere del re, e forse non
senza dicerie del popolo. Si rivolse pertanto Arrigo a cercare una
più convenevol moglie, e _Ferdinando gran duca_ di Toscana seppe
prevalersi della congiuntura per promuovere a quelle nozze regali
_Maria de Medici_, figlia del già _gran duca Francesco_ suo fratello.
Condotto a fine questo trattato, nel dì 5 di ottobre fu sposata in
Firenze questa principessa a nome del re dal signor di Bellegarde suo
ambasciatore, eseguendo le funzioni della chiesa il _cardinal Pietro
Aldobrandino_ nipote del papa, colà spedito apposta con titolo di
legato. In magnifici sollazzi si spesero poi i seguenti giorni, finchè
nel dì 13 d'esso mese la regina accompagnata da _Cristina di Lorena
gran duchessa_ sua zia, da _Leonora duchessa_ di Mantova, sua sorella
maggiore, da _Virginio Orsino duca_ di Bracciano, e da una fioritissima
corte, andò ad imbarcarsi a Livorno nelle galee del papa, di Toscana e
di Malta. Approdò essa a Marsilia nel dì 3 di novembre, e passata dipoi
a Lione quivi aspettò il re, affaccendato nella guerra col duca di
Savoia. Giunto egli alla stessa città nel dì 9, la regina ben istruita
dal saggio suo zio gran duca, se gl'inginocchiò davanti. La sollevò il
re con abbracciarla e baciarla; e perciocchè il cardinale Aldobrandino,
a cagion della guerra suddetta, era ito a Sciambery, fu chiamato colà,
ed assistè alla solennità di quelle nozze che furono benedette da Dio,
con aver la regina da lì a dieci mesi partorito al re un delfino, che
fu poi _Lodovico XIII re_ di Francia.
Abbiano detto insorta guerra fra esso _re Arrigo_ e _Carlo Emmanuele_
duca di Savoia. Era stata rimessa nel pontefice la decisione della
controversia sopra il marchesato di Saluzzo, che già vedemmo occupato
dal duca, ma preteso dal re come dipendenza del delfinato. Spediti
nell'anno precedente i ministri del re e del duca a Roma, sfoderò
ciascuna delle parti le ragioni, credendo, giusta il solito, migliori
le sue. Ed era veramente imbrogliato l'affare per varii atti dei
passati marchesi in favore ora della Savoia ed ora della Francia.
Fu proposto dal papa che si depositasse in sua mano quel marchesato;
dopo di che egli giudicherebbe. Perchè spedito al re questo progetto
fu accettato, il duca s'insospettì di essere preso in mezzo; e perchè
lasciò traspirar questo suo sospetto, il pontefice, non sofferendo
che fosse messa in dubbio la sua onoratezza, rinunziò al compromesso.
Pensava il duca di poter egli riuscir meglio in questo affare,
trattandone a dirittura col medesimo re, giacchè niun principe viveva
allora che si potesse uguagliare nella perspicacia dell'ingegno e nella
vivacità dello spirito a Carlo Emmanuele, siccome confessò chiunque il
conobbe e praticò. Sul fine dunque dell'anno antecedente passò egli
in persona a Parigi con accompagnamento nobilissimo; e quantunque
il re avesse ordinato che gli fosse compartito ogni possibil onore,
pure egli, superiore alle formalità, lasciati indietro i suoi, quasi
solo e di notte a cavallo per le poste arrivò a trovare il re, da cui
fu ricevuto con ogni sorta di stima. Sì da lui col re, come da' suoi
ministri coi deputati del re, lungamente si trattò; ma con trovarsi
inespugnabile il re, pretendente prima la purgazion dello spoglio, e
che poi si conoscerebbono le ragioni. Tuttavia coll'interposizione
del Calatagirona ministro del papa già dichiarato patriarca di
Costantinopoli, si ottenne che il re accetterebbe una compensazion di
Stati in vece di Saluzzo, cioè il principato chiamato di Bressa con
altri luoghi, fra' quali Pinerolo. Fu dato al duca il tempo di tre mesi
a risolvere.
Pretendono alcuni storici che il duca di Savoia in quella occasione
proponesse al re l'acquisto del ducato di Milano (cosa da non credere
sì facilmente), e tutti poi convengono in dire ch'egli intavolò delle
trame col maresciallo di Birone contra del re. Infatti lo stesso
Guichenone, storico della real casa di Savoia, non ha avuto difficoltà
di confessarlo, stante l'aver il duca trovato in quel maresciallo
un uomo superbo, che sparlava del re come di un grande ingrato ai
rilevanti servigi suoi. Il cardinal Bentivoglio, fondato in una
relazione del cardinale Aldobrandino, scrive essere andato il duca
in Francia col fine principale di secretamente ordire e conchiudere
quella congiura contra del re Arrigo. Tornato egli a' suoi Stati,
dopo aver lasciato nel re e in tutta la corte di Francia un gran
concetto del suo mirabil talento, della sua liberalità, della sua
destrezza e affabilità, restò un pezzo irresoluto; e, o sia perchè
non sapesse accomodarsi ad alcuna delle condizioni proposte, o perchè
fosse dietro a tirare il re di Spagna e il conte di Fuentes governator
di Milano alla propria difesa, o perchè manipolasse degli imbrogli,
siccome principe di alte macchine e di vasti pensieri; lasciò spirare
il tempo dei tre mesi convenuti. Allora il re Arrigo mosse l'armi
sue sotto i marescialli di Lesdiguieres e Biron, che s'impadronirono
di Monmeliano, Sciambery e di tutta la Savoia prima che terminasse
l'anno. Intanto il pontefice, non men per proprio istinto che per le
sollecitudini dell'ambasciatore di Spagna, s'interpose per la pace, e
diede per questo pressanti ordini al cardinale Aldobrandino suo nipote,
il quale già abbiam veduto passato alla corte del re Cristianissimo.
Se ne trattò vivamente per tutto il verno; e ciò che ne avvenisse,
è riserbato all'anno seguente. Un bel servigio fece il re Arrigo
in questi tempi ai Ginevrini, per divozione probabilmente alla lor
pecunia; perchè avendo egli preso in Savoia il forte di Santa Caterina,
cioè una spina che stava negli occhi di quella città, patriarchessa
degli eretici, ordinò o permise che si demolisse: risoluzione che
sommamente alterò l'animo del legato apostolico, e poco mancò che non
andasse per terra tutto il quasi compiuto negozio della concordia.
Mi darà licenza il lettore che io vada brevemente ora accennando
gli affari della Fiandra e dell'Ungheria, perchè in fine assai
condottieri, uffiziali e milizie italiane ebbero parte anch'essi in
quelle guerre. Un bel regalo della buona fortuna parea all'_arciduca
Alberto_ l'acquisto fatto della Fiandra; ma gli restava una dura
pensione, cioè la guerra tuttavia viva cogli Olandesi, assistiti dalla
regina d'Inghilterra. Non ommise l'_imperadore Rodolfo_ di spedire
ambasciatori a fin di smorzare sì lungo incendio in quelle parti, e
seguirono eziandio molte conferenze; ma in fine le cose restarono
nel piede di prima. Trovavasi intanto l'arciduca sprovveduto di
quell'importante ingrediente, senza di cui chi vuole far guerra contra
di chi può resistere, può aspettarsi ogni sinistro evento. Per mancanza
appunto di paghe si ammutinarono in parte le milizie spagnuole, e
l'esempio loro si trasse dietro ancor quello delle italiane. Profittò
il conte Maurizio di Nassau di questo disordine, e s'impadronì di
Vacthendonch e del forte di Crevacuore, e poi di quello di Sant'Andrea.
Uscito di nuovo in campagna nel mese di giugno, inaspettatamente andò
a mettere l'assedio a Neoporto. Avendo l'arciduca trovata maniera di
ammansar gli ammutinati, si mosse per dar battaglia al Nassau, che in
questi tempi godeva, e con ragione, il concetto di essere uno dei più
prodi e sperti generali di armata. Perchè la cavalleria dei cattolici
sulle prime si disordinò e rovesciossi addosso alla fanteria, andò
sconfitto tutto l'esercito dell'arciduca, con perdita della gente più
fiorita e veterana. Vi perirono o restarono prigioni molti uffiziali
di conto, e fra gli altri e Italiani morti il cardinal Bentivoglio vi
conta un suo fratello e un nipote, giovani amendue di venti anni. Con
tutta nondimeno questa gran percossa, essendo riuscito ai cattolici
d'introdurre dipoi un soccorso di gente e di viveri in Neoporto, il
Nassau fu obbligato a ritirarsi da quello assedio. Federigo Spinola che
con quattro galee rondava per que' lidi, ed avea già recati non pochi
danni all'armata olandese, continuò ad infestar la lor gente imbarcata,
mentre si ritiravano.
In Ungheria continuò la guerra coi Turchi, e il pontefice mandò danari
in soccorso de' cristiani. Fu anche chiamato colà da Mantova don
Ferrante Gonzaga, siccome persona celebre pel suo valore e per la sua
sperienza militare, e dichiarato governatore dell'Ungheria superiore.
Perchè mille tra Valloni e Franzesi si trovavano di presidio in
Pappà, nè poteano aver le paghe, giunsero a tanta viltà e perfidia,
che venderono quel forte luogo ai Musulmani. Ciò riferito ai capitani
imperiali, volarono a cignere d'assedio quella piazza, e con sì
frequenti assalti la tempestarono, che ducento Franzesi ivi restati
presero la fuga di notte; ma scoperti, furono tutti parte uccisi e
- Parts
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- Annali d'Italia, vol. 6 - 02
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- Annali d'Italia, vol. 6 - 08
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