Annali d'Italia, vol. 6 - 56
di produrre sì bei sogni. Fu questo levato da Costantino Magno dal suo
sito e trasportato pel Nilo ad Alessandria, con disegno di trarlo alla
sua nuova Roma, cioè a Costantinopoli. Fecelo poi l'imperador Costanzo
suo figlio condurre a Roma vera con una mirabil nave, mossa da trecento
remiganti, ed alzarlo nel circo massimo. Da più secoli atterrato o
dai Barbari, o da tremuoti, giacque quel nobilissimo monumento rotto
in tre pezzi, e in parte seppellito nelle rovine d'esso circo: quando
l'animoso Sisto fece maestrevolmente acconciarlo, e trasferirlo
nella piazza lateranense, dove alzato tuttavia si ammira. Oltre a ciò
trovandosi la biblioteca vaticana, dove si conserva un immenso tesoro
di libri scritti a penna, mirabilmente accresciuto anche dai pontefici
de' nostri tempi, in un sito basso, scuro e poco salutevole, Sisto
fece fabbricar per essa un nobilissimo edificio nuovo con assaissime
pitture, che restò compiuto nell'anno presente. Appresso alla stessa
biblioteca in Belvedere istituì lo stesso pontefice una insigne
stamperia con caratteri ebraici, greci, latini e di altre lingue
orientali, affinchè spezialmente vi si stampassero le opere de' santi
padri.
Gran pascolo ebbero in quest'anno i curiosi cacciatori degli
avvenimenti del mondo. Imperciocchè _Filippo II re_ di Spagna da
gran tempo faceva una stupenda raunanza di armati e di vele, senza
sapersi dove tendessero le mire sue. Sospettavano i più ch'egli la
volesse contro l'Olanda; ma venne a scoprirsi che i disegni suoi
erano contro Elisabetta regina d'Inghilterra, siccome quella che fin
qui aveva dato gran braccio agli eretici ribelli nei Paesi Bassi,
e già appariva che senza depressione di lei non si potea sperare di
calmar giammai quella ribellione. Non ha mai veduto la Spagna un sì
grandioso apparato di flotta navale, come fu questo, contandosi in esso
cento trentacinque legni grossi tra galee, galeazze e vascelli tondi,
allora chiamati galeoni, oltre ad altri minori e navi da carico, con
immensa quantità di artiglierie, attrecci militari e munizioni, dove
s'imbarcarono circa venti mila bravi combattenti. Immense spese costò
un sì poderoso armamento. Aveva nello stesso tempo ricevuto ordine
il duca _Alessandro Farnese_ di allestire in Fiandra un'oste poderosa
con legni da trasporto per traghettarla in Inghilterra al primo avviso
che vi fosse approdata la flotta di Spagna. Cinque mila fanti trasse
egli da Milano, quattro altri mila da Napoli, ed altri dalla Borgogna
e Germania, oltre ai venturieri che da tutte le parti comparvero al
servigio di sì rinomato principe. Si trovò il Farnese avere un esercito
di circa quaranta mila fanti e di quasi tre mila cavalli. Il pontefice
Sisto aveva anch'egli promesso di concorrere a quella grande impresa
con un milione di scudi, ma non prima che gli Spagnuoli avessero
posto piede in Inghilterra. Sospettando intanto di questo minaccioso
turbine la regina inglese, non lasciò di ben premunirsi colle forze
del regno, e coll'implorar soccorso dagli amici. Mise insieme anche
ella una copiosa flotta di vascelli, creandone ammiraglio milord Carlo
Howard, e viceammiraglio il corsaro Francesco Drago, famoso per tante
percosse date in America ed altrove agli Spagnuoli. Fu creduto che ella
assoldasse quaranta mila fanti, e poco inferior numero di cavalleria.
Nel mese di giugno fece vela la formidabil flotta di Spagna comandata
dal _duca di Medina Sidonia_ poco sperto nei combattenti navali, ma
con cattivo augurio, perchè dissipata in breve da una fiera burrasca.
Si raccolse essa in fine alla Corogna, e di là poi continuò il viaggio
alla volta d'Inghilterra, finchè arrivò a vista della nemica armata
navale. Si aspettavano tutti che si venisse a un terribil fatto
d'armi, e tale era il consiglio de' capitani; ma il duca non poteva
darla se non quando il consiglio di Spagna l'ordinava, o quando la
collera altrui o la sua il levava dall'indifferenza. Intanto voltò
egli le prode, con tempestare intanto il duca di Parma che uscisse
in mare colle sue navi da trasporto, ma senza poterlo egli fare per
varii riflessi, e spezialmente per non esporre navi disarmate alle
artiglierie nemiche. Furono prese dal Drago alcune navi spagnuole
sbandate: quand'ecco, mentre la flotta ispana solamente pensava a
ritirarsi per non combattere co' nemici, vien forzata a combattere
con una spietata tempesta di mare che all'improvviso si sollevò. Restò
essa tutta spinta qua e là, parte in Iscozia ed Irlanda, e parte verso
altre contrade. Molte di quelle navi rimasero ingoiate dall'infuriato
elemento, altre caddero in mano degl'Inglesi; quelle infine che si
ridussero salve in Ispagna, si videro tutte malconcie e sdruscite.
Secondo gli scrittori spagnuoli, vi perirono solamente trentadue
legni da guerra, oltre a quei da carico, e circa dieci mila soldati.
Dai nemici si fece ascendere la perdita di essi Spagnuoli oltre a
venti mila uomini e ad ottanta navi. Quel che è certo, inesplicabile
fu il danno degli Spagnuoli, e in quella fortuna di mare naufragò
ogni speranza di rintuzzar l'orgoglio della regina inglese e di
saldar le piaghe dei popoli fiamminghi. Ma se grande, anzi massima
fu quella disavventura, più grande ancora, per attestato d'ognuno,
si trovò l'animo e il coraggio del _re Filippo II_, che niun segno di
perturbazione mostrò, e placido come prima fece conoscere che il suo
coraggio era superiore ad ogni scossa dell'avversa fortuna. Il suo
sdegno nondimeno contro il Medina Sidonia non tardò a farsi conoscere;
nè mancarono dicerie ed accuse contra di Alessandro Farnese, quasi
che potendo non avesse voluto accorrere in soccorso dell'altro.
Alcune imprese fece nel resto di quest'anno esso duca Alessandro;
ma io mi dispenso dal raccontarle. Non vo' già tacere, aver molti
creduto invenzione di questi ultimi tempi l'uso delle bombe, quando
c'insegna Famiano Strada, che, inventate esse da un Italiano, oppure
da altro ingegnere di Ventò con poca diversità dalle moderne, furono in
quest'anno adoperate nell'assedio di Vactendon picciola fortezza della
Gheldria, e molto cooperarono per costringerla alla resa.
Non minore strepito fece parimente nell'anno presente una scena
succeduta in Francia, che esigerebbe molte parole, ma che io in
poche spedirò. Mal soddisfatto era il _re Arrigo III_ del _duca di
Guisa_ e de' suoi seguaci cattolici confederati, perchè la potenza
d'essi faceva troppo ombra alla regal sua autorità. Furono a lui
insinuati sospetti che il duca amoreggiasse la corona di Francia,
senza neppure aspettarla dopo la morte sua. Furono infatti proposte
da essi confederati al re alcune dure condizioni, e il Guisa volle
venire a Parigi, con tutto che il re glie lo avesse vietato. Tanto più
crebbe allora il sospetto e la paura di esso monarca; ed essendosi
egli voluto premunire coll'introdurre in Parigi alcune compagnie di
Svizzeri e Franzesi, ecco, nel dì 12 di maggio, appellato il dì delle
Barricade, il cattolico popolo parigino, affezionato ai principi di
Guisa, prender l'armi contro quella guarnigione: per la qual ribellione
il re non si giudicando sicuro, si ritirò a Sciartres. Furono poi
fatti dei gran maneggi per la concordia, e il re finalmente ricevette
in grazia il _duca di Guisa_ e tutti i suoi aderenti, anzi li colmò
di onori, ma covando nell'animo un dispetto ed odio implacabile contra
di loro. Non passò quest'anno senza farlo conoscere; imperciocchè nel
dì 23 di dicembre, chiamato il _duca_ nella camera del re, fu dalle
guardie trucidato. Preso anche il _cardinale di Guisa_ suo fratello,
da lì a poco restò privato di vita. Vidersi inoltre imprigionati il
_cardinal di Borbone_, l'_arcivescovo di Lione_, i _duchi di Nemours
_ e d'_Elboeuf_ con altri: dopo di che Arrigo tutto glorioso proruppe
in queste parole: _Ora sì ch'io son re_. Intanto il duca di Nemours
fuggito di prigione, _Carlo di Lorena_ duca d'Umala, il popolo di
Parigi e gli altri cattolici più che mai rinforzarono la ribellione,
declamando da per tutto contro il re, massimamente per la morte
inferita alla sacra persona del cardinal di Guisa, e per la prigionia
dell'altro di Borbone. Però in somma confusione restò quel regno, e
grandi risentimenti ne fece la corte di Roma.
Fu detto che, preso il segretario del duca di Guisa, con tutte le
scritture, si venisse a scoprire l'intelligenza che passava ai danni
del re fra _Filippo re_ di Spagna, _Carlo Emmanuele duca_ di Savoia e
il _duca di Guisa_. Può dubitarsi che fossero pretesti inventati per
far comparire giusta la risoluzione presa dal re. Per altro, esso duca
di Savoia si servì in questi tempi degli sconcerti della Francia in suo
vantaggio. Possedeva da molti anni la corona di Francia il marchesato
di Saluzzo in Italia, decaduto per la linea finita di que' marchesi.
Sopra quello Stato avea la casa di Savoia delle giuste pretensioni,
ma inutili fin qui per la troppo superior potenza della Francia.
Accadde che il duca di Lesdiguieres, generale dell'eretico _re di
Navarra_, possedendo le migliori fortezze del Delfinato, minacciava
quel marchesato, e prese ancora Castel Delfino. Allora il duca,
siccome quegli a cui premeva che l'eresia non penetrasse in Italia,
e che i nemici del re di Francia non s'impadronissero di Saluzzo,
giudicò meglio di prevenirli con impossessarsene egli. Adunque sul fin
di settembre uscito in campagna prese Carmagnola, dove trovò circa
quattrocento cannoni (se pur si può credere) e dei grossi magazzini
di ogni sorta di provvisione. Poscia aiutato anche dal governatore di
Milano, soggiogò Cental e Revel, entrò in Saluzzo, ripigliò Castel
Delfino: in una parola, tutto quel marchesato venne alle sue mani.
Ebbe un bel dire il duca Carlo Emmanuele: il re di Francia restò mal
soddisfatto di quella occupazione, commosse i Genevrini e gli Svizzeri
contra di lui, e di là da' monti si diede principio ad una molto
pericolosa guerra: giacchè spedito dal re il signor di Pugnì al duca,
nol potè muovere a rilasciar quel paese. Con queste sì fiere turbolenze
di Stati terminò l'anno presente.
Anno di CRISTO MDLXXXIX. Indizione II.
SISTO V papa 5.
RODOLFO II imperadore 14.
Neppure lasciò il _pontefice Sisto_ quest'anno senza qualche magnifica
impresa per sempre più abbellire la città di Roma. Restava tuttavia fra
le rovine del circo massimo un altro nobilissimo obelisco egiziano,
tutto tempestato di gieroglifici, rotto in più pezzi, già condotto a
Roma da Cesare Augusto. Fattolo racconciare da periti maestri, volle
Sisto che fosse rialzato davanti alla chiesa di Santa Maria del Popolo.
Oltre a ciò, aggiunse ornamenti all'insigne colonna antonina istoriata,
alla cui cima per una interna scala si sale, e solennemente la dedicò
a san Paolo apostolo, ponendovi sopra l'immagine d'esso apostolo di
bronzo. E perciocchè il porto di Cività Vecchia scarseggiava d'acque
buone, provvide al bisogno di quel popolo e dei naviganti, con farne
venir colà, mercè degli acquedotti fabbricati per sei miglia, dove
portava il bisogno. Aveano tentato, e non senza frutto, gli antichi
Romani e i succeduti imperadori di seccar le paludi pontine, acciocchè
tante miglia di paese inondato dall'acque servissero da lì innanzi
alla coltivazione, e cessassero ancora i danni dell'aria cattiva. Per
le calamità de' secoli barbarici tornarono quelle paludi a ripigliare
l'antico lor dominio in quelle campagne. Un bell'oggetto appunto
all'animo grande di papa Sisto era il provvedere per sempre a quel
disordine sì pernicioso al pubblico, e vi si applicò col suo solito
ardore, facendo cavare una larga e lunghissima fossa, appellata anche
oggidì il fiume di Sisto, con ispesa di ducento mila scudi, per cui
si guadagnò un gran tratto di paese. Pensava egli di condurre questa
fossa fino al mare, ma, rapito poi dalla morte, ne lasciò la cura ai
suoi successori. Con ragione ancora si può dire ch'egli rinnovasse
il palazzo Lateranense colla giunta di tante fabbriche, portici, sale
e camere dipinte da valenti pittori, delle quali poi fece la solenne
dedicazione a' dì 30 di maggio dell'anno presente. Erano sformate e
quasi lacere le grandi statue dei due cavalli attribuite (benchè molto
se ne dubiti) agli antichi eccellenti scultori Fidia e Prassitele. Il
buon Sisto le rimise nell'antico loro decoro, e le fece collocare nella
piazza del Quirinale. Al medesimo pontefice ancora si dee la fabbrica
di un ponte dal suo nome chiamato Felice, posto sopra il Tevere ad
Otricoli.
Ma in mezzo a queste bell'opere il cuor di papa Sisto era tormentato
non poco per quanto era avvenuto in Francia nel precedente anno, parte
pel timore che la religion cattolica ne patisse (timore maggiormente
accresciuto nell'anno presente, in cui _Arrigo III_ re si riconciliò
ed unì coll'eretico _Arrigo re di Navarra_), e parte per l'enorme
scandalo commesso da esso re di Francia colla morte data al cardinale
di Guisa, e per la prigionia di quel di Borbone, e dell'arcivescovo
di Lione. Dall'un canto non mancò Arrigo III d'inviare ambasciatori
a Roma per giustificare o scusare l'operato da lui; ma dall'altro
il buon pontefice veniva tutto dì pulsato dai ministri della lega, e
incitato a procedere con forte braccio contra del re cui la Sorbona
stessa avea dichiarato decaduto da ogni suo diritto sopra la corona.
Maraviglia fu che il focoso pontefice andasse barcheggiando un pezzo,
finchè assicurato che un poderoso armamento si facea dagli eretici
in Francia, e vedendo che, per quante istanze si fossero fatte, il
re non s'induceva a rimettere in libertà il cardinal di Borbone e
l'arcivescovo: finalmente nel dì 24 di maggio pubblicò un monitorio,
in cui esortava, e poi comandava che il re nel termine di dieci giorni
dopo la pubblicazione da farsi in Francia rilasciasse i suddetti
carcerati, e dopo sessanta giorni comparisse egli in persona, o per
procuratore, a rendere ragione della morte del cardinal di Guisa
e della prigionia dell'altro: il che non facendo, incorresse nelle
scomuniche. Intanto in Francia la regina _Caterina de Medici_ madre
del re, che prima della morte dei Guisi era stata presa da una lenta
febbretta, tal affanno concepì per quella tragedia, che nel dì 5 di
gennaio del presente anno terminò il suo vivere: principessa di grande
ingegno, ma che presso alcuni scrittori franzesi vien dipinta come
donna di grandi raggiri per mantener sempre sè stessa nell'autorità
del comando; il che, secondo essi, tornò in non lieve pregiudizio del
regno. Altri, per lo contrario, lasciarono un bell'elogio della sua
pietà e saviezza, per cui spezialmente la corte di Francia fu non poco
preservata dal libertinaggio, ch'era allora alla moda; e certamente
ella sempre si dimostrò lancia e scudo al cattolicismo.
Dacchè il _re Arrigo III_, credendosi poco sicuro dalla parte della
lega, si accordò col re di Navarra seguace del calvinismo, maggiormente
s'irritarono contra di lui i cattolici, quasichè egli fosse per tradir
la religione in cui era nato; e però scossero ogni riverenza verso di
lui, trattandolo col solo nome di tiranno, e declamando fin dai pulpiti
contra di lui. Questa universal detestazione quella verisimilmente fu
che mosse Jacopo Clemente, giovinetto di ventitrè anni, già ammesso
nell'ordine dei Predicatori, a voler liberare la Francia da questo
principe con una troppo detestabile iniquità. Cioè, entrò in testa a
questo fanatico giovane, che un bel sacrificio si farebbe a Dio, un
gran vantaggio si recherebbe alla religion cattolica con togliere dal
mondo, a spese anche della propria vita, Arrigo III, senza riflettere
che la legge di Dio comanda l'ossequio nel governo civile al principe
legittimo, ancorchè divenuto tiranno o eretico o infedele. Pertanto
finse lettere, e mostrando di aver segreti di importanza da comunicare
al re solo, ebbe maniera di farsi introdurre alla sua udienza nel dì
primo di agosto. Mentre il re leggeva le lettere da lui portate, il
diabolico giovane, cavato dalla manica un coltello avvelenato, gliel
cacciò profondamente nella pancia. Gridò il re, e, preso lo stesso
coltello, ferì Clemente sopra un occhio; ed accorse le guardie, con più
colpi lo stesero morto a terra, senza che si potesse poi ricavare onde
costui fosse stato spinto a sì enorme scelleratezza. Il re nel seguente
giorno con sentimenti sempre cattolici di credenza, di pentimento dei
suoi falli e di perdono agli altrui, spirò l'anima in età di trentanove
anni, con rimanere estinta in lui la linea dei re di Francia della
casa di Valois. Maggiormente crebbero per questa morte le turbolenze
di quel regno. Fu il valoroso re di Navarra della linea di Borbone dai
suoi parziali, come più prossimo al regno, proclamato re, e prese il
nome di _Arrigo IV_, con giuramento di conservare la fede cattolica nel
regno, ma rigettato a cagion della sua eresia dalla lega cattolica,
la quale dichiarò re _Carlo cardinal di Borbone_, ancorchè tuttavia
prigione. Diedesi quindi principio ad un'arrabbiata guerra fra esso
Arrigo IV (che saccheggiò i borghi di Parigi con acquistar ancora varii
luoghi) e la lega appellata santa, in favore di cui apertamente si
dichiarò _Filippo II_ re di Spagna, e si preparava anche a far molto il
pontefice Sisto, se la morte non avesse troncati gli alti suoi disegni.
Non erano in questo tempo men grandi i pensieri di _Carlo Emmanuele
duca_ di Savoia, sì pei proprii vantaggi, che per secondar le massime
del re Cattolico suocero suo, rivolte, non so se in sostanza, oppure
in apparenza, a favor della Francia, per essere anch'egli stato uno
de' pretendenti a quella corona. I Genevrini e i Bernesi aveano mossa
guerra contra la Savoia; laonde il duca fece leva di genti in varie
parti d'Italia, dichiarando, con permissione del duca di Ferrara,
capitan generale delle sue armi _Filippo d'Este_ marchese di San
Martino, cognato suo. Ebbe ancora soccorsi di gente dallo Stato di
Milano; e con queste forze ricuperò i luoghi a lui presi dagli eretici;
indusse i Bernesi a far seco pace, e poi lasciò come bloccata Genevra.
Avvenuta poi la morte di Arrigo III, avendo promosse le pretensioni
sue sopra il regno di Francia, mosse guerra in Provenza, dove se gli
diedero alcuni di quei popoli. Tentò anche il parlamento del Delfinato,
ma non riportò se non buone parole. Aveva in questi tempi _Ferdinando
de Medici_ deposta la sacra porpora, ed assunto il titolo di gran
duca di Toscana; però pensò all'accasamento suo. Fu da lui scelta per
moglie _Cristiana_ figlia di _Carlo duca_ di Lorena, allevata fin dalla
tenera età nella corte di Francia sotto la regina Caterina. Condotta
per mare questa principessa, fece poi la solenne sua entrata in Firenze
nel dì ultimo d'aprile: siccome esso gran duca Ferdinando era principe
sommamente magnifico, e che si trattava alla reale, così celebrò con
sontuose feste e divertimenti quelle nozze, alle quali intervennero
il duca e la duchessa di Mantova, i cardinali Colonna vecchio,
Gonzaga vecchio, Alessandrino e Gioiosa con don Cesare d'Este cognato
d'esso gran duca. _Papa Sisto_ anch'egli maritò in quest'anno due sue
pronipoti, l'una con Virginio Orsino duca di Bracciano, l'altra col
duca di Tagliacozzo e contestabile del regno, di casa Colonna, con dote
per cadauna di cento mila scudi.
Anno di CRISTO MDXC. Indizione III.
URBANO VII papa 1.
GREGORIO XIV papa 1.
RODOLFO II imperadore 15.
Fu in quest'anno pubblicata la sacra Bibbia, che l'infaticabil _papa
Sisto_, in esecuzione del prescritto dal concilio di Trento, avea fatto
collazionare con gli antichi manoscritti, ed emendare. Ma perchè non
riuscì perfetta quella fatica, nè assai corretta l'edizione, un'altra
più esatta ne fece poi fare Clemente VIII. Ora, mentre si aggiravano
in mente ad esso _papa Sisto V_ imprese sempre nuove o in vantaggio
della cristianità, o in utile dei suoi Stati, o in ornamento di
Roma, ed impiegava anche moltissimi pensieri per le guerre civili che
laceravano la Francia con gravissimo pericolo della religione, eccoti
la morte bussare alla porta, e portarlo all'altra vita nel dì 27 di
agosto dell'anno presente. Era egli nato nel dì 13 di dicembre del
1521. Dopo il già detto non ci sarebbe bisogno che io qui ricordassi
qual fosse la grandezza dell'animo di questo pontefice, quale il suo
zelo per la fede cattolica, quale la religiosità de' suoi costumi, e la
sua moderazione verso i nipoti, i quali restarono ben ricchi, ma senza
avere espilato l'erario di San Pietro. Niun più di lui seppe farla da
principe; ma vi fu chi desiderò che meno lo facesse. Sotto di lui tutti
tremavano: tanto era il rigore della sua giustizia, quasichè egli nulla
curasse di farsi amare dai sudditi suoi. Dicono che anche oggidì si fa
paura ai fanciulli col suo nome. La verità nondimeno è che a lui non
mancò l'amore di molti, e massimamente dei saggi. Grandiose furono le
di lui idee, nè io tutte le ho riferite, tutte nondimeno animosamente
eseguite, ma comperate colle lagrime dei suoi popoli, per aver egli
imposto di nuovo, come scrive il Cicarelli, più di trentacinque dazii
e gabelle: ortiche, le quali, una volta nate, non si seccano mai più;
e quelle anche rigidissimamente riscosse dai suoi commissarii. Venali
ancora rendè molti uffizii: del che certo non riportò lode. A questo
pontefice vivente avea il senato e popolo romano alzata una statua
con bella iscrizione. Ma dacchè egli cessò di vivere, molti nobili,
disgustati per la di lui asprezza, e per avere levato alcuni uffizii
al senato romano; moltissimi ancora della plebe in vendetta delle
gravezze imposte si sollevarono, e bene fu che s'interponessero dei
saggi magnati: altrimenti su quella statua si sfogava la lor collera e
vendetta. Quetossi il tumulto; con tutto ciò servì quest'esempio perchè
i Romani formassero uno stabile decreto di non alzar più statue ad
alcun pontefice vivente. Tempo in fatti pericoloso per l'adulazione è
la vita de' principi; il giusto giudizio del merito delle persone si ha
da aspettar dalla morte.
Ora entrati in conclave i porporati, nel dì 15 di settembre elessero
con somma concordia papa il cardinale _Giambatista Castagna_ nato
in Roma da padre genovese nel 1521, e sempre in essa allevato, e
considerato come Romano. Tali virtù e belle doti d'animo e d'ingegno,
e spezialmente di amorevolezza, saviezza e sperienza degli affari del
mondo, concorrevano in questo personaggio, che si può dire ch'egli
entrò papa in conclave, c tale anche ne uscì. Lo stesso papa Sisto, che
ben s'intendeva del valore delle persone, più d'una volta scherzando
diede a conoscere di riguardar lui, come suo successore. Prese egli
il nome di _Urbano VII_, ed era ben degno di lunga vita, perchè nulla
a lui mancava di buono per fare un ottimo reggimento. Ordinò tosto
che niuno de' parenti suoi prendesse altro maggior titolo di quel che
aveano innanzi. Nè pur volle promuoverne alcuno ai supremi uffizii,
dicendo esser meglio di valersi di altri, per potere, se fallassero,
senza impedimento del naturale affetto, o rimuoverli o gastigarli. Fece
subito descrivere tutti i poveri della città, con animo di esercitar
verso di loro l'innata sua liberalità, di cui, appena creato papa,
diede un bei saggio verso i cardinali poveri. Immantenente ancora
ordinò la riforma della dateria e la continuazione delle fabbriche di
papa Sisto, volendo che del medesimo quivi si ponessero l'armi, e non
già le sue. Pensava eziandio a levar le gabelle poste da papa Sisto,
a provvedere alla carestia allora corrente e ad altre lodevoli azioni.
Ma che? nel secondo giorno del suo pontificato cominciò a sentirsi poco
bene; sopraggiunse la febbre, e questa nel dì 27 di settembre, il rapì
dalla presente vita con incredibil dispiacere del popolo romano, che
per lui eletto somma allegrezza mostrò, per lui infermo offerì a Dio
ferventi preghiere, e lui morto onorò col pianto quasi di ognuno.
Convenne dunque che il sacro collegio passare ad una nuova elezione,
e questa cadde, dopo molte dispute pel concorso di altri degnissimi
porporati, correndo il dì 5 di dicembre, nel _cardinale Niccolò
Sfondrati_ nobile milanese, chiamato il Cardinal di Cremona, perchè
vescovo di quella città, e di famiglia anche oriunda di là. Suo padre
fu Francesco già senatore di Milano, e dopo la morte di Anna Visconte
sua moglie, pel suo sapere creato cardinale da Paolo III, vescovo fu
anch'egli di Cremona. Era Niccolò suo figlio personaggio di maschia
pietà, dottissimo, di costumi sempre incorrotti, di somma umiltà, e sì
alieno dal desiderio della sacra tiara, che, trovandosi all'improvviso
eletto papa, rivolto ai capi delle fazioni disse: _Dio ve lo perdoni:
che avete voi mai fatto?_ Prese il nome di _Gregorio XIV_. Perchè
infermiccia era la sua sanità, e abbisognava di persona fedele a
sostenere il gran peso a lui addossato, creò tosto cardinale Paolo suo
nipote, figlio di suo fratello e di Sigismonda Estense, che riuscì un
insigne porporato. Chi scrisse schiantata sotto Sisto V la razza de'
banditi, volle piuttosto dire frenata la loro insolenza. Imperocchè
buona parte d'essi si ritirò nei confini di Napoli e della Toscana,
e un'altra continuò ad infestar la Romagna; nè tutti gli sforzi di
quel sì temuto pontefice poterono apprestare una vera medicina al
male. Crebbe poi questo dopo la morte di esso Sisto, e massimamente
perchè Alfonso Piccolomini duca di Monte Marciano, caduto in disgrazia
del _gran duca Ferdinando_, e con grossa taglia sulla sua testa
perseguitato dappertutto, si fece capo di que' masnadieri in Romagna;
ed arrivato a mettere insieme alquante squadre di cavalli, commettea
frequenti assassinii. Altrettanto facea Marco Sciarra, altro capo
di banditi e scellerati in Abbruzzo con iscorrere fino alle porte di
Roma, bruciar casali, ed esigere contribuzioni. Unironsi poi insieme
queste due esecrabili fazioni, ed aumentandosi di giorno in giorno la
loro truppa, incredibili danni recavano, talmente che il terror di
essi si stendeva ben lungi. Perchè il vicerè di Napoli spedì contra
di loro circa quattro mila soldati, passarono tutti in Campagna di
Roma sul principio di dicembre. Il gran duca inviò _Camillo del Monte_
con ottocento fanti e ducento cavalli in traccia di costoro. Da Roma
ancora andò _Virginio Orsino_ con quattrocento cavalli. Fu assediato
lo Sciarra coi suoi in un casale; sopraggiunse il Piccolomini con
circa secento cavalli, e si venne a battaglia, in cui ben cento di
quei malvagi uomini furono uccisi o presi. Contuttociò gli altri la
notte ebbero la fortuna di mettersi in salvo. Oltre a questo flagello,
un altro di lunga mano maggiore si provò ne' presenti tempi quasi
per tutta l'Italia, e massimamente nello Stato della Chiesa, cioè la
carestia, per cui la povera gente si ridusse a mangiar erbe, cioè a
pascersi d'un cibo che solo basta a recar la morte agli uomini. Se a'
tempi nostri o son rare le carestie, o ad esse si provvede, è proceduto
questo dall'introduzione e dilatata coltura del grano turco, che
melgone o frumentone vien chiamato in alcuni paesi, supplendo esso alla
mancanza dei frumenti e di altri grani. Si applicò tosto il novello
pontefice al soccorso de' suoi popoli, nè tralasciò diligenza e spesa
per aiutarli.
Ma quello che maggiormente teneva in tempesta l'animo di esso papa
Gregorio, era il lagrimevole stato della Francia, dove in quest'anno si
fece guerra alla disperata fra _Arrigo IV re_, sostenuto principalmente
dagli ugonotti, e la lega de' cattolici, capo di cui era il _duca
di Umena_ della casa di Guisa. Brevemente accennerò io che nel dì 14
di marzo fra i due nemici eserciti si venne ad una giornata campale
presso d'Ivrì, in cui Arrigo principe di singolar valore, quantunque
inferiore di forze, diede una gran rotta all'Umena con istrage
di non poca della di lui fanteria, e colla presa delle bandiere,
artiglierie e bagaglio. Se Arrigo era più sollecito a marciare alla
volta di Parigi, fu creduto che quel popolo, trovandosi sprovveduto,
avrebbe capitolata la resa. Allorchè v'andò, trovò fatti assaissimi
preparamenti, e prese molte precauzioni; ciò non ostante, ne imprese
l'assedio. La costanza de' Parigini nella difesa della città sotto
il comando di _Carlo duca di Nemours_, e le calamità incredibili
da loro sofferte per l'estrema penuria di vettovaglia, furono cose
memorabili che empierebbono un lungo campo di storia. Nel qual tempo
mancò di vita in prigione il _cardinal Carlo di Borbone_, vanamente
sito e trasportato pel Nilo ad Alessandria, con disegno di trarlo alla
sua nuova Roma, cioè a Costantinopoli. Fecelo poi l'imperador Costanzo
suo figlio condurre a Roma vera con una mirabil nave, mossa da trecento
remiganti, ed alzarlo nel circo massimo. Da più secoli atterrato o
dai Barbari, o da tremuoti, giacque quel nobilissimo monumento rotto
in tre pezzi, e in parte seppellito nelle rovine d'esso circo: quando
l'animoso Sisto fece maestrevolmente acconciarlo, e trasferirlo
nella piazza lateranense, dove alzato tuttavia si ammira. Oltre a ciò
trovandosi la biblioteca vaticana, dove si conserva un immenso tesoro
di libri scritti a penna, mirabilmente accresciuto anche dai pontefici
de' nostri tempi, in un sito basso, scuro e poco salutevole, Sisto
fece fabbricar per essa un nobilissimo edificio nuovo con assaissime
pitture, che restò compiuto nell'anno presente. Appresso alla stessa
biblioteca in Belvedere istituì lo stesso pontefice una insigne
stamperia con caratteri ebraici, greci, latini e di altre lingue
orientali, affinchè spezialmente vi si stampassero le opere de' santi
padri.
Gran pascolo ebbero in quest'anno i curiosi cacciatori degli
avvenimenti del mondo. Imperciocchè _Filippo II re_ di Spagna da
gran tempo faceva una stupenda raunanza di armati e di vele, senza
sapersi dove tendessero le mire sue. Sospettavano i più ch'egli la
volesse contro l'Olanda; ma venne a scoprirsi che i disegni suoi
erano contro Elisabetta regina d'Inghilterra, siccome quella che fin
qui aveva dato gran braccio agli eretici ribelli nei Paesi Bassi,
e già appariva che senza depressione di lei non si potea sperare di
calmar giammai quella ribellione. Non ha mai veduto la Spagna un sì
grandioso apparato di flotta navale, come fu questo, contandosi in esso
cento trentacinque legni grossi tra galee, galeazze e vascelli tondi,
allora chiamati galeoni, oltre ad altri minori e navi da carico, con
immensa quantità di artiglierie, attrecci militari e munizioni, dove
s'imbarcarono circa venti mila bravi combattenti. Immense spese costò
un sì poderoso armamento. Aveva nello stesso tempo ricevuto ordine
il duca _Alessandro Farnese_ di allestire in Fiandra un'oste poderosa
con legni da trasporto per traghettarla in Inghilterra al primo avviso
che vi fosse approdata la flotta di Spagna. Cinque mila fanti trasse
egli da Milano, quattro altri mila da Napoli, ed altri dalla Borgogna
e Germania, oltre ai venturieri che da tutte le parti comparvero al
servigio di sì rinomato principe. Si trovò il Farnese avere un esercito
di circa quaranta mila fanti e di quasi tre mila cavalli. Il pontefice
Sisto aveva anch'egli promesso di concorrere a quella grande impresa
con un milione di scudi, ma non prima che gli Spagnuoli avessero
posto piede in Inghilterra. Sospettando intanto di questo minaccioso
turbine la regina inglese, non lasciò di ben premunirsi colle forze
del regno, e coll'implorar soccorso dagli amici. Mise insieme anche
ella una copiosa flotta di vascelli, creandone ammiraglio milord Carlo
Howard, e viceammiraglio il corsaro Francesco Drago, famoso per tante
percosse date in America ed altrove agli Spagnuoli. Fu creduto che ella
assoldasse quaranta mila fanti, e poco inferior numero di cavalleria.
Nel mese di giugno fece vela la formidabil flotta di Spagna comandata
dal _duca di Medina Sidonia_ poco sperto nei combattenti navali, ma
con cattivo augurio, perchè dissipata in breve da una fiera burrasca.
Si raccolse essa in fine alla Corogna, e di là poi continuò il viaggio
alla volta d'Inghilterra, finchè arrivò a vista della nemica armata
navale. Si aspettavano tutti che si venisse a un terribil fatto
d'armi, e tale era il consiglio de' capitani; ma il duca non poteva
darla se non quando il consiglio di Spagna l'ordinava, o quando la
collera altrui o la sua il levava dall'indifferenza. Intanto voltò
egli le prode, con tempestare intanto il duca di Parma che uscisse
in mare colle sue navi da trasporto, ma senza poterlo egli fare per
varii riflessi, e spezialmente per non esporre navi disarmate alle
artiglierie nemiche. Furono prese dal Drago alcune navi spagnuole
sbandate: quand'ecco, mentre la flotta ispana solamente pensava a
ritirarsi per non combattere co' nemici, vien forzata a combattere
con una spietata tempesta di mare che all'improvviso si sollevò. Restò
essa tutta spinta qua e là, parte in Iscozia ed Irlanda, e parte verso
altre contrade. Molte di quelle navi rimasero ingoiate dall'infuriato
elemento, altre caddero in mano degl'Inglesi; quelle infine che si
ridussero salve in Ispagna, si videro tutte malconcie e sdruscite.
Secondo gli scrittori spagnuoli, vi perirono solamente trentadue
legni da guerra, oltre a quei da carico, e circa dieci mila soldati.
Dai nemici si fece ascendere la perdita di essi Spagnuoli oltre a
venti mila uomini e ad ottanta navi. Quel che è certo, inesplicabile
fu il danno degli Spagnuoli, e in quella fortuna di mare naufragò
ogni speranza di rintuzzar l'orgoglio della regina inglese e di
saldar le piaghe dei popoli fiamminghi. Ma se grande, anzi massima
fu quella disavventura, più grande ancora, per attestato d'ognuno,
si trovò l'animo e il coraggio del _re Filippo II_, che niun segno di
perturbazione mostrò, e placido come prima fece conoscere che il suo
coraggio era superiore ad ogni scossa dell'avversa fortuna. Il suo
sdegno nondimeno contro il Medina Sidonia non tardò a farsi conoscere;
nè mancarono dicerie ed accuse contra di Alessandro Farnese, quasi
che potendo non avesse voluto accorrere in soccorso dell'altro.
Alcune imprese fece nel resto di quest'anno esso duca Alessandro;
ma io mi dispenso dal raccontarle. Non vo' già tacere, aver molti
creduto invenzione di questi ultimi tempi l'uso delle bombe, quando
c'insegna Famiano Strada, che, inventate esse da un Italiano, oppure
da altro ingegnere di Ventò con poca diversità dalle moderne, furono in
quest'anno adoperate nell'assedio di Vactendon picciola fortezza della
Gheldria, e molto cooperarono per costringerla alla resa.
Non minore strepito fece parimente nell'anno presente una scena
succeduta in Francia, che esigerebbe molte parole, ma che io in
poche spedirò. Mal soddisfatto era il _re Arrigo III_ del _duca di
Guisa_ e de' suoi seguaci cattolici confederati, perchè la potenza
d'essi faceva troppo ombra alla regal sua autorità. Furono a lui
insinuati sospetti che il duca amoreggiasse la corona di Francia,
senza neppure aspettarla dopo la morte sua. Furono infatti proposte
da essi confederati al re alcune dure condizioni, e il Guisa volle
venire a Parigi, con tutto che il re glie lo avesse vietato. Tanto più
crebbe allora il sospetto e la paura di esso monarca; ed essendosi
egli voluto premunire coll'introdurre in Parigi alcune compagnie di
Svizzeri e Franzesi, ecco, nel dì 12 di maggio, appellato il dì delle
Barricade, il cattolico popolo parigino, affezionato ai principi di
Guisa, prender l'armi contro quella guarnigione: per la qual ribellione
il re non si giudicando sicuro, si ritirò a Sciartres. Furono poi
fatti dei gran maneggi per la concordia, e il re finalmente ricevette
in grazia il _duca di Guisa_ e tutti i suoi aderenti, anzi li colmò
di onori, ma covando nell'animo un dispetto ed odio implacabile contra
di loro. Non passò quest'anno senza farlo conoscere; imperciocchè nel
dì 23 di dicembre, chiamato il _duca_ nella camera del re, fu dalle
guardie trucidato. Preso anche il _cardinale di Guisa_ suo fratello,
da lì a poco restò privato di vita. Vidersi inoltre imprigionati il
_cardinal di Borbone_, l'_arcivescovo di Lione_, i _duchi di Nemours
_ e d'_Elboeuf_ con altri: dopo di che Arrigo tutto glorioso proruppe
in queste parole: _Ora sì ch'io son re_. Intanto il duca di Nemours
fuggito di prigione, _Carlo di Lorena_ duca d'Umala, il popolo di
Parigi e gli altri cattolici più che mai rinforzarono la ribellione,
declamando da per tutto contro il re, massimamente per la morte
inferita alla sacra persona del cardinal di Guisa, e per la prigionia
dell'altro di Borbone. Però in somma confusione restò quel regno, e
grandi risentimenti ne fece la corte di Roma.
Fu detto che, preso il segretario del duca di Guisa, con tutte le
scritture, si venisse a scoprire l'intelligenza che passava ai danni
del re fra _Filippo re_ di Spagna, _Carlo Emmanuele duca_ di Savoia e
il _duca di Guisa_. Può dubitarsi che fossero pretesti inventati per
far comparire giusta la risoluzione presa dal re. Per altro, esso duca
di Savoia si servì in questi tempi degli sconcerti della Francia in suo
vantaggio. Possedeva da molti anni la corona di Francia il marchesato
di Saluzzo in Italia, decaduto per la linea finita di que' marchesi.
Sopra quello Stato avea la casa di Savoia delle giuste pretensioni,
ma inutili fin qui per la troppo superior potenza della Francia.
Accadde che il duca di Lesdiguieres, generale dell'eretico _re di
Navarra_, possedendo le migliori fortezze del Delfinato, minacciava
quel marchesato, e prese ancora Castel Delfino. Allora il duca,
siccome quegli a cui premeva che l'eresia non penetrasse in Italia,
e che i nemici del re di Francia non s'impadronissero di Saluzzo,
giudicò meglio di prevenirli con impossessarsene egli. Adunque sul fin
di settembre uscito in campagna prese Carmagnola, dove trovò circa
quattrocento cannoni (se pur si può credere) e dei grossi magazzini
di ogni sorta di provvisione. Poscia aiutato anche dal governatore di
Milano, soggiogò Cental e Revel, entrò in Saluzzo, ripigliò Castel
Delfino: in una parola, tutto quel marchesato venne alle sue mani.
Ebbe un bel dire il duca Carlo Emmanuele: il re di Francia restò mal
soddisfatto di quella occupazione, commosse i Genevrini e gli Svizzeri
contra di lui, e di là da' monti si diede principio ad una molto
pericolosa guerra: giacchè spedito dal re il signor di Pugnì al duca,
nol potè muovere a rilasciar quel paese. Con queste sì fiere turbolenze
di Stati terminò l'anno presente.
Anno di CRISTO MDLXXXIX. Indizione II.
SISTO V papa 5.
RODOLFO II imperadore 14.
Neppure lasciò il _pontefice Sisto_ quest'anno senza qualche magnifica
impresa per sempre più abbellire la città di Roma. Restava tuttavia fra
le rovine del circo massimo un altro nobilissimo obelisco egiziano,
tutto tempestato di gieroglifici, rotto in più pezzi, già condotto a
Roma da Cesare Augusto. Fattolo racconciare da periti maestri, volle
Sisto che fosse rialzato davanti alla chiesa di Santa Maria del Popolo.
Oltre a ciò, aggiunse ornamenti all'insigne colonna antonina istoriata,
alla cui cima per una interna scala si sale, e solennemente la dedicò
a san Paolo apostolo, ponendovi sopra l'immagine d'esso apostolo di
bronzo. E perciocchè il porto di Cività Vecchia scarseggiava d'acque
buone, provvide al bisogno di quel popolo e dei naviganti, con farne
venir colà, mercè degli acquedotti fabbricati per sei miglia, dove
portava il bisogno. Aveano tentato, e non senza frutto, gli antichi
Romani e i succeduti imperadori di seccar le paludi pontine, acciocchè
tante miglia di paese inondato dall'acque servissero da lì innanzi
alla coltivazione, e cessassero ancora i danni dell'aria cattiva. Per
le calamità de' secoli barbarici tornarono quelle paludi a ripigliare
l'antico lor dominio in quelle campagne. Un bell'oggetto appunto
all'animo grande di papa Sisto era il provvedere per sempre a quel
disordine sì pernicioso al pubblico, e vi si applicò col suo solito
ardore, facendo cavare una larga e lunghissima fossa, appellata anche
oggidì il fiume di Sisto, con ispesa di ducento mila scudi, per cui
si guadagnò un gran tratto di paese. Pensava egli di condurre questa
fossa fino al mare, ma, rapito poi dalla morte, ne lasciò la cura ai
suoi successori. Con ragione ancora si può dire ch'egli rinnovasse
il palazzo Lateranense colla giunta di tante fabbriche, portici, sale
e camere dipinte da valenti pittori, delle quali poi fece la solenne
dedicazione a' dì 30 di maggio dell'anno presente. Erano sformate e
quasi lacere le grandi statue dei due cavalli attribuite (benchè molto
se ne dubiti) agli antichi eccellenti scultori Fidia e Prassitele. Il
buon Sisto le rimise nell'antico loro decoro, e le fece collocare nella
piazza del Quirinale. Al medesimo pontefice ancora si dee la fabbrica
di un ponte dal suo nome chiamato Felice, posto sopra il Tevere ad
Otricoli.
Ma in mezzo a queste bell'opere il cuor di papa Sisto era tormentato
non poco per quanto era avvenuto in Francia nel precedente anno, parte
pel timore che la religion cattolica ne patisse (timore maggiormente
accresciuto nell'anno presente, in cui _Arrigo III_ re si riconciliò
ed unì coll'eretico _Arrigo re di Navarra_), e parte per l'enorme
scandalo commesso da esso re di Francia colla morte data al cardinale
di Guisa, e per la prigionia di quel di Borbone, e dell'arcivescovo
di Lione. Dall'un canto non mancò Arrigo III d'inviare ambasciatori
a Roma per giustificare o scusare l'operato da lui; ma dall'altro
il buon pontefice veniva tutto dì pulsato dai ministri della lega, e
incitato a procedere con forte braccio contra del re cui la Sorbona
stessa avea dichiarato decaduto da ogni suo diritto sopra la corona.
Maraviglia fu che il focoso pontefice andasse barcheggiando un pezzo,
finchè assicurato che un poderoso armamento si facea dagli eretici
in Francia, e vedendo che, per quante istanze si fossero fatte, il
re non s'induceva a rimettere in libertà il cardinal di Borbone e
l'arcivescovo: finalmente nel dì 24 di maggio pubblicò un monitorio,
in cui esortava, e poi comandava che il re nel termine di dieci giorni
dopo la pubblicazione da farsi in Francia rilasciasse i suddetti
carcerati, e dopo sessanta giorni comparisse egli in persona, o per
procuratore, a rendere ragione della morte del cardinal di Guisa
e della prigionia dell'altro: il che non facendo, incorresse nelle
scomuniche. Intanto in Francia la regina _Caterina de Medici_ madre
del re, che prima della morte dei Guisi era stata presa da una lenta
febbretta, tal affanno concepì per quella tragedia, che nel dì 5 di
gennaio del presente anno terminò il suo vivere: principessa di grande
ingegno, ma che presso alcuni scrittori franzesi vien dipinta come
donna di grandi raggiri per mantener sempre sè stessa nell'autorità
del comando; il che, secondo essi, tornò in non lieve pregiudizio del
regno. Altri, per lo contrario, lasciarono un bell'elogio della sua
pietà e saviezza, per cui spezialmente la corte di Francia fu non poco
preservata dal libertinaggio, ch'era allora alla moda; e certamente
ella sempre si dimostrò lancia e scudo al cattolicismo.
Dacchè il _re Arrigo III_, credendosi poco sicuro dalla parte della
lega, si accordò col re di Navarra seguace del calvinismo, maggiormente
s'irritarono contra di lui i cattolici, quasichè egli fosse per tradir
la religione in cui era nato; e però scossero ogni riverenza verso di
lui, trattandolo col solo nome di tiranno, e declamando fin dai pulpiti
contra di lui. Questa universal detestazione quella verisimilmente fu
che mosse Jacopo Clemente, giovinetto di ventitrè anni, già ammesso
nell'ordine dei Predicatori, a voler liberare la Francia da questo
principe con una troppo detestabile iniquità. Cioè, entrò in testa a
questo fanatico giovane, che un bel sacrificio si farebbe a Dio, un
gran vantaggio si recherebbe alla religion cattolica con togliere dal
mondo, a spese anche della propria vita, Arrigo III, senza riflettere
che la legge di Dio comanda l'ossequio nel governo civile al principe
legittimo, ancorchè divenuto tiranno o eretico o infedele. Pertanto
finse lettere, e mostrando di aver segreti di importanza da comunicare
al re solo, ebbe maniera di farsi introdurre alla sua udienza nel dì
primo di agosto. Mentre il re leggeva le lettere da lui portate, il
diabolico giovane, cavato dalla manica un coltello avvelenato, gliel
cacciò profondamente nella pancia. Gridò il re, e, preso lo stesso
coltello, ferì Clemente sopra un occhio; ed accorse le guardie, con più
colpi lo stesero morto a terra, senza che si potesse poi ricavare onde
costui fosse stato spinto a sì enorme scelleratezza. Il re nel seguente
giorno con sentimenti sempre cattolici di credenza, di pentimento dei
suoi falli e di perdono agli altrui, spirò l'anima in età di trentanove
anni, con rimanere estinta in lui la linea dei re di Francia della
casa di Valois. Maggiormente crebbero per questa morte le turbolenze
di quel regno. Fu il valoroso re di Navarra della linea di Borbone dai
suoi parziali, come più prossimo al regno, proclamato re, e prese il
nome di _Arrigo IV_, con giuramento di conservare la fede cattolica nel
regno, ma rigettato a cagion della sua eresia dalla lega cattolica,
la quale dichiarò re _Carlo cardinal di Borbone_, ancorchè tuttavia
prigione. Diedesi quindi principio ad un'arrabbiata guerra fra esso
Arrigo IV (che saccheggiò i borghi di Parigi con acquistar ancora varii
luoghi) e la lega appellata santa, in favore di cui apertamente si
dichiarò _Filippo II_ re di Spagna, e si preparava anche a far molto il
pontefice Sisto, se la morte non avesse troncati gli alti suoi disegni.
Non erano in questo tempo men grandi i pensieri di _Carlo Emmanuele
duca_ di Savoia, sì pei proprii vantaggi, che per secondar le massime
del re Cattolico suocero suo, rivolte, non so se in sostanza, oppure
in apparenza, a favor della Francia, per essere anch'egli stato uno
de' pretendenti a quella corona. I Genevrini e i Bernesi aveano mossa
guerra contra la Savoia; laonde il duca fece leva di genti in varie
parti d'Italia, dichiarando, con permissione del duca di Ferrara,
capitan generale delle sue armi _Filippo d'Este_ marchese di San
Martino, cognato suo. Ebbe ancora soccorsi di gente dallo Stato di
Milano; e con queste forze ricuperò i luoghi a lui presi dagli eretici;
indusse i Bernesi a far seco pace, e poi lasciò come bloccata Genevra.
Avvenuta poi la morte di Arrigo III, avendo promosse le pretensioni
sue sopra il regno di Francia, mosse guerra in Provenza, dove se gli
diedero alcuni di quei popoli. Tentò anche il parlamento del Delfinato,
ma non riportò se non buone parole. Aveva in questi tempi _Ferdinando
de Medici_ deposta la sacra porpora, ed assunto il titolo di gran
duca di Toscana; però pensò all'accasamento suo. Fu da lui scelta per
moglie _Cristiana_ figlia di _Carlo duca_ di Lorena, allevata fin dalla
tenera età nella corte di Francia sotto la regina Caterina. Condotta
per mare questa principessa, fece poi la solenne sua entrata in Firenze
nel dì ultimo d'aprile: siccome esso gran duca Ferdinando era principe
sommamente magnifico, e che si trattava alla reale, così celebrò con
sontuose feste e divertimenti quelle nozze, alle quali intervennero
il duca e la duchessa di Mantova, i cardinali Colonna vecchio,
Gonzaga vecchio, Alessandrino e Gioiosa con don Cesare d'Este cognato
d'esso gran duca. _Papa Sisto_ anch'egli maritò in quest'anno due sue
pronipoti, l'una con Virginio Orsino duca di Bracciano, l'altra col
duca di Tagliacozzo e contestabile del regno, di casa Colonna, con dote
per cadauna di cento mila scudi.
Anno di CRISTO MDXC. Indizione III.
URBANO VII papa 1.
GREGORIO XIV papa 1.
RODOLFO II imperadore 15.
Fu in quest'anno pubblicata la sacra Bibbia, che l'infaticabil _papa
Sisto_, in esecuzione del prescritto dal concilio di Trento, avea fatto
collazionare con gli antichi manoscritti, ed emendare. Ma perchè non
riuscì perfetta quella fatica, nè assai corretta l'edizione, un'altra
più esatta ne fece poi fare Clemente VIII. Ora, mentre si aggiravano
in mente ad esso _papa Sisto V_ imprese sempre nuove o in vantaggio
della cristianità, o in utile dei suoi Stati, o in ornamento di
Roma, ed impiegava anche moltissimi pensieri per le guerre civili che
laceravano la Francia con gravissimo pericolo della religione, eccoti
la morte bussare alla porta, e portarlo all'altra vita nel dì 27 di
agosto dell'anno presente. Era egli nato nel dì 13 di dicembre del
1521. Dopo il già detto non ci sarebbe bisogno che io qui ricordassi
qual fosse la grandezza dell'animo di questo pontefice, quale il suo
zelo per la fede cattolica, quale la religiosità de' suoi costumi, e la
sua moderazione verso i nipoti, i quali restarono ben ricchi, ma senza
avere espilato l'erario di San Pietro. Niun più di lui seppe farla da
principe; ma vi fu chi desiderò che meno lo facesse. Sotto di lui tutti
tremavano: tanto era il rigore della sua giustizia, quasichè egli nulla
curasse di farsi amare dai sudditi suoi. Dicono che anche oggidì si fa
paura ai fanciulli col suo nome. La verità nondimeno è che a lui non
mancò l'amore di molti, e massimamente dei saggi. Grandiose furono le
di lui idee, nè io tutte le ho riferite, tutte nondimeno animosamente
eseguite, ma comperate colle lagrime dei suoi popoli, per aver egli
imposto di nuovo, come scrive il Cicarelli, più di trentacinque dazii
e gabelle: ortiche, le quali, una volta nate, non si seccano mai più;
e quelle anche rigidissimamente riscosse dai suoi commissarii. Venali
ancora rendè molti uffizii: del che certo non riportò lode. A questo
pontefice vivente avea il senato e popolo romano alzata una statua
con bella iscrizione. Ma dacchè egli cessò di vivere, molti nobili,
disgustati per la di lui asprezza, e per avere levato alcuni uffizii
al senato romano; moltissimi ancora della plebe in vendetta delle
gravezze imposte si sollevarono, e bene fu che s'interponessero dei
saggi magnati: altrimenti su quella statua si sfogava la lor collera e
vendetta. Quetossi il tumulto; con tutto ciò servì quest'esempio perchè
i Romani formassero uno stabile decreto di non alzar più statue ad
alcun pontefice vivente. Tempo in fatti pericoloso per l'adulazione è
la vita de' principi; il giusto giudizio del merito delle persone si ha
da aspettar dalla morte.
Ora entrati in conclave i porporati, nel dì 15 di settembre elessero
con somma concordia papa il cardinale _Giambatista Castagna_ nato
in Roma da padre genovese nel 1521, e sempre in essa allevato, e
considerato come Romano. Tali virtù e belle doti d'animo e d'ingegno,
e spezialmente di amorevolezza, saviezza e sperienza degli affari del
mondo, concorrevano in questo personaggio, che si può dire ch'egli
entrò papa in conclave, c tale anche ne uscì. Lo stesso papa Sisto, che
ben s'intendeva del valore delle persone, più d'una volta scherzando
diede a conoscere di riguardar lui, come suo successore. Prese egli
il nome di _Urbano VII_, ed era ben degno di lunga vita, perchè nulla
a lui mancava di buono per fare un ottimo reggimento. Ordinò tosto
che niuno de' parenti suoi prendesse altro maggior titolo di quel che
aveano innanzi. Nè pur volle promuoverne alcuno ai supremi uffizii,
dicendo esser meglio di valersi di altri, per potere, se fallassero,
senza impedimento del naturale affetto, o rimuoverli o gastigarli. Fece
subito descrivere tutti i poveri della città, con animo di esercitar
verso di loro l'innata sua liberalità, di cui, appena creato papa,
diede un bei saggio verso i cardinali poveri. Immantenente ancora
ordinò la riforma della dateria e la continuazione delle fabbriche di
papa Sisto, volendo che del medesimo quivi si ponessero l'armi, e non
già le sue. Pensava eziandio a levar le gabelle poste da papa Sisto,
a provvedere alla carestia allora corrente e ad altre lodevoli azioni.
Ma che? nel secondo giorno del suo pontificato cominciò a sentirsi poco
bene; sopraggiunse la febbre, e questa nel dì 27 di settembre, il rapì
dalla presente vita con incredibil dispiacere del popolo romano, che
per lui eletto somma allegrezza mostrò, per lui infermo offerì a Dio
ferventi preghiere, e lui morto onorò col pianto quasi di ognuno.
Convenne dunque che il sacro collegio passare ad una nuova elezione,
e questa cadde, dopo molte dispute pel concorso di altri degnissimi
porporati, correndo il dì 5 di dicembre, nel _cardinale Niccolò
Sfondrati_ nobile milanese, chiamato il Cardinal di Cremona, perchè
vescovo di quella città, e di famiglia anche oriunda di là. Suo padre
fu Francesco già senatore di Milano, e dopo la morte di Anna Visconte
sua moglie, pel suo sapere creato cardinale da Paolo III, vescovo fu
anch'egli di Cremona. Era Niccolò suo figlio personaggio di maschia
pietà, dottissimo, di costumi sempre incorrotti, di somma umiltà, e sì
alieno dal desiderio della sacra tiara, che, trovandosi all'improvviso
eletto papa, rivolto ai capi delle fazioni disse: _Dio ve lo perdoni:
che avete voi mai fatto?_ Prese il nome di _Gregorio XIV_. Perchè
infermiccia era la sua sanità, e abbisognava di persona fedele a
sostenere il gran peso a lui addossato, creò tosto cardinale Paolo suo
nipote, figlio di suo fratello e di Sigismonda Estense, che riuscì un
insigne porporato. Chi scrisse schiantata sotto Sisto V la razza de'
banditi, volle piuttosto dire frenata la loro insolenza. Imperocchè
buona parte d'essi si ritirò nei confini di Napoli e della Toscana,
e un'altra continuò ad infestar la Romagna; nè tutti gli sforzi di
quel sì temuto pontefice poterono apprestare una vera medicina al
male. Crebbe poi questo dopo la morte di esso Sisto, e massimamente
perchè Alfonso Piccolomini duca di Monte Marciano, caduto in disgrazia
del _gran duca Ferdinando_, e con grossa taglia sulla sua testa
perseguitato dappertutto, si fece capo di que' masnadieri in Romagna;
ed arrivato a mettere insieme alquante squadre di cavalli, commettea
frequenti assassinii. Altrettanto facea Marco Sciarra, altro capo
di banditi e scellerati in Abbruzzo con iscorrere fino alle porte di
Roma, bruciar casali, ed esigere contribuzioni. Unironsi poi insieme
queste due esecrabili fazioni, ed aumentandosi di giorno in giorno la
loro truppa, incredibili danni recavano, talmente che il terror di
essi si stendeva ben lungi. Perchè il vicerè di Napoli spedì contra
di loro circa quattro mila soldati, passarono tutti in Campagna di
Roma sul principio di dicembre. Il gran duca inviò _Camillo del Monte_
con ottocento fanti e ducento cavalli in traccia di costoro. Da Roma
ancora andò _Virginio Orsino_ con quattrocento cavalli. Fu assediato
lo Sciarra coi suoi in un casale; sopraggiunse il Piccolomini con
circa secento cavalli, e si venne a battaglia, in cui ben cento di
quei malvagi uomini furono uccisi o presi. Contuttociò gli altri la
notte ebbero la fortuna di mettersi in salvo. Oltre a questo flagello,
un altro di lunga mano maggiore si provò ne' presenti tempi quasi
per tutta l'Italia, e massimamente nello Stato della Chiesa, cioè la
carestia, per cui la povera gente si ridusse a mangiar erbe, cioè a
pascersi d'un cibo che solo basta a recar la morte agli uomini. Se a'
tempi nostri o son rare le carestie, o ad esse si provvede, è proceduto
questo dall'introduzione e dilatata coltura del grano turco, che
melgone o frumentone vien chiamato in alcuni paesi, supplendo esso alla
mancanza dei frumenti e di altri grani. Si applicò tosto il novello
pontefice al soccorso de' suoi popoli, nè tralasciò diligenza e spesa
per aiutarli.
Ma quello che maggiormente teneva in tempesta l'animo di esso papa
Gregorio, era il lagrimevole stato della Francia, dove in quest'anno si
fece guerra alla disperata fra _Arrigo IV re_, sostenuto principalmente
dagli ugonotti, e la lega de' cattolici, capo di cui era il _duca
di Umena_ della casa di Guisa. Brevemente accennerò io che nel dì 14
di marzo fra i due nemici eserciti si venne ad una giornata campale
presso d'Ivrì, in cui Arrigo principe di singolar valore, quantunque
inferiore di forze, diede una gran rotta all'Umena con istrage
di non poca della di lui fanteria, e colla presa delle bandiere,
artiglierie e bagaglio. Se Arrigo era più sollecito a marciare alla
volta di Parigi, fu creduto che quel popolo, trovandosi sprovveduto,
avrebbe capitolata la resa. Allorchè v'andò, trovò fatti assaissimi
preparamenti, e prese molte precauzioni; ciò non ostante, ne imprese
l'assedio. La costanza de' Parigini nella difesa della città sotto
il comando di _Carlo duca di Nemours_, e le calamità incredibili
da loro sofferte per l'estrema penuria di vettovaglia, furono cose
memorabili che empierebbono un lungo campo di storia. Nel qual tempo
mancò di vita in prigione il _cardinal Carlo di Borbone_, vanamente
- Parts
- Annali d'Italia, vol. 6 - 01
- Annali d'Italia, vol. 6 - 02
- Annali d'Italia, vol. 6 - 03
- Annali d'Italia, vol. 6 - 04
- Annali d'Italia, vol. 6 - 05
- Annali d'Italia, vol. 6 - 06
- Annali d'Italia, vol. 6 - 07
- Annali d'Italia, vol. 6 - 08
- Annali d'Italia, vol. 6 - 09
- Annali d'Italia, vol. 6 - 10
- Annali d'Italia, vol. 6 - 11
- Annali d'Italia, vol. 6 - 12
- Annali d'Italia, vol. 6 - 13
- Annali d'Italia, vol. 6 - 14
- Annali d'Italia, vol. 6 - 15
- Annali d'Italia, vol. 6 - 16
- Annali d'Italia, vol. 6 - 17
- Annali d'Italia, vol. 6 - 18
- Annali d'Italia, vol. 6 - 19
- Annali d'Italia, vol. 6 - 20
- Annali d'Italia, vol. 6 - 21
- Annali d'Italia, vol. 6 - 22
- Annali d'Italia, vol. 6 - 23
- Annali d'Italia, vol. 6 - 24
- Annali d'Italia, vol. 6 - 25
- Annali d'Italia, vol. 6 - 26
- Annali d'Italia, vol. 6 - 27
- Annali d'Italia, vol. 6 - 28
- Annali d'Italia, vol. 6 - 29
- Annali d'Italia, vol. 6 - 30
- Annali d'Italia, vol. 6 - 31
- Annali d'Italia, vol. 6 - 32
- Annali d'Italia, vol. 6 - 33
- Annali d'Italia, vol. 6 - 34
- Annali d'Italia, vol. 6 - 35
- Annali d'Italia, vol. 6 - 36
- Annali d'Italia, vol. 6 - 37
- Annali d'Italia, vol. 6 - 38
- Annali d'Italia, vol. 6 - 39
- Annali d'Italia, vol. 6 - 40
- Annali d'Italia, vol. 6 - 41
- Annali d'Italia, vol. 6 - 42
- Annali d'Italia, vol. 6 - 43
- Annali d'Italia, vol. 6 - 44
- Annali d'Italia, vol. 6 - 45
- Annali d'Italia, vol. 6 - 46
- Annali d'Italia, vol. 6 - 47
- Annali d'Italia, vol. 6 - 48
- Annali d'Italia, vol. 6 - 49
- Annali d'Italia, vol. 6 - 50
- Annali d'Italia, vol. 6 - 51
- Annali d'Italia, vol. 6 - 52
- Annali d'Italia, vol. 6 - 53
- Annali d'Italia, vol. 6 - 54
- Annali d'Italia, vol. 6 - 55
- Annali d'Italia, vol. 6 - 56
- Annali d'Italia, vol. 6 - 57
- Annali d'Italia, vol. 6 - 58
- Annali d'Italia, vol. 6 - 59
- Annali d'Italia, vol. 6 - 60
- Annali d'Italia, vol. 6 - 61
- Annali d'Italia, vol. 6 - 62
- Annali d'Italia, vol. 6 - 63
- Annali d'Italia, vol. 6 - 64
- Annali d'Italia, vol. 6 - 65
- Annali d'Italia, vol. 6 - 66
- Annali d'Italia, vol. 6 - 67
- Annali d'Italia, vol. 6 - 68
- Annali d'Italia, vol. 6 - 69
- Annali d'Italia, vol. 6 - 70
- Annali d'Italia, vol. 6 - 71
- Annali d'Italia, vol. 6 - 72
- Annali d'Italia, vol. 6 - 73
- Annali d'Italia, vol. 6 - 74
- Annali d'Italia, vol. 6 - 75
- Annali d'Italia, vol. 6 - 76
- Annali d'Italia, vol. 6 - 77
- Annali d'Italia, vol. 6 - 78
- Annali d'Italia, vol. 6 - 79
- Annali d'Italia, vol. 6 - 80
- Annali d'Italia, vol. 6 - 81
- Annali d'Italia, vol. 6 - 82
- Annali d'Italia, vol. 6 - 83
- Annali d'Italia, vol. 6 - 84
- Annali d'Italia, vol. 6 - 85
- Annali d'Italia, vol. 6 - 86
- Annali d'Italia, vol. 6 - 87