Annali d'Italia, vol. 6 - 51

guerra. Con tutto ciò in quindici assalti furono ributtati i Turchi, e
durò quell'assedio sino al dì 9 di settembre; nel quale sì fieramente
restò combattuta la città, che vi entrarono vittoriosi gl'infedeli.
Orrido spettacolo allora si vide: più di quindici mila cristiani, fra'
quali si contò gran numero di fanciulli minori di quattro anni, furono
messi a fil di spada; il resto di que' cittadini condotti in una misera
schiavitù, pochi essendosene salvati; ogni sfogo di libidine anche
più nefanda ivi si esercitò; e perchè la città era ricchissima, gran
preda fu fatta da quei cani. Dopo tale acquisto, vilmente si rendè
Cerines, nè altro luogo dell'isola fece da lì innanzi resistenza,
fuorchè Famagosta, città principale dopo Nicosia. Poco stette Mustafà
a mettere il campo intorno ad essa, e ad accostarsele colle trincee; ma
difendendosi valorosamente i cristiani, e venuto il tempo di menare in
salvo l'armata navale per la vicinanza del verno, l'assedio si cangiò
in blocco, e per questo anno Famagosta schivò il giogo turchesco.
Nel dì 25 di febbraio dell'anno presente il pontefice pubblicò una
terribil bolla contro _Elisabetta regina_ d'Inghilterra, dichiarata
scomunicata e privata di ogni diritto in quel regno, con ordinare
agl'Inglesi di non prestarle ubbidienza. Dovette avere il santo padre
giusti motivi di formar questa bolla, e di formarla dopo tanto tempo
che Elisabetta era salita e sì ben assodata sul trono. Fu creduto
che si maneggiasse in Inghilterra una secreta congiura di cattolici,
che poi scoperta svanì colla morte del duca di Norfolch. Ma qual buon
effetto potessero produrre siffatti fulmini consistenti in sole parole
contra di un regno, dove sì gran piede avea presa l'eresia, professata
non men da essa regina che dai più del popolo, forse allora non
l'intesero i politici, e meno ora l'intendiamo noi, al sapere che dopo
ciò andarono sempre più di male in peggio gli affari della religione
cattolica in quel regno. Alle calamità dell'anno presente, cioè alla
carestia, alla guerra, e alla pestilenza, che in varii luoghi si fecero
sentire, si aggiunse anche il tremuoto. Cominciò questo in Ferrara
nella notte seguente al dì 16 di novembre, e continuò poi con varie
ora picciole ora grandi scosse pel resto dell'anno, e parte ancora
del seguente. Rovinò per questo flagello parte del castello del duca,
e molte chiese, monisteri e case; e fu obbligato il popolo a ridursi
nelle piazze e campagne sotto capanne e tende, finchè a Dio piacque
di restituir la quiete a quella terra. In essa città di Ferrara molto
prima, cioè nel dì 19 di gennaio del presente anno, furono celebrate
le nozze di _Lugrezia d'Este_, sorella del duca _Alfonso_, con
_Francesco Maria della Rovere_, figlio primogenito del duca d'Urbino.
Passò ancora per Fiandra, incamminata a Madrid, l'arciduchessa Anna
figlia dell'imperador Massimiliano II, maritata con _Filippo II re_
di Spagna. Numerosa flotta la condusse in Ispagna, dove con somma
magnificenza fu accolta, e succederono nobilissime feste accompagnate
dalla universale allegria; tanto più grande, perchè già era terminata
la guerra contro i Mori con grande onore di _don Giovanni d'Austria_,
dal cui comando e valore si riconobbe la felice riuscita di quella
per altro difficile impresa. Fu eziandio condotta in Francia, nel dì
26 di novembre di questo anno dall'elettore di Treveri l'altra minore
_arciduchessa Isabella_, figlia del suddetto Augusto, maritata col _re
Carlo IX_: matrimonio che durò poi pochi anni, e di cui non uscì che
una principessa di corta vita anch'essa.


Anno di CRISTO MDLXXI. Indizione XIV.
PIO V papa 6.
MASSIMILIANO II imperadore 8.

I progressi dell'armi turchesche nell'isola di Cipri, quanto dall'un
canto accrescevano il terrore ai popoli d'Italia, altrettanto
incitavano il papa, il re Cattolico e la repubblica veneta a premunirsi
per la difesa dei loro Stati, che tanto più restavano esposti alle
violenze degl'infedeli. Spedì il pontefice per questo il _cardinal
Alessandrino_ in Ispagna a trattare una lega stabile fra esso, il _re
Filippo_ e i _Veneziani_ contro il nemico comune. Fu questa conchiusa
nel dì 20 di maggio con varie capitolazioni. Fecero poscia queste tre
confederate potenze i loro maggiori sforzi in congiuntura di tanto
bisogno, ma non con quella prontezza che occorreva, parte per la
difficoltà di raunar la troppo necessaria pecunia, e parte pel tempo
ch'esige il preparamento delle genti, navi, munizioni, e di tanti altri
varii attrecci di guerra. Non mancarono già i Veneziani di spedire
verso la metà di gennaio Marcantonio Querini con quattro navi scortate
da dodici galee, per portare soccorso alla città di Famagosta bloccata
dai Turchi. Felicemente arrivò colà questo convoglio; tre galee nemiche
furono colle artiglierie battute a fondo, e le altre fuggirono. Sbarcò
il Querini mille e settecento fanti in quella città, e gran copia di
provvisioni da bocca e da guerra, ma non già sufficiente a sostenere
un lungo assedio. Pervenuto al sultano Selim l'avviso di questo
soccorso, diede nelle furie contra del bassà Pialy, e poco mancò che
non dimandasse la sua testa; il privò nondimeno del generalato, e a lui
sostituì il bassà Aly. Costui insieme col bassà Mustafà, siccome ben
comprese le premure del gran signore, così non ommise diligenza veruna
per tosto ripigliare l'interrotto assedio di Famagosta. Se dobbiam
credere alle relazioni di questa guerra, descritta da moltissimi autori
di quel tempo, fioccò da tante bande e con tanti tragitti sì gran
numero di soldati infedeli pagati e venturieri nell'isola di Cipri,
che fu creduto ascendere a quasi ducento mila combattenti e a quaranta
mila guastatori. Probabilmente, secondo il solito, la fama, la paura
e il voler giustificare la fortuna dei Turchi, accrebbe, se non della
metà, almen di un buon terzo le loro forze. Nell'aprile si riaprì sotto
Famagosta il teatro della guerra, alla cui difesa non si trovarono se
non quattro mila fanti, lieve guarnigione in sì gran bisogno. Furono
anche alzati varii forti contro la città; le trincee cominciarono
ad inoltrarsi, le batterie a far continuo fuoco. Giocarono dall'una
e dall'altra parte varie mine, e furono dati molti assalti, tutti
ripulsati con grande mortalità degli aggressori.
Ma perciocchè ai Turchi, per ottenere in siffatte occasioni l'intento
loro, nulla incresce il sacrificar migliaia di persone, andò così
avanti il loro furore, con iscemare intanto il numero dei difensori,
che nel dì 2 d'agosto i cristiani, dopo aver fatte maraviglie di
valore, trovandosi non aver più che sette barili di polve da fuoco,
furono obbligati a trattar della resa nel dì suddetto. Accordò l'iniquo
Mustafà quanto essi domandarono, cioè salve le persone, armi e robe
dei soldati e cittadini; che questi potessero vivere secondo la legge
cristiana e ritener le loro chiese; che i soldati, e chiunque volesse,
avessero libero passaggio in Candia, scortati dalle galee turchesche.
Non si può senza orrore e senza raccapricciarsi rammentare qual fosse
la perfidia ed inumanità di Mustafà in tale occasione. Dacchè furono
venuti sufficienti legni per menar via i soldati cristiani, e questi
imbarcati, _Marcantonio Bragadino_ provveditore e governator della
città, ed _Astorre Baglione_ generale dell'armi con gli altri nobili,
e con cinquanta soldati, per concerto già fatto, uscirono della città
(era il dì 15 di agosto), e andarono al padiglione di Mustafà, affine
di consegnargli le chiavi. Cortesemente furono accolti, e fatti sedere,
e il Turco, passando di uno in altro ragionamento, mise infine mano
ad una di quelle avanie che spesso usano quei barbari contra dei
cristiani, imputando al Bragadino di aver durante la tregua fatto
ammazzare alcuni schiavi turchi. Negò il Bragadino di aver commesso
un tale eccesso. Allora Mustafà tutto in collera alzatosi in piedi,
ordinò che ognun di loro fosse legato, essendo essi senz'armi, perchè
all'entrar del padiglione furono astretti a deporle. Così legati e
condotti nella piazza davanti al padiglione, a cadaun di quei nobili,
fuorchè al Bragadino, tagliato fu il capo. I soldati venuti con loro, e
circa trecento altri cristiani furono messi a fil di spada; e quei che
erano imbarcati, svaligiati tutti e posti alla catena. Il Bragadino,
dopo avere sofferto varii strapazzi, spogliato ed attaccato al ferro
della berlina, fu scorticato vivo da un Giudeo. Tal costanza d'animo
in sì fieri tormenti mostrò quel prode cavaliere, che niun segno mai
diede di dolore; e solamente raccomandandosi a Dio, e rimproverando
al Barbaro la rotta fede, allorchè giunse il tagliatore all'umbilico,
spirò l'anima. La pelle sua riempiuta di paglia, ed attaccata ad una
antenna, fu mandata a farsi vedere per tutti i lidi della Soria: trofeo
ben degno d'una perfidia e crudeltà senza pari. E in tal guisa restò il
bel regno di Cipri in mano dei nemici del nome cristiano.
Non parlerò io d'altre minori azioni di guerra fatte dai Veneziani e
Turchi nell'Adriatico, e in altri mari prima di questo tempo, o durante
l'assedio di Famagosta, premendomi di rallegrare i lettori dopo sì
disgustosa narrativa con un memorabil fatto dell'armi cristiane, e
massimamente italiane. Avea il re Cattolico _Filippo II_ spedita la sua
flotta navale a Messina sotto il comando di _don Giovanni d'Austria_
suo fratello naturale, a cui si unì _Gian-Andrea Doria_ Genovese colle
sue galee al soldo di esso re. Colà ancora erano giunti _Marcantonio
Colonna_ generale del papa colle sue galee, e _Sebastiano Veniero_
generale delle forze di mare della repubblica veneta. Trovossi nella
mostra consistere l'unione di queste flotte in dodici galee del papa,
in ottantuna del re di Spagna, con venti navi, e forse più, da carico;
in cento e otto galee, sei galeazze e due navi de' Veneziani; in tre
galee di Malta e in tre altre del duca di Savoia. Eranvi altri legni
minori in gran copia. Sopra sì possente armata militavano dodici mila
italiani, guidati da valorosi capitani di lor nazione, cinque mila
spagnuoli, tre mila tedeschi, tre mila venturieri, portati dalla
difesa della fede e dal desiderio della gloria, oltre ai necessari
marinai. Fra que' venturieri non si debbono tacere _Alessandro Farnese_
principe di Parma, e _Francesco Maria della Rovere_ principe d'Urbino.
Fecero vela questi generosi campioni nel dì 16 di settembre dopo varie
consulte, con risoluzione di andar a trovare l'armata navale nemica,
per fiaccare le corna alla potenza ottomana, divenuta oramai troppo
insolente e superba per le passate vittorie. Trovaronsi a vista le
due potenti nemiche armate la mattina del dì 7 di ottobre, giorno di
domenica. Era partita la turchesca da Lepanto, comandata dal generale
Aly, dal generale di Tunisi e di Algeri, e da altri bassà e sangiacchi,
e in numero di vele era molto superiore alla cristiana. Avea ordine
dal gran signore il general Aly di venire a battaglia scontrandosi
coi nemici; ed appunto furono a fronte dei cristiani verso l'isole
Curzolari. Allora dall'una e dall'altra parte si misero in ordinanza
tutte le navi, formando cadauna armata tre schiere a guisa di mezza
luna. Don Giovanni d'Austria generalissimo postosi in una fregata
andò girando ed animando ciascuno a ben combattere per la difesa e per
l'onore della fede cristiana, con assicurar tutti della protezione di
Dio, potentissimo padre dei suoi fedeli, e gran rimuneratore di chi
mette la vita per la santa sua religione. Inteneriti tutti a queste
parole i soldati, e piangendo per la allegrezza, rispondevano con alte
grida: Vittoria, vittoria. Si faceano intanto continue preghiere dai
popoli cristiani per implorare la benedizion di Dio all'armi cristiane;
il papa avea a questo fine pubblicato prima il giubileo, ed eransi
fatte pie processioni dappertutto.
Azzuffaronsi dunque le due contrarie armate, e si dichiarò presto
la mano di Dio in favore dei suoi. Soffiava dapprincipio un vento
maestrale favorevole ai Turchi. Si abbonacciò il mare, ed eccoti
sorgere un vento siroccale, che portava tutto il fumo contra dei
Turchi, e quanto rispigneva indietro i loro legni, altrettanto
facilitava ai cristiani l'urtare in essi. Durò il terribil
combattimento ben quattro ore, senza che piegasse la vittoria ad
alcuna di esse. Ma le galee grosse cristiane, che erano avanti,
tal danno colle artiglierie recavano ai nemici, che cominciarono ad
affondare alcuni dei legni turcheschi. Quindi si abbordarono insieme
le galee di questi e di quelli, ed allora si fece pruova di chi
vantaggiasse l'altro in valore. Gran bisogno di coraggio ebbe don
Giovanni d'Austria, essendosi trovata la sua capitana in gran pericolo
per lo sforzo incredibile della reale dei Musulmani contra d'essa,
e per trecento almeno de' suoi rimasti ivi uccisi. Non men di lui
gli altri due generali Colonna e Veniero fecero singolari prodezze.
Finalmente andò in rotta l'armata turchesca, dappoichè il generale Aly
fu ucciso d'archibugiata. Il suo capo reciso dal busto, e messo sopra
una picca, finì di mettere lo spavento in chiunque potè ravvisarlo.
Venne alle mani dei cristiani una gran quantità di legni nemici e di
prigioni. Almen quindici mila infedeli fu stimato che perissero in quel
terribil conflitto. L'iscrizione posta a _papa Pio V_ ed alcuni autori
parlano di trenta mila di coloro uccisi; ma certo niuno li contò.
Vi perderono la vita più di cinque mila cristiani fra i quali alcuni
insigni personaggi, e spezialmente fu compianta la morte di _Agostino
Barbarigo_ provveditor generale della veneta armata, alla cui savia
condotta si attribuì in parte sì gloriosa vittoria. Più di dodici
mila schiavi cristiani in tal congiuntura riacquistarono la libertà.
Moltissimi di essi, allorchè videro declinar le forze turchesche,
essendosi sferrati, aveano accresciuto il terrore nelle lor galee.
Anzi gli stessi schiavi dell'armata cristiana, dacchè fu loro promessa
la libertà dopo la vittoria, presero l'armi, e recarono non lieve
aiuto ai combattenti padroni. Furono dipoi divise fra i vincitori le
spoglie e i prigioni, ch'erano circa cinque mila. Al generale del papa
toccarono diecisette galee e quattro galeotte; a don Giovanni d'Austria
cinquantasette galee ed otto galeotte; ai signori veneziani galee
quarantatre e sei galeotte. Tra Savoia e Malta furono divise diciotto
galee. Fama fu che circa sessantadue legni turcheschi fossero gittati a
fondo, e certamente si affondarono diecisette galee cristiane.
L'avviso di sì segnalata vittoria, portato da uffiziali e corrieri alle
corti, non si può esprimere qual giubilo spargesse nel cuore di ogni
cattolico, e con quante feste e trasporti d'allegria fossero dipoi
rendute grazie all'Altissimo. In Venezia tanta fu la gioia, che quel
popolo diede in eccessi. Giunse a Madrid la lieta nuova, seguitata fra
poco da altra felicità, cioè dalla nascita di un figlio maschio del re
Cattolico, a cui fu posto il nome di _Ferdinando_, accaduta nel dì 4
di dicembre. Da Venezia in due giorni arrivò a Roma questo avviso, che
riempiè di inesplicabil consolazione il pontefice e il popolo romano.
Scritto è che al santo padre Dio rivelò la riportata vittoria nell'ora
stessa in cui questa si dichiarò a favor de' cristiani. Crebbe dipoi
l'universal gioia in Roma stessa al comparir colà nel dì 16 di dicembre
il generoso generale dell'armi pontificie _Marcantonio Colonna_, il
quale cotanto avea contribuito al buon esito di quella impresa. Il
ricevimento suo rinovellò in qualche maniera la memoria degli antichi
trionfi romani: tal fu la pompa con cui venne incontrato dal senato
e dai magistrati della città, ed accompagnato al Campidoglio, alla
udienza del papa e al sacro tempio di Santa Maria d'Araceli, dove
con suntuosi doni riconobbe dal favore divino quanto era avvenuto in
quel terribil cimento. Ma chi lo crederebbe? Una sì insigne vittoria,
di cui volle il buon pontefice che si conservasse eterna la memoria
coll'istituire la Festa di Santa Maria della Vittoria, che oggidì
si celebra nella prima domenica di ottobre; una, dico, sì strepitosa
vittoria non fu poi seguitata da alcun rilevante frutto e vantaggio
della repubblica cristiana, e solamente servì a far conoscere che il
Turco non è una potenza invincibile. Perchè ciò avvenisse, lo vedremo
all'anno seguente. Si divisero poi le flotte cristiane per ritirarsi ai
quartieri d'inverno, stante l'avanzata stagione; e benchè i Veneziani
ricuperassero qualche luogo tolto loro dai Turchi in Albania, furono
nondimeno anch'essi forzati a riposare.


Anno di CRISTO MDLXXII. Indizione XV.
PIO V papa 7.
GREGORIO XIII papa 1.
MASSIMILIANO II imperad. 9.

Fu chiamato in quest'anno da Dio il buon _pontefice Pio V_ a ricevere
in cielo il premio della santa sua vita, e delle tante degne sue
azioni in pro della repubblica cristiana. Le astinenze, le orazioni
e le fatiche sue indicibili per ben esercitare l'uffizio pastorale,
e per la difesa del cristianesimo, aveano forte indebolita la di lui
sanità. Si aumentarono nel marzo i suoi malori; laonde nel dì primo di
maggio passò a miglior vita, lasciando dopo di sè un odore di sì rara
santità, che fu poi registrato dopo molti anni nel ruolo dei beati,
e ai dì nostri si è celebrata la solenne di lui canonizzazione. La
mancanza di questo insigne pontefice quella fu che troncò il filo ai
progressi dell'armi cristiane contro il comune nemico. Aveva egli,
per sostener la guerra santa, negli anni addietro impiegato un gran
tesoro. Maniera inoltre non gli era mancata di raunarne assai più per
continuarla nell'anno presente, di modo che si trovò in castello Santo
Angelo dopo la sua morte un milione e mezzo di scudi d'oro destinato
a quel fine. Teneva egli come in pugno la maggior parte dei re e
principi cristiani: tanta era la venerazione che ognun professava
al complesso delle sue virtù, e al suo indefesso zelo pel bene della
cristianità: e però potevansi sperare per mezzo suo maggiori vantaggi
alla causa comune. Non mancò, è vero, il suo successore di sposare le
medesime massime, siccome vedremo; ma non passò in lui col pontificato
anche il gran credito di papa Pio V. Entrati i cardinali in conclave,
da lì a due o tre giorni, cioè nel dì 15 di maggio, con mirabil
concordia elessero papa il _cardinale Ugo Boncompagno_, creatura di
papa _Pio IV_, personaggio ben degno di sì eccelsa dignità. Era egli
di famiglia antica e nobile bolognese, discendente, secondo le mie
congetture, da quel Boncompagno nativo di Firenze, che circa il 1200
si truova pubblico lettore nell'università di Bologna, e lasciò un
libro intitolato _De obsidione Anconae_ dell'anno 1172, da me dato
alla luce[468], e di cui tuttavia resta inedito in Francia un trattato
_De Arte Dictaminis_, citato dal Du-Cange nel Glossario latino. Di lui
probabilmente fu nipote quel Dragone Boncompagni, che, per attestato
del Ghirardacci[469], nell'anno 1293 con alcuni altri andò inviato dal
senato bolognese per ambasciatore al vescovo di Bologna.
Prese il novello papa il nome di _Gregorio XIII_, dicono per la
venerazione che egli professava a san Gregorio Magno, se pur non fu
a san Gregorio Nazianzeno. Volle che invece di gittare al popolo,
secondochè si usava nella coronazione dei papi, la somma di quindici
mila scudi di oro, questa si distribuisse ai poveri. Parimente in
favor d'essi ordinò che s'impiegassero altri venti mila scudi, soliti
a darsi ai conclavisti, perchè niuna molestia o fatica aveano patito
in sì poco tempo che era durato il conclave. Era non so come saltato
in capo al pontefice _Pio V_ di fabbricare oppur di tirare innanzi una
fortezza nel territorio di Bologna. Il primo favore che papa Gregorio
compartì alla sua patria, fu quello di ordinarne la demolizione nei
primi giorni del suo pontificato. Ad inchinare il nuovo pontefice
si portò in persona Alfonso II duca di Ferrara con accompagnamento
magnifico di molta nobiltà, e vi concorsero ancora gli ambasciatori
di tutti i potentati cattolici. Mostrò dipoi questo pontefice il
medesimo desiderio ed ardore, che aveva già avuto il suo predecessore,
per proseguir la guerra contro la potenza ottomana; e però spedì
tosto nunzii e legati ai monarchi e principi della cristianità, per
pregarli ed esortarli a così lodevole impresa. Confermò generale delle
galee pontificie _Marcantonio Colonna_, già mandato innanzi dal sacro
collegio ad imbarcarsi. Ma non vi fu che il re Cattolico _Filippo
I_I, il quale contribuisce soccorsi, e questi anche lievi a paragon
dell'anno precedente; perchè gravi sospetti correano che il re di
Francia macchinasse guerra contro la Spagna e con qualche certezza si
prevedevano perniciosi movimenti nei Paesi Bassi. Ventitrè sole galee
con sei mila fanti ottenne il pontefice da _don Giovanni d'Austria_,
senza che questi si volesse muovere da Messina col restante di sua
armata, affin d'essere pronto ai bisogni occorrenti del Cattolico
monarca. Contuttociò unite che furono, dopo gran ritardo, queste
forze con quelle de' Veneziani, comandate dal nuovo generale _Jacopo
Foscarino_, trovossi la flotta cristiana gagliarda di centocinquanta
galee, ventitrè navi, sei galeazze e trenta altri legni minori.
Ad onta della gran rotta dell'anno addietro, avea potuto la Porta
ottomana formare una flotta di ducento sessanta tra galee, galeotte
e fuste, con cinque galeazze: flotta nondimeno inferiore di nerbo e
di coraggio alla cristiana. In traccia di costoro fecero vela i due
generali Colonna e Foscarino. Ma il generale turchesco Uluccialì, uomo
di sopraffina accortezza, benchè sempre mostrasse voglia di azzuffarsi,
pure fuggì sempre ogni incontro, e sì artifiziosamente andò trattenendo
i cristiani, che lor fece perdere il resto della campagna; laonde,
appressandosi il verno, non altra gloria riportarono questi a casa, che
quella di aver fatto paura ai nemici. Per altro a sì infelice successo
contribuì non poco don Giovanni d'Austria, il quale ora facendo vista
di voler passare al comando dell'armata, senza poi mantener la parola,
ed ora facendo doglianze perchè senza di lui gli altri due generali
tentassero di dar battaglia, imbrogliò non poco i disegni; e neppur si
trovò grande armonia fra il Colonnese e il Foscarino: cose tutte che
sommamente afflissero papa Gregorio.
L'anno fu questo in cui propriamente ebbe principio la ribellione de'
Paesi Bassi contra del re Cattolico. Avea ben esso monarca mandato
colà un general perdono, che fu pomposamente pubblicato in Anversa dal
_duca d'Alva_ nel 1570, ma con poco frutto, perchè cotali riserve ed
uncini conteneva l'indulto, che pochi ne mostrarono stima, e niuno ne
fece allegrezza. E fin qui era andato fluttuando l'odioso affare delle
gravezze imposte da esso duca tra le di lui minaccie e la disubbidienza
e costanza di buona parte di que' popoli di non voler pagare: quando si
avvisò il superbo reggente di mettere mano alla forza per conciliare
rispetto alle sue leggi col gastigo dei renitenti. Allora apparve
qual odio, quali mali umori covassero le genti di quelle provincie,
soffiando spezialmente nel segreto fuoco con esortazioni e promesse di
soccorsi il principe d'Oranges, animato dai protestanti di Germania
e dagli ugonotti di Francia. Pertanto nell'Olanda, Zelanda e Frisia
si diede fuoco ad un aperto ammutinamento e rivolta di molte città,
dove principalmente avea preso radici la eresia, restando nulladimeno
alla Chiesa ed al re ubbidiente la principal fra esse, cioè Amsterdam.
Collegaronsi queste, prestarono una spezie di ubbidienza all'Oranges,
da lui riceverono governatori e leggi. Ed ecco il principio della
repubblica delle Provincie Unite, volgarmente appellata la repubblica
Olandese, che andò poi a poco a poco crescendo pel concorso dei vicini
Tedeschi, Franzesi ed Inglesi, tanto nella profession dell'eresia,
quanto nella mercatura e nelle forze di mare, che arrivò a divenire
una delle potenze più ricche dell'Europa, quale oggidì la miriamo. Il
di più dee prenderlo il lettore da altre storie. Sia a me lecito di
accennare anche un altro non men sonoro avvenimento della Francia,
spettante all'anno presente. Durava la pace fra il _re Carlo IX_ e
gli ugonotti; ma perciocchè il re, tenendo davanti agli occhi le tante
infedeltà ed insolenze passate di quegli eretici, e temendone sempre
delle nuove, tuttodì cercava la via di vendicarsene e di opprimerli;
finalmente si fermò nella risoluzion seguente. In occasione ch'era
concorsa a Parigi copia di coloro, e spezialmente di nobili, per le
nozze di _Arrigo re di Navarra_ (eretico che a suo tempo vedremo re di
Francia) con _Margherita di Valois_ sorella cattolica del suddetto re
Carlo, segretamente fu dato ordine dal re che nella notte precedente
al dì 24 di agosto, ossia alla festa di san Bartolomeo, si uccidessero
tutti gli ugonotti. Grande strage fu fatta di loro in Parigi, unitosi
il popolo ai soldati del re contro gli odiati nemici della religion
cattolica; e quivi ne perirono circa due o tre mila, come scrissero
l'Adriani e lo Spondano, e non già dieci mila, come altri hanno
scritto, fra' quali si contarono quasi quattrocento gentiluomini
che godeano gradi onorati di milizia: esecuzione, in cui restarono
involti anche molti innocenti cattolici, perchè ricchi. Andò poi un
regio bando, che più non s'incrudelisse contro gli Ugonotti, ma non fu
a tempo per trattenere i cattolici di Lione, Tolosa, Roano ed altre
città, dal mettere a fil di spada quanti di quella setta caddero
nelle lor mani. Famoso perciò divenne in Francia questo macello col
nome delle Nozze parigine e della Notte di San Bartolomeo. Lascerò io
disputare ai gran dottori intorno al giustificare o riprovare quel sì
strepitoso fatto, bastando a me di dire che per cagion d'esso immense
esagerazioni fece il partito degli ugonotti, e loro servi di stimolo e
scusa per ripigliar l'armi contra del re. Nel settembre di questo anno
terminò i suoi giorni _Barbara d'Austria duchessa_ di Ferrara, in cui
fra le molte virtù spezialmente si distinse la pietà, ereditaria dote
della nobilissima casa d'Austria.

NOTE:
[468] Rerum Italicarum, tom. 6.
[469] Ghirardacci, Storie di Bologna.


Anno di CRISTO MDLXXIII. Indizione I.
GREGORIO XIII papa 2.
MASSIMILIANO II imperad. 10.

Molte e grandi consulte, per gl'impulsi spezialmente di _papa
Gregorio_, fatte furono nella corte di Madrid, in Roma e Venezia, per
formare un armamento più formidabile dei precedenti contro l'imperio
ottomano. Si calcolò che il re Cattolico armerebbe centocinquanta
galee, cento i Veneziani e cinquanta il pontefice. Ma con tutti questi
bei consigli, assai chiarita la repubblica veneta che in fare i conti
sugli aiuti altrui, e sulla buona sinfonia delle leghe, sovente si
falla; e che dopo l'insigne vittoria di Lepanto comparivano vigorose
come prima le forze de' Musulmani; e che niun conquisto si era fatto
finora, e sol gravissimi danni aveano patito i suoi littorali: trattò
di pace col gran signore, e la conchiuse per mezzo di un suo ministro
nel mese di marzo, e la ratificò nel seguente aprile, con promettere,
dopo tanti milioni inutilmente spesi nella passata guerra, di pagare
per tre anni cento mila scudi di oro annualmente al superbo sultano.
Chi in bene e chi in male parlò di questa pace; ma sopra gli altri se
ne risentì vivamente il pontefice, per veder fatto un passo di tanta
importanza senza saputa sua; e maltrattato con acerbe parole Paolo
Tiepolo mandato apposta ambasciatore, che gliene diede la nuova, ordinò
che questo gli si levasse davanti. Andò tanto innanzi lo sdegno e
lo sparlare del popolo romano contra de' Veneziani, che il Tiepolo,
temendo di qualche insulto, fu forzato ad armar di gente il suo
palazzo e ad uscirne con molta cautela. Vi volle del tempo a quetare
l'adirato pontefice, ma infine si quetò. Con tranquillità di animo,
all'incontro, accolse il re _Filippo II _questa nuova, anzi lodò la
prudenza veneta, siccome quegli che da molto tempo meditava un'altra
impresa, ed avrebbe anche desiderato che nel precedente anno a quella
sola avessero accudito l'armi de' collegati. Essendo stato cacciato da
Tunisi nell'anno 1571 il bey o dey Amida per le sue crudeltà, il famoso
corsaro Uluccialì re d'Algeri s'impadronì ancora di quella città.
Conservavasi tuttavia in potere del re di Spagna la Goletta, fortezza