Annali d'Italia, vol. 6 - 48

al conclave. Erano restate guaste dall'antichità le celebri terme di
Diocleziano imperadore. Egli le convertì in una chiesa e monastero,
e ne diede il possesso ai monaci certosini. Ordinò ancora che i
titoli delle chiese e diaconie assegnati ai cardinali, giacchè per la
vecchiaia non meno, che per la negligenza dei precedenti porporati,
erano andati in rovina, si riparassero: cose tutte che renderono sempre
più glorioso il di lui pontificato.


Anno di CRISTO MDLXIII. Indizione VI.
PIO IV papa 5.
FERDINANDO I imperadore 6.

Gran dispute e dissensioni, sì di precedenza che di riforma, occorsero
in quest'anno nel concilio di Trento, mosse in parte dall'oratore
spagnuolo, dai Franzesi e dagl'imperiali, che tennero in qualche
inazione que' padri. Colla pazienza nondimeno e colle buone maniere
dei cardinali legati tutto si andò superando. Ma nel dì 2 di marzo
restò conturbata tutta la sacra assemblea per la morte di _Ercole
cardinal Gonzaga_, a cui tenne dietro nel dì 17 dello stesso mese il
_cardinal Girolamo Seripando_. Erano amendue legati _a latere_ del
papa, e personaggi per la pietà, per la dottrina e per la prudenza di
un merito incomparabile. In luogo d'essi spedì il pontefice da Roma due
altri insigni porporati, cioè _Giovanni Morone_ Milanese, che vedemmo
sì maltrattato da papa Paolo IV, e _Bernardo Navagero_ Veneziano.
Continuarono anche dipoi i contrasti dalla parte de' Franzesi e
dell'imperadore. Pure col divino aiuto proseguì vigorosamente il
concilio, e più che mai si stesero decreti riguardanti il dogma
egualmente che la disciplina ecclesiastica. Per tanta dimora in Trento
erano per la maggior parte stanchi i padri. Intervennero allora altri
motivi, per li quali nel mese di novembre si cominciò a trattare di
terminar quella gran funzione: al che si trovarono ripugnanti gli
Spagnuoli. Ma, venuto avviso che sul fine di novembre era stato preso
il sommo pontefice da un pericoloso accidente, per cui si dubitava di
sua vita, tale scompiglio entrò per questo in quella sacra adunanza,
che l'ambasciatore del re Cattolico si diede per vinto, e consentì che
si proponesse il fine del concilio. Tornò il papa da lì a non molto a
goder buona sanità. Ora, dopo avere il consesso dei padri smaltiti con
indicibil diligenza varii punti di dogma e di riforma che restavano a
farsi, nella sessione ventesima quinta ebbe fine nel dì 4 di dicembre
il sacrosanto concilio di Trento: concilio a cui intervennero i più
dotti vescovi e teologi di tutti i regni cattolici, e che superò tutti
gli altri precedenti per l'ampia esposizione della dottrina della vera
Chiesa, e per la correzione e riforma di assaissimi punti spettanti
alla disciplina ecclesiastica. Tanti abusi che da lì innanzi cessarono,
tanta emendazione e mutazion di costumi nell'uno e nell'altro clero,
e il presente bell'aspetto della Chiesa di Dio tanto ne' pastori di
sublime grado che dell'ordine inferiore, troppo diverso da quello
in cui si trovava essa Chiesa allorchè Dio permise la nascita di
tante eresie nel Settentrione per gastigo nostro, e molto più per
gastigo di chi si ribellò alla religione dei suoi maggiori: tutto
questo lo dobbiamo riconoscere da quel benedetto concilio, che poi fu
solennemente confermato dal romano pontefice, ed accettato, almeno per
quello che appartiene ai dogmi, da tutta l'universalità dei cattolici.
Misericordia di Dio fu ancora, che in tal congiuntura sedesse nella
cattedra di San Pietro un pontefice di buona volontà, e che i grandi
affari della santa Sede fossero principalmente appoggiati alla mente
diritta, all'indefesso zelo e alla pietà singolare del _cardinal Carlo
Borromeo_, primo ministro della sacra corte, che a gloria di Dio e a
benefizio della repubblica cristiana trasse a fine quella memoranda
impresa. Fu egli anche il primo a dar buon esempio agli altri, con
severamente riformare la propria corte. Erano stati inviati ad esso
concilio anche i protestanti. Niun d'essi vi volle intervenire, perchè
avrebbero preteso di dare, e non già di ricevere la legge. Però prima
di quest'anno, e molto più dappoi, si scatenarono con varii libri
contra del concilio suddetto, vendicandosi in quella maniera che
poterono degli anatemi contro di lor proferiti. Ma è da sperare nella
clemenza di Dio che verrà un dì in cui si saneran queste piaghe. E
certamente questo ha da essere uno dei desiderii di chiunque, sia
cattolico, sia di altra credenza, purchè professi la santa religione di
Gesù Cristo, condannatrice degli scismi.
In quest'anno ancora grave danno risentirono le marine dell'Italia
dai corsari barbareschi, e specialmente quelle di Napoli. Dragut Rais,
fuggito dall'assedio di Orano, comparve colà con tutte le sue forze, e
gli riuscì di prendere sei legni cristiani che s'erano spiccati da quel
porto col carico di molta gente e merci. Ad uno d'essi il disperato
capitano Vincenzo di Pasquale Raguseo diede il fuoco, mandando in aria
e in acqua tutte le robe e famiglie che quivi si trovavano. Dragut
per tale risoluzione gli fece poi tagliare la testa. Era, dissi, stato
ne' giorni addietro assediato fieramente Orano dai Mori, al soccorso
della qual fortezza accorsero anche le galee di Napoli; e ben sapea
Dragut che Napoli si trovava allora senza galee da difesa. Il perchè
l'orgoglioso Barbaro giunse fin sotto Chiaia con isperanza di coglier
ivi la marchesa del Vasto, la quale per buona fortuna non vi si trovò,
e però solamente fece schiavi alquanti cristiani, che il vicerè da lì
a poco riscattò. Alle coste eziandio della Puglia, dell'Abbruzzo e del
Genovesato fecero questi masnadieri delle aspre visite. Grandi perciò
erano i lamenti dei popoli; ma niun provvedeva, eccettochè i cavalieri
di Malta, i quali sempre in corso recarono bensì non pochi danni alle
terre de' Turchi, ma senza sollievo di quelle de' cristiani. Dalle
civili guerre fu in quest'anno parimente lacerata la Francia, dove gli
inquieti e perfidi ugonotti fecero assassinare ed uccidere il valoroso
_duca di Guisa_, capo della parte dei cattolici. In Ispagna, giacchè
il _re Filippo II_ non poteva aver successione dalla nuova sua moglie,
sorella del re di Francia, ed era per altra parte malissimo contento
dell'unico suo figlio _don Carlo_, giovane di cervello torbido, egli
desiderò che _Massimiliano II re_ de' Romani suo cugino inviasse alla
corte di Madrid i di lui due figli _Ridolfo_ ed _Ernesto_ arciduchi,
acciocchè apprendessero i costumi degli Spagnuoli, e per ogni bisogno
potessero sostenere la casa d'Austria nella monarchia di Spagna.
Passarono questi due principi verso il fine dell'anno per Milano, e
andarono dipoi ad imbarcarsi a Nizza, con ricevere dappertutto distinti
onori.
Ad essa città di Milano tentò in questo anno il re Cattolico di fare un
regalo, col volere introdurre colà l'inquisizione all'uso di Spagna.
Contuttochè la maggior parte de' cardinali ripugnasse a tal novità,
pure il papa, a cui premeva di non disgustare un sì potente re, si
lasciò vincere, e condiscese a siffatta istanza. Esposta dal _duca
di Sessa_ governatore ai Milanesi la volontà reale, gran commozione
si svegliò nella nobiltà del pari che ne' popolari, assai informati
dell'odiatissimo rigore dell'inquisizion di Spagna, e come sotto colore
di punir le colpe di chi era miscredente nella fede, per altri delitti
ancora, o veri o pretesi, si facevano segrete giustizie o vendette a
piacimento del principe. Però tutti animosamente risposero d'essere
buoni cattolici, e non trovarsi fra loro Ebrei finti cristiani, come
in Ispagna; nè esservi motivo alcuno di mutar l'ordine già prescritto e
discreto di quel tribunale in Italia, e che perciò non comporterebbono
una sì esorbitante gravezza. Poco mancò che non si venisse ad una
sollevazione, e non si rinovasse la scena succeduta negli anni addietro
per questo medesimo tentativo in Napoli. Il saggio governatore,
veggendo gli animi sì mal disposti, calmò con buone parole il lor
movimento, e promise di scrivere in favore di essi al pontefice e
al re. Così fece egli, nè più si parlò di questo affare. Per simili
sospetti sorse ancora nell'anno seguente non lieve alterazione nel
popolo di Napoli, troppo alieno dall'ammettere anche la sola ordinaria
inquisizione che si pratica in tante città d'Italia per unico bene
della religione. Erasi da qualche tempo costituito capo di banditi
nella Calabria un certo Marco da Cotrone; e concorrendo a costui la
feccia di tutti i malviventi, arrivò la sua baldanza a prendere titolo
di re, onde era comunemente appellato il re Marcone. Infestava egli
tutte le strade, spogliava i passaggieri, metteva in contribuzione le
ville, vendeva anche i poveri cristiani ai corsari barbareschi. Spedì
il vicerè di Napoli contra di quegli assassini alcune compagnie di
Spagnuoli che vi rimasero o morti o prigioni. Fu d'uopo di inviarvi
dipoi circa due mila fanti e cavalli sotto il comando di Fabrizio
Pignatelli marchese di Cerchiero, la cui industria seppe sparpagliare
e poi ridurre a nulla quella ciurma di malandrini. Tornò in quest'anno
dalla corte di Madrid a Firenze _don Francesco_ primogenito del
_duca Cosimo_. Irritato l'_imperador Ferdinando_ dello sprezzo fin
qui mostrato dai Genovesi della sua sentenza nella causa del Finale,
pubblicò in quest'anno un duro decreto contra di quella repubblica,
la quale perciò ricorse al re di Spagna per placarlo. Durarono poi
le dissensioni de' Finalini, finchè nel 1571 il _duca d'Albuquerque_
governator di Milano, andò a mettere presidio spagnuolo nel Finale,
terra che fu poi nell'anno 1598 venduta dal _marchese Andrea Sforza_,
ultimo di quella linea, al _re Filippo II_, il cui successore _Filippo
III_ nell'anno 1619 ne ottenne l'investitura dall'_imperadore Mattias_.


Anno di CRISTO MDLXIV. Indizione VII.
PIO IV papa 6.
MASSIMILIANO II imperad. 1.

Non tardò il pontefice _Pio IV_ a far conoscere il suo zelo per
l'esecuzione dei decreti del concilio di Trento. Gravissimi disordini
erano proceduti in addietro dall'assenza de' vescovi dalle loro
diocesi, e s'era anche disputato forte in esso concilio se la residenza
de' pastori fosse di gius divino, con riconoscerne almeno la somma
importanza. Molti di essi vescovi se ne stavano in Roma impiegati in
varii uffizii, ed assaissimi altri nelle corti dei principi, intenti ai
proprii vantaggi, e poco o nulla a quel delle lor chiese. Costrinse il
papa gli abitanti in Roma a tornarsene alle lor greggie; e chi avea più
d'un vescovato, fu obbligato a contentarsi d'un solo: dal che seguì una
gran mutazione in Roma. Cominciossi ancora a procedere con posatezza
nell'elezione de' vescovi, scegliendosi que' soli che aveano per sè
la raccomandazion de' buoni costumi e del sapere: tutte provvisioni
che riaccesero fra' popoli l'ardore della religione, e fecero a poco
a poco cessare la depravazion de' costumi non solo nel clero, ma
anche ne' secolari. Al che parimente non poco contribuirono colle
lor fatiche ed esempli i nuovi ordini religiosi dei Teatini, Gesuiti,
e la congregazion dello Oratorio di San Filippo Neri, che in questi
tempi cominciò a fiorire. E perciocchè nel concilio suddetto era stata
decretata l'erezion de' seminarii de' cherici, il pontefice ordinò la
fabbrica del seminario romano che riuscì ben riguardevole, e ne diede
poi la cura ai padri della compagnia di Gesù. Donò anche generosamente
alla repubblica di Venezia il palazzo di San Marco, già fabricato
in Roma da _papa Paolo II_. Ma una disgustosissima briga tormentò
in quest'anno esso pontefice; imperciocchè, nata nel precedente una
gravissima gara fra i ministri di Francia e Spagna a cagion della
precedenza, per cui anche nel concilio di Trento s'era caldamente
disputato, il papa non osava decidere, conoscendo inevitabil cosa che
la decisione si tirerebbe dietro la nimicizia di chi restava al di
sotto, laddove egli desiderava di star bene con tutti. Furono perciò
presi varii spedienti, ma niun d'essi piacendo alla corte di Francia,
anzi facendo il re Cristianissimo aspre doglianze e minaccie, papa Pio
al riflettere che in tempi tanto pericolosi, ne' quali avea tanta forza
ed anche fortuna in Francia il partito de' calvinisti, non conveniva
esacerbar quella corona: si dichiarò in favore dell'ambasciator
franzese. E tanto più prese animo a far questo passo, perchè l'aveano
prevenuto i Veneziani, e si dovea sperare che il piissimo animo di
_Filippo II_, considerate le circostanze presenti, troverebbe non
ingiusto il procedere della corte di Roma, siccome infatti avvenne.
Giunse in quest'anno a morte nel dì 25 di luglio dopo lunga malattia
_Ferdinando I imperatore_, principe sommamente pio, e lodatissimo per
le sue gloriose azioni. Ebbe per successore nella augustal dignità
_Massimiliano II_ suo figlio, già re de' Romani, d'Ungheria e Boemia,
a cui tosto con rompere la tregua precedente, mosse guerra il vaivoda
di Transilvania, assistito da' Turchi. Grande armamento di galee
e navi fatto fu nel presente anno per ordine del re Cattolico in
Napoli, Sicilia e Genova. Come una spina negli occhi stava ad esso re
il Pegnon, cioè il sasso di Velez, scoglio altissimo nelle coste di
Barberia, verso lo stretto di Gibilterra, su cui stando alla vedetta i
corsari africani, e scoprendo da lungi i legni cristiani che uscivano
de' porti di Spagna, o altrimenti veleggiavano pel Mediterraneo, erano
pronti colle loro fuste e galeotte per volare ad assalirli e predarli.
Dato fu il comando di quella flotta a _don Garzia di Toledo_, figlio
del fu vicerè di Napoli. Vi concorsero la galee di Malta, di Firenze,
di Savoia, di Portogallo, talchè l'armata arrivò ad ottantasette galee,
oltre a una gran quantità di legni da carico, galeotte ed altre vele
minori. Sul fine d'agosto giunse al suddetto Pegnone questo potente
sforzo de' cristiani, e in poco tempo s'insignorì di quel posto,
dove poi furono lasciati di presidio ottocento fanti. Fece nel mese
di giugno del presente anno una rara risoluzione _Cosimo duca di
Firenze_. Alcuni incomodi di sanità aveva egli patito, e però sì per
proprio sollievo, come per addestrare il principe _don Francesco_
suo primogenito al maneggio degli affari, cedette a lui il governo
degli Stati. Era allora il principe in età di ventiquattro anni, e la
prudenza ed attività sua l'aveano già fatto conoscere per abilissimo
a questo peso. Riservò a sè Cosimo il titolo e la dignità ducale, e
da lì innanzi si ridusse come ad una vita privata, prendendo diletto
delle ville e de' luoghi solitarii. Gran ribellione intanto bolliva in
Corsica, dove que' popoli si mostravano mal soddisfatti del governo de'
Genovesi, come ancora è avvenuto, e più strepitosamente, di nuovo a' dì
nostri. Capo dei ribelli era un Sampiero, uomo fiero di quella nazione,
il quale ancorchè avesse messo in rotta tre mila soldati genovesi
spediti contro di lui, pure perchè gli mancavano le forze da tentar
cose maggiori da per sè, fece almeno quanto potè per muovere qualche
principe che assumesse l'acquisto di quell'isola, ma senza trovarne
alcuno. Tanto innanzi andò quell'izza, che protestarono que' sollevati
di volersi piuttosto dare a' Turchi, che tornare all'ubbidienza
della repubblica di Genova: precipitoso consiglio che si è fatto
udire anche ne' tempi nostri. In mano d'essi Genovesi restavano le
principali fortezze, e riuscì loro di ripigliar Portovecchio coll'aiuto
dell'armata spagnuola che ritornava dalla conquista del Pegnone.


Anno di CRISTO MDLXV. Indizione VIII.
PIO IV papa 7.
MASSIMILIANO II imperad. 2.

Avvenimento sopra modo strano parve l'essersi nel gennaio di quest'anno
scoperta una congiura contra del pontefice _Pio IV_, il quale mansueto
e clemente, non odio, ma amore cercava pur di riscuotere da ognuno; nè
certamente alcun danno o dispiacere avea recato a chi meditò di torre a
lui la vita. Fu essa cospirazione tramata da Benedetto Accolti, figlio
del fu _cardinale Accolti_, ed in essa concorsero il conte Antonio
Canossa, Taddeo Manfredi, il cavalier Pelliccioni, Prospero Pittorio
ed altri, tutti gente di mala vita, e gente fanatica, come dai fatti
apparve. Fu creduto che l'Accolti, coll'essere stato a Ginevra, avesse
ivi bevuto non solamente il veleno dell'empie opinioni, ma eziandio le
fantastiche immaginazioni ch'egli ebbe forza d'imprimere ne' complici
suoi. Cioè, diceva egli, che ucciso il presente papa, ne avea da venire
un altro divino, santo ed angelico, il quale sarebbe monarca di tutto
il mondo. E buon per costoro, perchè bel premio aveano da riportare
di sì orrido fatto. Al conte Antonio dovea toccare il dominio di
Pavia; quel di Cremona al Manfredi; al Pelliccioni quello della città
dell'Aquila; e così altre signorie agli altri. Per conoscere meglio
l'illusione e leggierezza delle lor teste, basterà sapere che si
prepararono al misfatto colla confession de' lor peccati, tacendo nulla
di meno l'empio sacrilegio ed omicidio che disegnavano di commettere.
Fissato il giorno, si presentò una mattina ai piedi del pontefice
l'Accolti col pugnale preparato all'impresa; ma sorpreso da timore,
nulla ne fece. Nata perciò lite fra i congiurati, il Pelliccioni, per
salvar la vita, andò a rivelare il già fatto concerto. Tutti furono
presi; e per quanto coi tormenti e colle lusinghe si procurasse di
trar loro di bocca chi gli avesse sedotti ed incitati a sì esecranda
azione, nulla si potè ricavarne, se non che l'Accolti sosteneva di
aver di ciò parlato cogli angeli, i quali certamente non doveano
essere di quei del paradiso. Furono costoro pubblicamente tormentati
per la città, e poi tolti dal mondo. L'Accolti, sempre ridendo fra
i tormenti, assai dimostrò che si trattava di gente che avea leso il
cervello, e forse meritava più la carità d'esser tenuta incatenata in
uno spedale, che il rigore di un capestro. Per assicurarsi non di meno
il papa da altri simili insulti, destinò al palazzo papale la guardia
di cento archibusieri. Confermò parimente l'ordine da lui fatto nel
1562, che non dovessero godere franchigia i palazzi dei cardinali, nè
degli ambasciatori de' principi, affinchè non servissero di rifugio
a' malviventi. Proibì poscia sotto varie pene ai nunzii pontifizii di
procacciarsi lettere di raccomandazione dai principi, o di valersi di
quelle che essi spontaneamente esibissero. Fece inoltre nel dì 11 di
marzo la promozione di molti cardinali, la maggior parte persone di
gran merito, e contossi fra esse _Ugo Boncompagno_ vescovo di Bologna,
che fu poi Gregorio XIII.
Gran terrore, massimamente all'Italia, diede in quest'anno il tuttavia
vivente e feroce sultano dei Turchi Solimano. Si rodeva egli da molto
tempo le dita per li continui insulti che faceano alle sue navi e terre
i cavalieri gerosolimitani di San Giovanni, chiamati gli Ospitalarii;
però venne alla determinazione di levar loro l'isola di Malta, da lui
chiamata nido dei corsari cristiani. Stupendo fu il suo armamento,
perchè giunse a ducentoquaranta vele, fra le quali si contarono
centosessantotto galee con copiosa quantità di gente da sbarco e
d'artiglierie. Simile armata di mare non avea mai fatta in addietro
la potenza ottomana. General di terra fu Mustafà bassà; general di
mare Pialy bassà unghero rinegato. Andò ancora, ma tardi, ad unirsi
con loro il famoso corsaro Dragut Rais colle sue galeotte e soldati.
Certificati intanto del barbarico disegno _don Garzia di Toledo_ vicerè
di Sicilia, e il generoso gran mastro di que' cavalieri _Giovanni
Valletta_, aveano provveduta la città di Malta di tutto il bisognevole
per sostenere un assedio. Nel dì 18 di maggio a vista di quell'isola
comparve la formidabil flotta turchesca; ed allora tutti i combattenti
cristiani con sommo coraggio e insieme allegria corsero ai posti lor
destinati, contando per fortunata la loro vita, se la spendeano per
difesa della fede e della patria. Erano intorno a sei mila i difensori,
cioè cinquecentonovanta cavalieri, quattro mila Maltesi, e mille e
cinquecento soldati, e forse più, tra Italiani, Franzesi e Spagnuoli.
Cominciarono i Turchi a battere con molti pezzi di grossa artiglieria
il castello di Santo Ermo, posto nella lingua di terra che guarda i
due porti dell'isola, e poi vennero a furiosi assalti, che costarono
loro gran perdita di gente; e in uno d'essi colpito il corsaro Dragut
rallegrò assaissimo i cristiani colla sua morte. Nel dì 21 di giugno
restò presa la suddetta fortezza, e trucidato chiunque era sopravvivuto
alla forte difesa. Si accinse dipoi Mustafà all'assedio della fortezza
di San Michele; nel qual tempo, cioè a dì 12 di luglio, venne a
rinforzarlo il bey d'Algeri con ventisette legni, sui quali erano più
di mille uomini da guerra.
All'incontro, spedito di Sicilia il mastro di campo Robles con
quattro galee, passando arditamente quasi per mezzo i nemici, sbarcò
nell'isola secento fanti, rinforzo che recò non lieve ristoro agli
assediati. Frequenti e sanguinosissimi furono gli assalti dati a quella
fortezza dai Turchi, e già le loro trincee erano arrivate sotto le
mura, e si lavorava di mine; quando il Toledo vicerè di Sicilia, dopo
tanta dilazione, determinò di portare all'afflitta città il promesso
soccorso. E però con sessantadue galee giunto nel dì 7 di settembre
alla parte di Malta vecchia, colà sbarcò nove mila soldati eletti,
con vettovaglia per quaranta giorni, e poi se ne tornò in Sicilia
a preparar altri aiuti. Mandò il bassà Mustafà sei mila de' suoi a
riconoscere che gente era quella, e trovò persone che sapeano menar
le mani, perchè uccisero forse mille e cinquecento di quegl'infedeli.
La notte seguente imbarcati i Turchi, fecero vela alla volta di
Lepanto, lasciando libera l'isola di Malta, ma conquassate tutte le
sue fortezze. Perirono in quell'assedio, per quanto fu creduto, almen
venti mila Turchi, parte per le battaglie, e parte per le infermità.
De' cristiani quattro mila se ne contarono estinti ne' combattimenti,
fra i quali, chi dice ducentoquaranta, e chi trecento cavalieri,
che intrepidi sempre in tutte le fazioni, combattendo come leoni,
lasciarono gran fama del loro valore. Nè minore fu quella del vecchio
gran mastro Valletta, non avendo egli in sì terribil congiuntura
perdonato a fatiche e pericolo alcuno. Lasciò egli dipoi immortale
maggiormente il suo nome per avere aggiunta alla vecchia città la
città Valletta, e tanta copia di fortificazioni, che Malta può oggidì
sembrare inespugnabile, o, per dir meglio, può appellarsi la città più
forte dell'universo. Guai all'Italia, s'essa cadea allora nelle griffe
turchesche; però quanto fu il terrore d'ognuno per quell'assedio,
altrettanto giubilo si provò nella sua liberazione. Nè già mancò _papa
Pio IV_ di somministrar soccorso di gente e danaro per sì urgente
bisogno della cristianità. Tuttavia don Garzia di Toledo, per aver
cotanto differito il soccorso, ebbe dei miramur dal re Cattolico, e col
tempo perdè il governo della Sicilia.
Fin l'anno precedente era stato conchiuso il matrimonio
dell'arciduchessa _Barbara d'Austria_, figlia di _Ferdinando I
imperadore_, con _Alfonso II duca_ di Ferrara, e dell'arciduchessa
_Giovanna_ di lei sorella minore con _don Francesco de Medici_ principe
di Firenze. Ma convenne differirne dipoi l'esecuzione per la morte
del suddetto Augusto. Nel dì 21 di luglio del presente anno il duca
di Ferrara con grandioso accompagnamento s'inviò verso la Germania,
per visitare in Ispruch la principessa a lui destinata in moglie.
Di là passò a Vienna per assistere al funerale del defunto Cesare, e
ricevette singolari finezze dal novello _imperador Massimiliano II_,
e dai due arciduchi di lui fratelli. Tornato poscia in Italia, si
diede a fare i preparamenti più magnifici per le nozze suddette; e
nel dì 20 di novembre inviò a Trento il _cardinale Luigi d'Este_ suo
fratello accompagnato dal _cardinal di Correggio_ e da una comitiva
nobilissima, a sposare l'arciduchessa in suo nome. Insorsero ivi
dispute di precedenza, per esservi giunto prima in persona il principe
di Firenze, con pretendere perciò che seguisse lo sposalizio suo avanti
a quello del duca di Ferrara. Ma rappresentando il cardinal Luigi la
preminenza dell'età nella principessa Barbara, e del grado nel duca
Alfonso, stante l'essere questi sovrano, e il Medici soggetto al padre
duca, s'incagliò forte lo affare; e contuttochè il santo _cardinale
Carlo Borromeo_, spedito colà dal papa con titolo di legato per onorar
quelle nozze, si adoperasse non poco per ismorzare la contesa, niun
d'essi volle ritrocedere. Troncò dipoi Massimiliano Augusto il gruppo
con ordinare che lo sposalizio delle due arciduchesse si facesse
negli Stati dei mariti loro destinati. Il che fu poscia puntualmente
eseguito. Insigni feste furono fatte in Ferrara nel dì 5 di dicembre,
in cui l'arciduchessa Barbara fece la sua solenne entrata, e parimente
ne' susseguenti giorni, essendosi specialmente nel dì 11 del detto
mese data esecuzione ad un torneo, intitolato _il tempio d'amore_,
che riempiè di maraviglia e diletto per la novità e magnificenza
dell'anfiteatro, delle macchine e delle comparse, l'incredibil copia
degli spettatori, accorsi colà anche da lontane parti. Fra gli altri
merita d'essere mentovato _Guglielmo duca_ di Mantova con _Leonora
d'Austria_ sua moglie, sorella della nuova duchessa di Ferrara. Era
allora essa città di Ferrara riguardata qual maestra di queste arti
cavalleresche. Passò a Firenze anche l'arciduchessa Giovanna, e quivi
ancora con solennissime feste di maschere, conviti, balli, giuochi di
cavalli, caccie di fiere selvatiche, ed apparati di statue e pitture,
furono magnificamente celebrate le sue nozze.
Abbiam fatta menzione del piissimo cardinal Carlo Borromeo, legato
allora della santa Sede per tutta l'Italia. Ardeva egli di voglia di
portarsi a Milano per visitar la sua chiesa, con disegno ancora di
tener ivi il primo suo concilio provinciale; e cotanto tempestò lo zio
pontefice, a cui troppo rincresceva lo stare senza di lui, che ottenne
licenza di inviarsi colà nel dì primo di settembre. Vi andò, accolto
con incredibil allegrezza e divozione dal popolo milanese; celebrò il
concilio suddetto, con alloggiare alle sue spese i vescovi suffraganei;
poscia si portò, siccome dicemmo, a Trento. Accompagnata sino a Ferrara
la duchessa Barbara, continuò poi il cammino colla principessa di
Toscana sino a Fiorenzuola, dove ricevette un corriere colla nuova di
grave malattia sopraggiunta al pontefice; e però prese le poste verso
Roma. Parve che in quest'anno il papa si dipartisse dalle massime
plausibili di governo osservate da lui in addietro, e massimamente
durante il concilio di Trento, di cui mostrava apprensione. Cioè
si diede a far danaro; al qual fine impose alquanti nuovi aggravii
allo Stato ecclesiastico: maniera comoda per ricavarne, ma eziandio
per eccitar lamenti e riscuotere maledizioni. Fece anche rivedere i
processi già cominciati contro di alcuni nobili, per imputazion di
varii delitti; e questi furono il conte Gian-Francesco da Bagno e il
conte Nicola Orsino da Pitigliano, a' quali diede gran travaglio; e
fu creduto che si riscattassero colla moneta. Mosse in oltre lite
al duca di Ferrara, pretendendo ch'egli avesse fatto più sale che
non conveniva, con pregiudizio della camera apostolica: tutte cose
odiose, benchè vestite col manto della giustizia. E non è già che
questa avidità di pecunia gli entrasse in cuore per ingrassare od
innalzare i parenti. Ebbe egli da soccorrere Malta con gente e danari;
ebbe da inviar somma di contante all'imperadore per la guerra mossa
dal Transilvano e dal Turco. Avea anche preso piacere alle fabbriche,
all'abbellimento di Roma, a risarcir le fortezze e i porti dello Stato
della Chiesa. Terminò egli in quest'anno la fortificazion del Borgo di
Roma, di cui sopra parlammo, e che abbracciava il Vaticano e castello
Santo Angelo, ed ampliò il recinto di Roma da quella parte, ordinando
che si chiamasse _Città Pia_ ad esempio di _papa Leone IV_ che fabbricò
la Leonina. Chiamasi oggidì Borgo Pio. Cominciò da' fondamenti il
palazzo de' conservatori in Campidoglio, e rifece il pontifizio in
esso sito. Ad uso pubblico rimise la via Aurelia, e fece del bene
all'altra, che guida a Campagna di Roma. In benefizio ancora delle
lettere istituì una nobile stamperia con varietà di caratteri anche di
lingue orientali, e ne diede la cura a Paolo Manuzio letterato di molto