Annali d'Italia, vol. 6 - 40
nobili, e cominciò a menar le mani contro gli Spagnuoli usciti del
castello in ordinanza, ed all'incontro il castello a tempestar colle
palle le case de' cittadini. A questo rumore volarono a Napoli circa
tre mila banditi e fuorusciti, che si unirono col popolo. Dopo di ciò
furono eletti dalla città due inviati, cioè don Ferrante Sanseverino
principe di Salerno, e don Placido di Sangro, affinchè si portassero
alla corte per informar l'imperadore, e supplicarlo di richiamare il
vicerè, e di non permettere le novità dell'odiata inquisizione fra
loro. Al principe di Salerno era stato predetto, che se andava, male
gliene avverrebbe. Ma egli, anteponendo l'amor della patria ad ogni
suo rischio, andò. Furono prevenuti questi inviati da persona spedita
con più diligenza dal vicerè. Arrivati che furono anch'essi alla corte,
al principe, senza poter vedere la faccia dell'imperatore, fu ordinato
di fermarsi. Il Sangro bensì ebbe udienza, ma non riportò a Napoli se
non la secca risposta che la città ubbidisse. Venne intanto spedito da
_don Ferrante Gonzaga_ al vicerè un rinforzo di mille Spagnuoli sopra
le galee del principe Doria: altri ottocento dalla Sicilia, ed alcune
brigate di fanti assoldati in Roma da _don Diego Mendozza_ ambasciatore
cesareo. Costoro nel dì 21 di luglio, per discordia insorta fra essi
ed alcuni popolari, diedero all'armi, uccissero alquanti Napoletani,
saccheggiarono alcune case e monasteri, ed occuparono Santa Maria
Nuova, luogo atto a prevalere contro la città. Mentre il popolo coi
fuorusciti di Napoli e colle artiglierie si preparava per espugnar quel
sito, arrivò il Sangro dalla corte, che intimò ad ognuno l'ubbidire.
Non avea il popolo capo alcuno di autorità; e siccome è assomigliato
ai flutti del mare, che presto vengono e presto sen vanno, si quetò,
e spedì suoi deputati al vicerè per fare scusa e chiedere perdono.
Nel dì 12 d'agosto fu pubblicato lo indulto generale, col condannar
nondimeno la città al pagamento di cento mila ducati d'oro, nè più si
parlò d'inquisizione; ma dal perdono rimasero esclusi alquanti nobili
e popolari, che colla fuga si sottrassero alla pena, lasciando i loro
beni in preda del fisco. Tornato dipoi a Napoli il principe di Salerno,
come pecora segnata, fu da lì innanzi perseguitato dal vicerè; tanto
che in fine fu costretto a fuggirsene; e, dichiarato ribello, dopo
molte peripezie, finì, siccome diremo, sua vita in Francia nel 1568,
con aver prima abbracciata l'eresia degli Ugonotti.
Insorsero in quest'anno varie dispute nel concilio di Trento,
perchè quei padri tanto per lo strepito delle vicine guerre, che per
l'influenza di gravi malattie quindi insorte, erano malcontenti di
quel soggiorno. Altri motivi segreti ancora si pretende che avesse
_papa Paolo_ per mutare il luogo a quella adunanza; e perciò andò loro
l'ordine che trasferissero il concilio a Bologna, siccome fecero di
fatto. Sommamente dispiacque a Cesare questa precipitosa risoluzione, e
fra gli altri suoi aperti risentimenti comandò che i prelati de' suoi
dominii non si movessero di Trento. Era anche per altro esso Augusto
di mal umore verso il pontefice, perchè questi sul fine dell'anno
precedente avea richiamate dalla Germania le milizie pontificie in
tempo che Cesare maggiormente abbisognava per proseguir la guerra
contra de' protestanti. Crebbero inoltre i dissapori all'osservare
come il pontefice tenesse pratiche di stretta confidenza coi Franzesi,
avendo egli anche ultimamente ottenuta per moglie di _Orazio Farnese_
suo nipote una figlia naturale del novello re di Francia, con gran
dote, obbligandosi egli, all'incontro, di comperargli in Francia uno
Stato che rendesse annualmente almeno dodici mila ducati d'oro. Ma
soprattutto covava l'imperadore un tarlo di sdegno e di vendetta contro
di _Pier-Luigi Farnese_ figlio del papa, e nuovo duca di Piacenza e
Parma, non solamente perchè riputato, se non promotore, almeno complice
dell'attentato di Gian-Luigi Fiesco contra di Genova, ma ancora perchè
si scorgeva in lui un continuo e stretto attaccamento ai Franzesi.
Cosa producessero questi mali umori, poco si starà a conoscerlo per la
congiura tramata ed eseguita contro di lui nell'anno presente. Dacchè
fu egli messo in possesso del ducato di Piacenza e Parma, fermò la
sua stanza nella prima di quelle città, dove si applicò a fabbricare
una nuova cittadella che in questi tempi si trovava ridotta quasi
a compimento, non lasciando intanto di abbellire in varie forme la
città di Parma[451]. Hanno dimenticato gli scrittori di tramandare ai
posteri le virtù di esso Pietro Luigi. All'incontro, se noi vogliamo
credere al Varchi, questo personaggio era uomo scelleratissimo, brutto
di volto, ma più deforme d'animo, immerso nella più nefanda libidine
e in altri enormi vizii. Anzi termina esso Varchi la sua Storia colla
scandalosa pittura di una di lui azione la più sconcia ed orrida che
mai si possa udire, e di cui forse non si troverà altro pari esempio.
Poteva il Varchi e doveva risparmiare ancor questo. E volesse Dio che
ci fossero bastevoli argomenti per poterlo ora mettere in dubbio; ma
dacchè non osarono di contraddire alla fama di sì nero delitto gli
scrittori allora viventi, quantunque ne mormorassero forte gli stessi
protestanti; e dacchè il Belcaire vescovo di Metz, che scriveva allora
le sue storie, asserisca la notorietà della libidine d'esso Pier-Luigi,
con accennar anche quel mostruosissimo fatto accaduto nel 1557, io
altro non soggiugnerò intorno ad esso. Dirò bensì, non apparire ch'egli
per la carnale sua concupiscenza si tirasse addosso l'odio della ricca
e numerosa nobiltà piacentina, non parendo mai verisimile il venir
egli rappresentato dal Segni per istorpio di mani e di piedi, sicchè
bisognava aiutarlo fino al mangiare, e tuttavia perduto negli affari
della sensualità.
Altronde adunque venne contra di Pier-Luigi il mal talento di que'
cittadini; imperocchè, avendo egli trovato i nobili d'essa Piacenza
avvezzi a vivere con soverchia libertà sotto il governo ecclesiastico,
e ad abitar per lo più ne' loro feudi, dove, non men che nella città,
conculcavano la plebe, tosto si diede a metter loro la briglia, senza
considerare se il rigore oppure la piacevolezza convenisse meglio alla
novità del suo governo. A questo fine levò l'armi ai nobili, limitò i
loro privilegii, e sotto pena ancora di confisco gli obbligò ad abitar
nella città, affinchè s'aumentassero le rendite delle sue gabelle;
tagliò eziandio non poco dell'autorità di quel senato, e furono
cominciati gran processi contra de' delinquenti presenti e passati.
Oltre a ciò levò, Corte Maggiore a Girolamo marchese Pallavicino,
e divulgossi ancora che era per ispogliare Agostino Landi di Bardi
e Compiano: novità che lo facevano bensì amare dal basso popolo, ma
odiare assaissimo dalla nobiltà. Non si guardò egli dall'inimicarsi
_don Ferrante Gonzaga_ governator di Milano, con occupare un castello
di lui, e impedirgli la tenuta del marchesato di Soragna; perlochè
il Gonzaga fece quanti mali ufficii potè contro di lui alla corte
dell'imperadore. Convennero dunque i suddetti Girolamo Pallavicino ed
Agostino Landi, con Camillo marchese Pallavicino, Giovanni Anguissola
e Gian-Luigi gonfaloniere, tutti della primaria nobiltà di Piacenza,
di levar di vita il Farnese. Fu poi, per quanto credo, inventato che i
lor cognomi erano indicati nella parola PLAC, abbreviata nelle monete
d'esso duca. Speravano essi appoggio dopo il fatto da don Ferrante; ma
l'Adriani e il Gosellini, che ben si può presumere assai informati di
quegli affari, scrivono essere stato con Ferrante quegli che promosse
ed attizzò la congiura; e venne in questo tempo a Cremona (seppur non
fu a Lodi) non gente militare, per trovarsi più a tiro della disegnata
impresa. Quel ch'è certo, nel dì 10 di settembre i cinque suddetti
congiurati, con alcuni lor confidenti al numero di trentasette persone,
portanti armi coperte sotto i panni, presa l'ora che il duca ebbe
pranzato, e che i suoi ministri stavano a tavola, quando uno e quando
l'altro entrarono nella vecchia cittadella, dove abitava il duca,
lasciandoli passar liberamente la guardia degli Svizzeri. Per quanto
viene scritto, più d'un avviso era venuto a Pier-Luigi da Milano e dal
papa stesso che si macchinava contra di lui, e che si guardasse; ma
non seppe egli profittarne. Era salito l'Anguissola con due compagni
nell'anticamera del duca, e mentre gli altri attesero ad impadronirsi
della porta della cittadella e della sala con uccidere alcuni Svizzeri
e Tedeschi, egli, entrato co' suoi due nella camera del duca, che
ragionava allora con Cesare Fogliano, con poche pugnalate lo stese
morto a terra, senza trovare resistenza alcuna, perchè, a cagion della
sua intemperante passata vita, avea Pier-Luigi degl'impedimenti alle
giunture, ed immobile ricevè la morte.
All'udire che nella cittadella era tanto rumore, non meno i nobili
che il popolo diedero di piglio all'armi, e corsero a quella volta.
Altrettanto fece Alessandro da Terni, capitano delle milizie del duca,
con animo d'entrare in essa fortezza. Ma avendo i congiurati alzato
il ponte, ed essendosi ben armati con rompere l'armeria ducale, e con
assicurarsi della famiglia dell'ucciso principe, convenne fermarsi. In
questo mentre Agostino Landi rappresentò al popolo la morte del duca,
e fatto calar dalle mura nella fossa il di lui cadavero legato con
una fune, acciocchè se ne accertassero, e gridando: _Libertà, libertà,
imperio_, ed asserendo che don Ferrante in breve arriverebbe colle sue
truppe, ognuno s'andò ritirando, ed Alessandro da Terni colle sue genti
s'inviò alla volta di Parma. Avvisato infatti il Gonzaga con due spari
d'artiglieria, spedì incontanente cinquecento fanti, che entrarono
nella cittadella, e nel dì 12 di settembre comparve anche egli con
altra gente, e prese il possesso della città a nome dell'imperadore,
promettendo ai cittadini di ridurre le gravezze al primo stato, di
restituir gli onori al senato, e la libertà ai feudatarii, annullare
i processi, e di rendere i beni confiscati: con che tornò la quiete in
quella nobil città. Ciò fatto, il Gonzaga spedì truppe ad impadronirsi
di Borgo San Donnino, e di Borgo di Val di Taro, e di Castel Guelfo.
Tentò ancora la città di Parma, e Roccabianca e Fontanellato; ma i
Parmigiani, avendo dipoi acclamato per loro duca _Ottavio Farnese_,
figlio dell'estinto Pier-Luigi, si tennero forti alla divozione di
lui. Trovavasi _papa Paolo_ in Perugia, allorchè gli fu recata la
funesta nuova, accolta da lui con inesplicabil dolore, e insieme con
fieri interni rimproveri, al veder così confusa l'ambizion sua e il
tanto suo amore ai congiunti di sangue. Tuttavia da saggio non perdè
tempo a spedire il nipote Ottavio con Alessandro Vitelli a Parma, e a
spignervi di mano in mano quante soldatesche potè, raccolte dall'Umbria
e dalla Romagna. Ciò sostenne Parma, e seguì in appresso una sospension
d'armi fra il duca Ottavio e don Ferrante. E questo misero fine ebbe
Pier-Luigi Farnese, che quantunque lasciasse dopo di sè un brutto nome,
pure ebbe la gloria o fortuna di lasciar quattro figli ben diversi
da lui, cioè il suddetto _duca Ottavio_, che riuscì principe di gran
valore e saviezza; _Alessandro_, uno dei più insigni cardinali del
sacro collegio; _Orazio duca di Castro_, destinato genero di _Arrigo
II re_ di Francia per lo sposalizio di _Diana_ figlia naturale dello
stesso re; e _Ranuccio_, che il buon papa, dimentico della riforma
della Chiesa, non avea avuto scrupolo di eleggere arcivescovo di
Napoli, e crear cardinale nell'anno precedente, ancorchè egli non
avesse che quindici in sedici anni. Lasciò inoltre Pier-Luigi una
figlia per nome _Vittoria_, che il papa diede per moglie a _Guidubaldo
duca_ d'Urbino, generale in questi tempi della repubblica di Venezia.
Ma della morte del Farnese ebbe ben a dolersi l'Italia, perchè cagion
fu di riaccendere nuove guerre non solamente qui, ma anche oltramonti,
siccome vedremo. Nè si dee tacere che in quest'anno a dì 12 d'agosto
(avvenimento assai raro) cadde nel Mugello, distretto di Firenze, per
tutta la notte si dirotta ed impetuosa pioggia, che tutti i fiumicelli
divennero orgogliosi torrenti, con inondar le campagne, ed allagare non
poca parte della città di Firenze. Vi perì molta gente; case, mulini,
gualchiere, ponti ed alberi infiniti non ressero alla furia dell'acque;
talchè gli uomini di quel secolo niuna pari disavventura avevano mai
veduta o provata nei tempi loro.
Anno di CRISTO MDXLVIII. Indizione VI.
PAOLO III papa 15.
CARLO V imperadore 30.
Fu impiegato tutto quest'anno in maneggi politici, e in proposizioni di
leghe e di guerre, ma senza che se ne risentisse la pubblica quiete.
S'era già sconcertata non poco la buona armonia fra il _pontefice
Paolo e Carlo imperadore_, sì per la seguita translazion del concilio
di Trento a Bologna, malveduta e impugnata da esso Augusto, e per
l'uccision di Pier-Luigi Farnese, e per l'occupazion di Piacenza fatta
dall'armi imperiali, approvata di poi solennemente dall'imperadore
stesso: il che riempiva di sdegno l'animo del pontefice, al mirar
tolta alla Chiesa, e insieme alla casa Farnese, una sì riguardevol
città. E tanto più, perchè anche Parma si trovava in grave pericolo,
tendendo parimente a quell'acquisto _don Ferrante Gonzaga_ con orditure
segrete e colle minaccie della forza. Perciò si diede esso pontefice a
manipolar una lega con _Arrigo II_ re bellicoso di Francia, calcolando
che le di lui forze, colla comodità specialmente di Torino e d'altre
piazze tuttavia occupate dalle di lui armi in Piemonte, potessero
abbassare la troppo cresciuta potenza di Cesare in Italia, e forzarlo
alla restituzion di Piacenza. Questa medesima lega era desiderata dai
Franzesi; ma camminando essi con gran cautela, al vedere il decrepito
papa non lontano dall'abbandonar colla vita gl'impegni politici,
richiedevano che il sacro collegio s'obbligasse a continuar la lega, ed
in essa si tirassero altri principi d'Italia, e che Parma fosse ceduta
ad _Orazio Farnese_ duca di Castro, fratello del _duca Ottavio_, e
genero, siccome dicemmo, del re Cristianissimo. Ma nè i Veneziani, nè
il duca di Ferrara si vollero impacciare in sì pericoloso labirinto,
e molto meno v'accudirono i saggi porporati. Perciò s'andò consumando
il tempo in varii trattati, e nulla infine ne risultò. Intanto
l'imperadore continuava le calde sue istanze perchè si restituisse in
Trento il concilio; al che troppo renitente si scopriva il pontefice,
colla comune credenza ch'egli temesse in città non suddita a sè
la forza de' prelati spagnuoli e tedeschi, capace di restrignere
l'autorità pontificia, e formar decreti disgustosi alla corte romana
per conto della disciplina ecclesiastica. Ad ogni infermo fa paura
il chirurgo che ha da tagliare. Queste discordie fra il pontefice e
l'imperadore cagion furono che esso Augusto, trovandosi alla dieta in
Augusta, e bramando pure di quetar in qualche maniera i torbidi della
religione e de' popoli nella Germania, fece stendere una scrittura,
contenente ciò che fossero obbligati i protestanti di credere ed
insegnare, fino a tanto che il concilio generale determinasse la
pura dottrina della Chiesa; e nel dì 15 di maggio la pubblicò. Fu
essa nominata l'_Interim di Carlo V_: decreto che egualmente si trovò
poi riprovato ed impugnato dai cattolici e dai protestanti. A questi
dispiacque, perchè i principali punti della religion cattolica erano
ivi stabiliti, e perciò contra d'esso si scatenarono. Ai Cattolici,
perchè nell'_Interim_ furono permessi a' protestanti certi usi, non
già incompatibili colla dottrina cattolica, ma contrarii alla presente
disciplina della Chiesa. E sopra tutto il pontefice proruppe in gravi
doglianze, perchè l'imperadore si fosse presa la libertà di far delle
determinazioni in materia di religione, risiedendo questa autorità ne'
soli sommi pastori della Chiesa, e non già nei principi secolari.
Trovandosi intanto l'_Augusto Carlo_ stanco sotto la mole di tanti
affari, e colla sanità infievolita per le passate fatiche e per la
podagra, prese la risoluzione di far venire di Spagna in Italia e
Germania il _principe don Filippo_ suo figlio. Nello stesso tempo
con dispensa del sommo pontefice accordò l'infanta _donna Maria_
sua primogenita in moglie all'_arciduca Massimiliano_, figlio del
_re Ferdinando_ suo fratello, che era allora in età di circa venti
anni. E per provvedere la Spagna di un autorevole vicerè, durante
l'assenza del principe suo figlio, spedì colà lo stesso Massimiliano
con bell'accompagnamento nel mese di giugno, e furono poi con gran
magnificenza solennizzate le sue nozze in Madrid nel settembre di
quest'anno. In questo mentre si unirono a Roses in Catalogna le galee
d'Andrea Doria, di Spagna, Napoli e Sicilia, con varie navi, che
in tutto formavano una numerosa e potente flotta, dove il principe
don Filippo, dopo aver lasciato il governo dei regni al cugino
Massimiliano, imbarcatosi nel dì primo di novembre, sciolse le vele
alla volta dell'Italia sotto la direzione del _duca d'Alva_, capitan
generale e maggiordomo maggiore dell'Augusto suo padre, inviato a
questo fine in Ispagna. Sbarcò nel dì 22 (l'Adriani scrive nel dì
25) del suddetto mese in Genova, accolto con immensi onori da quel
popolo, ed alloggiato nel palazzo del suddetto Doria. _Cosimo duca di
Firenze_, attentissimo in tutto a conservare ed accrescere la protezion
di Cesare, inviò colà a visitarlo _don Francesco_ suo primogenito,
che gli portò, se crediamo al Segni, dei regali del valore di cento
mila scudi. Vi comparve ancora il _duca Ottavio Farnese_, inviato dal
papa, per pregarlo d'impiegarsi nella restituzion di Piacenza. Dopo
molti giorni di riposo passò dipoi il regal principe a Pavia, ed indi a
Milano, due miglia lungi dalla qual città con isplendido corteggio di
prelati e di nobiltà, fu a fargli una visita _Carlo duca di Savoia_.
In tal congiuntura fece il popolo di Milano sfoggi di incredibil
magnificenza per l'accoglimento di questo sole nascente, a cui sapeano
di dover essere sudditi col tempo. Venne in quest'anno _Arrigo II re
di Francia_ con quattrocento uomini d'armi, e cinque mila fanti in
Piemonte, per visitar le fortezze occupate dall'armi sue. Pretende
l'Adriani impreso quel viaggio dal re, perchè Ottavio Farnese, per
vendicarsi di _don Ferrante Gonzaga_ dopo l'occupazion di Piacenza,
avesse mandati dei sicarii per farlo uccidere, che poi furono scoperti
a tempo e giustiziati: sperando il re, siccome consapevole della trama,
che, tolto di vita il Gonzaga, potessero insorgere dei torbidi nello
Stato di Milano. Vana immaginazione di quello storico, perciocchè nel
dì 10 di settembre accadde la morte di Pier-Luigi Farnese, e il re nel
luglio e agosto precedente era venuto a Torino; ed avendo colà chiamato
_Ercole II duca di Ferrara_, questi con licenza dell'imperadore nel dì
15 d'agosto si mosse con bella comitiva, andò a Torino, e nel dì 2 di
settembre si restituì a Ferrara. Erano le premure del re di tirar seco
in lega questo principe, ma il trovò troppo alieno dall'inimicarsi il
troppo potente imperadore. Tanto bensì operò esso _re Cristianissimo_,
che indusse il duca medesimo a concedere in moglie Anna sua primogenita
a _Francesco di Lorena duca_ di Umala, figlio del _duca di Guisa_
suo favorito. Senza far altra novità, e con solamente lasciar dei
sospetti in Italia, se ne ritornò esso monarca in Francia nel dì 25 di
settembre. Perciò don Ferrante attese a fortificar Milano, e le altre
città e fortezze di quello Stato; ed altrettanto fece in Toscana il
duca Cosimo, a cui per gran somma di danaro da Cesare fu dato Piombino,
e da lì a poco ancora ritolto. Furono parimente in quest'anno fieri
rumori in Siena, città, dove _ab antiquo_ cozzavano fra loro due
fazioni, volendo cadauna o primeggiar nel governo, o usurparlo tutto. I
ministri dell'imperadore, che davano in questi tempi legge all'Italia,
non tralasciarono di profittar della lor pazza discordia; e però a don
Diego di Mendozza venne fatto d'introdur quattrocento fanti spagnuoli
di guardia, dando principio ad una specie di dominio di quella città.
NOTE:
[448] Foglietta. Adriani. Campana. Mascardi.
[449] Sardi, Istoria MS.
[450] Summonte. Sardi. Adriani. Campana ed altri.
[451] Adriani. Angeli, Storia di Parma. Mambrin Roseo. Gesellini, Vita
di Ferrante Gonzaga.
Anno di CRISTO MDXLIX. Indizione VII.
PAOLO III papa 16.
CARLO V imperadore 31.
Dopo avere il regal principe _don Filippo d'Austria_ lasciato in
Milano un gran credito di signor generoso e liberale, nel dì 8 di
gennaio del presente anno partì da colà, e, ricevuto uno splendido
trattamento da _Francesco duca di Mantova_, alla qual città si portò
anche _Ercole II duca di Ferrara_ per inchinarlo, passò a Trento,
continuando poscia il viaggio sino a Brusselles, dove fece la sua
entrata nel dì primo d'aprile, accolto con tenerezza dal padre Augusto.
L'intenzion dell'imperadore di chiamarlo colà era stata di fargli
giurar fedeltà da' popoli della Fiandra; il che eseguirono essi di
tutto buon cuore. Ma si aggiunse un'altra idea, fabbricata dall'amor
paterno ed ambizioso di Carlo cioè si diede egli a meditare nel tempo
stesso di farlo anche re de' Romani, e trattossi di ciò infatti nella
dieta d'Augusta dell'anno seguente; ma con trovarsi il _re Ferdinando_
troppo renitente alla cessione di quella dignità. Se non concordassero
in questo varii autori, parrebbe inverisimile un siffatto progetto.
Ma nè Ferdinando avea sì poco senno da sacrificare alle voglie del
fratello quell'illustre dignità, nè i principi della Germania erano
sì mal avveduti di permettere la continuazion d'una unione o potenza
che facea paura a tutti. In questi tempi _Arrigo II re_ di Francia,
non sapendo soffrire che la sua città di Bologna in Piccardia avesse
a restar in mano degli Inglesi anche per alquanti anni, e di doverla
comperare con tante somme d'oro accordate nella pace fatta con loro
dal _re Francesco I_ suo padre, determinò di adoperar la forza per
ricuperarla, con essersi fatto assolvere dal papa dal giuramento ed
obbligo di pagare il pattuito danaro. Parvegli anche propizio il tempo,
perchè in Inghilterra erano insorte gravi discordie, e durava tuttavia
la guerra degl'Inglesi contro la Scozia, assistita dall'armi della
Francia. Perciò andò con un possente esercito a mettere l'assedio alla
città di Bologna, dichiarando aperta guerra agl'Inglesi; ma quantunque
s'impadronisse di qualche forte, nulladimeno inutili per quest'anno
rimasero i suoi sforzi contro d'essa città. Godevasi intanto in Italia
la pace, ma pace turbata da continui sospetti di guerra per cagion di
Parma e Piacenza; e tutti attendevano a premunirsi. Ebbero, ciò non
ostante, a piagnere le marine, e specialmente della Sicilia, Calabria
e Riviera di Genova. Corseggiava nel Mediterraneo dopo la morte del
Barbarossa maestro, il famoso corsale Dragut rais con quaranta legni;
nè solamente prendeva quanti navigli mercantili gli venivano alle
mani, ma eziandio facea sbarco di tanto in tanto alle coste della
cristianità, con mettere a sacco i villaggi, ed asportarne ancora
gran copia d'anime cristiane, condannate dipoi ad una penosa servitù.
Mancava a costui un buon nido; sel procacciò egli nell'anno presente
coll'impossessarsi a forza d'armi della città appellata Africa o
Tripoli nelle coste di Barberia. Quivi si piantò egli e fortificò,
concependo poi speranza di stendere più in là il dominio suo.
Ondeggiava intanto _papa Paolo_ fra varii pensieri intorno agli affari
di Parma e Piacenza, e ricevea da Cesare parole di corte, quante ne
volea. Ora pretendeva l'_imperadore Carlo_ che si esaminassero le
ragioni della Chiesa e dello Stato di Milano su quella città, ed ora
proponeva cambii, comparendo sempre disposto a compiacere il papa, ma
con interna risoluzione di far quel solo uso che conveniva al proprio
interesse. Prese dunque il pontefice il partito, a ciò consigliato
dai più saggi porporati, di unir di nuovo Parma alla Chiesa, e di
torla al nipote Ottavio, con animo di reintegrarlo, cioè di dargli di
nuovo Camerino, giudicando che Parma in man della Chiesa verrebbe più
rispettata dai potentati cattolici. Con questa idea richiamò a Roma il
nipote, spedì a Parma con segrete istruzioni _Camillo Orsino_, Capitan
generale della Chiesa, il qual giunto colà, prese il comando dell'armi
e il governo d'essa città, attendendo poscia a fortificarla, e a ben
provvederla di vettovaglie e munizioni da guerra: il che recò non
poca gelosia a _don Ferrante Gonzaga_. Stette lungamente aspettando
il duca Ottavio qual dovesse essere il suo destino, lusingato dal
pontefice ora colle speranze di espugnar la pertinacia di Cesare, ed
ora colle proposizioni avanzate di una lega colla Francia. Finalmente
s'impazientò, massimamente all'udire che si trattava di ceder Parma
a _don Orazio _suo fratello, e Camerino a lui, e al considerare che
in tanto egli si trovava spogliato di Parma, benchè d'essa investito,
e che, venendo a mancare il decrepito papa, correa rischio di neppur
ottenere o di perdere Camerino. All'improvviso dunque, senza saputa
dell'avolo papa, venne per le poste a Parma, credendo di farsene,
come prima, padrone; ma Camillo Orsino insospettito per non aver
egli recata lettera o ordine alcuno del pontefice, si mise alla
parata d'ogni accidente, col disporre guardie dappertutto; e lasciò
bensì entrare in Parma il duca, ma il tenne sì corto, che non osò di
tentare novità veruna. Con tutto ciò, le speranze di Ottavio erano
riposte nella cittadella, avendo tenuta già intelligenza per questo
col castellano d'essa, e perciò fece istanza di visitar anche quelle
fortificazioni. Quivi parimente si trovò egli burlato, per essersi
pentito il castellano, che ricusò d'ammetterlo dentro: il perchè
tutto fumante di collera uscì di città, e si ritirò a Torchiara
castello del conte Sforza Santafiore suo cugino, dove, per mezzo del
_cardinale di Trento_, cominciò un trattato con _don Ferrante Gonzaga_
per acconciarsi coll'imperadore. Dacchè il pontefice ebbe intesa
l'impensata fuga del nipote, diede nelle smanie, persuaso che la gente
non crederebbe ciò fatto senza consenso suo; e tosto gli spedì dietro
un corriere per richiamarlo. E perchè ebbe avviso dall'Orsino del
tentativo da lui fatto per ripigliare il dominio di Parma, maggiormente
acceso di collera, rinnovò gli ordini a tutti i ministri di quella
città di tenerla a nome della Chiesa, e di non ammettere colà il
nipote. Così stavano le cose, quando il _cardinal Farnese_, per lettera
a lui scritta dal fratello, fece sapere all'addolorato pontefice che
Ottavio, se non gli veniva ceduta Parma, si accorderebbe con don
Ferrante, e cercherebbe colla forza di riaver quello che riputava
dovuto a sè per giustizia. Questo colpo, per cui si sfasciavano tutte
le macchine politiche del papa, e i suoi segreti trattati coi Franzesi,
l'accorò talmente, che, preso da un tremore e quasi sfinimento, fu
per cadere in terra, se non era sostenuto dagli astanti. Dopo quattro
ore si riebbe; ma sopraggiunse una gagliarda febbre, a cui l'età sua,
arrivata ad anni ottantadue, e forse più, guadagnatasi da lui colla
temperanza del vitto, non potè reggere, e però cessò di vivere nel dì
10 di novembre.
Varia fu la fama che lasciò dopo di sè _papa Paolo III_. Gli storici
fiorentini, Varchi, Segni ed Adriani, perchè mal animati contro di lui
a ragion delle dissensioni passate fra esso pontefice e il duca Cosimo,
ne sparlarono a bocca aperta. Il Segni arrivò a scrivere, esser egli
stato in concetto, non dirò di amante della strologia giudiciaria, che
questo gli fu imputato anche da altri (benchè forse senza ragione), ma
fin di magia e dell'uso de' veleni, con altre dicerie bestiali, che lo
stesso stampatore si vergognò di esporre tutte alla luce. Non è già di
dovere che i principi, pretendenti di non esser sottoposti alle leggi,
abbiano anche da pretendere esenzione dalla pubblica censura, perchè
questo è l'unico freno oppur gastigo alle lor malvage azioni: e guai
a chi giugne a nulla curarsi anche di questo qualsisia staffile. Ma
giusto insieme è che la censura sia ben fondata, e non figlia della
malignità e dell'invidia. Certamente chiunque senza passione peserà
castello in ordinanza, ed all'incontro il castello a tempestar colle
palle le case de' cittadini. A questo rumore volarono a Napoli circa
tre mila banditi e fuorusciti, che si unirono col popolo. Dopo di ciò
furono eletti dalla città due inviati, cioè don Ferrante Sanseverino
principe di Salerno, e don Placido di Sangro, affinchè si portassero
alla corte per informar l'imperadore, e supplicarlo di richiamare il
vicerè, e di non permettere le novità dell'odiata inquisizione fra
loro. Al principe di Salerno era stato predetto, che se andava, male
gliene avverrebbe. Ma egli, anteponendo l'amor della patria ad ogni
suo rischio, andò. Furono prevenuti questi inviati da persona spedita
con più diligenza dal vicerè. Arrivati che furono anch'essi alla corte,
al principe, senza poter vedere la faccia dell'imperatore, fu ordinato
di fermarsi. Il Sangro bensì ebbe udienza, ma non riportò a Napoli se
non la secca risposta che la città ubbidisse. Venne intanto spedito da
_don Ferrante Gonzaga_ al vicerè un rinforzo di mille Spagnuoli sopra
le galee del principe Doria: altri ottocento dalla Sicilia, ed alcune
brigate di fanti assoldati in Roma da _don Diego Mendozza_ ambasciatore
cesareo. Costoro nel dì 21 di luglio, per discordia insorta fra essi
ed alcuni popolari, diedero all'armi, uccissero alquanti Napoletani,
saccheggiarono alcune case e monasteri, ed occuparono Santa Maria
Nuova, luogo atto a prevalere contro la città. Mentre il popolo coi
fuorusciti di Napoli e colle artiglierie si preparava per espugnar quel
sito, arrivò il Sangro dalla corte, che intimò ad ognuno l'ubbidire.
Non avea il popolo capo alcuno di autorità; e siccome è assomigliato
ai flutti del mare, che presto vengono e presto sen vanno, si quetò,
e spedì suoi deputati al vicerè per fare scusa e chiedere perdono.
Nel dì 12 d'agosto fu pubblicato lo indulto generale, col condannar
nondimeno la città al pagamento di cento mila ducati d'oro, nè più si
parlò d'inquisizione; ma dal perdono rimasero esclusi alquanti nobili
e popolari, che colla fuga si sottrassero alla pena, lasciando i loro
beni in preda del fisco. Tornato dipoi a Napoli il principe di Salerno,
come pecora segnata, fu da lì innanzi perseguitato dal vicerè; tanto
che in fine fu costretto a fuggirsene; e, dichiarato ribello, dopo
molte peripezie, finì, siccome diremo, sua vita in Francia nel 1568,
con aver prima abbracciata l'eresia degli Ugonotti.
Insorsero in quest'anno varie dispute nel concilio di Trento,
perchè quei padri tanto per lo strepito delle vicine guerre, che per
l'influenza di gravi malattie quindi insorte, erano malcontenti di
quel soggiorno. Altri motivi segreti ancora si pretende che avesse
_papa Paolo_ per mutare il luogo a quella adunanza; e perciò andò loro
l'ordine che trasferissero il concilio a Bologna, siccome fecero di
fatto. Sommamente dispiacque a Cesare questa precipitosa risoluzione, e
fra gli altri suoi aperti risentimenti comandò che i prelati de' suoi
dominii non si movessero di Trento. Era anche per altro esso Augusto
di mal umore verso il pontefice, perchè questi sul fine dell'anno
precedente avea richiamate dalla Germania le milizie pontificie in
tempo che Cesare maggiormente abbisognava per proseguir la guerra
contra de' protestanti. Crebbero inoltre i dissapori all'osservare
come il pontefice tenesse pratiche di stretta confidenza coi Franzesi,
avendo egli anche ultimamente ottenuta per moglie di _Orazio Farnese_
suo nipote una figlia naturale del novello re di Francia, con gran
dote, obbligandosi egli, all'incontro, di comperargli in Francia uno
Stato che rendesse annualmente almeno dodici mila ducati d'oro. Ma
soprattutto covava l'imperadore un tarlo di sdegno e di vendetta contro
di _Pier-Luigi Farnese_ figlio del papa, e nuovo duca di Piacenza e
Parma, non solamente perchè riputato, se non promotore, almeno complice
dell'attentato di Gian-Luigi Fiesco contra di Genova, ma ancora perchè
si scorgeva in lui un continuo e stretto attaccamento ai Franzesi.
Cosa producessero questi mali umori, poco si starà a conoscerlo per la
congiura tramata ed eseguita contro di lui nell'anno presente. Dacchè
fu egli messo in possesso del ducato di Piacenza e Parma, fermò la
sua stanza nella prima di quelle città, dove si applicò a fabbricare
una nuova cittadella che in questi tempi si trovava ridotta quasi
a compimento, non lasciando intanto di abbellire in varie forme la
città di Parma[451]. Hanno dimenticato gli scrittori di tramandare ai
posteri le virtù di esso Pietro Luigi. All'incontro, se noi vogliamo
credere al Varchi, questo personaggio era uomo scelleratissimo, brutto
di volto, ma più deforme d'animo, immerso nella più nefanda libidine
e in altri enormi vizii. Anzi termina esso Varchi la sua Storia colla
scandalosa pittura di una di lui azione la più sconcia ed orrida che
mai si possa udire, e di cui forse non si troverà altro pari esempio.
Poteva il Varchi e doveva risparmiare ancor questo. E volesse Dio che
ci fossero bastevoli argomenti per poterlo ora mettere in dubbio; ma
dacchè non osarono di contraddire alla fama di sì nero delitto gli
scrittori allora viventi, quantunque ne mormorassero forte gli stessi
protestanti; e dacchè il Belcaire vescovo di Metz, che scriveva allora
le sue storie, asserisca la notorietà della libidine d'esso Pier-Luigi,
con accennar anche quel mostruosissimo fatto accaduto nel 1557, io
altro non soggiugnerò intorno ad esso. Dirò bensì, non apparire ch'egli
per la carnale sua concupiscenza si tirasse addosso l'odio della ricca
e numerosa nobiltà piacentina, non parendo mai verisimile il venir
egli rappresentato dal Segni per istorpio di mani e di piedi, sicchè
bisognava aiutarlo fino al mangiare, e tuttavia perduto negli affari
della sensualità.
Altronde adunque venne contra di Pier-Luigi il mal talento di que'
cittadini; imperocchè, avendo egli trovato i nobili d'essa Piacenza
avvezzi a vivere con soverchia libertà sotto il governo ecclesiastico,
e ad abitar per lo più ne' loro feudi, dove, non men che nella città,
conculcavano la plebe, tosto si diede a metter loro la briglia, senza
considerare se il rigore oppure la piacevolezza convenisse meglio alla
novità del suo governo. A questo fine levò l'armi ai nobili, limitò i
loro privilegii, e sotto pena ancora di confisco gli obbligò ad abitar
nella città, affinchè s'aumentassero le rendite delle sue gabelle;
tagliò eziandio non poco dell'autorità di quel senato, e furono
cominciati gran processi contra de' delinquenti presenti e passati.
Oltre a ciò levò, Corte Maggiore a Girolamo marchese Pallavicino,
e divulgossi ancora che era per ispogliare Agostino Landi di Bardi
e Compiano: novità che lo facevano bensì amare dal basso popolo, ma
odiare assaissimo dalla nobiltà. Non si guardò egli dall'inimicarsi
_don Ferrante Gonzaga_ governator di Milano, con occupare un castello
di lui, e impedirgli la tenuta del marchesato di Soragna; perlochè
il Gonzaga fece quanti mali ufficii potè contro di lui alla corte
dell'imperadore. Convennero dunque i suddetti Girolamo Pallavicino ed
Agostino Landi, con Camillo marchese Pallavicino, Giovanni Anguissola
e Gian-Luigi gonfaloniere, tutti della primaria nobiltà di Piacenza,
di levar di vita il Farnese. Fu poi, per quanto credo, inventato che i
lor cognomi erano indicati nella parola PLAC, abbreviata nelle monete
d'esso duca. Speravano essi appoggio dopo il fatto da don Ferrante; ma
l'Adriani e il Gosellini, che ben si può presumere assai informati di
quegli affari, scrivono essere stato con Ferrante quegli che promosse
ed attizzò la congiura; e venne in questo tempo a Cremona (seppur non
fu a Lodi) non gente militare, per trovarsi più a tiro della disegnata
impresa. Quel ch'è certo, nel dì 10 di settembre i cinque suddetti
congiurati, con alcuni lor confidenti al numero di trentasette persone,
portanti armi coperte sotto i panni, presa l'ora che il duca ebbe
pranzato, e che i suoi ministri stavano a tavola, quando uno e quando
l'altro entrarono nella vecchia cittadella, dove abitava il duca,
lasciandoli passar liberamente la guardia degli Svizzeri. Per quanto
viene scritto, più d'un avviso era venuto a Pier-Luigi da Milano e dal
papa stesso che si macchinava contra di lui, e che si guardasse; ma
non seppe egli profittarne. Era salito l'Anguissola con due compagni
nell'anticamera del duca, e mentre gli altri attesero ad impadronirsi
della porta della cittadella e della sala con uccidere alcuni Svizzeri
e Tedeschi, egli, entrato co' suoi due nella camera del duca, che
ragionava allora con Cesare Fogliano, con poche pugnalate lo stese
morto a terra, senza trovare resistenza alcuna, perchè, a cagion della
sua intemperante passata vita, avea Pier-Luigi degl'impedimenti alle
giunture, ed immobile ricevè la morte.
All'udire che nella cittadella era tanto rumore, non meno i nobili
che il popolo diedero di piglio all'armi, e corsero a quella volta.
Altrettanto fece Alessandro da Terni, capitano delle milizie del duca,
con animo d'entrare in essa fortezza. Ma avendo i congiurati alzato
il ponte, ed essendosi ben armati con rompere l'armeria ducale, e con
assicurarsi della famiglia dell'ucciso principe, convenne fermarsi. In
questo mentre Agostino Landi rappresentò al popolo la morte del duca,
e fatto calar dalle mura nella fossa il di lui cadavero legato con
una fune, acciocchè se ne accertassero, e gridando: _Libertà, libertà,
imperio_, ed asserendo che don Ferrante in breve arriverebbe colle sue
truppe, ognuno s'andò ritirando, ed Alessandro da Terni colle sue genti
s'inviò alla volta di Parma. Avvisato infatti il Gonzaga con due spari
d'artiglieria, spedì incontanente cinquecento fanti, che entrarono
nella cittadella, e nel dì 12 di settembre comparve anche egli con
altra gente, e prese il possesso della città a nome dell'imperadore,
promettendo ai cittadini di ridurre le gravezze al primo stato, di
restituir gli onori al senato, e la libertà ai feudatarii, annullare
i processi, e di rendere i beni confiscati: con che tornò la quiete in
quella nobil città. Ciò fatto, il Gonzaga spedì truppe ad impadronirsi
di Borgo San Donnino, e di Borgo di Val di Taro, e di Castel Guelfo.
Tentò ancora la città di Parma, e Roccabianca e Fontanellato; ma i
Parmigiani, avendo dipoi acclamato per loro duca _Ottavio Farnese_,
figlio dell'estinto Pier-Luigi, si tennero forti alla divozione di
lui. Trovavasi _papa Paolo_ in Perugia, allorchè gli fu recata la
funesta nuova, accolta da lui con inesplicabil dolore, e insieme con
fieri interni rimproveri, al veder così confusa l'ambizion sua e il
tanto suo amore ai congiunti di sangue. Tuttavia da saggio non perdè
tempo a spedire il nipote Ottavio con Alessandro Vitelli a Parma, e a
spignervi di mano in mano quante soldatesche potè, raccolte dall'Umbria
e dalla Romagna. Ciò sostenne Parma, e seguì in appresso una sospension
d'armi fra il duca Ottavio e don Ferrante. E questo misero fine ebbe
Pier-Luigi Farnese, che quantunque lasciasse dopo di sè un brutto nome,
pure ebbe la gloria o fortuna di lasciar quattro figli ben diversi
da lui, cioè il suddetto _duca Ottavio_, che riuscì principe di gran
valore e saviezza; _Alessandro_, uno dei più insigni cardinali del
sacro collegio; _Orazio duca di Castro_, destinato genero di _Arrigo
II re_ di Francia per lo sposalizio di _Diana_ figlia naturale dello
stesso re; e _Ranuccio_, che il buon papa, dimentico della riforma
della Chiesa, non avea avuto scrupolo di eleggere arcivescovo di
Napoli, e crear cardinale nell'anno precedente, ancorchè egli non
avesse che quindici in sedici anni. Lasciò inoltre Pier-Luigi una
figlia per nome _Vittoria_, che il papa diede per moglie a _Guidubaldo
duca_ d'Urbino, generale in questi tempi della repubblica di Venezia.
Ma della morte del Farnese ebbe ben a dolersi l'Italia, perchè cagion
fu di riaccendere nuove guerre non solamente qui, ma anche oltramonti,
siccome vedremo. Nè si dee tacere che in quest'anno a dì 12 d'agosto
(avvenimento assai raro) cadde nel Mugello, distretto di Firenze, per
tutta la notte si dirotta ed impetuosa pioggia, che tutti i fiumicelli
divennero orgogliosi torrenti, con inondar le campagne, ed allagare non
poca parte della città di Firenze. Vi perì molta gente; case, mulini,
gualchiere, ponti ed alberi infiniti non ressero alla furia dell'acque;
talchè gli uomini di quel secolo niuna pari disavventura avevano mai
veduta o provata nei tempi loro.
Anno di CRISTO MDXLVIII. Indizione VI.
PAOLO III papa 15.
CARLO V imperadore 30.
Fu impiegato tutto quest'anno in maneggi politici, e in proposizioni di
leghe e di guerre, ma senza che se ne risentisse la pubblica quiete.
S'era già sconcertata non poco la buona armonia fra il _pontefice
Paolo e Carlo imperadore_, sì per la seguita translazion del concilio
di Trento a Bologna, malveduta e impugnata da esso Augusto, e per
l'uccision di Pier-Luigi Farnese, e per l'occupazion di Piacenza fatta
dall'armi imperiali, approvata di poi solennemente dall'imperadore
stesso: il che riempiva di sdegno l'animo del pontefice, al mirar
tolta alla Chiesa, e insieme alla casa Farnese, una sì riguardevol
città. E tanto più, perchè anche Parma si trovava in grave pericolo,
tendendo parimente a quell'acquisto _don Ferrante Gonzaga_ con orditure
segrete e colle minaccie della forza. Perciò si diede esso pontefice a
manipolar una lega con _Arrigo II_ re bellicoso di Francia, calcolando
che le di lui forze, colla comodità specialmente di Torino e d'altre
piazze tuttavia occupate dalle di lui armi in Piemonte, potessero
abbassare la troppo cresciuta potenza di Cesare in Italia, e forzarlo
alla restituzion di Piacenza. Questa medesima lega era desiderata dai
Franzesi; ma camminando essi con gran cautela, al vedere il decrepito
papa non lontano dall'abbandonar colla vita gl'impegni politici,
richiedevano che il sacro collegio s'obbligasse a continuar la lega, ed
in essa si tirassero altri principi d'Italia, e che Parma fosse ceduta
ad _Orazio Farnese_ duca di Castro, fratello del _duca Ottavio_, e
genero, siccome dicemmo, del re Cristianissimo. Ma nè i Veneziani, nè
il duca di Ferrara si vollero impacciare in sì pericoloso labirinto,
e molto meno v'accudirono i saggi porporati. Perciò s'andò consumando
il tempo in varii trattati, e nulla infine ne risultò. Intanto
l'imperadore continuava le calde sue istanze perchè si restituisse in
Trento il concilio; al che troppo renitente si scopriva il pontefice,
colla comune credenza ch'egli temesse in città non suddita a sè
la forza de' prelati spagnuoli e tedeschi, capace di restrignere
l'autorità pontificia, e formar decreti disgustosi alla corte romana
per conto della disciplina ecclesiastica. Ad ogni infermo fa paura
il chirurgo che ha da tagliare. Queste discordie fra il pontefice e
l'imperadore cagion furono che esso Augusto, trovandosi alla dieta in
Augusta, e bramando pure di quetar in qualche maniera i torbidi della
religione e de' popoli nella Germania, fece stendere una scrittura,
contenente ciò che fossero obbligati i protestanti di credere ed
insegnare, fino a tanto che il concilio generale determinasse la
pura dottrina della Chiesa; e nel dì 15 di maggio la pubblicò. Fu
essa nominata l'_Interim di Carlo V_: decreto che egualmente si trovò
poi riprovato ed impugnato dai cattolici e dai protestanti. A questi
dispiacque, perchè i principali punti della religion cattolica erano
ivi stabiliti, e perciò contra d'esso si scatenarono. Ai Cattolici,
perchè nell'_Interim_ furono permessi a' protestanti certi usi, non
già incompatibili colla dottrina cattolica, ma contrarii alla presente
disciplina della Chiesa. E sopra tutto il pontefice proruppe in gravi
doglianze, perchè l'imperadore si fosse presa la libertà di far delle
determinazioni in materia di religione, risiedendo questa autorità ne'
soli sommi pastori della Chiesa, e non già nei principi secolari.
Trovandosi intanto l'_Augusto Carlo_ stanco sotto la mole di tanti
affari, e colla sanità infievolita per le passate fatiche e per la
podagra, prese la risoluzione di far venire di Spagna in Italia e
Germania il _principe don Filippo_ suo figlio. Nello stesso tempo
con dispensa del sommo pontefice accordò l'infanta _donna Maria_
sua primogenita in moglie all'_arciduca Massimiliano_, figlio del
_re Ferdinando_ suo fratello, che era allora in età di circa venti
anni. E per provvedere la Spagna di un autorevole vicerè, durante
l'assenza del principe suo figlio, spedì colà lo stesso Massimiliano
con bell'accompagnamento nel mese di giugno, e furono poi con gran
magnificenza solennizzate le sue nozze in Madrid nel settembre di
quest'anno. In questo mentre si unirono a Roses in Catalogna le galee
d'Andrea Doria, di Spagna, Napoli e Sicilia, con varie navi, che
in tutto formavano una numerosa e potente flotta, dove il principe
don Filippo, dopo aver lasciato il governo dei regni al cugino
Massimiliano, imbarcatosi nel dì primo di novembre, sciolse le vele
alla volta dell'Italia sotto la direzione del _duca d'Alva_, capitan
generale e maggiordomo maggiore dell'Augusto suo padre, inviato a
questo fine in Ispagna. Sbarcò nel dì 22 (l'Adriani scrive nel dì
25) del suddetto mese in Genova, accolto con immensi onori da quel
popolo, ed alloggiato nel palazzo del suddetto Doria. _Cosimo duca di
Firenze_, attentissimo in tutto a conservare ed accrescere la protezion
di Cesare, inviò colà a visitarlo _don Francesco_ suo primogenito,
che gli portò, se crediamo al Segni, dei regali del valore di cento
mila scudi. Vi comparve ancora il _duca Ottavio Farnese_, inviato dal
papa, per pregarlo d'impiegarsi nella restituzion di Piacenza. Dopo
molti giorni di riposo passò dipoi il regal principe a Pavia, ed indi a
Milano, due miglia lungi dalla qual città con isplendido corteggio di
prelati e di nobiltà, fu a fargli una visita _Carlo duca di Savoia_.
In tal congiuntura fece il popolo di Milano sfoggi di incredibil
magnificenza per l'accoglimento di questo sole nascente, a cui sapeano
di dover essere sudditi col tempo. Venne in quest'anno _Arrigo II re
di Francia_ con quattrocento uomini d'armi, e cinque mila fanti in
Piemonte, per visitar le fortezze occupate dall'armi sue. Pretende
l'Adriani impreso quel viaggio dal re, perchè Ottavio Farnese, per
vendicarsi di _don Ferrante Gonzaga_ dopo l'occupazion di Piacenza,
avesse mandati dei sicarii per farlo uccidere, che poi furono scoperti
a tempo e giustiziati: sperando il re, siccome consapevole della trama,
che, tolto di vita il Gonzaga, potessero insorgere dei torbidi nello
Stato di Milano. Vana immaginazione di quello storico, perciocchè nel
dì 10 di settembre accadde la morte di Pier-Luigi Farnese, e il re nel
luglio e agosto precedente era venuto a Torino; ed avendo colà chiamato
_Ercole II duca di Ferrara_, questi con licenza dell'imperadore nel dì
15 d'agosto si mosse con bella comitiva, andò a Torino, e nel dì 2 di
settembre si restituì a Ferrara. Erano le premure del re di tirar seco
in lega questo principe, ma il trovò troppo alieno dall'inimicarsi il
troppo potente imperadore. Tanto bensì operò esso _re Cristianissimo_,
che indusse il duca medesimo a concedere in moglie Anna sua primogenita
a _Francesco di Lorena duca_ di Umala, figlio del _duca di Guisa_
suo favorito. Senza far altra novità, e con solamente lasciar dei
sospetti in Italia, se ne ritornò esso monarca in Francia nel dì 25 di
settembre. Perciò don Ferrante attese a fortificar Milano, e le altre
città e fortezze di quello Stato; ed altrettanto fece in Toscana il
duca Cosimo, a cui per gran somma di danaro da Cesare fu dato Piombino,
e da lì a poco ancora ritolto. Furono parimente in quest'anno fieri
rumori in Siena, città, dove _ab antiquo_ cozzavano fra loro due
fazioni, volendo cadauna o primeggiar nel governo, o usurparlo tutto. I
ministri dell'imperadore, che davano in questi tempi legge all'Italia,
non tralasciarono di profittar della lor pazza discordia; e però a don
Diego di Mendozza venne fatto d'introdur quattrocento fanti spagnuoli
di guardia, dando principio ad una specie di dominio di quella città.
NOTE:
[448] Foglietta. Adriani. Campana. Mascardi.
[449] Sardi, Istoria MS.
[450] Summonte. Sardi. Adriani. Campana ed altri.
[451] Adriani. Angeli, Storia di Parma. Mambrin Roseo. Gesellini, Vita
di Ferrante Gonzaga.
Anno di CRISTO MDXLIX. Indizione VII.
PAOLO III papa 16.
CARLO V imperadore 31.
Dopo avere il regal principe _don Filippo d'Austria_ lasciato in
Milano un gran credito di signor generoso e liberale, nel dì 8 di
gennaio del presente anno partì da colà, e, ricevuto uno splendido
trattamento da _Francesco duca di Mantova_, alla qual città si portò
anche _Ercole II duca di Ferrara_ per inchinarlo, passò a Trento,
continuando poscia il viaggio sino a Brusselles, dove fece la sua
entrata nel dì primo d'aprile, accolto con tenerezza dal padre Augusto.
L'intenzion dell'imperadore di chiamarlo colà era stata di fargli
giurar fedeltà da' popoli della Fiandra; il che eseguirono essi di
tutto buon cuore. Ma si aggiunse un'altra idea, fabbricata dall'amor
paterno ed ambizioso di Carlo cioè si diede egli a meditare nel tempo
stesso di farlo anche re de' Romani, e trattossi di ciò infatti nella
dieta d'Augusta dell'anno seguente; ma con trovarsi il _re Ferdinando_
troppo renitente alla cessione di quella dignità. Se non concordassero
in questo varii autori, parrebbe inverisimile un siffatto progetto.
Ma nè Ferdinando avea sì poco senno da sacrificare alle voglie del
fratello quell'illustre dignità, nè i principi della Germania erano
sì mal avveduti di permettere la continuazion d'una unione o potenza
che facea paura a tutti. In questi tempi _Arrigo II re_ di Francia,
non sapendo soffrire che la sua città di Bologna in Piccardia avesse
a restar in mano degli Inglesi anche per alquanti anni, e di doverla
comperare con tante somme d'oro accordate nella pace fatta con loro
dal _re Francesco I_ suo padre, determinò di adoperar la forza per
ricuperarla, con essersi fatto assolvere dal papa dal giuramento ed
obbligo di pagare il pattuito danaro. Parvegli anche propizio il tempo,
perchè in Inghilterra erano insorte gravi discordie, e durava tuttavia
la guerra degl'Inglesi contro la Scozia, assistita dall'armi della
Francia. Perciò andò con un possente esercito a mettere l'assedio alla
città di Bologna, dichiarando aperta guerra agl'Inglesi; ma quantunque
s'impadronisse di qualche forte, nulladimeno inutili per quest'anno
rimasero i suoi sforzi contro d'essa città. Godevasi intanto in Italia
la pace, ma pace turbata da continui sospetti di guerra per cagion di
Parma e Piacenza; e tutti attendevano a premunirsi. Ebbero, ciò non
ostante, a piagnere le marine, e specialmente della Sicilia, Calabria
e Riviera di Genova. Corseggiava nel Mediterraneo dopo la morte del
Barbarossa maestro, il famoso corsale Dragut rais con quaranta legni;
nè solamente prendeva quanti navigli mercantili gli venivano alle
mani, ma eziandio facea sbarco di tanto in tanto alle coste della
cristianità, con mettere a sacco i villaggi, ed asportarne ancora
gran copia d'anime cristiane, condannate dipoi ad una penosa servitù.
Mancava a costui un buon nido; sel procacciò egli nell'anno presente
coll'impossessarsi a forza d'armi della città appellata Africa o
Tripoli nelle coste di Barberia. Quivi si piantò egli e fortificò,
concependo poi speranza di stendere più in là il dominio suo.
Ondeggiava intanto _papa Paolo_ fra varii pensieri intorno agli affari
di Parma e Piacenza, e ricevea da Cesare parole di corte, quante ne
volea. Ora pretendeva l'_imperadore Carlo_ che si esaminassero le
ragioni della Chiesa e dello Stato di Milano su quella città, ed ora
proponeva cambii, comparendo sempre disposto a compiacere il papa, ma
con interna risoluzione di far quel solo uso che conveniva al proprio
interesse. Prese dunque il pontefice il partito, a ciò consigliato
dai più saggi porporati, di unir di nuovo Parma alla Chiesa, e di
torla al nipote Ottavio, con animo di reintegrarlo, cioè di dargli di
nuovo Camerino, giudicando che Parma in man della Chiesa verrebbe più
rispettata dai potentati cattolici. Con questa idea richiamò a Roma il
nipote, spedì a Parma con segrete istruzioni _Camillo Orsino_, Capitan
generale della Chiesa, il qual giunto colà, prese il comando dell'armi
e il governo d'essa città, attendendo poscia a fortificarla, e a ben
provvederla di vettovaglie e munizioni da guerra: il che recò non
poca gelosia a _don Ferrante Gonzaga_. Stette lungamente aspettando
il duca Ottavio qual dovesse essere il suo destino, lusingato dal
pontefice ora colle speranze di espugnar la pertinacia di Cesare, ed
ora colle proposizioni avanzate di una lega colla Francia. Finalmente
s'impazientò, massimamente all'udire che si trattava di ceder Parma
a _don Orazio _suo fratello, e Camerino a lui, e al considerare che
in tanto egli si trovava spogliato di Parma, benchè d'essa investito,
e che, venendo a mancare il decrepito papa, correa rischio di neppur
ottenere o di perdere Camerino. All'improvviso dunque, senza saputa
dell'avolo papa, venne per le poste a Parma, credendo di farsene,
come prima, padrone; ma Camillo Orsino insospettito per non aver
egli recata lettera o ordine alcuno del pontefice, si mise alla
parata d'ogni accidente, col disporre guardie dappertutto; e lasciò
bensì entrare in Parma il duca, ma il tenne sì corto, che non osò di
tentare novità veruna. Con tutto ciò, le speranze di Ottavio erano
riposte nella cittadella, avendo tenuta già intelligenza per questo
col castellano d'essa, e perciò fece istanza di visitar anche quelle
fortificazioni. Quivi parimente si trovò egli burlato, per essersi
pentito il castellano, che ricusò d'ammetterlo dentro: il perchè
tutto fumante di collera uscì di città, e si ritirò a Torchiara
castello del conte Sforza Santafiore suo cugino, dove, per mezzo del
_cardinale di Trento_, cominciò un trattato con _don Ferrante Gonzaga_
per acconciarsi coll'imperadore. Dacchè il pontefice ebbe intesa
l'impensata fuga del nipote, diede nelle smanie, persuaso che la gente
non crederebbe ciò fatto senza consenso suo; e tosto gli spedì dietro
un corriere per richiamarlo. E perchè ebbe avviso dall'Orsino del
tentativo da lui fatto per ripigliare il dominio di Parma, maggiormente
acceso di collera, rinnovò gli ordini a tutti i ministri di quella
città di tenerla a nome della Chiesa, e di non ammettere colà il
nipote. Così stavano le cose, quando il _cardinal Farnese_, per lettera
a lui scritta dal fratello, fece sapere all'addolorato pontefice che
Ottavio, se non gli veniva ceduta Parma, si accorderebbe con don
Ferrante, e cercherebbe colla forza di riaver quello che riputava
dovuto a sè per giustizia. Questo colpo, per cui si sfasciavano tutte
le macchine politiche del papa, e i suoi segreti trattati coi Franzesi,
l'accorò talmente, che, preso da un tremore e quasi sfinimento, fu
per cadere in terra, se non era sostenuto dagli astanti. Dopo quattro
ore si riebbe; ma sopraggiunse una gagliarda febbre, a cui l'età sua,
arrivata ad anni ottantadue, e forse più, guadagnatasi da lui colla
temperanza del vitto, non potè reggere, e però cessò di vivere nel dì
10 di novembre.
Varia fu la fama che lasciò dopo di sè _papa Paolo III_. Gli storici
fiorentini, Varchi, Segni ed Adriani, perchè mal animati contro di lui
a ragion delle dissensioni passate fra esso pontefice e il duca Cosimo,
ne sparlarono a bocca aperta. Il Segni arrivò a scrivere, esser egli
stato in concetto, non dirò di amante della strologia giudiciaria, che
questo gli fu imputato anche da altri (benchè forse senza ragione), ma
fin di magia e dell'uso de' veleni, con altre dicerie bestiali, che lo
stesso stampatore si vergognò di esporre tutte alla luce. Non è già di
dovere che i principi, pretendenti di non esser sottoposti alle leggi,
abbiano anche da pretendere esenzione dalla pubblica censura, perchè
questo è l'unico freno oppur gastigo alle lor malvage azioni: e guai
a chi giugne a nulla curarsi anche di questo qualsisia staffile. Ma
giusto insieme è che la censura sia ben fondata, e non figlia della
malignità e dell'invidia. Certamente chiunque senza passione peserà
- Parts
- Annali d'Italia, vol. 6 - 01
- Annali d'Italia, vol. 6 - 02
- Annali d'Italia, vol. 6 - 03
- Annali d'Italia, vol. 6 - 04
- Annali d'Italia, vol. 6 - 05
- Annali d'Italia, vol. 6 - 06
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