Annali d'Italia, vol. 6 - 39
[447] Du-Mont, Corps Diplomat.
Anno di CRISTO MDXLV. Indiz. III.
PAOLO III papa 12.
CARLO V imperadore 27.
Fu poi fatta nel gennaio, oppure nel febbraio di quest'anno, la
dichiarazione dell'_Augusto Carlo_; cioè ch'egli darebbe l'infanta sua
figlia _donna Maria_ in moglie a _Carlo duca d'Orleans_, e in dote
il ducato di Milano. Era già stato questo principe a baciar le mani
all'imperadore, con replicar anche altre volte questo alto di ossequio;
e siccome egli era graziosissimo e ornato di belle doti, così voce
comune fu ch'esso Carlo avesse per lui concepito un grande effetto.
Prima nondimeno di effettuar questo maritaggio, mosse lo scaltro
Augusto delle pretensioni alla corte di Francia, chiedendo che il re
Francesco assegnasse ad esso suo figliuolo qualche Stato, acciocchè non
si vedesse quell'enorme deformità che la figlia d'un imperadore, re
anche di Spagna, sposasse un principe che non avesse se non la spada
per suo retaggio. Dai politici fu creduta questa dimanda un'invenzion
sottile per guadagnar tempo, ed anche per eccitar gara fra i due figli
del re, cioè fra _Arrigo delfino_ e il suddetto _duca d'Orleans_,
i quali anche per la diversità del genio, e per altre ragioni si
scorgevano già molto discordi fra loro. Intorno a ciò si andarono
facendo varie consulte, proposte e risposte, finchè si arrivò al mese
di settembre: quando eccoti quella che imbroglia e sbroglia tante cose
del mondo, giunse a rapire lo stesso duca d'Orleans. Trovavasi allora
col figlio e colla corte il _re Francesco_ nella Badia di Foresta
presso Rue, dove fra quegli abitanti correva una febbre pestilenziale
e contagiosa. Per poca sua cautela la contrasse anche quell'amabile
principe, onde nel dì 8 di settembre fece fine al corto suo vivere
in età di ventitrè anni. Non mancò gente che sospettò, secondo il mal
uso d'allora, di veleno fattogli dare dall'imperadore, o dal tuttavia
nemico re di Inghilterra. Ma gli stessi storici franzesi concordemente
distruggono tal voce, riconoscendo ch'egli mancò di morte naturale. Per
questa perdita, se fu inconsolabil il dolore del suo padre, non gli
cedette nella verità, o almeno nelle apparenze, l'afflizione che ne
mostrò lo stesso imperadore, quasichè a lui fosse mancato un figlio,
nell'essergli tolto un principe destinato in isposo alla figlia. Ma
intanto un colpo tale riuscì di non piccolo vantaggio, e, siccome più
d'uno credette, anche d'interna consolazione ad esso Augusto, perchè
veniva con ciò ad aprirsi il campo per non attendere la promessa fatta
in Crespì di rilasciare lo Stato di Milano o la Fiandra alla Francia.
Non terrò io dietro alle imprese de' Franzesi, spettanti bensì all'anno
presente, ma non all'istituto mio, e mi basterà di accennare, avere il
re Francesco messa insieme una forte armata di terra, e un'altra ancora
di mare, per desiderio di torre dalle mani del re inglese l'occupata
importante città di Bologna. Si azzuffarono le flotte, e fu costretta
la franzese a ritirarsi. Perchè non isperavano i Franzesi di poter
per allora vincere con assedio Bologna, si ridussero a fabbricar un
forte in quelle vicinanze, capace di grosso presidio, per tenere in
freno quello della città. Ma il re scoraggito ed afflitto tra per la
perdita del figlio duca d'Orleans, per cui restavano arenate tutte
le disposizioni precedenti di acquistare Stati per la regal sua
famiglia, e per trovarsi battuto dagl'Inglesi, coll'erario vuoto, co'
sudditi stanchi e smunti, e col corpo ancora maltrattato da un'ulcera
nelle parti vergognose: finalmente cominciò a rallentare gli spiriti
guerrieri, e a desiderar il riposo, perchè tutte queste vicende gli
andavano ricordando la sua mortalità. Perciò senza fare più istanza
della Fiandra o del ducato di Milano, a lui bastò di assicurarsi che
l'imperadore continuerebbe nella stabilita pace, e fisserebbe i confini
per gii Stati de' quali s'era, trattato nella concordia.
Costanti furono i movimenti di _papa Paolo_ in quest'anno, affinchè,
essendo cessate tante guerre fra i primi potentati della cristianità,
si desse oramai principio all'intimato concilio di Trento. Questo
infatti si diede nel dì 15 dicembre, ma con troppo scarso concorso
di prelati, benchè dianzi furono pubblicate le pene prescritte dai
canoni a chi non interveniva. In mezzo nondimeno a questi pensieri,
degni d'un zelante pontefice, non dormivano nè scemavano le sue
premure per l'ingrandimento della propria casa. Dacchè egli intese
destinato dall'imperadore il ducato di Milano pel duca d'Orleans, e
troncate colla morte di questo tutte le precedenti idee e speranze sue
di conseguirlo per _Pier-Luigi_ suo figlio, si applicò ad un altro
partito, che se non tanto glorioso, certamente era di più facile
riuscita: cioè disegnò di dargli Parma e Piacenza, possedute allora
dalla camera apostolica. Due impedimenti poteano incontrarsi a questo
progetto; l'uno dalla parte dell'imperadore non solamente vicino, ma
pretendente su quelle due città, per le ragioni del ducato di Milano;
e l'altra dalla parte del sacro collegio, a cui ben si conosceva che
non potrebbe piacere questo tal quale smembramento di due nobili ed
insigni città dalla camera pontificia. Fece il papa esporre questo
disegno a Cesare, per ottenerne l'approvazione; ma ritrovò chi sapea
ben di scherma, e sotto belle parole covava sentimenti diversi. Carlo
non disapprovò apertamente l'atto meditato, ma neppur l'approvò, come
quegli che vedeva il papa disporre sì francamente di uno Stato che
i suoi ministri gli rappresentavano occupato indebitamente da Giulio
II e da Leone X, e parte del ducato milanese, giacchè insussistente
pretensione era quella di spacciar Parma e Piacenza per città
dell'esarcato. Oltracciò, mirava l'imperadore di mal occhio Pier-Luigi,
e mal soffriva che piuttosto a lui, che ad Ottavio suo genero, si
facesse un sì ragguardevol dono. Cesare Campana all'incontro, e forse
con più fondamento, sostiene che non ne fu precedentemente fatta
parola all'Augusto Carlo. Comunque sia, bastò al papa, per proseguire
innanzi in questo affare, il non aver riportata una assoluta negativa
da Cesare. Affin di ottenere il consenso de' cardinali, propose di
restituire alla camera apostolica il ducato di Camerino e Nepi, facendo
conoscere l'evidente guadagno che ad essa risultava dal permutare que'
due paesi con Parma e Piacenza, perchè costava di molto il mantenimento
di queste città, siccome separate dagli Stati della Chiesa, e in
pericolo d'essere assorbite dai vicini; laddove le rendite di Camerino,
senza spese, unite al censo annuo di nove mila ducati d'oro (altri
dicono di più) che si voleva imporre alle suddette due città, avrebbono
fatto maggior pro all'erario papale. Tralascio altri raggiri ed altre
speciose ragioni che furono adoperate per indorar questa pillola.
Chi de' cardinali ambiva più di piacere al papa, che di soddisfare
a' suoi doveri, non solamente prestò il suo assenso, ma caldamente
perorò in approvazion di questa permuta. Ma non mancarono altri di
petto più forte che arringarono contro i voleri del papa, rilevando
gli svantaggi che ne provenivano; e tanto più si sarebbero opposti,
se avessero potuto preveder gli sconcerti che da lì a non molto per
tal cagione accaddero, e i maggiori che ai dì nostri son succeduti.
Lo stesso cardinal Pallavicino, tuttochè sì impegnato a sostener la
gloria di questo pontefice, qui l'abbandona, piuttosto impugnando che
difedendo la di lui risoluzione. In somma nel concistoro de' porporati,
dove per lo più suol prevalere la tema riverenziale verso chi può tanto
favorire o disfavorire, la vinse il pontefice, e _Pier-Luigi Farnese_
nell'agosto di quest'anno fu dichiarato duca di Parma e Piacenza, nè
tardò egli punto a prenderne il possesso.
Tanto in Lombardia che nella Lunigiana e Toscana si provò in quest'anno
un grande flagello, per le soldatesche cassate dopo la pace nello
Stato di Milano. Non sapendo coloro come vivere (ed erano la maggior
parte Spagnuoli), in varie truppe si scaricarono sopra gli Stati della
Chiesa e del duca di Ferrara. Cacciati di là, si ridussero addosso
ai marchesi Malaspina nella Lunigiana, svaligiando case e consumando
tutto, dovunque giugnevano. Passarono dipoi sul Lucchese, e finalmente
s'andarono a posar sul Sanese, dove per molti mesi levarono il pelo e
il contrappelo a quel contado. Guai se qualche accreditato capitano
si fosse messo alla lor testa: sarebbono corse ad ingrassar quelle
brigate migliaia di soldati italiani, tornati a digiunare alle lor
case, e sarebbe rinata una di quelle formidabili compagne o compagnie
di masnadieri che vedemmo in Italia nel secolo decimoquarto. Sorsero
in questi tempi strepitose brighe nella stessa Siena, città in cui la
discordia non fu mai cosa forestiera. Don Giovanni di Luna, che quivi
era da parte dell'imperadore, invece di smorzare il fuoco, per la sua
poca prudenza maggiormente lo accrebbe. Ne seguì infine una fiera
sedizion civile, per cui lo stesso don Giovanni cogli Spagnuoli fu
obbligato ad andarsene con Dio. Mancò di vita in quest'anno a dì 11 di
novembre _Pietro Lando_ doge di Venezia, e in suo luogo fu eletto nel
dì 24 d'esso mese _Francesco Donato_, già procurator di San Marco, e
persona di gran saviezza e dottrina.
Anno di CRISTO MDXLVI. Indizione IV.
PAOLO III papa 13.
CARLO V imperadore 28.
Poche novità l'Italia somministrò in quest'anno alla storia a cagion
della pace che si godeva dappertutto. Era stato fin qui governatore
e capitan generale dello Stato di Milano _Alfonso d'Avalos_ marchese
di Pescara, personaggio egualmente rinomato pel suo valore che per
altre sue belle doti ed azioni. Ma non erano già soddisfatti del suo
governo i popoli, perchè caricati di molti aggravii, e di tanto in
tanto costretti a soffrir non poche violenze: il perchè ne andarono
varie doglianze alla corte dell'imperadore. Non avrebbono forse queste
fatto breccia nell'animo dell'Augusto sovrano, se ad esse non si fosse
aggiunto l'accusa che le rendite di quel ducato non si sapea in quali
borse andassero a terminare. Ossia, che di ciò informato il marchese
ottenesse nel precedente anno licenza di passare alla corte cesarea,
oppure che fosse chiamato colà: certo è, ch'egli vi andò, e poi se
ne tornò in Italia malcontento, stante l'ordine di Cesare, che gli
rivedessero i conti. Ma venne la morte a liberarlo da ogni vessazione
nell'ultimo giorno di marzo, mentre egli si trovava in Vigevano, con
lasciar dopo di sè il nome di capitano molto illustre. Al governo di
Milano fu susseguentemente destinato _don Ferrante Gonzaga_, che non
tardò a venir di Sicilia, dove egli era stato vicerè, per prendere il
possesso della novella carica; e ciò con soddisfazione de' Milanesi,
lusingandosi i più d'essi di godere miglior trattamento sotto di lui.
Ma andarono falliti i loro conti; perchè, siccome osserva il Segni,
l'imperadore lasciava la briglia sul collo a' governatori delle
provincia, comportando ogni lor fallo, purchè fossero fedeli. E però
si cangiò bensì il governator di Milano, ma peggiorò la mala sorte de'
Milanesi, le querele dei quali niuna impression fecero da lì innanzi
nell'animo di Carlo V. Seguitava intanto la guerra fra i re di Francia
e d'Inghilterra. Finalmente, conoscendo l'ultimo di essi qual impegno
di spese portasse il voler sostenere contro dei Franzesi l'occupata
città di Bologna di qua dal mare: diede orecchio a' trattati di pace,
di cui gran voglia nello stesso tempo avea il _re Francesco_. Fu
questa conchiusa nel dì 7 di giugno dell'anno presente, con obbligarsi
il re Cristianissimo di pagare all'Inglese in termine di otto anni
più di due milioni di scudi di oro: sborsati i quali, se gli dovea
restituire Bologna di Piccardia. Dimorava l'imperadore in questi tempi
in Germania, mal soffrendo la lega formata in Smalcaldia dai principi
e comuni protestanti; perciocchè questa, sebben sembrava unicamente
fatta per mantenere la falsa religione introdotta da Lutero (che
appunto in quest'anno nel dì 7 di febbraio per improvvisa morte tolto
fu dal mondo) pure covava nell'interno de' maggiori disegni contro la
potenza dell'imperadore. Capi d'essa luterana lega erano _Gian-Federigo
duca_ ed elettor di Sassonia, e _Filippo langravio_ d'Assia. Perciò
l'_Augusto Carlo_ giudicò di non dover più differire il farsi rendere
ragione di questo attentato, con darsi ad ammassare un potente
esercito. Perchè appunto anche gl'Italiani ebbero parte in quella
danza, sarà a me permesso dirne qualche cosa.
Si studiò l'imperadore in questa occasione di trarre seco in lega
il _pontefice Paolo_. S'era questi con sua gran lode, siccome padre
comune, astenuto in addietro da ogni parzialità e lega nelle guerre
fra i monarchi cattolici. Ora che si trattava di procurar vantaggi
alla vera religione, volentieri acconsentì ad unirsi coll'imperadore.
Nel dì 22 di giugno si pubblicarono i capitoli d'essa lega, per cui
il papa s'impegnò d'inviare in soccorso dell'imperadore dodici mila
fanti e cinquecento cavalli, e di fornire nello spazio di un mese
ducento mila scudi d'oro. Sollecitamente fece il pontefice questo
armamento, con dichiararne generale il _duca Ottavio Farnese_ suo
nipote, e legato il _cardinal Farnese_ suo parimente nipote. Comandante
della cavalleria italiana fu _Giam-Batista Savello_, della fanteria
_Alessandro Vitelli_, e sotto d'essi militavano assai colonnelli
e capitani italiani di molto credito nell'armi. Anche i duchi di
Ferrara e di Firenze vi spedirono colà delle schiere armate, e più
di cinquecento nobili italiani volontarii concorsero a far quella
campagna. Trasse ancora l'imperador Carlo altra gente d'Italia,
comandata da _Carlo di Lanoia_ principe di Sulmona, e da _Emmanuele
Filiberto_ principe di Piemonte. Erano eziandio nell'armata del
medesimo Augusto generale dell'artiglieria _Gian-Giacomo de Medici_
marchese di Marignano, e consiglieri di guerra _don Francesco d'Este,
Pirro Colonna e Giam-Battista Gastaldo_. Ma perciocchè lentamente
procedeva l'unione dell'esercito imperiale, dovendo venir dai Paesi
Bassi, dall'Italia e da altri luoghi molti d'esse soldatesche;
l'elettore e il langravio, già messi al bando dell'imperio, più
sollecitamente uscirono in campagna con un'armata, che alcuni, forse
ampollosi, fanno ascendere ad ottanta mila fanti e a dieci, anzi a
quindici mila cavalli, e s'inviarono verso Ratisbona, dove stava assai
sprovvisto l'imperadore, con disegno o di farlo prigione o di cacciarlo
di Germania. La protezion di Dio salvò Carlo V in tal congiuntura,
non avendo que' ribelli saputo prevalersi del vento in poppa. Nulla
servì loro l'aver prese le chiuse del Tirolo, affinchè non passassero
gl'Italiani. Questi passarono, e nulla giovò ai luterani l'essersi
impadroniti di Donavert. Ebbe tempo l'imperadore di provveder Ratisbona
con gagliardo presidio, e di preoccupar la forte città d'Ingolstad,
dove coll'esercito suo, ingrossato di molto, andò ad accamparsi a
fronte della contraria superiore armata, ma senza voler mai venire a
battaglia, benchè più volte provocato dagli orgogliosi nemici. Intanto
al campo cesareo, superate molte difficoltà, venne a congiugnersi un
grosso corpo di soldatesche fiamminghe. _Maurizio_ cattolico _duca di
Sassonia_, nemico di quell'elettore, colle milizie tedesche ed unghere,
dategli da _Ferdinando re dei Romani_, ostilmente entrò nell'elettorato
di Sassonia. Diede più percosse a quei popoli, e s'impossessò di un
tratto grande di quel paese. Questo colpo, la mancanza de' viveri e la
costanza dell'Augusto Carlo, costrinse l'armata protestante sul fine di
novembre a levare il campo, e a ritirarsi alla sordina come in rotta.
Allora fu che l'imperadore, tuttochè afflitto da varii incomodi di
sanità, inoltratosi col poderoso suo esercito, tal terrore indusse nel
paese nemico, che vide venire, prima che terminasse l'anno, oppure nel
verno seguente, supplichevoli a' suoi piedi _Federigo conte Palatino,
Ulderico duca_ di Vitemberg, e i cittadini d'Ulma, d'Augusta, di
Francoforte, di Argentina e di altri luoghi. Dopo questi vantaggi,
pei quali rimasero molto infievoliti l'elettor sassone e il langravio
d'Assia, si ritirò esso Augusto a' quartieri d'inverno, seco riportando
gloria singolare non men di valore che di clemenza, per non aver
negato il perdono a chiunque davanti a lui si umiliò. Fu continuato
con vigore in quest'anno il concilio di Trento, ed ivi si stabilirono
varii punti di domma, e parimente si attese a riformar gli abusi della
disciplina ecclesiastica. Mancarono in quest'anno di vita due insigni
cardinali, la memoria de' quali può sperare l'immortalità, cioè _Pietro
Bembo_ Veneziano, e _Jacopo Sadoleto_ Modenese, che negli scritti loro
lasciarono ai posteri chiare testimonianze d'un raro ingegno e sapere.
Anno di CRISTO MDXLVII. Indiz. V.
PAOLO III papa 14.
CARLO V imperadore 29.
Con una strepitosa scena in Genova si diede principio all'anno
presente[448]. Dacchè fu rimessa in quella potente città per cura
filiale di _Andrea Doria_ la libertà, e riserbato quasi tutto ai nobili
il governo d'essa, quivi si godeva un'invidiabil pace e tranquillità.
Ma era gran tempo che _Gian-Luigi de' Fieschi_, conte di Lavagna e
signore di molte castella, siccome giovane di grand'animo e di pensieri
turbolenti, andava macchinando novità in pregiudizio delle patria sua,
con essere fin giunto a desiderar e sperare di acquistarne la signoria,
o piuttosto di ridurla sotto il comando del re di Francia. Mirava
egli con occhio di livore e con occulta rabbia lo stato e la fortuna
del suddetto Andrea Doria, parendogli che sotto nome di libertà egli
facesse da padrone in Genova, e che l'imperadore coll'essere dichiarato
protettore della città, e col tenere al suo soldo esso Doria, anche
più del Doria quivi signoreggiasse. Soprattutto gli stava sul cuore,
come pungente spina, Giannettino Doria, nipote ed occhio dritto
d'esso Andrea, che forse non cedeva a suo zio nella scienza dell'arte
nautica militare; e benchè giovane, già s'era acquistato gran grido
in varie azioni di valore, perchè in lui considerava un successore
nell'odiata autorità e dignità di Andrea; e tanto più perchè in lui
abbondava l'alterigia, cioè il potente segreto per farsi odiare. Dopo
aver dunque Gian-Luigi in molto tempo, e con intelligenza dei ministri
franzesi e di _Pier-Luigi duca_ di Piacenza e Parma, segretamente
introdotte in Genova alcune centinaia de' più arditi uomini delle sue
castella, scelse la notte precedente al dì 2 di gennaio di quest'anno
per effettuare il suo perverso disegno. Chiamati seco a scena molti
de' suoi amici nobili popolari, e svelata ad essi l'intenzion sua,
gli ebbe quasi tutti seguaci all'impresa. Uscì egli poscia alle dieci
ore della notte colla gente armata, e non tardò ad impadronirsi della
porta dell'Arco, con ispedire dipoi Girolamo ed Ottobuono suoi fratelli
a far lo stesso di quella di San Tommaso. Era la principal sua mira
di occupar la darsena, e di ridurre in suo potere le venti galee di
Andrea Doria; e gli venne fatto, ma con risvegliarsi allora un gran
tumulto e strepito di voci de' remiganti e marinari che in esse si
trovavano. Nello stesso tempo gli altri si fecero colla forza padroni
della suddetta porta di San Tommaso, divisando appresso di quindi
passare al palazzo dello stesso Andrea Doria, posto fuori della città,
per quivi uccidere lui e Giannettino. Ma intanto, svegliato dallo
strepitoso rumor della darsena esso Giannettino, credendo nata rissa o
sollevazione fra i galeotti, vestitosi in fretta, con un sol famiglio,
che gli portava innanzi la torcia, venne alla porta di San Tommaso, e
imperiosamente chiesto d'entrare, per sua mala ventura v'entrò, perchè
immantenente fu da' congiurati con più colpi steso morto a terra.
Maraviglia fu che non corressero dippoi al palazzo di Andrea Doria, per
levare anche a lui la vita. Stava egli in letto, stanco sotto il peso
di ottanta anni, e maltrattato dalle gotte, quando gli venne avviso,
che la città era sossopra, e udirsi gridare: _Libertà e Fieschi_,
perchè molti della vil plebe s'erano uniti coi congiurati per isperanza
di dare il sacco alle case de' nobili. Però, come potè, posto sopra una
mula si sottrasse al pericolo, ritirandosi alla Masone, castello degli
Spinoli.
Poco parea che mancasse al compimento dell'opera, nè altro si
aspettava, se non che Gian-Luigi tornasse per insignorirsi del palazzo
pubblico. Ma Gian-Luigi era sparito per una di quelle vicende che
non di rado sconcertano le misure anche de' più saggi. Nel voler
egli passare sopra una tavola alla capitana delle galee, questa si
mosse, ed egli, siccome armato di tutto punto, piombando nell'acqua,
nè potendo sorgere, quivi lasciò miseramente la vita. Per questo
accidente s'invilirono tutti i suoi, e venuta in chiaro la morte sua,
quel senato ripigliò coraggio; e quantunque Girolamo fratello dello
estinto continuasse a fare il bravo, pure sul far del giorno si trovò
abbandonato dalla plebaglia, di maniera che ebbe per grazia di potersi
ritirare a Montobbio, dove attese a fortificarsi: con che tornò la
quiete in Genova. Cagion fu questa effimera rivoluzione che trecento
schiavi turchi, presa una galea del Doria, su quella si salvarono in
Africa. Fuggirono ancora tutti i forzati, dopo aver dato il sacco
a tutti gli armamenti ed arredi delle galee. Furono poi confiscate
tutte le castella di Gian-Luigi, diroccato il magnifico suo palazzo;
Girolamo suo fratello ed altri congiurati presi in Montobbio condannati
all'ultimo supplizio. Gran rumore fece per l'Italia questo fatto.
Chiara cosa fu che i ministri di Francia aveano tenuta mano a questa
congiura, e comunemente si credette che Pier-Luigi Farnese per varii
suoi dissapori e motivi politici fosse in ciò d'accordo col Fieschi,
con avergli anche promesso degli aiuti. Alessandro Sardi[449], allora
vivente, attesta che _Renca di Francia duchessa di Ferrara_, senza
consenso del _duca Ercole II_ suo marito, siccome cognata del re
Francesco, fu partecipe di questo maneggio, e per mezzo del duca di
Piacenza e Parma avea promesso al Fiesco di mandargli i Franzesi che
la servivano. E perciocchè non si sapea credere che Pier-Luigi, senza
che _papa Paolo_ suo padre fosse consapevole ed approvatore del fatto,
avesse dato braccio alla congiura; a tanto più perchè fra esso papa
ed _Andrea Doria_ erano dianzi seguite non poche amarezze, perciò non
si potè cavar di testa ai sospettosi imperiali che anche lo stesso
pontefice in quella tresca si fosse meschiato, benchè niuna concludente
pruova ne potessero mai trovare.
Nel dì 28 dello stesso gennaio del presente anno diede fine alla
carriera del suo vivere _Arrigo VIII re_ d'Inghilterra, con lasciar
erede il figlio _Odoardo_ di età di soli nove anni, e il nome suo in
obbrobrio presso tutta la posterità, per aver governati i suoi popoli
più da tiranno che da re, con tanti aggravii loro imposti, con tanta
crudeltà esercitata verso le maggiori e più illustri persone del regno,
con tante scene della sfrenata sua libidine, e massimamente per essere
divenuto traditore e persecutor della Chiesa cattolica, dopo aver
conseguito il glorioso titolo di difensore della medesima Poco stette
a pagar lo stesso tributo alla natura _Francesco I re_ di Francia in
età di cinquantatrè anni, essendo accaduta la sua morte nel di 31 di
marzo. La sua intemperanza ne' piaceri carnali, avendogli cagionata
una pericolosa fistola nella bassa parte deretana, gli abbreviò la
vita: principe peraltro ornato di belle doti, amante delle scienze
e de' professori di esse, padre e restitutor delle lettere nella sua
nazione. Ad _Arrigo II_ suo primogenito, che a lui succedette, secondo
l'esempio d'altri monarchi, i quali solamente imparano a viver bene
quando s'ha da abbandonare la vita presente, lasciò per ricordo,
essere cosa da saggio figliuolo l'imitar le virtù, e non già i vizii
del padre. Specialmente ancora gli raccomandò di non aggravar di
soverchio i popoli colle contribuzioni: dal che egli non s'era giammai
guardato, per appagar l'ambizione sua e l'odio conceputo contro di
Carlo imperadore, odio ch'egli forse portò al sepolcro, giacchè prima
di morire avea mandati ducento mila scudi a _Gian-Federigo Sassone_
e al _langravio assiano_, nemici o ribelli d'esso Cesare. Se questa
passione per memoria della prigionia sofferta in Ispagna, e per ragione
ancora di Stato, l'ereditasse eziandio Arrigo II suo figlio, giovane di
spiriti molto guerrieri, staremo poco ad avvedercene. Intanto solenni
funerali fece egli al defunto padre, e con ogni sorta di feste si vide
celebrato l'ingresso suo in Parigi con _Caterina de Medici_, divenuta
ormai regina di Francia. Quanto agli affari di Cesare in Germania,
brevemente dirò, che rinforzato di gente _Gian-Federigo duca_ di
Sassonia, di buona ora spinse le sue armi contra del _duca Maurizio_,
padrone allora di Lipsia e di Dresda; e il mise a mal partito; perlochè
avendo esso Maurizio fatte replicate istanze d'aiuto all'imperadore,
questi, benchè infermo per la podagra, fu forzato ad uscire in campagna
per tagliare il corso a maggiori progressi di Gian-Federigo, al quale
riuscì in questi tempi di muovere a ribellione la Boemia contra del _re
Ferdinando_ signore di quel regno, e di dare una rotta ad _Alberto_,
uno de' _marchesi di Brandeburgo_. Alla armata cesarea comandava in
capo il _duca di Alvo_. Perchè Giovachino marchese di Brandeburgo
ed elettore abbracciò in questi tempi il partito dello imperadore,
maggiormente si animò esso duca a proseguir la marcia contro del
Sassone verso la metà di aprile. Mirabile poi e sopra modo ardita fu
l'azion degli Spagnuoli, che trovando le opposte rive dell'Elba, fiume
grossissimo, di gente e di artiglierie guernite da Gian-Federigo, pure
passarono; e, cacciati i nemici, diedero campo all'esercito imperiale
di formar un ponte e di trasferirsi di là. Ritiravasi il Sassone in
ordinanza colle sue truppe, ma inseguito dalla cavalleria cesarea,
suo malgrado, si preparò alla battaglia. Fu questa ben calda nel dì
24 d'aprile, ma infine andarono in rotta le genti del Sassone, ed
egli, fatto prigione dal conte Ippolito Porto da Vicenza, fu condotto
davanti all'imperadore, che gli rimproverò l'alterigia sua in trattar
dianzi lui solamente col titolo di _Carlo di Gante, che si fa nominar
l'imperadore_. Reo di morte venne da lì a qualche tempo giudicato
Gian-Federigo; tante nondimeno preghiere dei principi s'interposero,
implorando la clemenza di Cesare, ch'egli, mosso ancora dal desiderio
di cavar dalle mani degli uffiziali di Gian-Federigo le due fortezze
di Vittemberga e Gotta, s'indusse a donargli la vita, con patto che
rinunziasse l'elettorato a Cesare, e i suoi Stati (a riserva di una
porzione, cioè della Turingia) al duca Maurizio. Restò egli, ciò non
ostante, come prigione presso l'imperadore. Per la depressione di
questo primo campione della lega protestante, anche _Filippo langravio
d Assia_ trattò per mezzo di varii intercessori, e specialmente del
suddetto duca Maurizio, di tornare in grazia dell'Augusto Carlo.
Con varie condizioni questa gli fu accordata; ma, presentatosi egli
ai piedi del vittorioso monarca, si vide ritenuto prigione; la qual
durezza costò poscia ben caro al troppo severo monarca.
Si studiò nell'anno presente, per ordine del medesimo Augusto, e a
persuasione del _cardinale Teatino_ di casa Caraffa arcivescovo, _don
Pietro di Toledo_ vicerè di Napoli d'introdurre in quella metropoli e
regno il tribunale dell'inquisizione[450]; al che troppo abborrimento
avea mostrato sempre il popolo napoletano, e massimamente la nobiltà,
che giudicava d'essere tolta con tal novità di mira dal vicerè,
mostratosi in tante altre occasioni suo poco amorevole, per non dir
nemico, affin di gastigare sotto l'ombra della religione chi non era
in sua grazia. A' tempi ancora di Ferdinando il Cattolico tentata fu
la introduzion del medesimo tribunale. Il timor di una sollevazione,
e l'aver fra le altre ragioni rappresentato i Napoletani, che essendo
troppo familiari in quella nazione i giuramenti falsi, niun più sarebbe
da lì innanzi stato sicuro dell'onore e della vita, fece desistere
lo accorto re da sì pericolosa impresa. Ma, persistendo il Toledo in
questo proposito, e nulla curando i privilegii di quella regal città,
finalmente nel di 16 di maggio si mise in armi il popolo con alquanti
Anno di CRISTO MDXLV. Indiz. III.
PAOLO III papa 12.
CARLO V imperadore 27.
Fu poi fatta nel gennaio, oppure nel febbraio di quest'anno, la
dichiarazione dell'_Augusto Carlo_; cioè ch'egli darebbe l'infanta sua
figlia _donna Maria_ in moglie a _Carlo duca d'Orleans_, e in dote
il ducato di Milano. Era già stato questo principe a baciar le mani
all'imperadore, con replicar anche altre volte questo alto di ossequio;
e siccome egli era graziosissimo e ornato di belle doti, così voce
comune fu ch'esso Carlo avesse per lui concepito un grande effetto.
Prima nondimeno di effettuar questo maritaggio, mosse lo scaltro
Augusto delle pretensioni alla corte di Francia, chiedendo che il re
Francesco assegnasse ad esso suo figliuolo qualche Stato, acciocchè non
si vedesse quell'enorme deformità che la figlia d'un imperadore, re
anche di Spagna, sposasse un principe che non avesse se non la spada
per suo retaggio. Dai politici fu creduta questa dimanda un'invenzion
sottile per guadagnar tempo, ed anche per eccitar gara fra i due figli
del re, cioè fra _Arrigo delfino_ e il suddetto _duca d'Orleans_,
i quali anche per la diversità del genio, e per altre ragioni si
scorgevano già molto discordi fra loro. Intorno a ciò si andarono
facendo varie consulte, proposte e risposte, finchè si arrivò al mese
di settembre: quando eccoti quella che imbroglia e sbroglia tante cose
del mondo, giunse a rapire lo stesso duca d'Orleans. Trovavasi allora
col figlio e colla corte il _re Francesco_ nella Badia di Foresta
presso Rue, dove fra quegli abitanti correva una febbre pestilenziale
e contagiosa. Per poca sua cautela la contrasse anche quell'amabile
principe, onde nel dì 8 di settembre fece fine al corto suo vivere
in età di ventitrè anni. Non mancò gente che sospettò, secondo il mal
uso d'allora, di veleno fattogli dare dall'imperadore, o dal tuttavia
nemico re di Inghilterra. Ma gli stessi storici franzesi concordemente
distruggono tal voce, riconoscendo ch'egli mancò di morte naturale. Per
questa perdita, se fu inconsolabil il dolore del suo padre, non gli
cedette nella verità, o almeno nelle apparenze, l'afflizione che ne
mostrò lo stesso imperadore, quasichè a lui fosse mancato un figlio,
nell'essergli tolto un principe destinato in isposo alla figlia. Ma
intanto un colpo tale riuscì di non piccolo vantaggio, e, siccome più
d'uno credette, anche d'interna consolazione ad esso Augusto, perchè
veniva con ciò ad aprirsi il campo per non attendere la promessa fatta
in Crespì di rilasciare lo Stato di Milano o la Fiandra alla Francia.
Non terrò io dietro alle imprese de' Franzesi, spettanti bensì all'anno
presente, ma non all'istituto mio, e mi basterà di accennare, avere il
re Francesco messa insieme una forte armata di terra, e un'altra ancora
di mare, per desiderio di torre dalle mani del re inglese l'occupata
importante città di Bologna. Si azzuffarono le flotte, e fu costretta
la franzese a ritirarsi. Perchè non isperavano i Franzesi di poter
per allora vincere con assedio Bologna, si ridussero a fabbricar un
forte in quelle vicinanze, capace di grosso presidio, per tenere in
freno quello della città. Ma il re scoraggito ed afflitto tra per la
perdita del figlio duca d'Orleans, per cui restavano arenate tutte
le disposizioni precedenti di acquistare Stati per la regal sua
famiglia, e per trovarsi battuto dagl'Inglesi, coll'erario vuoto, co'
sudditi stanchi e smunti, e col corpo ancora maltrattato da un'ulcera
nelle parti vergognose: finalmente cominciò a rallentare gli spiriti
guerrieri, e a desiderar il riposo, perchè tutte queste vicende gli
andavano ricordando la sua mortalità. Perciò senza fare più istanza
della Fiandra o del ducato di Milano, a lui bastò di assicurarsi che
l'imperadore continuerebbe nella stabilita pace, e fisserebbe i confini
per gii Stati de' quali s'era, trattato nella concordia.
Costanti furono i movimenti di _papa Paolo_ in quest'anno, affinchè,
essendo cessate tante guerre fra i primi potentati della cristianità,
si desse oramai principio all'intimato concilio di Trento. Questo
infatti si diede nel dì 15 dicembre, ma con troppo scarso concorso
di prelati, benchè dianzi furono pubblicate le pene prescritte dai
canoni a chi non interveniva. In mezzo nondimeno a questi pensieri,
degni d'un zelante pontefice, non dormivano nè scemavano le sue
premure per l'ingrandimento della propria casa. Dacchè egli intese
destinato dall'imperadore il ducato di Milano pel duca d'Orleans, e
troncate colla morte di questo tutte le precedenti idee e speranze sue
di conseguirlo per _Pier-Luigi_ suo figlio, si applicò ad un altro
partito, che se non tanto glorioso, certamente era di più facile
riuscita: cioè disegnò di dargli Parma e Piacenza, possedute allora
dalla camera apostolica. Due impedimenti poteano incontrarsi a questo
progetto; l'uno dalla parte dell'imperadore non solamente vicino, ma
pretendente su quelle due città, per le ragioni del ducato di Milano;
e l'altra dalla parte del sacro collegio, a cui ben si conosceva che
non potrebbe piacere questo tal quale smembramento di due nobili ed
insigni città dalla camera pontificia. Fece il papa esporre questo
disegno a Cesare, per ottenerne l'approvazione; ma ritrovò chi sapea
ben di scherma, e sotto belle parole covava sentimenti diversi. Carlo
non disapprovò apertamente l'atto meditato, ma neppur l'approvò, come
quegli che vedeva il papa disporre sì francamente di uno Stato che
i suoi ministri gli rappresentavano occupato indebitamente da Giulio
II e da Leone X, e parte del ducato milanese, giacchè insussistente
pretensione era quella di spacciar Parma e Piacenza per città
dell'esarcato. Oltracciò, mirava l'imperadore di mal occhio Pier-Luigi,
e mal soffriva che piuttosto a lui, che ad Ottavio suo genero, si
facesse un sì ragguardevol dono. Cesare Campana all'incontro, e forse
con più fondamento, sostiene che non ne fu precedentemente fatta
parola all'Augusto Carlo. Comunque sia, bastò al papa, per proseguire
innanzi in questo affare, il non aver riportata una assoluta negativa
da Cesare. Affin di ottenere il consenso de' cardinali, propose di
restituire alla camera apostolica il ducato di Camerino e Nepi, facendo
conoscere l'evidente guadagno che ad essa risultava dal permutare que'
due paesi con Parma e Piacenza, perchè costava di molto il mantenimento
di queste città, siccome separate dagli Stati della Chiesa, e in
pericolo d'essere assorbite dai vicini; laddove le rendite di Camerino,
senza spese, unite al censo annuo di nove mila ducati d'oro (altri
dicono di più) che si voleva imporre alle suddette due città, avrebbono
fatto maggior pro all'erario papale. Tralascio altri raggiri ed altre
speciose ragioni che furono adoperate per indorar questa pillola.
Chi de' cardinali ambiva più di piacere al papa, che di soddisfare
a' suoi doveri, non solamente prestò il suo assenso, ma caldamente
perorò in approvazion di questa permuta. Ma non mancarono altri di
petto più forte che arringarono contro i voleri del papa, rilevando
gli svantaggi che ne provenivano; e tanto più si sarebbero opposti,
se avessero potuto preveder gli sconcerti che da lì a non molto per
tal cagione accaddero, e i maggiori che ai dì nostri son succeduti.
Lo stesso cardinal Pallavicino, tuttochè sì impegnato a sostener la
gloria di questo pontefice, qui l'abbandona, piuttosto impugnando che
difedendo la di lui risoluzione. In somma nel concistoro de' porporati,
dove per lo più suol prevalere la tema riverenziale verso chi può tanto
favorire o disfavorire, la vinse il pontefice, e _Pier-Luigi Farnese_
nell'agosto di quest'anno fu dichiarato duca di Parma e Piacenza, nè
tardò egli punto a prenderne il possesso.
Tanto in Lombardia che nella Lunigiana e Toscana si provò in quest'anno
un grande flagello, per le soldatesche cassate dopo la pace nello
Stato di Milano. Non sapendo coloro come vivere (ed erano la maggior
parte Spagnuoli), in varie truppe si scaricarono sopra gli Stati della
Chiesa e del duca di Ferrara. Cacciati di là, si ridussero addosso
ai marchesi Malaspina nella Lunigiana, svaligiando case e consumando
tutto, dovunque giugnevano. Passarono dipoi sul Lucchese, e finalmente
s'andarono a posar sul Sanese, dove per molti mesi levarono il pelo e
il contrappelo a quel contado. Guai se qualche accreditato capitano
si fosse messo alla lor testa: sarebbono corse ad ingrassar quelle
brigate migliaia di soldati italiani, tornati a digiunare alle lor
case, e sarebbe rinata una di quelle formidabili compagne o compagnie
di masnadieri che vedemmo in Italia nel secolo decimoquarto. Sorsero
in questi tempi strepitose brighe nella stessa Siena, città in cui la
discordia non fu mai cosa forestiera. Don Giovanni di Luna, che quivi
era da parte dell'imperadore, invece di smorzare il fuoco, per la sua
poca prudenza maggiormente lo accrebbe. Ne seguì infine una fiera
sedizion civile, per cui lo stesso don Giovanni cogli Spagnuoli fu
obbligato ad andarsene con Dio. Mancò di vita in quest'anno a dì 11 di
novembre _Pietro Lando_ doge di Venezia, e in suo luogo fu eletto nel
dì 24 d'esso mese _Francesco Donato_, già procurator di San Marco, e
persona di gran saviezza e dottrina.
Anno di CRISTO MDXLVI. Indizione IV.
PAOLO III papa 13.
CARLO V imperadore 28.
Poche novità l'Italia somministrò in quest'anno alla storia a cagion
della pace che si godeva dappertutto. Era stato fin qui governatore
e capitan generale dello Stato di Milano _Alfonso d'Avalos_ marchese
di Pescara, personaggio egualmente rinomato pel suo valore che per
altre sue belle doti ed azioni. Ma non erano già soddisfatti del suo
governo i popoli, perchè caricati di molti aggravii, e di tanto in
tanto costretti a soffrir non poche violenze: il perchè ne andarono
varie doglianze alla corte dell'imperadore. Non avrebbono forse queste
fatto breccia nell'animo dell'Augusto sovrano, se ad esse non si fosse
aggiunto l'accusa che le rendite di quel ducato non si sapea in quali
borse andassero a terminare. Ossia, che di ciò informato il marchese
ottenesse nel precedente anno licenza di passare alla corte cesarea,
oppure che fosse chiamato colà: certo è, ch'egli vi andò, e poi se
ne tornò in Italia malcontento, stante l'ordine di Cesare, che gli
rivedessero i conti. Ma venne la morte a liberarlo da ogni vessazione
nell'ultimo giorno di marzo, mentre egli si trovava in Vigevano, con
lasciar dopo di sè il nome di capitano molto illustre. Al governo di
Milano fu susseguentemente destinato _don Ferrante Gonzaga_, che non
tardò a venir di Sicilia, dove egli era stato vicerè, per prendere il
possesso della novella carica; e ciò con soddisfazione de' Milanesi,
lusingandosi i più d'essi di godere miglior trattamento sotto di lui.
Ma andarono falliti i loro conti; perchè, siccome osserva il Segni,
l'imperadore lasciava la briglia sul collo a' governatori delle
provincia, comportando ogni lor fallo, purchè fossero fedeli. E però
si cangiò bensì il governator di Milano, ma peggiorò la mala sorte de'
Milanesi, le querele dei quali niuna impression fecero da lì innanzi
nell'animo di Carlo V. Seguitava intanto la guerra fra i re di Francia
e d'Inghilterra. Finalmente, conoscendo l'ultimo di essi qual impegno
di spese portasse il voler sostenere contro dei Franzesi l'occupata
città di Bologna di qua dal mare: diede orecchio a' trattati di pace,
di cui gran voglia nello stesso tempo avea il _re Francesco_. Fu
questa conchiusa nel dì 7 di giugno dell'anno presente, con obbligarsi
il re Cristianissimo di pagare all'Inglese in termine di otto anni
più di due milioni di scudi di oro: sborsati i quali, se gli dovea
restituire Bologna di Piccardia. Dimorava l'imperadore in questi tempi
in Germania, mal soffrendo la lega formata in Smalcaldia dai principi
e comuni protestanti; perciocchè questa, sebben sembrava unicamente
fatta per mantenere la falsa religione introdotta da Lutero (che
appunto in quest'anno nel dì 7 di febbraio per improvvisa morte tolto
fu dal mondo) pure covava nell'interno de' maggiori disegni contro la
potenza dell'imperadore. Capi d'essa luterana lega erano _Gian-Federigo
duca_ ed elettor di Sassonia, e _Filippo langravio_ d'Assia. Perciò
l'_Augusto Carlo_ giudicò di non dover più differire il farsi rendere
ragione di questo attentato, con darsi ad ammassare un potente
esercito. Perchè appunto anche gl'Italiani ebbero parte in quella
danza, sarà a me permesso dirne qualche cosa.
Si studiò l'imperadore in questa occasione di trarre seco in lega
il _pontefice Paolo_. S'era questi con sua gran lode, siccome padre
comune, astenuto in addietro da ogni parzialità e lega nelle guerre
fra i monarchi cattolici. Ora che si trattava di procurar vantaggi
alla vera religione, volentieri acconsentì ad unirsi coll'imperadore.
Nel dì 22 di giugno si pubblicarono i capitoli d'essa lega, per cui
il papa s'impegnò d'inviare in soccorso dell'imperadore dodici mila
fanti e cinquecento cavalli, e di fornire nello spazio di un mese
ducento mila scudi d'oro. Sollecitamente fece il pontefice questo
armamento, con dichiararne generale il _duca Ottavio Farnese_ suo
nipote, e legato il _cardinal Farnese_ suo parimente nipote. Comandante
della cavalleria italiana fu _Giam-Batista Savello_, della fanteria
_Alessandro Vitelli_, e sotto d'essi militavano assai colonnelli
e capitani italiani di molto credito nell'armi. Anche i duchi di
Ferrara e di Firenze vi spedirono colà delle schiere armate, e più
di cinquecento nobili italiani volontarii concorsero a far quella
campagna. Trasse ancora l'imperador Carlo altra gente d'Italia,
comandata da _Carlo di Lanoia_ principe di Sulmona, e da _Emmanuele
Filiberto_ principe di Piemonte. Erano eziandio nell'armata del
medesimo Augusto generale dell'artiglieria _Gian-Giacomo de Medici_
marchese di Marignano, e consiglieri di guerra _don Francesco d'Este,
Pirro Colonna e Giam-Battista Gastaldo_. Ma perciocchè lentamente
procedeva l'unione dell'esercito imperiale, dovendo venir dai Paesi
Bassi, dall'Italia e da altri luoghi molti d'esse soldatesche;
l'elettore e il langravio, già messi al bando dell'imperio, più
sollecitamente uscirono in campagna con un'armata, che alcuni, forse
ampollosi, fanno ascendere ad ottanta mila fanti e a dieci, anzi a
quindici mila cavalli, e s'inviarono verso Ratisbona, dove stava assai
sprovvisto l'imperadore, con disegno o di farlo prigione o di cacciarlo
di Germania. La protezion di Dio salvò Carlo V in tal congiuntura,
non avendo que' ribelli saputo prevalersi del vento in poppa. Nulla
servì loro l'aver prese le chiuse del Tirolo, affinchè non passassero
gl'Italiani. Questi passarono, e nulla giovò ai luterani l'essersi
impadroniti di Donavert. Ebbe tempo l'imperadore di provveder Ratisbona
con gagliardo presidio, e di preoccupar la forte città d'Ingolstad,
dove coll'esercito suo, ingrossato di molto, andò ad accamparsi a
fronte della contraria superiore armata, ma senza voler mai venire a
battaglia, benchè più volte provocato dagli orgogliosi nemici. Intanto
al campo cesareo, superate molte difficoltà, venne a congiugnersi un
grosso corpo di soldatesche fiamminghe. _Maurizio_ cattolico _duca di
Sassonia_, nemico di quell'elettore, colle milizie tedesche ed unghere,
dategli da _Ferdinando re dei Romani_, ostilmente entrò nell'elettorato
di Sassonia. Diede più percosse a quei popoli, e s'impossessò di un
tratto grande di quel paese. Questo colpo, la mancanza de' viveri e la
costanza dell'Augusto Carlo, costrinse l'armata protestante sul fine di
novembre a levare il campo, e a ritirarsi alla sordina come in rotta.
Allora fu che l'imperadore, tuttochè afflitto da varii incomodi di
sanità, inoltratosi col poderoso suo esercito, tal terrore indusse nel
paese nemico, che vide venire, prima che terminasse l'anno, oppure nel
verno seguente, supplichevoli a' suoi piedi _Federigo conte Palatino,
Ulderico duca_ di Vitemberg, e i cittadini d'Ulma, d'Augusta, di
Francoforte, di Argentina e di altri luoghi. Dopo questi vantaggi,
pei quali rimasero molto infievoliti l'elettor sassone e il langravio
d'Assia, si ritirò esso Augusto a' quartieri d'inverno, seco riportando
gloria singolare non men di valore che di clemenza, per non aver
negato il perdono a chiunque davanti a lui si umiliò. Fu continuato
con vigore in quest'anno il concilio di Trento, ed ivi si stabilirono
varii punti di domma, e parimente si attese a riformar gli abusi della
disciplina ecclesiastica. Mancarono in quest'anno di vita due insigni
cardinali, la memoria de' quali può sperare l'immortalità, cioè _Pietro
Bembo_ Veneziano, e _Jacopo Sadoleto_ Modenese, che negli scritti loro
lasciarono ai posteri chiare testimonianze d'un raro ingegno e sapere.
Anno di CRISTO MDXLVII. Indiz. V.
PAOLO III papa 14.
CARLO V imperadore 29.
Con una strepitosa scena in Genova si diede principio all'anno
presente[448]. Dacchè fu rimessa in quella potente città per cura
filiale di _Andrea Doria_ la libertà, e riserbato quasi tutto ai nobili
il governo d'essa, quivi si godeva un'invidiabil pace e tranquillità.
Ma era gran tempo che _Gian-Luigi de' Fieschi_, conte di Lavagna e
signore di molte castella, siccome giovane di grand'animo e di pensieri
turbolenti, andava macchinando novità in pregiudizio delle patria sua,
con essere fin giunto a desiderar e sperare di acquistarne la signoria,
o piuttosto di ridurla sotto il comando del re di Francia. Mirava
egli con occhio di livore e con occulta rabbia lo stato e la fortuna
del suddetto Andrea Doria, parendogli che sotto nome di libertà egli
facesse da padrone in Genova, e che l'imperadore coll'essere dichiarato
protettore della città, e col tenere al suo soldo esso Doria, anche
più del Doria quivi signoreggiasse. Soprattutto gli stava sul cuore,
come pungente spina, Giannettino Doria, nipote ed occhio dritto
d'esso Andrea, che forse non cedeva a suo zio nella scienza dell'arte
nautica militare; e benchè giovane, già s'era acquistato gran grido
in varie azioni di valore, perchè in lui considerava un successore
nell'odiata autorità e dignità di Andrea; e tanto più perchè in lui
abbondava l'alterigia, cioè il potente segreto per farsi odiare. Dopo
aver dunque Gian-Luigi in molto tempo, e con intelligenza dei ministri
franzesi e di _Pier-Luigi duca_ di Piacenza e Parma, segretamente
introdotte in Genova alcune centinaia de' più arditi uomini delle sue
castella, scelse la notte precedente al dì 2 di gennaio di quest'anno
per effettuare il suo perverso disegno. Chiamati seco a scena molti
de' suoi amici nobili popolari, e svelata ad essi l'intenzion sua,
gli ebbe quasi tutti seguaci all'impresa. Uscì egli poscia alle dieci
ore della notte colla gente armata, e non tardò ad impadronirsi della
porta dell'Arco, con ispedire dipoi Girolamo ed Ottobuono suoi fratelli
a far lo stesso di quella di San Tommaso. Era la principal sua mira
di occupar la darsena, e di ridurre in suo potere le venti galee di
Andrea Doria; e gli venne fatto, ma con risvegliarsi allora un gran
tumulto e strepito di voci de' remiganti e marinari che in esse si
trovavano. Nello stesso tempo gli altri si fecero colla forza padroni
della suddetta porta di San Tommaso, divisando appresso di quindi
passare al palazzo dello stesso Andrea Doria, posto fuori della città,
per quivi uccidere lui e Giannettino. Ma intanto, svegliato dallo
strepitoso rumor della darsena esso Giannettino, credendo nata rissa o
sollevazione fra i galeotti, vestitosi in fretta, con un sol famiglio,
che gli portava innanzi la torcia, venne alla porta di San Tommaso, e
imperiosamente chiesto d'entrare, per sua mala ventura v'entrò, perchè
immantenente fu da' congiurati con più colpi steso morto a terra.
Maraviglia fu che non corressero dippoi al palazzo di Andrea Doria, per
levare anche a lui la vita. Stava egli in letto, stanco sotto il peso
di ottanta anni, e maltrattato dalle gotte, quando gli venne avviso,
che la città era sossopra, e udirsi gridare: _Libertà e Fieschi_,
perchè molti della vil plebe s'erano uniti coi congiurati per isperanza
di dare il sacco alle case de' nobili. Però, come potè, posto sopra una
mula si sottrasse al pericolo, ritirandosi alla Masone, castello degli
Spinoli.
Poco parea che mancasse al compimento dell'opera, nè altro si
aspettava, se non che Gian-Luigi tornasse per insignorirsi del palazzo
pubblico. Ma Gian-Luigi era sparito per una di quelle vicende che
non di rado sconcertano le misure anche de' più saggi. Nel voler
egli passare sopra una tavola alla capitana delle galee, questa si
mosse, ed egli, siccome armato di tutto punto, piombando nell'acqua,
nè potendo sorgere, quivi lasciò miseramente la vita. Per questo
accidente s'invilirono tutti i suoi, e venuta in chiaro la morte sua,
quel senato ripigliò coraggio; e quantunque Girolamo fratello dello
estinto continuasse a fare il bravo, pure sul far del giorno si trovò
abbandonato dalla plebaglia, di maniera che ebbe per grazia di potersi
ritirare a Montobbio, dove attese a fortificarsi: con che tornò la
quiete in Genova. Cagion fu questa effimera rivoluzione che trecento
schiavi turchi, presa una galea del Doria, su quella si salvarono in
Africa. Fuggirono ancora tutti i forzati, dopo aver dato il sacco
a tutti gli armamenti ed arredi delle galee. Furono poi confiscate
tutte le castella di Gian-Luigi, diroccato il magnifico suo palazzo;
Girolamo suo fratello ed altri congiurati presi in Montobbio condannati
all'ultimo supplizio. Gran rumore fece per l'Italia questo fatto.
Chiara cosa fu che i ministri di Francia aveano tenuta mano a questa
congiura, e comunemente si credette che Pier-Luigi Farnese per varii
suoi dissapori e motivi politici fosse in ciò d'accordo col Fieschi,
con avergli anche promesso degli aiuti. Alessandro Sardi[449], allora
vivente, attesta che _Renca di Francia duchessa di Ferrara_, senza
consenso del _duca Ercole II_ suo marito, siccome cognata del re
Francesco, fu partecipe di questo maneggio, e per mezzo del duca di
Piacenza e Parma avea promesso al Fiesco di mandargli i Franzesi che
la servivano. E perciocchè non si sapea credere che Pier-Luigi, senza
che _papa Paolo_ suo padre fosse consapevole ed approvatore del fatto,
avesse dato braccio alla congiura; a tanto più perchè fra esso papa
ed _Andrea Doria_ erano dianzi seguite non poche amarezze, perciò non
si potè cavar di testa ai sospettosi imperiali che anche lo stesso
pontefice in quella tresca si fosse meschiato, benchè niuna concludente
pruova ne potessero mai trovare.
Nel dì 28 dello stesso gennaio del presente anno diede fine alla
carriera del suo vivere _Arrigo VIII re_ d'Inghilterra, con lasciar
erede il figlio _Odoardo_ di età di soli nove anni, e il nome suo in
obbrobrio presso tutta la posterità, per aver governati i suoi popoli
più da tiranno che da re, con tanti aggravii loro imposti, con tanta
crudeltà esercitata verso le maggiori e più illustri persone del regno,
con tante scene della sfrenata sua libidine, e massimamente per essere
divenuto traditore e persecutor della Chiesa cattolica, dopo aver
conseguito il glorioso titolo di difensore della medesima Poco stette
a pagar lo stesso tributo alla natura _Francesco I re_ di Francia in
età di cinquantatrè anni, essendo accaduta la sua morte nel di 31 di
marzo. La sua intemperanza ne' piaceri carnali, avendogli cagionata
una pericolosa fistola nella bassa parte deretana, gli abbreviò la
vita: principe peraltro ornato di belle doti, amante delle scienze
e de' professori di esse, padre e restitutor delle lettere nella sua
nazione. Ad _Arrigo II_ suo primogenito, che a lui succedette, secondo
l'esempio d'altri monarchi, i quali solamente imparano a viver bene
quando s'ha da abbandonare la vita presente, lasciò per ricordo,
essere cosa da saggio figliuolo l'imitar le virtù, e non già i vizii
del padre. Specialmente ancora gli raccomandò di non aggravar di
soverchio i popoli colle contribuzioni: dal che egli non s'era giammai
guardato, per appagar l'ambizione sua e l'odio conceputo contro di
Carlo imperadore, odio ch'egli forse portò al sepolcro, giacchè prima
di morire avea mandati ducento mila scudi a _Gian-Federigo Sassone_
e al _langravio assiano_, nemici o ribelli d'esso Cesare. Se questa
passione per memoria della prigionia sofferta in Ispagna, e per ragione
ancora di Stato, l'ereditasse eziandio Arrigo II suo figlio, giovane di
spiriti molto guerrieri, staremo poco ad avvedercene. Intanto solenni
funerali fece egli al defunto padre, e con ogni sorta di feste si vide
celebrato l'ingresso suo in Parigi con _Caterina de Medici_, divenuta
ormai regina di Francia. Quanto agli affari di Cesare in Germania,
brevemente dirò, che rinforzato di gente _Gian-Federigo duca_ di
Sassonia, di buona ora spinse le sue armi contra del _duca Maurizio_,
padrone allora di Lipsia e di Dresda; e il mise a mal partito; perlochè
avendo esso Maurizio fatte replicate istanze d'aiuto all'imperadore,
questi, benchè infermo per la podagra, fu forzato ad uscire in campagna
per tagliare il corso a maggiori progressi di Gian-Federigo, al quale
riuscì in questi tempi di muovere a ribellione la Boemia contra del _re
Ferdinando_ signore di quel regno, e di dare una rotta ad _Alberto_,
uno de' _marchesi di Brandeburgo_. Alla armata cesarea comandava in
capo il _duca di Alvo_. Perchè Giovachino marchese di Brandeburgo
ed elettore abbracciò in questi tempi il partito dello imperadore,
maggiormente si animò esso duca a proseguir la marcia contro del
Sassone verso la metà di aprile. Mirabile poi e sopra modo ardita fu
l'azion degli Spagnuoli, che trovando le opposte rive dell'Elba, fiume
grossissimo, di gente e di artiglierie guernite da Gian-Federigo, pure
passarono; e, cacciati i nemici, diedero campo all'esercito imperiale
di formar un ponte e di trasferirsi di là. Ritiravasi il Sassone in
ordinanza colle sue truppe, ma inseguito dalla cavalleria cesarea,
suo malgrado, si preparò alla battaglia. Fu questa ben calda nel dì
24 d'aprile, ma infine andarono in rotta le genti del Sassone, ed
egli, fatto prigione dal conte Ippolito Porto da Vicenza, fu condotto
davanti all'imperadore, che gli rimproverò l'alterigia sua in trattar
dianzi lui solamente col titolo di _Carlo di Gante, che si fa nominar
l'imperadore_. Reo di morte venne da lì a qualche tempo giudicato
Gian-Federigo; tante nondimeno preghiere dei principi s'interposero,
implorando la clemenza di Cesare, ch'egli, mosso ancora dal desiderio
di cavar dalle mani degli uffiziali di Gian-Federigo le due fortezze
di Vittemberga e Gotta, s'indusse a donargli la vita, con patto che
rinunziasse l'elettorato a Cesare, e i suoi Stati (a riserva di una
porzione, cioè della Turingia) al duca Maurizio. Restò egli, ciò non
ostante, come prigione presso l'imperadore. Per la depressione di
questo primo campione della lega protestante, anche _Filippo langravio
d Assia_ trattò per mezzo di varii intercessori, e specialmente del
suddetto duca Maurizio, di tornare in grazia dell'Augusto Carlo.
Con varie condizioni questa gli fu accordata; ma, presentatosi egli
ai piedi del vittorioso monarca, si vide ritenuto prigione; la qual
durezza costò poscia ben caro al troppo severo monarca.
Si studiò nell'anno presente, per ordine del medesimo Augusto, e a
persuasione del _cardinale Teatino_ di casa Caraffa arcivescovo, _don
Pietro di Toledo_ vicerè di Napoli d'introdurre in quella metropoli e
regno il tribunale dell'inquisizione[450]; al che troppo abborrimento
avea mostrato sempre il popolo napoletano, e massimamente la nobiltà,
che giudicava d'essere tolta con tal novità di mira dal vicerè,
mostratosi in tante altre occasioni suo poco amorevole, per non dir
nemico, affin di gastigare sotto l'ombra della religione chi non era
in sua grazia. A' tempi ancora di Ferdinando il Cattolico tentata fu
la introduzion del medesimo tribunale. Il timor di una sollevazione,
e l'aver fra le altre ragioni rappresentato i Napoletani, che essendo
troppo familiari in quella nazione i giuramenti falsi, niun più sarebbe
da lì innanzi stato sicuro dell'onore e della vita, fece desistere
lo accorto re da sì pericolosa impresa. Ma, persistendo il Toledo in
questo proposito, e nulla curando i privilegii di quella regal città,
finalmente nel di 16 di maggio si mise in armi il popolo con alquanti
- Parts
- Annali d'Italia, vol. 6 - 01
- Annali d'Italia, vol. 6 - 02
- Annali d'Italia, vol. 6 - 03
- Annali d'Italia, vol. 6 - 04
- Annali d'Italia, vol. 6 - 05
- Annali d'Italia, vol. 6 - 06
- Annali d'Italia, vol. 6 - 07
- Annali d'Italia, vol. 6 - 08
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