Annali d'Italia, vol. 6 - 36

Pier-Luigi cominciò ad abbellirlo con porte, piazze, palagi, strade
e case, facendovi concorrere abitatori ed artefici. Col tempo ancora
v'aggiunse le fortificazioni, tantochè lo ridusse in forma di città,
ampliandone il distretto colla compera di varie circonvicine castella.
Accadde in quest'anno la violenta morte di _Alessandro de Medici_
duca di Firenze. Chi desidera una esatta e diffusa notizia di
questa tragedia, ha da ricorrere alle storie che ne trattano _ex
professo_[426]. Basterà a me di dire che Alessandro, il quale fu
figliuol naturale di _Lorenzo de Medici_ il giovine, duca d'Urbino, e
chi dice d'una schiava, e chi d'una vil contadinella di Collevecchio,
benchè, (al mirare il tanto amore per lui di papa Clemente VII, la
malignità di taluno immaginasse ch'egli dovesse i suoi natali a Giulio
de Medici, che poi creato papa assunse il suddetto nome di Clemente),
non mancò di vivacità d'ingegno e di attitudine per ben governare
Firenze, dacchè era stato portato dalla forza del pontefice zio e
dell'Augusto Carlo ad esser capo di quella repubblica, e poi principe
assoluto. Ma ogni sua buona dote era guasta dalla smoderata libidine,
confessando ognuno che per isfogarla non perdonava a grado alcuno di
donne, e neppur alle sacre vergini; ed uscendo bene spesso la notte
per disonesti fini, più d'una volta fu in pericolo della vita. Nè da
questa vituperosa maniera di vivere potè mai ritirarlo papa Clemente,
per quante lettere ed ammonizioni gl'inviasse. Peggiorò molto più dopo
la morte d'esso pontefice, nè giovò punto a rimetterlo sulla buona
via l'aver egli ottenuta in moglie una figlia dell'imperadore, per cui
non mostrò mai grande amore nè stima, perchè troppo perduto in cercar
sempre novità d'oggetti alla sfrenata sua disonestà. Malcontenta di lui
era la maggior parte de' Fiorentini, siccome coloro che miravano in lui
un tiranno ed un oppressore della lor libertà, e che per sostenere con
sicurezza il suo imperio, avea spinto in esilio tante onorate famiglie.
Che se alcuno sparlava, ne pagava ben tosto il fio. Pure da questo
universal odio non venne la sua rovina, avendovi posto riparo colla
forte guardia di milizie, ch'egli teneva in città e al corpo suo, sotto
il comando di _Alessandro Vitelli_; venne da quel medesimo vizio, di
cui parlammo, che toglie talvolta di senno anche i più accorti.
S'era il duca affratellato non poco con _Lorenzo de Medici_,
discendente da _Lorenzo_, fratello di _Cosimo il Magnifico_, e però suo
parente alla lontana: quel medesimo Lorenzo, contra di cui Francesco
Maria Molza, celebre ingegno modenese, scrisse una invettiva latina,
per aver costui deformati in Roma alcuni bei frammenti delle antichità
romane. Vedesi il suo vivo ritratto, formato dalla tagliente penna del
Varchi, dal Segni e dal Giovio. Non era costui che iniquità; e queste
da gran tempo meditava di coronare con una, che facesse grande strepito
nel mondo. Adulatore divenuto d'Alessandro, e stretto suo famigliare
principalmente s'era introdotto nella di lui grazia, con servirlo non
solo di spia, ma ancora come sperto ruffiano presso qualunque donna che
gli cadesse in pensiero. Andò tanto avanti questa sordida dimestichezza
fra loro, che Alessandro il richiese di ridurre alle sue voglie una
sorella della di lui madre, giovane non men pudica, che bella. Finse
Lorenzino d'aver vinta la di lei costanza, e di farla venire una
notte nella propria casa, dove si esibì di trovarsi anche il duca.
Infatti colà si portò l'incauto Alessandro soletto, e nella camera
di Lorenzo si coricò in letto, aspettando il dolce momento di cui era
intenzionato. Ma trovò quel che non si aspettava. Entrato Lorenzino,
e seco un suo sgherro, gli furono addosso; e quantunque Alessandro,
giovane robusto, facesse gran difesa, pure a forza di coltellate, e con
segargli infine la gola, lo stesero morto sul letto, tutto immerso nel
proprio sangue. Il tempo, in cui seguì sì strepitoso omicidio, se lo
chiediamo al Varchi, egli risponde: _Tra le cinque e le sei del sabbato
che precedette la Befania, il sesto giorno di gennaio (secondo il
costume dei Fiorentini, i quali pigliano il giorno, tostochè il giorno
è ito sotto) dell'anno MDXXXVI_. Parla alla forma de' Fiorentini, che
mutavano l'anno solamente nel dì 25 di marzo, e presso loro perciò
durava il 1536. Venne l'Epifania in quest'anno in sabato, e le parole
del Varchi, che sembrano alquanto intricate, se io le so ben intendere,
significano ucciso Alessandro, secondo noi, nella notte precedente al
dì sesto di gennaio. All'incontro il Giovio scrive: _Ea nocte, quae
januaries nonas antecessit_; cioè nella notte innanzi il dì quinto
d'esso mese. Nella sua Storia volgarizzata, non so come, è scritto:
_Quella notte che fu innanzi a' 6 di gennaio_: il che non corrisponde
al latino. Ma il Segni chiaramente riferisce, aver il duca _consumato
il giorno intero sei di gennaio, festa della Befania, in maschera, ed
essere poi stato ucciso la seguente notte_. Eppure il medesimo scrive
dipoi, che scoperta dai rettori la morte del duca, ordinarono che
quel giorno, che era il dì della _Epifania_, si fingesse letizia. Come
mai tanta discordia? Quanto all'Adriani, egli fa accaduta la morte di
Alessandro _la notte appresso il dì sesto di gennaio, celebrato per
la festa dell'Epifania_. Più strano è il linguaggio dell'Ammirati, che
così scrive: _Era entrato l'anno 1537 di sei giorni, giorno celebre per
la solennità della presentazion del Signore al tempio, quando Lorenzo
fece intendere al duca, che nella notte seguente condurrebbe_, ec. Ecco
cosa fosse l'Epifania in mente di questo storico. Mi si perdoni questa
diceria, da cui non ho saputo dispensarmi, acciocchè s'intenda sempre
più che nelle minutaglie della cronologia anche i più accreditati
storici prendono degli sbagli.
Ebbe tanta industria e fortuna l'omicida Lorenzino, che col suo sicario
potè la stessa notte uscir di città, e salvarsi a Venezia, da dove poi
_Filippo Strozzi_ il fece ritirare alla Mirandola. Aveva egli chiuso
in sua camera l'ucciso duca; nè trovandosi la seguente mattina nel
suo palazzo il misero principe, e cercato indarno per varii siti dai
ministri suoi e dal _cardinal Cibò_, che si trovava allora in Firenze,
s'andò subodorando, e infine scoprendo la sua disavventura, la quale
fu ben tenuta segreta, finchè arrivasse a Firenze _Alessandro Vitelli_
capitano delle milizie ducali, e s'introducessero nella città molte
brigate di fanti del Muggello. Questa precauzione tenne in dovere il
popolo, che non seguisse sollevazione alcuna, come aveano sperato
tanto Lorenzino che i fuorusciti fiorentini, sempre vogliosi di
rimettere in libertà la patria. Oltre di che, al popolo erano già state
tolte l'armi. Si tennero poi varie pratiche e consigli dal suddetto
cardinal Cibò, dal Vitelli e dal magistrato maggiore, dove si trovò
gran discrepanza di sentimenti. Ma ossia che _Cosimo_ figlio del fu
sì valoroso _Giovanni de Medici_, discendente anch'egli al pari del
micidiario Lorenzino da _Lorenzo_ fratello di _Cosimo il Magnifico_,
trovandosi allora in villa, tratto dal rumore della morte del duca,
spontaneamente tornasse in città; oppure ch'egli vi fosse chiamato
dal cardinale e dai parziali della casa de' Medici: fuor di dubbio è
ch'egli venne, e si presentò ad esso cardinale Cibò, il quale o prima
o dipoi prese la protezione di lui, per farlo succedere all'estinto
Alessandro. Giovinetto avvenente di diciotto anni era allora Cosimo;
superiore all'età sua era il senno e il coraggio suo. I pregi della
pietà e della modestia, e del farsi amare ne accrescevano il merito.
Militava ancora in favore di Cosimo il decreto ossia l'investitura
_Carlo V_; e quello che soprattutto accelerò le risoluzioni fu il
timore che l'armi di Cesare venissero a insignorirsi della città.
Laonde cotanto si maneggiò il menzionato cardinale coi bene affetti
e co' senatori più saggi, che senza far caso di un bastardo per nome
_Giulio_, lasciato dal _duca Alessandro_, perchè di soli tre anni,
elessero il suddetto giovane Cosimo, con titolo non già di duca,
ma di capo e governatore della repubblica fiorentina, con assegno
di dodici mila fiorini d'oro l'anno e con limitazioni al precedente
governo. Accettò Cosimo ogni condizione a mani baciate, ben prevedendo
che col tempo avrebbe da prendere legge chi ora a lui la dava.
Per l'allegrezza fu poi svaligiato dai soldati il suo palazzo, e
per vendetta saccheggiato quello di Lorenzino. Per non tornare più
a costui, il quale, come apparisce da una lettera a M. Paolo del
Tosso[427], e dal Varchi, venne fregiato dai fuorusciti fiorentini
col titolo di _Bruto novello Toscano_, dirò che in Firenze fu poi
smantellato il suo palazzo, facendovi passare per mezzo una strada
appellata _del traditore_; fu promessa gran taglia a chi il desse vivo
o l'uccidesse; e dipinta la sua effigie pendente dalla forca. Andò poi
egli in Turchia; tornò a Venezia, e di là passò in Francia; finalmente
ritornato a Venezia senza rumore fu privato di vita nel 1547.
Succederono poscia varie altre scene in Firenze e per la Toscana, che
lungo sarebbe il voler riferire. Solamente aggiungerò che _Alessandro
Vitello_ s'impadronì con inganno della fortezza di Firenze, e se ne
fece bello coll'imperadore, scrivendogli di tenerla a nome e volere
della maestà sua. Si meritò egli per questo il nome di traditore. In
gran moto si misero dipoi i cardinali e fuorusciti fiorentini per
guastare la risoluzione presa in favore di _Cosimo de Medici_. Ma
andarono a vuoto i loro per altro deboli tentativi e disegni, e molti
d'essi, fra' quali _Filippo Strozzi_ lor capo, furono condotti prigioni
a Firenze, e col tempo anche decapitati, fuorchè il suddetto Filippo,
che poi nell'anno seguente si trovò morto in prigione, con far correr
voce che si fosse ucciso da sè stesso.
Seguitò nel presente anno la guerra in Piemonte fra gl'Imperiali e
Franzesi. In uno stato compassionevole si trovava ben allora _Carlo III
duca_ di Savoia, dacchè avea nemici i Franzesi, e gl'imperiali amici
bensì, ma senza gagliarde forze, e intanto si desolava tutto il suo
paese, ora in mano degli uni, ed ora degli altri cadendo le sue terre
e castella. Andò il _marchese del Vasto_ all'assedio di Carmagnola con
_Francesco marchese di Saluzzo_, che, colpito d'una archibusata, ivi
lasciò la vita. Essendo sul principio di giugno arrivato di Francia
a Pinerolo il _signor d'Umieres_ con alcune migliaia di Tedeschi,
il Vasto si ritirò ad Asti, città poscia indarno assediata dai
Franzesi[428]. Venne bensì Alba con altri luoghi in lor potere; ma non
tardarono gli Imperiali a ricuperarli, e a prendere Chieri e Chierasco.
Rinforzato poi l'esercito cesareo da molte truppe venute di Germania,
forse avrebbe tentato cose maggiori; ma, d'ordine del re di Francia,
nel principio d'ottobre si mosse di Lione _Arrigo delfino_ di Francia
con _Anna di Memoransì_ gran contestabile, e con una buona armata, e
giunto a Susa, se ne impadronì, siccome ancora d'altri luoghi ch'io
tralascio. Venne lo stesso _re Francesco_ in Piemonte; e perciocchè
fu in questi tempi fatta una tregua di tre mesi, conchiusa nel dì 16
di novembre dell'anno presente, e rapportata dal Du-Mont[429], per
tentare, se possibil era, d'intavolar la pace, si posarono l'armi;
e portossi il marchese del Vasto a baciar le mani al re di Francia,
dimorante in Carmagnola. E qui non si dee tacere un fatto di esso re,
confessato dallo stesso Belcaire, e sommamente detestato dallo Spondano
storico anch'esso franzese, per cui resterà sempre denigrata la fama
di chi nei titoli Cristianissimo, tutt'altro ne' fatti si diede a
conoscere. Cioè cotanto era infiammato d'odio esso _re Francesco I_
contra dello _Augusto Carlo V_, che in quest'anno spedì suoi oratori
a Solimano gran signore dei Turchi, per incitarlo a muovere guerra
in Italia. E volesse Dio che questo solo esempio avesse dato la corte
di Francia del suo attaccamento al Turco in danno della cristianità.
Presero i Turchi Castro in Puglia, distante otto miglia da Otranto,
e cominciarono colle scorrerie ad infestar tutto quel paese. Cagion
poi fu la tregua suddetta che i Turchi si ritirassero di là, dopo
avere riempiuta di terrore tutta l'Italia, menando nondimeno seco una
gran copia d'infelici cristiani in ischiavitù. Intanto si cominciò
a maneggiar una lega fra il _papa_, l'_imperadore_ e i _Veneziani_,
per resistere al comune nemico, giacchè egli potentissimo per terra e
per mare avea già cominciata guerra contro la repubblica veneta, con
un lagrimevol sacco all'isola di Corfù, ed in Ungheria avea inferiti
gravissimi danni a quella cristianità.

NOTE:
[426] Varchi. Segni. Adriani. Jovius.
[427] Lettere de' Principi, tom. 3.
[428] Belcaire. Giovio. Segni. Spondano.
[429] Du-Mont, Corps Diplomat.


Anno di CRISTO MDXXXVIII. Indiz. XI.
PAOLO III papa 5.
CARLO V imperadore 20.

Lo straordinario apparato del sultano dei Turchi Solimano contro dei
confinanti regni cristiani[430], quel fu che indusse finalmente _papa
Paolo, Carlo imperadore, Ferdinando_ suo fratello re dei Romani e
d'Ungheria, e i _Veneziani_ a stabilire una lega in lor difesa. Si
obbligarono queste potenze a fare un armamento di ducento galee, di
cento navi, di quaranta mila fanti, e di quattro mila e cinquecento
cavalli tedeschi. Furono compartite a rata le spese fra i contraenti;
_Andrea Doria_ creato capitan generale di sì potente flotta. Non
contento di ciò il pontefice, vedendo che tante lettere ed ambasciate
sue nulla aveano servito per condurre alla pace gli animi troppo
esacerbati dell'_imperadore_ e del _re di Francia_, si lusingò che
la presenza ed eloquenza sua potesse ottenere di gran bene alla
cristianità, cotanto allor conculcata dagli eretici, e minacciata dai
Turchi. Maneggiò pertanto un abboccamento suo con que' due monarchi
nella città di Nizza in Provenza, dove convennero di ritrovarsi tutti
e tre. Insorsero poscia delle gravi discrepanze, perchè il pontefice
richiedeva in sua balia il castello d'essa città, ed altrettanto
pretendeano Cesare e il re Cristianissimo; e il _duca di Savoia_,
padrone d'essa città, non fidandosi nè dell'uno nè dell'altro, si trovò
in molto imbroglio. Si mosse da Roma nel dì 23 di marzo papa Paolo
III, e, giunto a Parma, fu con gran solennità accolto; ma insorta lite
fra chi pretendeva la mula pontificia, si venne ad una baruffa tale,
che il suo mastro di stalla vi restò morto; e il papa con tutti i
cardinali spaventati scappò a nascondersi in duomo. Arrivato a Savona,
e, quivi imbarcatosi, nel dì 17 di maggio approdò a Nizza. Curiosa
non poco riuscì quella scena. Non solamente non potè entrare il papa
nel castello, ma neppure nella stessa città. Inoltre, per quanto
egli studiasse, non potè indurre al desiderato abboccamento _Carlo
V_ e _Francesco I_. Trattò dunque separatamente esso pontefice con
amendue. Il primo, venuto di Spagna a Villafranca, si portò a visitar
il papa, alloggiato fuori di Nizza, dove sotto un padiglione per un'ora
intera parlarono dei loro affari. Nel dì 21 di maggio si abboccarono
di nuovo. Poscia nel dì 2 di giugno, un miglio di là da Nizza, si
presentò al pontefice il re di Francia coi figli, e seguì fra lor due
un lungo ragionamento. Tornò esso re ad un altro congresso nel dì 13
dello stesso mese. Al lodevolissimo zelo del papa non venne fatto di
condurre ad accordo alcuno que' due monarchi, creduti dalla gente savia
per irreconciliabili; pure tanto si affaticò, che gl'indusse amendue
a conchiudere nel dì 18 di giugno[431] una tregua di dieci anni fra
loro, con che restasse ognuno in possesso di quel che aveano preso: il
che se dispiacesse al _duca di Savoia_, divenuto bersaglio di questi
due potentati contendenti, ognun sel può immaginare. E tanto peggior
divenne la sua condizione, perchè l'imperadore, sdegnato per non aver
esso duca contro la promessa voluto concedere al papa il castello
di Nizza, volle dipoi tener guarnigione spagnuola in Asti, Vercelli
e Fossano. Parlò ancora premurosamente il pontefice della tenuta
dell'intimato concilio in Vicenza; ma ritrovò varie difficoltà in que'
monarchi; laonde convenne differirlo. Promosse eziandio vivamente
presso il suddetto Augusto la guerra da farsi contro il Turco, e ne
riportò molte promesse.
Questi al certo furono i veri motivi per li quali papa Paolo, benchè
con tanti anni addosso, e mal provveduto anche di sanità, prese a fare
un viaggio sì lungo da Roma a Nizza. Ma la gente maliziosa d'allora, ed
altri ancora dipoi si figurarono che lo sprone principale del vecchio
papa fosse l'ardente suo desio di maggiormente ingrandire il figlio
_Pier-Luigi_ e i nipoti. Nè si può negare che in cuor suo non avesse
alte radici questo affetto, familiare a quasi tutti i papi di que'
tempi corrotti. Pretende Bernardo Segni[432] che _non fosse tenuta
in quel secolo cosa degna d'infamia che un papa avesse figliuoli
bastardi, nè che cercasse per ogni via di farli ricchi e signori; anzi
erano avuti per prudenti e per astuti e di buon giudizio pontefici
tali_. Ma è ben lecito a noi di credere che in ogni secolo e tempo nel
tribunale dei buoni e dei veri amatori della religione, queste fossero
considerate per gravi macchie in chi è prescelto per sì alto e santo
grado nella Chiesa di Dio. E benchè il primo neo non abbia impedito a
taluno d'essere egregio pontefice, e sia almeno tollerabile il secondo,
quando si tenga fra i limiti della moderazione; pure l'eccedere in
questa passione sempre fu e sempre sarà un abusarsi di quella dignità
che Dio per tutt'altro conferisce ai ministri suoi. Ne abbiam veduto
in addietro de' perniciosi esempi. Quanto a _papa Paolo III_, convien
confessare che più al pubblico bene della Chiesa e della repubblica
cristiana, che al nepotismo, in imprendere quel viaggio furono rivolte
le sue mire; il che chiaramente apparisce da una relazione stampata
di Nicolò Tiepolo ambasciatore di Venezia. Che egli poi pensasse
seriamente ancora a prevalersi di tal congiuntura per promuovere i
vantaggi della sua famiglia, il fatto lo dimostra. Allorchè accadde
la morte del _duca Alessandro de Medici, Margherita d'Austria_ sua
moglie, dopo aver fatto uno spoglio di tutte le gioie e del meglio
della casa de Medici, ritirossi nella fortezza di Firenze, occupata
da _Alessandro Vitelli_. Da lì a qualche tempo passò a Prato, indi a
Pisa, per aspettar gli ordini dell'_Augusto Carlo_ suo padre. Cominciò
di buon'ora _Cosimo de Medici_ le sue pratiche alla corte d'esso
imperadore per ottenerla in moglie; ma a questo mercato concorreva
anche papa Paolo, e in Nizza ottenne quanto volle. Premeva più a Cesare
di mantenersi amico il pontefice che Cosimo, e già avea disegnato
qual moglie avesse a darsi al nuovo signor di Firenze. Fu dunque
dall'imperadore promessa la figlia sua naturale ad _Ottavio_ figlio
di _Pier-Luigi Farnese_; nè questo bastò al pontefice, perchè impetrò
ancora che l'imperadore lo investisse della città di Novara con titolo
di marchese. Aggiungono che l'accorto vecchio si fosse anche lusingato
di poter indurre in que' congressi l'imperadore e il re di Francia a
concedere a persona neutrale il ducato di Milano, per finir tutte le
loro liti: il che se gli riusciva, sperava appresso di far succedere
il figlio in quel riguardevole Stato. Dicono che anche ne fece la
proposizione, ma che que' monarchi non si sentirono ispirazione alcuna
di far questo sacrifizio. Di ciò tornerà occasion di parlare.
Nel dì 19 di giugno il _re di Francia_ si partì da' contorni di Nizza,
e nel dì seguente imbarcatosi il papa, ed accompagnato dall'imperatore
sino a Genova, continuò poi il viaggio, con arrivare a Roma nel dì 24
di luglio. Appresso dirizzò le prore verso la Spagna l'Augusto Carlo;
ma, sorpreso da venti contrarii, fu forzato a ritirarsi alle isole
di Ieres. Non volle entrare in Marsilia. Cresciuto poi il furore del
vento, che disperse la sua flotta, e lui stesso condusse in pericolo,
andò ad approdare ad Acquamorta. Ivi era con _Leonora regina_ sua
moglie, e sorella dello stesso imperadore, il _re Francesco_, il
quale non ebbe difficoltà di passare in un battello alla galea d'esso
Augusto, con dirgli: _Mio fratello, eccomi per la seconda volta vostro
prigione_. Lo abbracciò Carlo, e mostrando anch'egli egual finezza,
scese dipoi a terra, e fu in ragionamenti stretti con esso re, facendo
comparire, siccome accortissimo signore il più bel cuore del mondo,
e buona intenzione d'accomodarsi: il che diede speranza ad ognuno
di pace, fuorchè a papa Paolo, il quale avea abbastanza scandagliato
l'interno dello stesso imperadore. Passò dipoi esso Augusto in Ispagna,
e attese alla guerra contro il Turco. Intorno a questa io non dirò
altro, se non che non fu fatto quel magnifico armamento che per li
capitoli della lega si dovea: pure _Andrea Doria_ con una fiorita
armata navale si congiunse colle forze de' Veneziani, del papa e
dei cavalieri di Malta, e formò uno stuolo di cento e trentaquattro
galee, sessanta navi grosse ed altri navigli minori. Da più secoli non
s'era veduto un sì forte armamento in mare, ed ognuno ne prediceva
meraviglie. Ma il Doria, quando venne il tempo della battaglia, con
perpetuo suo scorno si ritirò, lasciando esposti i Veneziani al furore
del Barbarossa, con perder essi due galee, ed aver come miracolosamente
salvato a Corfù il lor galeone che facea acqua da tutte le bande.
Ricuperò poi il Barbarossa nell'anno seguente Castelnuovo, con mettere
a fil di spada quattro mila fanti spagnuoli veterani, lasciati ivi di
presidio: il che più sonoramente accrebbe le mormorazioni contra del
Doria. Scuse o giustificazioni si recarono della sua condotta, che
qui non importa riferire. Fu in pericolo di perdere nell'anno presente
anche la Goletta in Africa, restata in potere dell'imperadore, e ciò
perchè sei mila fanti spagnuoli quivi di guarnigione, per mancanza
di paghe, si ammutinarono, e convenne condurne la maggior parte in
Sicilia, dove, durando la lor sedizione, commisero de' gravi danni e
spogli di que' cristiani nazionali. _Don Ferrante Gonzaga_, vicerè
d'essa Sicilia, non ebbe altra via per metterli in dovere, che di
ricorrere all'inganno. Cioè colle più forti promesse, autenticate
da solenni giuramenti, prestati davanti al sacro altare, impegnò il
perdono per cadaun d'essi. Ma dacchè gli ebbe separati e sbandati,
a poco a poco fatti pigliare i loro capi, e moltissimi degli stessi
soldati, barbaramente contro la fede data, e conculcata la religione
d'essi giuramenti, fece impiccare: cosa di eterna infamia per lui, e
che gli tirò addosso l'odio di tutta la nazione spagnuola.
Mancò di vita nel dì 28 di dicembre dell'anno presente _Andrea Gritti_
doge di Venezia, celebre per la sua prudenza e per le sue militari
imprese, ed ebbe per successore _Pietro Lando_, eletto nel dì 20 di
gennaio dell'anno seguente. Parimente terminò i suoi giorni nel dì
primo di ottobre _Francesco Maria della Rovere_ duca d'Urbino, mentre
si trovava in Pesaro, con lasciar dopo di sè una gloriosa memoria per
le sue azioni. Secondo il Sardi[433], morì egli di veleno, datogli _ad
istanza di Luigi Gonzaga_, soprannominato Rodomonte. Il Giovio parla
dello stesso veleno, ma senza attentarsi di palesarne l'autore, benchè
dica che risultasse dal processo e dalla confessione chi fosse il
reo, lasciando sospetto contro di chi aspirava al dominio di Camerino.
Già dicemmo che contro il volere e le pretensioni della curia romana
s'era messo in possesso del ducato di Camerino _Guidubaldo_ figlio del
suddetto duca d'Urbino, il quale fin qui vi si seppe mantener contro
l'armi del papa colla riputazione del valoroso suo padre, e molto più
per la protezione de' Veneziani, de' quali esso duca Francesco Maria
era generale. Ma mancato di vita suo padre, e cessata l'assistenza
della repubblica veneta, il pontefice, che nell'anno addietro avea
con contraccambio d'altri beni indotto _Ercole Varano_ a cedere le
sue ragioni sopra Camerino ad _Ottaviano Farnese_ suo nipote, non
tardò a farle valere, inviando _Stefano Colonna_, oppure _Alessandro
Vitelli_, come altri vogliono, coll'esercito pontificio contro quella
città. Tuttochè essa fosse ben forte, pure il nuovo duca Guidubaldo,
conoscendo di non potersi quivi mantenere, e temendo inoltre di perdere
anche il ducato d'Urbino, venne poi nell'anno seguente a concordia
col papa, e gli rilasciò quella città e il suo ducato, di cui egli
non tardò ad investire il suddetto suo nipote Ottavio. Nel dì 3 di
novembre entrò in Roma _Margherita di Austria_, destinata in moglie
ad esso Ottavio, il quale era allora in età solamente di quindici
anni, dichiarato prefetto di Roma. Si celebrarono quelle nozze con
gran sontuosità, feste ed allegrezze. Confessò il papa d'aver avuto
in dote trecento mila scudi d'oro, ma non si sa qual banchiere
glieli coniasse. Racconta il Segni che questa principessa si trovò
sui principii malcontenta di un tal maritaggio, e che, essendo ita a
Castro e Nepi, disse che la più vile terricciuola del duca Alessandro
suo primo marito valeva più di Castro, e di quanto avea casa Farnese.
Ai motivi dunque del pontefice di sempre più ingrandir la sua casa
si dovette aggiugnere ancor questo. Cosa mirabil avvenne nel dì 29
di settembre di quest'anno[434]. Fra il porto di Baia e di Pozzuolo
apertosi il terreno, cominciò a vomitare fuoco, sassi, fumo e cenere,
che portata per aria si stese più di cento cinquanta miglia verso la
Calabria, e ne fu coperta tutta la città di Napoli. Cagionò questo
nuovo vulcano tremuoti per otto giorni. Restarono inceneriti tutti
gli alberi, spianati gli edifizii, e desolato un gran tratto di paese,
pieno dianzi di amene selve di agrumi e d'altri frutti. Della vomitata
materia fetente di zolfo si formò all'intorno di quella bocca un monte,
alto più d'un miglio, di circuito al piano di quattro miglia, occupante
i bagni delle Trepergole, e gran parte del lago Averno e del Lucrino.
Non avrei ardito di scrivere tanta altezza di quel monte, sembrando
a me un'iperbole, se non ne facesse fede anche Alessandro Sardi[435]
storico contemporaneo. Furono in questo anno da papa Paolo con sua gran
lode creati cardinali due insigni letterati italiani, cioè _Girolamo
Aleandro_ e _Pietro Bembo._

NOTE:
[430] Raynaldus, Annal. Eccl. Spondanus, Annal. Eccl.
[431] Du-Mont, Corps Diplomat.
[432] Segni, lib. 8.
[433] Alessandro Sardi, Storie MSte.


Anno di CRISTO MDXXXIX. Indiz. XII.
PAOLO III papa 6.
CARLO V imperadore 21.

A cagion della tregua stabilita fra _Carlo imperadore_ e _Francesco
re di Francia_ si godè in quest'anno una felice quiete per l'Italia.
Intanto i Veneziani, dopo la pruova fatta del poco capitale che
poteva farsi degli aiuti dell'imperadore contro il Turco, scorgendo
sè soli rimasti in ballo, ed esposti alla straordinaria potenza di
Solimano, cominciarono a trattar seco di pace. A questo fine nel
mezzo dell'anno presente ottennero da lui una tregua di tre mesi,
la qual fu anche dipoi prorogata. Non furono ascosi all'imperadore
e al re di Francia questi negoziati del senato veneto col tiranno
d'Oriente; e però amendue (verisimilmente non per vera voglia di
guerreggiar contra degl'infedeli, e molto meno il re Francesco I amico
d'essi, ma per comparire presso la gente credula zelanti del bene
della cristianità) nel dicembre di questo anno spedirono a Venezia i
loro ambasciatori, cioè Cesare il _marchese del Vasto_, e il re il
_maresciallo di Annebò_, per esortar quel senato a desistere dalla
pace con esso Turco, con far loro sperare dei possenti soccorsi. Ma
gli avveduti e saggi Veneziani, che sapevano qual divario passi fra
parole e fatti, grandi onori bensì fecero a que' regi ministri, e
tennero più conferenze con essi, ma infine trovando troppo allignata
la discordia fra que' due monarchi, li rimandarono ben corrisposti
d'altrettante belle parole, e senza conclusione alcuna. Determinarono
poscia di cercar pace col sultano a qualunque condizione. Mancò di vita
in quest'anno nel dì primo di maggio l'_imperadrice Isabella_; perdita,
per cui fu inconsolabile l'imperador _Carlo V_ suo marito, che molto
la amava. Già dicemmo negata da Cesare a _Cosimo de Medici_ la figlia
_Margherita_, per darla ad _Ottavio Farnese_. Premendogli nondimeno di
tenerselo amico, l'avea, nell'anno addietro, confermato signore e duca