Annali d'Italia, vol. 6 - 30

andarono in preda, si videro da que' miscredenti conculcate le sacre
reliquie, e gittate per le strade le sacratissime ostie, e per maggior
dileggio della religione, passeggiavano per Roma soldati abbigliati non
solamente con vesti sfarzose e collane d'oro, ma anche con abiti sacri;
e giunsero alcuni a vestirsi da cardinali, e insino a contraffare
il papa con ischerni senza numero. E tal fu l'inesplicabil miseria
di Roma, che con ragion venne creduto aver fatto peggio in quella
metropoli l'esercito dello iniquo Borbone, che i Goti e Vandali nel
secolo quinto dell'era cristiana. Giusti ed adorabili sempre sono i
giudizii di Dio; e certamente i saggi d'allora, fra i quali _Tommaso
da Vio cardinal Gaetano, e Giovanni Fischero vescovo Roffense_, poscia
cardinale e martire, non lasciarono di riguardar sì strepitose calamità
per flagello inviato da Dio alla non poco allora corrotta corte romana.
Chiuso intanto in castello l'afflitto pontefice, facendo delle
meditazioni dolorose sopra gli amari frutti de' suoi bellicosi impegni,
rade volte convenevoli a chi è ascritto all'ecclesiastica milizia,
stava pure egli sperando che giugnesse l'esercito della lega per
liberarlo. Infatti, appena erano entrati in Roma i nemici, che arrivò
a quelle mura il _conte Guido Rangone_; ma non si attentò colle sue
forze tanto inferiori ad assalire quel furioso e potente esercito,
benchè allora sbandato e perduto dietro alle prede: il che fu poi
disapprovato da alcuni, cioè da coloro che facilmente giudicano delle
cose altrui in lontananza, senza saper tutte le circostanze presenti
dei fatti. Dall'altra parte, marciava assai lentamente il _duca
d'Urbino_ colle genti della lega, e solamente nel dì 16 di maggio
arrivò ad Orvieto, dove tornato anche il Rangone, si tenne consiglio di
guerra. Gagliardamente insisterono il _marchese di Saluzzo, Federigo
da Bozzolo e Luigi Pisani_ legato veneto, perchè si tentasse di
cavare il papa di prigione, con venir anche a giornata, se occorreva;
e il conte Guido Rangone fece conoscere con molte ragioni facile e
riuscibile l'impresa. Mostrava parimente il duca di voler lo stesso,
ma poi sfoderava non poche difficoltà; e commissario de' Fiorentini
ripugnava, rappresentando, che se si slontanava l'esercito, Firenze
si rivolterebbe contra de' Medici. In queste dispute si consumò gran
tempo, e intanto gl'imperiali in Roma elessero per loro generale
_Filiberto principe d'Oranges_, parente dell'imperadore, il quale
non tardò a far de' terribili trincieramenti intorno al castello
Sant'Angelo, obbligando al lavoro tanto i plebei che molti nobili
romani. Spogliarono ancora la città di quasi tutte le vettovaglie, per
ridurle in borgo: il che a tal disperazione condusse quel popolo, che
alcuni si precipitarono in Tevere, ed altri col ferro, o col laccio
si abbreviarono la vita. Nel dì 10 di maggio arrivarono a Roma _don
Ugo di Moncada_ e il _cardinal Pompeo Colonna_ coi principali di sua
casa, che colla loro autorità misero fine se non a tutte, almeno a
molte delle enormità di quei cristiani peggiori de' Turchi. Varie
mutazioni e novità poi si trasse dietro la prigionia del pontefice.
Imperciocchè nel dì 16 di maggio si mosse a rumore la città di Firenze,
e facilmente quel popolo, senza che v'intervenisse morte d'alcuno,
congedò _Alessandro_ ed _Ippolito_ de Medici co' _cardinali di Cortona,
Cibò e Salviati_, che dianzi governavano dispoticamente quella città
a nome del papa: con che rimessa l'antica libertà, fu riassunto il
popolar governo. Ma non si guardarono di far molte insolenze alle armi
e alle immagini de' Medici: il che maggiormente dipoi irritò contra di
loro _papa Clemente VII_. Parimente i Veneziani, tuttochè collegati
col pontefice, si impossessarono della città di Ravenna, di cui gran
tempo erano stati padroni prima della lega di Cambrai; ed appresso,
ammazzato il castellano di quella fortezza, anche d'essa si fecero
padroni. Poco stettero dipoi ad occupar Cervia con tutti que' sali,
che erano del papa, col motivo di difenderla a nome della Chiesa. Al
qual tempo parimente _Sigismondo Malatesta_ entrò in Rimini, città
lungamente già dominata da' suoi maggiori. In mezzo a tanti rumori
stette un pezzo _Alfonso duca_ di Ferrara perplesso; ma finalmente
determinò di profittare anch'egli di tal congiuntura, per ricuperare
la sua città di Modena, ingiustamente a lui tolta e detenuta dai papi.
Però, come ha l'Anonimo Padovano, mossosi sul principio di giugno con
ducento lancie, sei mila fanti e gran copia d'artiglierie, venne a
mettere il campo a questa città. Dentro alla difesa era stato lasciato
dal _conte Guido Rangoni_ il _conte Lodovico_ suo fratello, ma con soli
cinquecento fanti, il qual tosto pensò d'inondare i contorni della
città; e l'avrebbe fatto, se i cittadini non si fossero opposti. Il
perchè, conoscendo egli il popolo affezionato al nome estense, e in
pericolo sè stesso, capitolò nel dì 5 del mese suddetto di potersene
andare a Bologna colla sua gente, famiglia e mobili. Entrò il duca
nel dì seguente nella città, accolto con segni di somma allegrezza
da' cittadini, a' quali, da magnanimo come era, perdonò tutto il
passato, senza far vendetta di alcuno, avendo solamente confiscati i
beni del conte Guido Rangone, e toltogli il castello di Spilamberto,
che poi dopo qualche tempo, per intercession del re di Francia, gli
fu restituito. Gran feste per tre giorni furono fatte a cagion di tale
acquisto in essa Modena, Ferrara e Reggio, e per tutto il suo Stato.
Nello stesso dì 6 di giugno seguì cambiamento di cose in Roma;
perciocchè, avendo i collegati conosciuto troppo pericolosa impresa
il voler assalire gli imperiali, dall'Isola, dove si erano già
inoltrati, si ritirarono verso Viterbo. Servì loro anche di scusa la
gran diserzione accaduta nell'esercito per mancanza delle vettovaglie,
essendo allora generale la fame per tutta Italia, e i lor cavalli
smunti e deboli per carestia di fieni: laddove gl'imperiali, oltre
all'aver preso in Roma chinee, ronzini e somieri senza numero, aveano
anche messi insieme tre mila cavalli da guerra, ed armi senza numero,
di modo che l'esercito loro non parea più quello che poc'anzi era
venuto in Lombardia. Perciò il papa, a cui mancava oramai tutto il
vivere, non tardò più ad accettar le dure condizioni che gli erano
esibite dagl'insaziabili capitani imperiali. Fu fatto questo accordo
nello stesso dì che Modena tornò in potere del suo legittimo principe,
per mezzo dell'_arcivescovo di Capoa_, con obbligarsi il papa di pagare
presentemente cento mila ducati d'oro, cinquanta altri mila fra venti
giorni, e ducento cinquanta mila in termine di due mesi; di consegnare
castello Sant'Angelo a Cesare, come in deposito; e così ancora le
rocche d'Ostia, di Cività Vecchia e di Città Castellana; e inoltre di
cedere ad esso imperadore Piacenza, Parma e Modena, la qual ultima
avea già mutato padrone: che il papa coi tredici cardinali restasse
prigione, finchè fossero pagati i primi cento cinquanta mila ducati
d'oro, dopo di che fosse condotto a Napoli o a Gaeta, per aspettar
le risoluzioni di _Carlo V_, con altre condizioni, fra le quali era
la liberazion dei Colonnesi dalle censure. Entrò dunque il presidio
cesareo in castello San'Angelo, e da lì innanzi il papa e i cardinali
ebbero miglior tavola, ma non già la libertà. Cività Castellana era in
poter dei collegati. _Andrea Doria_ ricusò di poi, consegnar Cività
Vecchia. Nè Parma e Piacenza, preventivamente avvisate dal papa, si
vollero rendere agli Spagnuoli. Intanto, ossia che il fetore di tanti
uomini e cavalli uccisi in Roma facesse nascere una terribil epidemia,
oppure che la vera peste nel gran bollor di tante armi penetrasse colà:
certo è che nella barbarica armata comandata dal principe d'Oranges
entrò la moria, che cominciò a far molta strage: laonde, tra per questo
malore e per altri accidenti, si fece il conto che in meno di due anni
non restò in vita neppur uno de' tanti assassini dell'infelice città
di Roma, e passarono in altre mani le immense loro ricchezze. Penetrò
anche la peste suddetta in castello Sant'Angelo con pericolo della vita
del pontefice, perchè d'essa morirono alcuni de' suoi cortigiani.
Non si potè ben sapere se _Carlo Augusto_, dimorante allora in Ispagna,
avesse o serrati gli occhi, o acconsentito al viaggio e alle funeste
imprese del duca di Borbone; e su questo fu disputato non poco dai
politici; pretendendo anzi alcuni, che se il Borbone sopravviveva,
siccome disgustato dell'imperadore, meditasse di torgli il regno di
Napoli. Sappiamo solamente che alla nuova del sacco di Roma, e della
prigionia del papa, egli si vestì da scorruccio, ne mostrò gran doglia,
e fece cessar le feste ed allegrezze già cominciate per la nascita
d'un figlio, che fu poi _Filippo II_; così asserendo il Mariana e il
Messia contro a quel che ne scrive il Guicciardini. E potrebbe essere
che egli allora non fingesse, e che poi, mutato parere, pensasse a far
mercatanzia e guadagno delle disgrazie del papa, perchè certamente non
mostrò da lì innanzi qual calore che conveniva ad un monarca cattolico
per farlo rimettere in libertà. Anzi fu creduto ch'egli desiderasse
che il papa fosse condotto in Ispagna. Facili troppo sono le dicerie
in tempo massimamente di grandi sconcerti. All'incontro, i _re di
Francia_ e _di Inghilterra_, mostrando in apparenza un piissimo zelo
pel soccorso del pontefice, ma infatti mirando di mal occhio la troppo
cresciuta potenza e prepotenza di Cesare in Italia, e premendo al re
Francesco di riavere i suoi figliuoli dalle mani di esso imperadore,
formarono lega fra loro, per rinforzar la guerra in Italia contra
di lui. In questa lega entrarono anche i _Veneziani_, e dipoi il
_duca di Milano_ e i _cardinali_ che erano in libertà, a nome del
sacro collegio, e i _Fiorentini_, con patto che il ducato di Milano
dovesse lasciarsi libero a _Francesco Sforza duca_. Mentre si faceano
oltramonti questi maneggi e preparamenti di guerra, in Lombardia non
cessavano, anzi crescevano i guai. Era restato governator di Milano
_Antonio da Leva_ con tre mila fanti tedeschi, quattro mila spagnuoli
e settecento lancie. Un soldo non v'era da pagar questa gente; però
sbardellatamente viveano alle spese de' miseri Milanesi, già talmente
rovinati, che neppur aveano da mangiare per loro stessi. Richiamò il
senato veneto da Roma le sue genti col _duca d'Urbino_, per unirsi col
_duca di Milano_, e andar poscia a dare il guasto alle biade mature de'
Milanesi. A questo fine passarono a Lodi verso il principio di luglio.
Preveduto il loro disegno, il Leva andò a postarsi a Marignano: il
che sconcertò le loro idee. In questi tempi _Gian-Giacomo de Medici_,
castellano di Musso, che nulla avea che fare coi Medici di Firenze, ed
era comunemente appellato il Mcdeghino, condotto dalla lega, prese il
castello di Monguzzo tra Como e Lecco. Spedito colà il _conte Lodovico
da Barbiano_, ossia da Belgioioso, non solo nol ricuperò, ma vi perdè
quattro cannoni e molti fanti. Venne poi esso castellano con quattro
mila fanti e cinquecento cavalli nel Milanese, dove recò infiniti
danni. Antonio da Leva, segretamente uscito una notte da Milano, sul
far del giorno con tal empito assalì il Medeghino, che in poco tempo lo
ruppe, e la maggior parte di quella gente restò morta o presa. Poscia,
andato un dì l'esercito collegato a devastare il Milanese, cadde in
un'imboscata fatta da esso Leva, e dopo lunga battaglia diede alle
gambe con morte di più di mille e cinquecento soldati.
Dopo avere il _re Cristianissimo_ assoldati dieci mila Svizzeri, ed
unito nel suo regno un potente esercito, lo spinse in Italia sotto
il comando di _Odetto di Fois, signor di Lautrec_, a noi noto per le
precedenti guerre. Condusse ancora al suo soldo il valoroso _Andrea
Doria_ con otto galee. Il primo che calò in Italia per via di Saluzzo,
fu il _conte Pietro Navarro_, celebre capitano, il quale con tre mila
fanti ito a Savona, tosto se ne impadronì, e si mise a fortificarla.
Similmente con grossa armata comparve di qua dai monti il Lautrec,
e giunto ad Asti, per avere inteso che _Lodovico conte di Lodrone_,
posto alla guardia d'Alessandria con tremila Tedeschi, avea mandata
buona parte di sua gente al Bosco, per riscuotere le taglie, gli
fu addosso; e, piantate le artiglierie, cominciò a bersagliar quel
castello. Per otto giorni fece il Lodrone una gagliarda difesa; ma
infine si arrendè quel castello, e fu messo a sacco, con restare il
Lodrone e gli abitanti anche essi prigionieri. Il Guicciardini scrive
diversamente; cioè che il Lodrone era in Alessandria, e la moglie co'
figli nel Bosco, che generosamente furono a lui mandati dal Lautrec.
Nei medesimi tempi fu stretta la città di Genova per terra da Pietro
Navarro e da _Cesare Fregoso_, e per mare da Andrea Doria almirante di
Francia. Perchè la carestia, universale allora in Italia, affliggeva
forte quella nobile e popolata città, le speranze del popolo erano
poste in sette galee ed alquante navi cariche di grano, che colla
ricchissima caracca Giustiniana erano per viaggio. Ma colte queste dal
Doria in Portofino, ed assediate, vennero in sua mano. Altre perdite
fecero i Genovesi; laonde presero la risoluzione di darsi ai Franzesi.
Si ritirò il doge _Antoniotto Adorno_ nel castelletto; e la città
senza uccision di gente, e col solo saccheggio del palazzo Adorno,
ottenute vantaggiose condizioni, tornò sotto il dominio di Francia.
Mandò il Lautrec per governatore colà Teodoro Trivulzio; e ciò fu sul
fine di agosto. Andò egli poscia a mettere il campo ad Alessandria,
alla cui guardia era il conte _Giam-Batista di Lodrone_ con mille e
cinquecento Tedeschi, a cui poco prima s'era unito con altri mille
fanti il conte _Alberico da Belgioioso_. Grande strepito e guasto
faceano le artiglierie in quelle mura, ma non minor difesa e ripari
per molti giorni fecero gli assediati, finchè, temendo questi le mine
di Pietro Navarro, e perduta la speranza del soccorso, arrenderono la
città, salvo l'avere e le persone, con obbligo di uscir dallo Stato
di Milano, e di non militare per sei mesi in favor dell'imperatore.
Voleva il Lautrec mettere presidio in Alessandria, ma gli oratori del
duca di Milano e de' Veneziani tanto dissero, che lasciò mettervelo al
duca, con restar perciò indispettito contra di lui. Questi progressi
dell'armata franzese fecero conoscere ad _Antonio da Leva_ il pericolo,
in cui si trovava, non restandogli più che cinque mila fanti e due
mila cavalli. Pensò di ritirarsi a Pavia; ma, saputo che non vi era da
vivere, mandò colà il conte Lodovico da Barbiano con due mila fanti e
cinquecento cavalli, ed egli, restando in Milano, seguitò a scorticar
più di prima quegl'infelici cittadini.
Passò dipoi il Lautrec a Basignana il Po, e venne alla sua ubbidienza
Novara con tutte le castella di quel distretto. Passato anche il
Ticino, si trasferì otto miglia vicino a Milano, dove si unì colle
genti venete e sforzesche. Poscia andò ad accamparsi sotto Pavia,
cominciando con gran flagello di artiglierie a diroccar le mura di
quella città, che dal suddetto conte di Belgioioso valorosamente veniva
difesa. Vasta breccia era fatta, e i miseri Pavesi si raccomandavano
al conte che non li lasciasse esposti alla crudeltà de' Franzesi.
Il conte, che voleva tirare il più in lungo che potesse la resa, gli
andava confortando; e quando poi s'accorse che i nemici s'allestivano
per venire all'assalto, spedì nel dì 4 d'ottobre uffiziali al Lautrec
per capitolare la resa. Mentre se ne stendevano le condizioni,
ecco che gl'inferociti soldati, mal sofferendo di vedersi torre di
bocca la preda, tanto i Guasconi dall'una parte, che gli Svizzeri
dall'altra, seguitati appresso dai Tedeschi ed italiani, furiosamente
per le rovine della breccia entrarono nella sfortunata città con tal
rabbia, che in meno d'un'ora uccisero più di due mila persone tra
soldati e terrazzani: spettacolo orrido e miserando. Poi tutta la
città fu saccomanata, fatti prigioni tutti i benestanti, e costretti
con esorbitanti taglie a riscattarsi. Niun rispetto s'ebbe a' luoghi
sacri, e le donne rimasero vittima della libidine di que' diavoli,
a riserva di quelle che prima si erano rifuggite ne' monisteri delle
sacre vergini, ai quali, per cura di alcuni capitani, non fu inferita
molestia. Ecco le terribili conseguenze delle guerre d'allora.
Bruciarono ancora i Guasconi un'intera contrada, e peggio avrebbero
fatto, se il Lautrec, mosso a compassione, non avesse costretto
l'esercito tutto ad uscire della desolata città di Pavia. Non restava
più se non Milano e Como da sottomettere, e il duca di Milano e il
legato veneto, quasi colle ginocchia in terra, si raccomandarono al
Lautrec, perchè seguitasse l'impresa, mostrando la facilità di vederne
presto il fine. Ma perchè era venuto al campo il _cardinal Cibò_ per
sollecitare il Lautrec alla liberazione del papa, tuttavia tenuto
sotto buona guardia dagli Spagnuoli, a tali istanze si arrendè esso
Lautrec. Licenziati gli Svizzeri, che ricusarono di andare a Roma,
s'avviò a Piacenza, dove si fermò, per trattar lega con _Alfonso duca_
di Ferrara, e con _Federigo marchese di Mantova_. Si ridusse dunque a
Ferrara il cardinale suddetto con tutti i plenipotenziarii della lega,
per muovere il duca, il quale, tratto dall'ossequio che professava
all'imperadore, e dall'antecedente suo impegno, ripugnava ad unirsi
coi di lui nemici. Tuttavia, per le minaccie a lui fatte che gli
si scaricherebbe addosso tutto l'esercito franzese, entrò anch'egli
nella stessa lega con condizioni molto onorevoli, una delle quali fu
che il _re Cristianissimo_ darebbe in moglie a _donno Ercole_ di lui
primogenito _Renea di Francia_, figlia del _re Lodovico XII_, e cognata
del medesimo re Francesco. Furono anche promesse molte cose a nome del
papa, ma niuna d'esse gli fu poi mantenuta. Lo strumento di essa lega,
stipulato nel dì 15 di novembre fu da me dato alla luce[408]. Nel dì
7 di dicembre anche Federigo Gonzaga marchese di Mantova sottoscrisse
la medesima lega come apparisce dall'atto pubblico, rapportato dal
Du-Mont[409]. Allontanato che fu da Milano il _Lautrec, Antonio da
Leva_, che poco stimava l'esercito veneto e sforzesco, uscito di
Milano, costrinse nel dì 28 d'ottobre Biagrasso alla resa, dove erano
cinquecento fanti; e sopraggiunto _Giano da Campofregoso_ col soccorso,
gli diede una rotta, con acquistar le di lui artiglierie. Queste
poi, nell'essere condotte a Milano, gli furono tolte dal _conte di
Gaiazzo_, giovane ferocissimo, passato nel dì innanzi al servigio de'
Veneziani. Biagrasso fu poscia ricuperato dai Franzesi. Riuscì ancora
a _Filippo Torniello_, per ordine d'esso Leva, d'entrar nel castello di
Novara, che tuttavia si tenea per l'imperadore, e con cinquecento fanti
italiani sotto il suo comando di cacciar dalla città lo smilzo presidio
ivi lasciato dal duca di Milano.
Torniamo ora agli affari di Roma. Per compimento delle miserie e
della rovina di quella afflittissima città, già dicemmo esservi
sopraggiunta la peste, che ogni dì facea strage grande di soldati
e di Romani. Essendo entrata anche in castello Sant'Angelo nel mese
d'agosto, il papa e i cardinali, quivi racchiusi e posti in sì gran
pericolo, cominciarono con grande istanza a pregar i capitani cesarei
di aver loro misericordia. Perciò, se dice il vero l'Anonimo Padovano,
ottennero nel dì 15 del suddetto mese d'essere condotti in Belvedere,
dove furono posti di guardia mille Spagnuoli. Il resto di quell'inumano
esercito, per salvarsi dal contagio, si slargò ad Otricoli, Terni,
Narni, Spoleti ed altri luoghi, a molti de' quali, dopo averne esatte
grandissime taglie, diedero anche il sacco. Perchè la rocca di Spoleti
fece resistenza, la presero per forza, e misero a fil di spada quel
presidio. Seguirono poi varii piccioli fatti, e spezialmente su quel
di Terni, fra essi e l'esercito collegato, che s'era ridotto di qua da
Perugia città, a cui in questi tempi toccò una burrasca. Perciocchè
entratovi una notte con aiuto d'essi collegati _Orazio Baglione_, vi
uccise _Gentile Baglione_, già messovi dal papa, con altri di quella
stessa famiglia e de' suoi aderenti. A molte case fu dato il sacco, e
il popolo arse e spianò da' fondamenti il palazzo del suddetto Gentile,
restando poi signore di Perugia il medesimo Orazio. Anche in Siena
fu gran sollevazione del popolo contra dei nobili, circa trenta de'
quali rimasero uccisi. Vi accorse da Spoleti il _principe d'Oranges_,
quetò il tumulto, e lasciò ivi di guardia mille fanti. Mentre queste
cose succedeano, _papa Clemente_ coi tredici cardinali continuava a
star come prigione, e a cercar le vie di riacquistare la libertà,
senza poterle trovare. Il danaro pattuito non compariva, e sempre
s'incontravano nuovi ostacoli ne' negoziati, perchè l'Augusto _Carlo
V _mostrava ben voglia e zelo per la sua liberazione, ma con esigere
cauzioni che il papa non fosse da lì innanzi contra di lui. Intanto
il Lautrec, dopo tante belle parole d'essere inviato in aiuto di lui,
facea un passo innanzi e due indietro, perchè avvisato che si trattava
alla gagliarda di pace fra l'imperadore e il suo re. Finalmente essendo
morto il _vicerè Lanoia_, e subentrato nel governo di Napoli _Ugo di
Moncada_, questi fu chiamato a Roma, per trattare della liberazion del
pontefice. Con esso Moncada si unirono _Girolamo Morone_ e il _cardinal
Pompeo Colonna_, segretamente guadagnati dal papa; e tanto si operò,
che fu stabilito l'accordo nel dì ultimo d'ottobre, con obbligarsi
il papa di non essere contrario a Cesare per le cose di Milano e di
Napoli, e di pagare allora e poi in varie rate un'immensa quantità di
danaro. Per supplire al presente bisogno si ridusse _Clemente VII_
a crear per danari alcuni cardinali (al che in addietro non s'era
mai voluto indurre), persone, dice il Guicciardini, la maggior parte
indegne di tanto onore. Inoltre, concedè nel regno di Napoli decime e
facoltà di alienar beni di chiesa, e diede per ostaggi due cardinali.
Era stabilito il dì 9 di dicembre per uscir di castello, dove il
Guicciardini dice ch'egli era, e non già in Belvedere. Ma Clemente,
diffidando sempre degli Spagnuoli, la notte precedente, travestito da
mercatante o da ortolano, se ne uscì, e raccolto in Prati da _Luigi
Gonzaga_, fu condotto sino a Montefiascone, e poscia ad Orvieto, senza
che neppur uno de' cardinali l'accompagnasse, e con tal meschinità, che
non era da meno de' pontefici de' primi tempi, che viveano senza pompa,
esposti ogni dì alle scuri degli Augusti pagani. E così passò l'anno
presente: anno degno d'indelebil memoria per l'infame sacco di Roma,
per la prigionia del papa, per tante desolazioni di guerra e saccheggi,
e per altri innumerabili malanni che unitamente si scaricarono sopra
quasi tutta l'Italia, in maniera tale che veramente fu creduto non
essersi mai veduto un cumulo di tanti mali in Italia, dacchè nacque
il mondo. Perciochè, oltre ai suddetti mali la peste infierì in
Napoli, Roma, Firenze ed altri luoghi. I fiumi, usciti per le copiose
pioggie dai lor letti, inondarono le campagne; e queste, anche senza
essere oppresse dai fiumi, per le suddette soverchie pioggie, o per
altre naturali cagioni, diedero un miserabile raccolto universalmente
per l'Italia. Il perchè, secondo l'attestato dell'Anonimo Padovano,
mancavano di vita i poveri, per non aver di che vivere e per non trovar
chi loro ne desse. Per tutte le città, dic'egli, castella e ville si
vedeano infiniti poveri con tutte le lor famiglie andar mendicando,
e gridando misericordia e sovvenimento. Più non si potea andare per
le chiese, piazze e strade: tanto era il numero de' poveri con volti
macilenti, squallidi, e tali, che avrebbono mosse a pietà le pietre.
E la notte per le strade s'udivano sì orrende voci ed urli, che
spaventavano ogni persona. E intanto nulla mancava a tante ciurme di
soldati desolatori delle contrade italiane; e l'immenso danaro di Roma
andava ad ingrassare soldati eretici, o gente piena di ogni vizio e
priva di religione.

NOTE:
[405] Raynaldus, Annal. Eccles.
[406] Sansovino, Storia. Johannes Coclaeus contra Lutherum. Storie
Sanesi. Guicciardino ed altri.
[407] Panciroli, Histor. Regiens. MS.
[408] Antichità Estensi. Par. 2.
[409] Du-Mont, Corps Diplomat.


Anno di CRISTO MDXXVIII. Indizione I.
CLEMENTE VII papa 6.
CARLO V imperadore 10.

Dacchè fu giunto in luogo di libertà, cioè in Orvieto il _pontefice
Clemente_, non tardò il _duca d'Urbino_ cogli altri uffiziali
dell'esercito della lega a portarsi colà, per seco rallegrarsi e per
tirarlo nella lega stabilita con tante potenze dai suoi cardinali. Il
trovarono irresoluto, e per quanto dicessero, nol poterono muovere a
prendere partito alcuno. Così avesse egli fatto ne' tempi precedenti.
Verso la metà poi di gennaio inviò il _vescovo sipontino_ a Venezia
a fare istanza a quel Senato che restituissero Ravenna e Cervia, e
pagassero cento mila ducati d'oro per sale occupato in Cervia, con
altre domande che il fecero conoscere mal soddisfatto di quella
repubblica. Non mancarono scuse a' Veneziani per non effettuar
prontamente ciò che il pontefice desiderava, mettendo anch'essi in
campo le tante somme di danaro da loro impiegate per procurargli
la libertà; e poi mandarono _Gasparo Contarino_, uomo di singolar
prudenza, a significar meglio le loro intenzioni al papa stesso.
S'era fermato non poco tempo il _Lautrec_ in Parma e Piacenza, dalle
quali città ricavò circa quaranta mila ducati d'oro. Venne a Reggio,
dove intese la liberazion seguita di papa Clemente. Passò anche a
Bologna, e prese ivi un lungo riposo, sull'espettazione sempre che si
potesse conchiuder pace fra il _re Francesco I_ e l'_imperador Carlo
V_. Ma, scioltosi in nulla ogni trattato, gli oratori di Francia e
d'Inghilterra nel dì 25 di gennaio nella città di Burgos in Ispagna
intimarono la guerra ad esso Augusto; e tanto essi che quei de'
_Veneziani, Fiorentini_ e _duca di Milano_ presero congedo da quella
corte, senza poter non di meno ottenerlo, perchè ritenuti contro il
diritto delle genti. Ora il Lautrec certificato di questo, si mosse
coll'esercito suo alla volta del regno di Napoli, e non volendo passar
l'Apennino, s'inviò per la via della Marca colà. Fu creduto che in
tutto l'esercito de' collegati fossero sessanta mila soldati. Si può
detrarne un terzo. Ed è poi spropositata cosa il dirsi da Odorico
Rinaldi che vi si contassero ottanta mila fanti e venti mila cavalli.
Nel dì 10 di febbraio giunto al fiume Tronto, che divide il regno di
Napoli dagli Stati della Chiesa, senza impedimento alcuno lo passò, ed
espugnata per forza Civitella, terra assai ricca e popolata, ne permise
il sacco a' suoi soldati: iniquo costume, tante volte da noi veduto
praticato dalla milizia di que' tempi, per rallegrare e maggiormente
animare alle imprese quella gente che si picca di esercitare il
più onorato mestier del mondo, quando a pruova di fatti erano tanti
ladri ed assassini. Teramo e Giulia Nuova si arrenderono a _Pietro
Navarro_, e coll'aiuto della parte angioina anche la grossa e potente
città dell'Aquila venne in poter de' Franzesi, e parimente Celano,
Montefiore, e, in una parola tutto l'Abbruzzo ultra. Il che non so se
sia vero, mentre s'ha da altri che essa città si ribellò sul fine di
quest'anno agl'imperiali.
Forse si sarebbe volto il Lautrec verso la capitale del regno, se non
avesse inteso che s'era finalmente, cioè nel dì 17 di febbrio, mossa
da Roma l'armata imperiale sotto il _principe d'Oranges_, la quale il
Guicciardini e l'Anonimo Padovano fanno ascendere a dodici in tredici
mila Tedeschi, Spagnuoli ed Italiani. Ma costoro non s'erano voluti
partire di là, se non tiravano tutte le lor paghe; e convenne che il
papa sborsasse, oltre al già pattuito contante, anche venti mila ducati
d'oro. Uscita che fu quella mala gente fuori della desolata città
di Roma, v'entrò _Napoleone Orsino_ abbate di Farfa con altri suoi
consorti, che un'impresa veramente gloriosa vi fecero, con ammazzar
quanti Spagnuoli e Tedeschi erano restati ivi malati. In questo mentre
il Lautrec s'impadronì della città di Chieti, capitale dell'Abbruzzo
citra, e poi di Sermona e d'altre terre; e mandò anche gente a mettersi
in possesso della importante dogana di Foggia e di Nocera. Essendo
venuto verso Troia l'esercito imperiale, anche il Lautrec s'inviò