Annali d'Italia, vol. 6 - 29
castello. In questo mentre, cioè nel dì 24 di esso mese, il _duca
Francesco_, non potendo più reggere, conchiuse un accordo col _duca
di Borbone_, con varii capitoli, de' quali niuno gli fu mantenuto,
fuorchè la libertà di ritirarsi con tutti i suoi, e se ne andò a Lodi,
città che liberamente fu dai collegati rimessa in sua mano; nella quale
occasione egli confermò i capitoli della lega col papa e co' Veneziani.
Stava tuttavia alla divozion di esso duca il castello di Cremona: nata
la speranza che si potesse ottener colla forza anche la città, fu
spedito colà nel dì 6 d'agosto _Malatesta Baglione_ con sufficienti
forze di gente e d'artiglierie. Fece egli giocar le batterie, diede
varii assalti, e tutto indarno; di maniera che il duca d'Urbino,
giacchè erano giunti al campo della santa lega i tredici mila Svizzeri,
tanto tempo aspettati, passò colà in persona con altre milizie. Strinse
egli e tormentò sì fattamente quella città, che il comandante imperiale
nel dì 25 di agosto capitolò di rendersi, se per tutto il mese suddetto
non gli veniva soccorso.
Poco felicemente camminavano gli affari del _pontefice_ in Lombardia,
e peggio poi in Roma. Imperocchè si trattò di pace fra esso papa da
una parte, e don _Ugo di Moncada_, reggente allora di Napoli per
la lontananza del vicerè, e i _Colonnesi_ dall'altra. _Vespasiano
Colonna_, di cui molto si fidava Clemente VII, fu il mezzano che
conchiuse l'accordo nel dì 22 d'agosto, per cui doveano i Colonnesi
restituire Anagni, e ritirare le lor genti nel regno di Napoli.
Riposando su questa capitolazione l'incauto pontefice, licenziò quasi
tutte le sue milizie. Ma nella notte precedente del dì 20 di settembre
eccoti segretamente arrivare lo stesso Moncada, allievo ben degno del
fu iniquo duca Valentino, ed _Ascanio Colonna_ e il suddetto Vespasiano
con ottocento cavalli e tre mila fanti, che presero tre porte di Roma.
Era con esso loro _Pompeo Colonna cardinale_, uomo di poca religione
e di smisurata ambizione, sì vago del pontificato, che fu creduto che
avesse cospirato alla morte violenta del pontefice, per occupar egli
dipoi la sedia di san Pietro. Il papa nel palazzo Vaticano, implorando
l'aiuto di Dio e degli uomini, non si volea muovere. Tanto dissero
i cardinali, che si rifugiò in castello Sant'Angelo nel medesimo
tempo che que' masnadieri diedero il sacco non solamente al palazzo
pontifizio, ma anche alla basilica vaticana, alla terza parte del
borgo nuovo, e a quanti cardinali e prelati trovarono in borgo, e agli
ambasciatori della lega, con perpetua infamia del nome cristiano. In
una lettera di Girolamo Negro[404] è descritta questa tragica scena. Ed
ecco il primo amaro frutto delle leghe e guerre di papa _Clemente VII_;
eppure Dio l'aveva riserbato a più dura lezione e disciplina. Perchè
il castello era sprovveduto di vettovaglie, avendo don Ugo proposto
una tregua, non durò fatica il papa a condiscendere, obbligandosi
fra le altre condizioni di richiamar le milizie sue dalla Lombardia.
Questo avvenimento disturbò tutti i disegni dell'esercito collegato
in Lombardia, che già si era fortemente rinforzato per l'arrivo del
_marchese di Saluzzo_ con cinquecento lancie e quattro mila fanti
franzesi, ed aspettava a momenti anche due mila Grigioni, con disegno
di strignere da due parti Milano. Ed ancorchè il papa, che non sapea
digerire la tregua fatta, nel ritirar le sue truppe, lasciasse in
quell'esercito quattro mila fanti sotto il comando di _Giovanni de
Medici_, col pretesto che fossero gente pagata dal re di Francia;
pure niun'altra considerabile azione fu fatta da essi collegati. Si
rendè intanto la città di Cremona, e ne fu dato possesso al _duca
Francesco_; ed anche Pizzighittone venne alle sue mani. Ciò fatto,
ritornarono i collegati a bloccare Milano: il che moltiplicò i guai di
quella infelice città. Non potè lungamente astenersi papa Clemente dal
rompere la tregua: tanto era il suo sdegno contra de' Colonnesi, e il
desiderio della vendetta. Privò del cappello il _cardinale Colonna_,
fece spianare in Roma le case de' Colonnesi; e giacchè di Lombardia
era giunto a Roma parte delle sue soldatesche, ordinò a _Vitello_
ossia _Paolo Vitelli_ di passare ai danni de' Colonnesi, di bruciare
e spianar le loro terre. Ma poca contentezza, anzi non poco biasimo
riportò da quella spedizione e dalle sue vendette l'ira pontificia.
Calò circa il principio di novembre a Trento Giorgio Fransperg, che
colla industria e danaro suo e più colle promesse di gran preda, avea
raunati tredici in quattordici mila fanti Tedeschi. Venne poi questo
sì grosso corpo di gente a Salò e circa il fine di novembre verso
Borgo forte, per passare ivi il Po. Il _duca di Urbino_ gli andava
inseguendo, per cogliere il tempo d'assalirli. Il trovarsi coloro
senza cavalli e artiglierie, facea credere sicura la vittoria. Scrive
nondimeno l'Anonimo Padovano che con essi Tedeschi erano cinquecento
cavalli sotto il governo del capitano Zucchero. Ma allorchè in
vicinanza di Borgoforte _Giovanni de Medici_ co' cavalli leggieri
andò a pizzicar la loro coda, eccoti, contra la espettazion d'ognuno,
un colpo di falconetto che gli fracassò un ginocchio; per la qual
ferita portato a Mantova, fra pochi giorni, cioè nel dì 30 di esso
mese, cessò di vivere: giovane di circa ventotto anni, di mirabil
senno, e insieme di non minor ardire, mancando in lui chi si sperava
che avesse a divenire l'onor d'Italia nell'arte della guerra. Fu egli
padre di _Cosimo I_, che vedremo a suo tempo duca e poi gran duca di
Toscana. L'essersi avveduti i collegati che non mancava artiglieria
a quella gente, li fece dopo breve battaglia desistere da altri
tentativi; laonde coloro passarono il Po, e marciarono dipoi alla volta
di Piacenza. Seppesi poscia che _Alfonso duca_ di Ferrara, il quale
maneggiava da gran tempo i suoi affari con _Carlo Augusto_, pregato
da que' Tedeschi, e intento a far conoscere il suo buon animo ad esso
imperadore, avea loro inviato dodici tra falconetti e mezze colubrine,
con assai munizioni da guerra. Nè si dee tralasciare che papa Clemente,
il quale non possedea la virtù di saper perdonare, nè di reprimere i
suoi odii, niun orecchio avea fin qui voluto dare alle istanze di esso
duca Alfonso per riavere la sua città di Modena, anzi avea con insidie
cercato di spogliarlo anche di Ferrara: finalmente, pel tanto picchiare
de' suoi consiglieri, s'indusse a proporre un accordo con lui, non già
per grandezza d'animo, ma quasi per necessità in sì scabrosi tempi. Si
proponeva di dichiararlo capitan generale della lega, di dar per moglie
a _donno Ercole_ suo primogenito _Caterina de Medici_, che fu poi
regina di Francia, e di restituirgli Modena, pagando egli ducento mila
scudi d'oro. Appoggiata questa proposizione a _Francesco Guicciardini_,
non fu a tempo. Il duca onoratamente fece sapere, essere già acconciati
gli affari suoi coll'imperadore, nè poter esso prendere con onor suo
contrarie risoluzioni. Infatti, Carlo augusto sul fin di settembre
gli avea confermata l'investitura de' suoi Stati, fra' quali Modena
e Reggio, e dichiarato lui capitan generale delle sue armi in Italia,
e stabiliti gli sponsali del suddetto donno Ercole con _Margherita_,
sua figlia naturale, che vedremo poi duchessa di Firenze, e di Parma
e Piacenza. Si pentì ben Clemente delle passate sue durezze con questo
principe, e ne ebbe dei vivi rimproveri da' suoi collegati.
Nel novembre di quest'anno spedì _Carlo V_ in Italia il _vicerè Lanoia_
con una flotta, su cui venivano quattro mila fanti spagnuoli, e non già
quattordici mila, come con troppa apertura di bocca ha il Giustiniano
Genovese. Arrivata questa a Codimonte, il prode _Andrea Doria_, che
era allora a' servigi del papa, _Pietro Navarro_, che guidava le galee
di Francia e le galee de' Veneziani (avea questa armata dianzi tenuta
Genova per molto tempo come bloccata), andarono ad assalirla. In quella
battaglia perdè il vicerè una nave, e col resto assai maltrattato si
ridusse poi in regno di Napoli, dove, unito coi Colonnesi, cominciò a
dar grande apprensione al papa. In somma fu ben l'anno presente fecondo
di guai e disastri per tutta l'Italia, dove, secondo il minuto conto
che ne fece l'Anonimo Padovano, si contarono circa cento mila soldati
in varie parti, con infinite estorsioni ed inesplicabile aggravio
de' popoli, e specialmente della misera città di Milano e di quello
Stato, le cui miserie, descritte da varii autori, quasi non si possono
leggere senza lagrime. Pel gran bisogno di danaro finse il Borbone di
voler far decapitare il già imprigionato _Girolamo Morone_. Questi si
riscattò con venti mila ducati d'oro, e poco stette col suo ingegno
a divenire il confidente del medesimo Borbone. Negli stessi tempi
cominciò la città di Napoli ad essere flagellata da un'orrida peste,
che continuò poscia ne' tre seguenti anni, con gravissima strage di
quella sì popolata metropoli. Si aggiunse anche la carestia a questi
malori. Ma ciò che fu più degno di pianto, è da dir l'irruzione fatta
in quest'anno nell'Ungheria da Solimano sultano de' Turchi; la gran
rotta da lui data a que' popoli cristiani colla morte del re loro
_Lodovico_, e la presa della real città di Buda e di tanti altri
paesi. Grandi furono le dicerie per questo contra di _papa Clemente_,
imputando i più, ed anche lo stesso Carlo Augusto in iscrivendo ai
cardinali, queste calamità ad esso pontefice; giacchè egli, invece
di accudire a resistere ai Turchi in difesa del Cristianesimo, avea
voluto far guerra ai Cristiani, spendendo immensi tesori in mantenere
un'armata in Lombardia, un'altra ne' suoi Stati per guerreggiar co'
Sanesi e Colonnesi, e una flotta in mare per mutare il governo di
Genova. Ma qual rovina maggiore procedesse da questi politici impegni
del pontefice, pur troppo lo vedremo all'anno seguente.
NOTE:
[403] Du-Mont, Corp. Diplomat.
[404] Lettere dei principi.
Anno di CRISTO MDXXVII. Indizione XV.
CLEMENTE VII papa 5.
CARLO V imperadore 9.
Siam giunti ad un anno de' più funesti e lagrimevoli che s'abbia
mai avuto l'Italia. Sul fine dell'anno precedente e sul principio
di questo seguitò a farsi una guerra arrabbiata e come turchesca fra
le milizie del papa e quelle de' Colonnesi, sostenute dalle cesaree
del regno di Napoli, perchè tutto si metteva a ferro e fuoco. Fu in
questi tempi preso e messo in castello Sant'Angelo l'_abbate di Farfa_,
cioè _Napoleone_ de' primi di casa Orsina, giovane provveduto più di
temerità che di prudenza; e fu divulgato ch'egli si fosse inteso col
_vicerè Lanoia_ di dargli una porta di Roma, e si giunse fino a dire
ch'egli avesse tramato contro la sacra persona dello stesso pontefice.
Andò il vicerè all'assedio di Frosinone, e vi stette sotto alquanti
giorni; ma, inoltratosi _Renzo da Ceri_ col _Vitelli_ e coll'esercito
pontificio, gli toccò una spelazzata, per cui fu obbligato a ritirarsi.
Fra i grandiosi disegni del papa, uno de' primarii era di portar
la guerra in regno di Napoli, e a questo fine aveva egli chiamato a
Roma _Renato conte di Vaudemont_, erede degli oramai rancidi diritti
degli Angioini. Montato questi sulla flotta pontificia e veneta, con
cui s'aveano ad unire anche le navi franzesi, sul principio di marzo
fece vela verso il litorale di Napoli. S'impadronì di Castellamare,
di Stabbia, della Torre del Greco, e di Sorrento; e, dopo aver
saccheggiato altri luoghi, si spinse addosso a Salerno, e l'ebbe con
poca fatica. L'Anonimo Padovano riferisce con altri questa occupazione
ai primi giorni d'aprile; il Guicciardini molto prima. Era quella città
ricchissima; tutta fu messa a sacco; e chi del popolo non ebbe tempo
a salvarsi colla fuga, fu prigione, ed obbligato poi a riscattarsi
con esorbitanti taglie. Oltre a ciò in Abbruzzo riuscì ai maneggi de'
pontifizii di far ribellare la città dell'Aquila; e Renzo da Ceri,
dopo aver preso Tagliacozzo, si inviava alla volta di Sora. Pareano in
questa maniera ben incamminati gli affari del papa, ma nella sostanza
prendevano ogni dì più cattiva piega. Mancava danaro per pagar le
milizie; sommamente si scarseggiava in Roma stessa di vettovaglie; e
però una gran diserzione entrò nell'armata papale, di modo che Renzo
disperato se ne tornò a Roma, nè altro maggior progresso fecero l'armi
del pontefice. E intanto dalla parte della Lombardia s'era alzato un
gran temporale, che di buon'ora cominciò a far tremare papa Clemente, e
del pari tutti i suoi aderenti e sudditi.
Certamente in questi tempi andava continuamente fra tanti venti
ondeggiando il politico capo e l'animo pauroso d'esso pontefice,
inclinando ora alla speranza, ora al timore, e scrivendo ora lettere
di fuoco, ed ora altre tutte sommesse a Cesare e ad altri principi.
Più volte egli mosse od ascoltò parole di accordo col vicerè Lanoia;
ma opponendosi sempre a tutto potere gli oratori del re Cristianissimo
e de' Veneziani, e insistendo egli sempre in volere lo sterminio de'
Colonnesi, andava in fumo ogni trattato. Tuttavia s'era il papa indotto
una volta ad un aggiustamento anche poco decoroso, ed altro non vi
mancava che la di lui sottoscrizione, allorchè sopravvenne la nuova
d'essere stati cacciati da Frosinone gl'Imperiali: per la qual vittoria
insperanzito di più felici successi, troncò quel negoziato. Con tutto
ciò, dacchè s'intese la mossa del _duca di Borbone_ verso gli Stati
della Chiesa e di Firenze, allora, accomodandosi alle correnti vicende,
acconsentì finalmente ad una tregua di otto mesi coll'imperadore, e a
restituire ai Colonnesi le loro terre: risoluzione che parve saggia per
conto suo, ma che a' suoi collegati riuscì sommamente dispiacevole e
molesta, e a lui poscia e a Roma infinitamente dannosa. Imperciocchè,
credendosi egli, in vigore di questa concordia, assicurato da ogni
pericolo, disarmò, licenziata la maggior parte delle sue soldatesche,
e spezialmente le bande nere del fu _Giovanni de Medici_, gente tutta
veterana e valorosa. Scrive il Rinaldi[405] che non si parlò in esso
accordo dei Colonnesi: il che non par verisimile. Secondo l'Anonimo
Padovano, circa il dì 25 di marzo fu stipulata la tregua suddetta, e
infatti entrò in quel dì in Roma il _vicerè Lanoia_. Ma in essa città
comparve ancora un uomo vestito di sacco, soprannominato _Brandano_,
che alle apparenze sembrava un pazzo, ed era Sanese di patria[406].
Andava egli pubblicamente, a guisa di Giona, predicando per tutta Roma
che soprastava ai Romani un gran flagello, e che perciò facessero
penitenza ed emendassero i loro troppi vizii e peccati, per placar
Dio gravemente sdegnato contra di loro, senza risparmiare lo stesso
papa e i cardinali. Era perciò appellato il pazzo di Cristo. Non
piacendo la musica di costui al governo, fu mandato il buon uomo a
predicare in una prigione; ma dacchè furono succedute le disgrazie di
Roma, ed egli ebbe ricuperata la libertà, tenuto fu per profeta, senza
che le sue voci avessero prodotto alcun profitto quand'era tempo. La
verità nondimeno si è, che Brandano fu un fanatico pieno d'alterigia.
Odiava certo i mali costumi di allora, e gli staffilava con zelo, ma
zelo spropositato. A fare un santo altro ci vuole che un sacco, un
Crocifisso e un declamar contro i vizii.
Tornando ora in Lombardia, dove lasciammo accampato verso Piacenza
Giorgio Fransperg co' suoi Tedeschi, andò _Carlo duca di Borbone_
circa la metà di gennaio, ad unirsi con quella gente a Fiorenzuola,
menando seco cinquecento uomini d'arme, molti cavalli leggieri,
quattro o cinque mila Spagnuoli di gente eletta, e circa due mila fanti
italiani. L'Anonimo Padovano scrive, aver egli condotto seco quattro
mila Tedeschi e due mila cavalli, che congiunti col Fransperg formarono
un possente esercito. Quivi tennero dei gran consigli; e, per quanto
si potè scorgere, fin d'allora presero la risoluzione di passare a
Firenze e a Roma, con disegno di saccheggiar quelle città e qualunque
altro luogo nel loro passaggio, non solo per soddisfare al presente
lor bisogno, ma ancora per arricchire in questa maniera; giacchè gran
tempo era che non sapeano cosa fossero paghe, nè restava loro speranza
d'averne in avvenire. Conviene aggiugnere che Giorgio Fransperg era un
luterano, e la maggior parte dei suoi aderenti a quella setta; laonde è
da credere che recassero fin di Germania il desio di far qualche brutto
tiro all'odiato da essi pontefice romano. Anzi fu comun parere che il
medesimo Fransperg seco portasse sempre un capestro di seta e d'oro,
vantandosi di voler con quello strangolare il papa. Pertanto eccoti
muoversi arditamente questo bestiale esercito nel dì 22 di febbraio, e
venire a Borgo San Donnino, senza far caso di trovarsi privo di danaro,
di vettovaglie, di munizioni ed attrezzi da guerra, e del dover passare
fra tante terre nimiche, e coll'avere ai fianchi o innanzi un'armata,
più anche poderosa che non era la loro. Infatti le genti ecclesiastiche
col _marchese di Saluzzo_ e con _Federigo da Bozzolo_ lasciato il
_conte Guido Rangone_ in Parma, con ordine di accorrere alla difesa
di Modena, andarono con celerità ad assicurar la città di Bologna.
Dopo avere i Borboneschi dato il sacco a varii luoghi del Parmigiano
e Reggiano, ancorchè il duca di Ferrara, padrone di Reggio[407], nei
sei giorni che coloro stettero sul Reggiano, non mancasse di mandar
loro regali e viveri, nel dì 5 di marzo vennero a riposarsi a Buomporto
del Modenese. Andò il Borbone ad abboccarsi al Finale col duca di
Ferrara, ed ebbero insieme degli stretti ragionamenti. Il Guicciardini,
che certo non vi si trovò presente, immaginò che il _duca Alfonso_
confortasse il Borbone o continuare il viaggio alla volta di Firenze
e di Roma. La verità è, che Alfonso, a cui l'imperadore avea promessa
la tenuta di Carpi, dianzi suo per la metà, giacchè per l'altra metà
n'era decaduto _Alberto Pio_ a cagione de' suoi tradimenti, trattò
col Borbone d'esserne messo in possesso, siccome infatti impetrò collo
sborso di molto danaro, ed obbligazione di maggior somma in altre rate.
Pertanto, consegnata quella nobil terra ad esso Alfonso, gli Spagnuoli,
ch'ivi erano di presidio, e non pochi, andarono ad accrescere
l'armata borbonesca. Passò questa dipoi a San Giovanni sul Bolognese,
fermandosi quivi per quattro giorni, con far delle scorrerie fino alle
porte di Bologna, e rodendo tutto quel di vettovaglia che trovavano.
Anche il duca di Ferrara continuamente andò loro inviando munizioni
da bocca e da guerra: del che gli fu poi fatto un delitto da _papa
Clemente_, quasichè ad un generale e vassallo di Cesare, come egli
era, disconvenisse l'aiutar nei bisogni l'esercito del suo sovrano; e
tanto più perchè gli dovea essere, secondo l'accordo, bonificato tutto
nel debito contratto per Carpi; ed insieme per tal via veniva a restar
salvo da' saccheggi il distretto di Ferrara. Fu colpito in questi tempi
il capitano Fransperg da un accidente apopletico, per cui fu condotto a
Ferrara ad implorare il soccorso de' medici.
Cotanto si andò poi fermando sul Bolognese il Borbone, che arrivò
la nuova della tregua stabilita fra il papa e il vicerè di Napoli.
Questa fu cagione che i _Veneziani_, per sospetto che il Borbone
si potesse volgere ai lor danni, richiamassero di là da Po il _duca
d'Urbino_ colle sue genti: il che riempiè di terrore i lor sudditi.
Ma il Borbone, essendogli stato intimato da uomini spediti dal papa
e dal vicerè che si ritirasse dagli Stati della Chiesa, non sì tosto
ebbe comunicato quest'ordine ai capitani dell'esercito, che si fece
una sollevazione, e fu in pericolo la vita sua. Spedito a Ferrara il
_marchese del Vasto_, s'ingegnò di ricavare da quel duca il resto del
danaro promesso per la signoria di Carpi, con cui si quetò il tumulto.
Rispose intanto il Borbone al vicerè di non essere obbligato a quel
vergognoso accordo, e che l'armata priva di paghe non potea tornare
indietro. Sopraggiunto poscia un altro messo, spedito da esso vicerè,
che mostrò copia dell'autorità a lui data dall'imperadore di far pace
e tregua, come a lui piacesse, e comandò a tutti gli uffiziali sotto
gravissime pene di non procedere innanzi: altro effetto non produsse,
se non che _Alfonso marchese del Vasto_, con alcuni altri signori
napoletani si partì da quell'arrabbiato esercito con gran dolore del
Borbone e degli Spagnuoli. Sul principio d'aprile si mosse il Borbone
verso la Romagna, avendo prima i collegati inviate buone guarnigioni
ad Imola, Forlì e Ravenna; e presa la terra di Brisighella, ivi trovò
di grandi ricchezze, perchè quel popolo bellicoso nelle antecedenti
guerre era intervenuto al sacco di varie terre e città. Tutto andò
in mano di que' masnadieri, e la terra data fu alle fiamme. Lo stesso
crudel trattamento patì la bella terra di Meldola e Russi, con altre
di quelle contrade. In questo mentre il _vicerè Lanoia_, ossia che
veramente gli premesse di mantener la fede data al papa, o che fingesse
tal premura, venne a Firenze; e, dopo avere stabilito accordo con
quella repubblica, disegnava ancora di passare al campo del Borbone,
per fermarlo. Ma, avvisato che, se compariva colà, non era sicura la
sua vita, se ne tornò dopo molti giorni, senza far altro, indietro.
Scrive nulla di meno il Giovio, ed anche il Nardi, che si abboccarono
insieme, con essere poi stato costretto il vicerè dalle furiose grida
de' soldati a salvarsi. Allora i Fiorentini chiamarono in Toscana i
collegati, che, per varie vie andati colà, assicurarono ben Firenze
da maggiori insulti, ma nulla operarono per impedire al Borbone di
valicar l'Apennino tra Faenza e Forlì per la Galiata, e di giugnere
nel Fiorentino su quel di Bibiena, con fermarsi ai confini di Siena,
saccheggiando e bruciando il contado di Firenze, mentre i Sanesi gli
davano favore e vettovaglie a tutto potere. Al _duca d'Urbino_ riuscì
in questa congiuntura, e non prima, di cavare dalle mani dei Fiorentini
le fortezze di San Leo e di Maiuolo nel Montefeltro. Nè mancò chi
l'accusasse di pensieri segreti contrarii al bisogno del papa, per gli
aggravii a lui inferiti negli anni addietro dalla casa de Medici.
Ora trovandosi i Fiorentini in mezzo a sì fiero incendio, assassinati
nel distretto dai nemici crudeli borbonisti, e non men gravati dagli
amici, a' quali doveano somministrar danaro e vitto, quando la lor
città pativa una grave carestia: sparlavano forte del papa, attribuendo
a lui non men essi, che poscia i Romani, per attestato dell'Anonimo
Padovano, la cagione di tanti mali d'Italia per la cupidigia di
spogliare gli Estensi di Ferrara, e di continuar la sua tirannia in
Firenze. Perciò un giorno mossero la città a sedizione, per iscacciarne
i Medici e ricuperare la libertà. Chiamati accorsero a tempo il _duca
d'Urbino_ e _Michele marchese di Saluzzo_. Pertanto veggendo il duca
di Borbone che possibil non era di mettere il piede in Firenze, difesa
da tante genti della lega, nel dì 26 d'aprile si mise in marcia con
tutto l'esercito alla volta di Roma. Quanti armati egli conducesse,
neppure allora, secondo il solito, ben si seppe. I più portarono
opinione che fossero venti mila Tedeschi, otto mila Spagnuoli e tre
mila Italiani utili, con poca cavalleria, cioè con secento cavalli, e
senza artiglieria e senza carriaggi. Altri sminuiscono quell'armata;
ma certo è che gran copia di malviventi italiani seco si congiunse per
la speranza di grosso bottino. A questo avviso fu spedito il _conte
Guido Rangone_, generale delle armi papaline, per una diversa strada
verso Roma con cinque mila fanti e tutti i suoi cavalieri. Ma, oltre
all'essergli poi scritto da Roma, abbisognar quella città solamente di
sei in ottocento archibugieri, le genti sue non aveano tanti interni
stimoli alle marcie sforzate, come l'esercito del Borbone, spinto dalla
fame, avido della preda e disperato. Erano rotte e fangose al maggior
segno le strade: pure sembrava che coloro volassero. Saccheggiarono
Acquapendente, San Lorenzo alle Grotte, Ronciglione ed altri luoghi.
Mandato innanzi il capitano Zucchero co' suoi pochi cavalli, aiutato
da' fuorusciti, entrò in Viterbo, e vi preparò tanta vettovaglia, che
giunta l'armata, colà prese un buon ristoro. Veggendosi in questo
mentre il pontefice a mal partito, lasciata andare la tregua già
stabilita col Lanoia, tregua che fu la sua rovina, di nuovo conchiuse
lega co' _Veneziani_ e _duca di Milano_, ma lega che nulla il preservò
dall'imminente calamità. Della difesa di Roma era incaricato _Renzo
da Ceri_, che tumultuariamente avendo raccolta quanta gente potè,
lor diede l'armi: gente nondimeno la maggior parte inesperta a quel
mestiere, perchè presa dalle stalle de' cardinali e dalle botteghe
degli artigiani; e il popolo di Roma d'allora non era quello degli
antichi tempi. L'Anonimo Padovano scrive che Renzo, fatte le mostre,
si trovò avere, computato il popolo romano, dieci mila ottimi fanti e
cinquecento cavalli, e li mandava ogni giorno ad assalire l'esercito
borbonesco. Verisimilmente non gli fecero gran paura, nè male.
Arrivò il Borbone nel dì 5 di maggio sui prati di Roma; e perciocchè,
dall'un canto, sapea che l'esercito della lega, venendo alle spalle,
cominciava ad appressarsi, e, dall'altro, non vedea maniera di far
sussistere l'armata, priva affatto di vettovaglia e in paese prima
spazzato, spinto dalla necessità e dalla disperazione, nel dì seguente
6 di maggio determinò di vincere o di morire. Però sull'apparir del
giorno andò ad assalire il borgo di San Pietro, dove Renzo da Ceri,
Camillo Orsini, Orazio Baglione e molti nobili romani fecero gran
difesa. Ma eccoti sopraggiugnere una folta nebbia, per cagione di cui
le artiglierie di castello Sant'Angelo, che prima faceano gran danno
ai Borboneschi, cessarono di tirare. Con tale occasione accostossi
il Borbone verso la porta di Santo Spirito, ed essendo la muraglia
bassa, appoggiatevi molte scale, fu de' primi a salir per esse, ma
non già ad arrivar sulle mura, perchè, colto nell'anguinaglia da una
palla d'archibugio o de' suoi o de' nemici soldati, andando colle
gambe all'aria, poco stette a spirar la scellerata sua anima, senza
godere alcun frutto dell'infame suo attentato. Entrarono bensì i suoi
soldati: il che riferito a _papa Clemente_, che tuttavia stava nel
palazzo Vaticano, tosto si ritirò in castello Sant'Angelo coi cardinali
e prelati del suo seguito; nè poi si arrischiò a fuggire, come avrebbe
potuto, secondo alcuni; quando altri scrivono che i Colonnesi con dieci
mila armati erano nei contorni, acciocchè egli non potesse mettersi
in salvo. Perciò, ivi rinserrato, fu costretto ad essere spettatore
di quella tanto lagrimevol tragedia. Presero nello stesso tempo gli
arrabbiati masnadieri non solamente Trastevere, ma anche la città,
entrando per ponte Sisto: tanto era il disordine de' suoi soldati e dei
Romani, e sì poca era stata la precauzione de' capitani. Esigerebbe
ora più carte la descrizione dell'orrida disavventura di Roma. A me
basterà di dire in compendio che all'ingresso di quella furibonda
canaglia rimasero uccisi ben quattro mila fra soldati e cittadini
romani. Il Giovio dice fin sette mila. In quella notte poi e per più
dì susseguenti ad altro non attesero quei cani che al saccheggio della
infelice città. E siccome essa era piena di ricchezze per le corti di
tanti cardinali, principi ed ambasciatori, così immenso fu il bottino,
con ascendere a più milioni d'oro. Nè minor crudeltà usarono in tal
congiuntura gli spietati Spagnuoli cattolici, che i Tedeschi luterani.
Non contenti di spogliar palagi, case, e tutti ancora i sacri luoghi,
con bruciar anche dove trovavano resistenza, fecero prigioni quanti
cardinali, vescovi, prelati, cortigiani e nobili romani caddero nelle
lor mani, e ad essi imposero indicibili taglie di danaro, tormentandone
eziandio moltissimi, affinchè rivelassero gli ascosi e non ascosi
tesori: crudel trattamento, da cui non andò esente neppure uno degli
abbati, priori e capi de' monisteri. E chi s'era riscattato dagli
Spagnuoli, se sopraggiugnevano i Tedeschi, era di nuovo taglieggiato
e sottoposto a tormenti. Si aggiunse a tanta barbarie lo sfogo ancora
della libidine, restando esposte ad ogni ludibrio non men le matrone
romane e le lor figlie, che le stesse vergini sacre; giacchè niun
freno avendo quella bestial ciurmaglia per la morte dell'empio lor
generale, non lasciò intatto alcun monistero o tempio alcuno dalle
violenze. Oltre a tutti i vasi ed arredi sacri delle chiese, che
Francesco_, non potendo più reggere, conchiuse un accordo col _duca
di Borbone_, con varii capitoli, de' quali niuno gli fu mantenuto,
fuorchè la libertà di ritirarsi con tutti i suoi, e se ne andò a Lodi,
città che liberamente fu dai collegati rimessa in sua mano; nella quale
occasione egli confermò i capitoli della lega col papa e co' Veneziani.
Stava tuttavia alla divozion di esso duca il castello di Cremona: nata
la speranza che si potesse ottener colla forza anche la città, fu
spedito colà nel dì 6 d'agosto _Malatesta Baglione_ con sufficienti
forze di gente e d'artiglierie. Fece egli giocar le batterie, diede
varii assalti, e tutto indarno; di maniera che il duca d'Urbino,
giacchè erano giunti al campo della santa lega i tredici mila Svizzeri,
tanto tempo aspettati, passò colà in persona con altre milizie. Strinse
egli e tormentò sì fattamente quella città, che il comandante imperiale
nel dì 25 di agosto capitolò di rendersi, se per tutto il mese suddetto
non gli veniva soccorso.
Poco felicemente camminavano gli affari del _pontefice_ in Lombardia,
e peggio poi in Roma. Imperocchè si trattò di pace fra esso papa da
una parte, e don _Ugo di Moncada_, reggente allora di Napoli per
la lontananza del vicerè, e i _Colonnesi_ dall'altra. _Vespasiano
Colonna_, di cui molto si fidava Clemente VII, fu il mezzano che
conchiuse l'accordo nel dì 22 d'agosto, per cui doveano i Colonnesi
restituire Anagni, e ritirare le lor genti nel regno di Napoli.
Riposando su questa capitolazione l'incauto pontefice, licenziò quasi
tutte le sue milizie. Ma nella notte precedente del dì 20 di settembre
eccoti segretamente arrivare lo stesso Moncada, allievo ben degno del
fu iniquo duca Valentino, ed _Ascanio Colonna_ e il suddetto Vespasiano
con ottocento cavalli e tre mila fanti, che presero tre porte di Roma.
Era con esso loro _Pompeo Colonna cardinale_, uomo di poca religione
e di smisurata ambizione, sì vago del pontificato, che fu creduto che
avesse cospirato alla morte violenta del pontefice, per occupar egli
dipoi la sedia di san Pietro. Il papa nel palazzo Vaticano, implorando
l'aiuto di Dio e degli uomini, non si volea muovere. Tanto dissero
i cardinali, che si rifugiò in castello Sant'Angelo nel medesimo
tempo che que' masnadieri diedero il sacco non solamente al palazzo
pontifizio, ma anche alla basilica vaticana, alla terza parte del
borgo nuovo, e a quanti cardinali e prelati trovarono in borgo, e agli
ambasciatori della lega, con perpetua infamia del nome cristiano. In
una lettera di Girolamo Negro[404] è descritta questa tragica scena. Ed
ecco il primo amaro frutto delle leghe e guerre di papa _Clemente VII_;
eppure Dio l'aveva riserbato a più dura lezione e disciplina. Perchè
il castello era sprovveduto di vettovaglie, avendo don Ugo proposto
una tregua, non durò fatica il papa a condiscendere, obbligandosi
fra le altre condizioni di richiamar le milizie sue dalla Lombardia.
Questo avvenimento disturbò tutti i disegni dell'esercito collegato
in Lombardia, che già si era fortemente rinforzato per l'arrivo del
_marchese di Saluzzo_ con cinquecento lancie e quattro mila fanti
franzesi, ed aspettava a momenti anche due mila Grigioni, con disegno
di strignere da due parti Milano. Ed ancorchè il papa, che non sapea
digerire la tregua fatta, nel ritirar le sue truppe, lasciasse in
quell'esercito quattro mila fanti sotto il comando di _Giovanni de
Medici_, col pretesto che fossero gente pagata dal re di Francia;
pure niun'altra considerabile azione fu fatta da essi collegati. Si
rendè intanto la città di Cremona, e ne fu dato possesso al _duca
Francesco_; ed anche Pizzighittone venne alle sue mani. Ciò fatto,
ritornarono i collegati a bloccare Milano: il che moltiplicò i guai di
quella infelice città. Non potè lungamente astenersi papa Clemente dal
rompere la tregua: tanto era il suo sdegno contra de' Colonnesi, e il
desiderio della vendetta. Privò del cappello il _cardinale Colonna_,
fece spianare in Roma le case de' Colonnesi; e giacchè di Lombardia
era giunto a Roma parte delle sue soldatesche, ordinò a _Vitello_
ossia _Paolo Vitelli_ di passare ai danni de' Colonnesi, di bruciare
e spianar le loro terre. Ma poca contentezza, anzi non poco biasimo
riportò da quella spedizione e dalle sue vendette l'ira pontificia.
Calò circa il principio di novembre a Trento Giorgio Fransperg, che
colla industria e danaro suo e più colle promesse di gran preda, avea
raunati tredici in quattordici mila fanti Tedeschi. Venne poi questo
sì grosso corpo di gente a Salò e circa il fine di novembre verso
Borgo forte, per passare ivi il Po. Il _duca di Urbino_ gli andava
inseguendo, per cogliere il tempo d'assalirli. Il trovarsi coloro
senza cavalli e artiglierie, facea credere sicura la vittoria. Scrive
nondimeno l'Anonimo Padovano che con essi Tedeschi erano cinquecento
cavalli sotto il governo del capitano Zucchero. Ma allorchè in
vicinanza di Borgoforte _Giovanni de Medici_ co' cavalli leggieri
andò a pizzicar la loro coda, eccoti, contra la espettazion d'ognuno,
un colpo di falconetto che gli fracassò un ginocchio; per la qual
ferita portato a Mantova, fra pochi giorni, cioè nel dì 30 di esso
mese, cessò di vivere: giovane di circa ventotto anni, di mirabil
senno, e insieme di non minor ardire, mancando in lui chi si sperava
che avesse a divenire l'onor d'Italia nell'arte della guerra. Fu egli
padre di _Cosimo I_, che vedremo a suo tempo duca e poi gran duca di
Toscana. L'essersi avveduti i collegati che non mancava artiglieria
a quella gente, li fece dopo breve battaglia desistere da altri
tentativi; laonde coloro passarono il Po, e marciarono dipoi alla volta
di Piacenza. Seppesi poscia che _Alfonso duca_ di Ferrara, il quale
maneggiava da gran tempo i suoi affari con _Carlo Augusto_, pregato
da que' Tedeschi, e intento a far conoscere il suo buon animo ad esso
imperadore, avea loro inviato dodici tra falconetti e mezze colubrine,
con assai munizioni da guerra. Nè si dee tralasciare che papa Clemente,
il quale non possedea la virtù di saper perdonare, nè di reprimere i
suoi odii, niun orecchio avea fin qui voluto dare alle istanze di esso
duca Alfonso per riavere la sua città di Modena, anzi avea con insidie
cercato di spogliarlo anche di Ferrara: finalmente, pel tanto picchiare
de' suoi consiglieri, s'indusse a proporre un accordo con lui, non già
per grandezza d'animo, ma quasi per necessità in sì scabrosi tempi. Si
proponeva di dichiararlo capitan generale della lega, di dar per moglie
a _donno Ercole_ suo primogenito _Caterina de Medici_, che fu poi
regina di Francia, e di restituirgli Modena, pagando egli ducento mila
scudi d'oro. Appoggiata questa proposizione a _Francesco Guicciardini_,
non fu a tempo. Il duca onoratamente fece sapere, essere già acconciati
gli affari suoi coll'imperadore, nè poter esso prendere con onor suo
contrarie risoluzioni. Infatti, Carlo augusto sul fin di settembre
gli avea confermata l'investitura de' suoi Stati, fra' quali Modena
e Reggio, e dichiarato lui capitan generale delle sue armi in Italia,
e stabiliti gli sponsali del suddetto donno Ercole con _Margherita_,
sua figlia naturale, che vedremo poi duchessa di Firenze, e di Parma
e Piacenza. Si pentì ben Clemente delle passate sue durezze con questo
principe, e ne ebbe dei vivi rimproveri da' suoi collegati.
Nel novembre di quest'anno spedì _Carlo V_ in Italia il _vicerè Lanoia_
con una flotta, su cui venivano quattro mila fanti spagnuoli, e non già
quattordici mila, come con troppa apertura di bocca ha il Giustiniano
Genovese. Arrivata questa a Codimonte, il prode _Andrea Doria_, che
era allora a' servigi del papa, _Pietro Navarro_, che guidava le galee
di Francia e le galee de' Veneziani (avea questa armata dianzi tenuta
Genova per molto tempo come bloccata), andarono ad assalirla. In quella
battaglia perdè il vicerè una nave, e col resto assai maltrattato si
ridusse poi in regno di Napoli, dove, unito coi Colonnesi, cominciò a
dar grande apprensione al papa. In somma fu ben l'anno presente fecondo
di guai e disastri per tutta l'Italia, dove, secondo il minuto conto
che ne fece l'Anonimo Padovano, si contarono circa cento mila soldati
in varie parti, con infinite estorsioni ed inesplicabile aggravio
de' popoli, e specialmente della misera città di Milano e di quello
Stato, le cui miserie, descritte da varii autori, quasi non si possono
leggere senza lagrime. Pel gran bisogno di danaro finse il Borbone di
voler far decapitare il già imprigionato _Girolamo Morone_. Questi si
riscattò con venti mila ducati d'oro, e poco stette col suo ingegno
a divenire il confidente del medesimo Borbone. Negli stessi tempi
cominciò la città di Napoli ad essere flagellata da un'orrida peste,
che continuò poscia ne' tre seguenti anni, con gravissima strage di
quella sì popolata metropoli. Si aggiunse anche la carestia a questi
malori. Ma ciò che fu più degno di pianto, è da dir l'irruzione fatta
in quest'anno nell'Ungheria da Solimano sultano de' Turchi; la gran
rotta da lui data a que' popoli cristiani colla morte del re loro
_Lodovico_, e la presa della real città di Buda e di tanti altri
paesi. Grandi furono le dicerie per questo contra di _papa Clemente_,
imputando i più, ed anche lo stesso Carlo Augusto in iscrivendo ai
cardinali, queste calamità ad esso pontefice; giacchè egli, invece
di accudire a resistere ai Turchi in difesa del Cristianesimo, avea
voluto far guerra ai Cristiani, spendendo immensi tesori in mantenere
un'armata in Lombardia, un'altra ne' suoi Stati per guerreggiar co'
Sanesi e Colonnesi, e una flotta in mare per mutare il governo di
Genova. Ma qual rovina maggiore procedesse da questi politici impegni
del pontefice, pur troppo lo vedremo all'anno seguente.
NOTE:
[403] Du-Mont, Corp. Diplomat.
[404] Lettere dei principi.
Anno di CRISTO MDXXVII. Indizione XV.
CLEMENTE VII papa 5.
CARLO V imperadore 9.
Siam giunti ad un anno de' più funesti e lagrimevoli che s'abbia
mai avuto l'Italia. Sul fine dell'anno precedente e sul principio
di questo seguitò a farsi una guerra arrabbiata e come turchesca fra
le milizie del papa e quelle de' Colonnesi, sostenute dalle cesaree
del regno di Napoli, perchè tutto si metteva a ferro e fuoco. Fu in
questi tempi preso e messo in castello Sant'Angelo l'_abbate di Farfa_,
cioè _Napoleone_ de' primi di casa Orsina, giovane provveduto più di
temerità che di prudenza; e fu divulgato ch'egli si fosse inteso col
_vicerè Lanoia_ di dargli una porta di Roma, e si giunse fino a dire
ch'egli avesse tramato contro la sacra persona dello stesso pontefice.
Andò il vicerè all'assedio di Frosinone, e vi stette sotto alquanti
giorni; ma, inoltratosi _Renzo da Ceri_ col _Vitelli_ e coll'esercito
pontificio, gli toccò una spelazzata, per cui fu obbligato a ritirarsi.
Fra i grandiosi disegni del papa, uno de' primarii era di portar
la guerra in regno di Napoli, e a questo fine aveva egli chiamato a
Roma _Renato conte di Vaudemont_, erede degli oramai rancidi diritti
degli Angioini. Montato questi sulla flotta pontificia e veneta, con
cui s'aveano ad unire anche le navi franzesi, sul principio di marzo
fece vela verso il litorale di Napoli. S'impadronì di Castellamare,
di Stabbia, della Torre del Greco, e di Sorrento; e, dopo aver
saccheggiato altri luoghi, si spinse addosso a Salerno, e l'ebbe con
poca fatica. L'Anonimo Padovano riferisce con altri questa occupazione
ai primi giorni d'aprile; il Guicciardini molto prima. Era quella città
ricchissima; tutta fu messa a sacco; e chi del popolo non ebbe tempo
a salvarsi colla fuga, fu prigione, ed obbligato poi a riscattarsi
con esorbitanti taglie. Oltre a ciò in Abbruzzo riuscì ai maneggi de'
pontifizii di far ribellare la città dell'Aquila; e Renzo da Ceri,
dopo aver preso Tagliacozzo, si inviava alla volta di Sora. Pareano in
questa maniera ben incamminati gli affari del papa, ma nella sostanza
prendevano ogni dì più cattiva piega. Mancava danaro per pagar le
milizie; sommamente si scarseggiava in Roma stessa di vettovaglie; e
però una gran diserzione entrò nell'armata papale, di modo che Renzo
disperato se ne tornò a Roma, nè altro maggior progresso fecero l'armi
del pontefice. E intanto dalla parte della Lombardia s'era alzato un
gran temporale, che di buon'ora cominciò a far tremare papa Clemente, e
del pari tutti i suoi aderenti e sudditi.
Certamente in questi tempi andava continuamente fra tanti venti
ondeggiando il politico capo e l'animo pauroso d'esso pontefice,
inclinando ora alla speranza, ora al timore, e scrivendo ora lettere
di fuoco, ed ora altre tutte sommesse a Cesare e ad altri principi.
Più volte egli mosse od ascoltò parole di accordo col vicerè Lanoia;
ma opponendosi sempre a tutto potere gli oratori del re Cristianissimo
e de' Veneziani, e insistendo egli sempre in volere lo sterminio de'
Colonnesi, andava in fumo ogni trattato. Tuttavia s'era il papa indotto
una volta ad un aggiustamento anche poco decoroso, ed altro non vi
mancava che la di lui sottoscrizione, allorchè sopravvenne la nuova
d'essere stati cacciati da Frosinone gl'Imperiali: per la qual vittoria
insperanzito di più felici successi, troncò quel negoziato. Con tutto
ciò, dacchè s'intese la mossa del _duca di Borbone_ verso gli Stati
della Chiesa e di Firenze, allora, accomodandosi alle correnti vicende,
acconsentì finalmente ad una tregua di otto mesi coll'imperadore, e a
restituire ai Colonnesi le loro terre: risoluzione che parve saggia per
conto suo, ma che a' suoi collegati riuscì sommamente dispiacevole e
molesta, e a lui poscia e a Roma infinitamente dannosa. Imperciocchè,
credendosi egli, in vigore di questa concordia, assicurato da ogni
pericolo, disarmò, licenziata la maggior parte delle sue soldatesche,
e spezialmente le bande nere del fu _Giovanni de Medici_, gente tutta
veterana e valorosa. Scrive il Rinaldi[405] che non si parlò in esso
accordo dei Colonnesi: il che non par verisimile. Secondo l'Anonimo
Padovano, circa il dì 25 di marzo fu stipulata la tregua suddetta, e
infatti entrò in quel dì in Roma il _vicerè Lanoia_. Ma in essa città
comparve ancora un uomo vestito di sacco, soprannominato _Brandano_,
che alle apparenze sembrava un pazzo, ed era Sanese di patria[406].
Andava egli pubblicamente, a guisa di Giona, predicando per tutta Roma
che soprastava ai Romani un gran flagello, e che perciò facessero
penitenza ed emendassero i loro troppi vizii e peccati, per placar
Dio gravemente sdegnato contra di loro, senza risparmiare lo stesso
papa e i cardinali. Era perciò appellato il pazzo di Cristo. Non
piacendo la musica di costui al governo, fu mandato il buon uomo a
predicare in una prigione; ma dacchè furono succedute le disgrazie di
Roma, ed egli ebbe ricuperata la libertà, tenuto fu per profeta, senza
che le sue voci avessero prodotto alcun profitto quand'era tempo. La
verità nondimeno si è, che Brandano fu un fanatico pieno d'alterigia.
Odiava certo i mali costumi di allora, e gli staffilava con zelo, ma
zelo spropositato. A fare un santo altro ci vuole che un sacco, un
Crocifisso e un declamar contro i vizii.
Tornando ora in Lombardia, dove lasciammo accampato verso Piacenza
Giorgio Fransperg co' suoi Tedeschi, andò _Carlo duca di Borbone_
circa la metà di gennaio, ad unirsi con quella gente a Fiorenzuola,
menando seco cinquecento uomini d'arme, molti cavalli leggieri,
quattro o cinque mila Spagnuoli di gente eletta, e circa due mila fanti
italiani. L'Anonimo Padovano scrive, aver egli condotto seco quattro
mila Tedeschi e due mila cavalli, che congiunti col Fransperg formarono
un possente esercito. Quivi tennero dei gran consigli; e, per quanto
si potè scorgere, fin d'allora presero la risoluzione di passare a
Firenze e a Roma, con disegno di saccheggiar quelle città e qualunque
altro luogo nel loro passaggio, non solo per soddisfare al presente
lor bisogno, ma ancora per arricchire in questa maniera; giacchè gran
tempo era che non sapeano cosa fossero paghe, nè restava loro speranza
d'averne in avvenire. Conviene aggiugnere che Giorgio Fransperg era un
luterano, e la maggior parte dei suoi aderenti a quella setta; laonde è
da credere che recassero fin di Germania il desio di far qualche brutto
tiro all'odiato da essi pontefice romano. Anzi fu comun parere che il
medesimo Fransperg seco portasse sempre un capestro di seta e d'oro,
vantandosi di voler con quello strangolare il papa. Pertanto eccoti
muoversi arditamente questo bestiale esercito nel dì 22 di febbraio, e
venire a Borgo San Donnino, senza far caso di trovarsi privo di danaro,
di vettovaglie, di munizioni ed attrezzi da guerra, e del dover passare
fra tante terre nimiche, e coll'avere ai fianchi o innanzi un'armata,
più anche poderosa che non era la loro. Infatti le genti ecclesiastiche
col _marchese di Saluzzo_ e con _Federigo da Bozzolo_ lasciato il
_conte Guido Rangone_ in Parma, con ordine di accorrere alla difesa
di Modena, andarono con celerità ad assicurar la città di Bologna.
Dopo avere i Borboneschi dato il sacco a varii luoghi del Parmigiano
e Reggiano, ancorchè il duca di Ferrara, padrone di Reggio[407], nei
sei giorni che coloro stettero sul Reggiano, non mancasse di mandar
loro regali e viveri, nel dì 5 di marzo vennero a riposarsi a Buomporto
del Modenese. Andò il Borbone ad abboccarsi al Finale col duca di
Ferrara, ed ebbero insieme degli stretti ragionamenti. Il Guicciardini,
che certo non vi si trovò presente, immaginò che il _duca Alfonso_
confortasse il Borbone o continuare il viaggio alla volta di Firenze
e di Roma. La verità è, che Alfonso, a cui l'imperadore avea promessa
la tenuta di Carpi, dianzi suo per la metà, giacchè per l'altra metà
n'era decaduto _Alberto Pio_ a cagione de' suoi tradimenti, trattò
col Borbone d'esserne messo in possesso, siccome infatti impetrò collo
sborso di molto danaro, ed obbligazione di maggior somma in altre rate.
Pertanto, consegnata quella nobil terra ad esso Alfonso, gli Spagnuoli,
ch'ivi erano di presidio, e non pochi, andarono ad accrescere
l'armata borbonesca. Passò questa dipoi a San Giovanni sul Bolognese,
fermandosi quivi per quattro giorni, con far delle scorrerie fino alle
porte di Bologna, e rodendo tutto quel di vettovaglia che trovavano.
Anche il duca di Ferrara continuamente andò loro inviando munizioni
da bocca e da guerra: del che gli fu poi fatto un delitto da _papa
Clemente_, quasichè ad un generale e vassallo di Cesare, come egli
era, disconvenisse l'aiutar nei bisogni l'esercito del suo sovrano; e
tanto più perchè gli dovea essere, secondo l'accordo, bonificato tutto
nel debito contratto per Carpi; ed insieme per tal via veniva a restar
salvo da' saccheggi il distretto di Ferrara. Fu colpito in questi tempi
il capitano Fransperg da un accidente apopletico, per cui fu condotto a
Ferrara ad implorare il soccorso de' medici.
Cotanto si andò poi fermando sul Bolognese il Borbone, che arrivò
la nuova della tregua stabilita fra il papa e il vicerè di Napoli.
Questa fu cagione che i _Veneziani_, per sospetto che il Borbone
si potesse volgere ai lor danni, richiamassero di là da Po il _duca
d'Urbino_ colle sue genti: il che riempiè di terrore i lor sudditi.
Ma il Borbone, essendogli stato intimato da uomini spediti dal papa
e dal vicerè che si ritirasse dagli Stati della Chiesa, non sì tosto
ebbe comunicato quest'ordine ai capitani dell'esercito, che si fece
una sollevazione, e fu in pericolo la vita sua. Spedito a Ferrara il
_marchese del Vasto_, s'ingegnò di ricavare da quel duca il resto del
danaro promesso per la signoria di Carpi, con cui si quetò il tumulto.
Rispose intanto il Borbone al vicerè di non essere obbligato a quel
vergognoso accordo, e che l'armata priva di paghe non potea tornare
indietro. Sopraggiunto poscia un altro messo, spedito da esso vicerè,
che mostrò copia dell'autorità a lui data dall'imperadore di far pace
e tregua, come a lui piacesse, e comandò a tutti gli uffiziali sotto
gravissime pene di non procedere innanzi: altro effetto non produsse,
se non che _Alfonso marchese del Vasto_, con alcuni altri signori
napoletani si partì da quell'arrabbiato esercito con gran dolore del
Borbone e degli Spagnuoli. Sul principio d'aprile si mosse il Borbone
verso la Romagna, avendo prima i collegati inviate buone guarnigioni
ad Imola, Forlì e Ravenna; e presa la terra di Brisighella, ivi trovò
di grandi ricchezze, perchè quel popolo bellicoso nelle antecedenti
guerre era intervenuto al sacco di varie terre e città. Tutto andò
in mano di que' masnadieri, e la terra data fu alle fiamme. Lo stesso
crudel trattamento patì la bella terra di Meldola e Russi, con altre
di quelle contrade. In questo mentre il _vicerè Lanoia_, ossia che
veramente gli premesse di mantener la fede data al papa, o che fingesse
tal premura, venne a Firenze; e, dopo avere stabilito accordo con
quella repubblica, disegnava ancora di passare al campo del Borbone,
per fermarlo. Ma, avvisato che, se compariva colà, non era sicura la
sua vita, se ne tornò dopo molti giorni, senza far altro, indietro.
Scrive nulla di meno il Giovio, ed anche il Nardi, che si abboccarono
insieme, con essere poi stato costretto il vicerè dalle furiose grida
de' soldati a salvarsi. Allora i Fiorentini chiamarono in Toscana i
collegati, che, per varie vie andati colà, assicurarono ben Firenze
da maggiori insulti, ma nulla operarono per impedire al Borbone di
valicar l'Apennino tra Faenza e Forlì per la Galiata, e di giugnere
nel Fiorentino su quel di Bibiena, con fermarsi ai confini di Siena,
saccheggiando e bruciando il contado di Firenze, mentre i Sanesi gli
davano favore e vettovaglie a tutto potere. Al _duca d'Urbino_ riuscì
in questa congiuntura, e non prima, di cavare dalle mani dei Fiorentini
le fortezze di San Leo e di Maiuolo nel Montefeltro. Nè mancò chi
l'accusasse di pensieri segreti contrarii al bisogno del papa, per gli
aggravii a lui inferiti negli anni addietro dalla casa de Medici.
Ora trovandosi i Fiorentini in mezzo a sì fiero incendio, assassinati
nel distretto dai nemici crudeli borbonisti, e non men gravati dagli
amici, a' quali doveano somministrar danaro e vitto, quando la lor
città pativa una grave carestia: sparlavano forte del papa, attribuendo
a lui non men essi, che poscia i Romani, per attestato dell'Anonimo
Padovano, la cagione di tanti mali d'Italia per la cupidigia di
spogliare gli Estensi di Ferrara, e di continuar la sua tirannia in
Firenze. Perciò un giorno mossero la città a sedizione, per iscacciarne
i Medici e ricuperare la libertà. Chiamati accorsero a tempo il _duca
d'Urbino_ e _Michele marchese di Saluzzo_. Pertanto veggendo il duca
di Borbone che possibil non era di mettere il piede in Firenze, difesa
da tante genti della lega, nel dì 26 d'aprile si mise in marcia con
tutto l'esercito alla volta di Roma. Quanti armati egli conducesse,
neppure allora, secondo il solito, ben si seppe. I più portarono
opinione che fossero venti mila Tedeschi, otto mila Spagnuoli e tre
mila Italiani utili, con poca cavalleria, cioè con secento cavalli, e
senza artiglieria e senza carriaggi. Altri sminuiscono quell'armata;
ma certo è che gran copia di malviventi italiani seco si congiunse per
la speranza di grosso bottino. A questo avviso fu spedito il _conte
Guido Rangone_, generale delle armi papaline, per una diversa strada
verso Roma con cinque mila fanti e tutti i suoi cavalieri. Ma, oltre
all'essergli poi scritto da Roma, abbisognar quella città solamente di
sei in ottocento archibugieri, le genti sue non aveano tanti interni
stimoli alle marcie sforzate, come l'esercito del Borbone, spinto dalla
fame, avido della preda e disperato. Erano rotte e fangose al maggior
segno le strade: pure sembrava che coloro volassero. Saccheggiarono
Acquapendente, San Lorenzo alle Grotte, Ronciglione ed altri luoghi.
Mandato innanzi il capitano Zucchero co' suoi pochi cavalli, aiutato
da' fuorusciti, entrò in Viterbo, e vi preparò tanta vettovaglia, che
giunta l'armata, colà prese un buon ristoro. Veggendosi in questo
mentre il pontefice a mal partito, lasciata andare la tregua già
stabilita col Lanoia, tregua che fu la sua rovina, di nuovo conchiuse
lega co' _Veneziani_ e _duca di Milano_, ma lega che nulla il preservò
dall'imminente calamità. Della difesa di Roma era incaricato _Renzo
da Ceri_, che tumultuariamente avendo raccolta quanta gente potè,
lor diede l'armi: gente nondimeno la maggior parte inesperta a quel
mestiere, perchè presa dalle stalle de' cardinali e dalle botteghe
degli artigiani; e il popolo di Roma d'allora non era quello degli
antichi tempi. L'Anonimo Padovano scrive che Renzo, fatte le mostre,
si trovò avere, computato il popolo romano, dieci mila ottimi fanti e
cinquecento cavalli, e li mandava ogni giorno ad assalire l'esercito
borbonesco. Verisimilmente non gli fecero gran paura, nè male.
Arrivò il Borbone nel dì 5 di maggio sui prati di Roma; e perciocchè,
dall'un canto, sapea che l'esercito della lega, venendo alle spalle,
cominciava ad appressarsi, e, dall'altro, non vedea maniera di far
sussistere l'armata, priva affatto di vettovaglia e in paese prima
spazzato, spinto dalla necessità e dalla disperazione, nel dì seguente
6 di maggio determinò di vincere o di morire. Però sull'apparir del
giorno andò ad assalire il borgo di San Pietro, dove Renzo da Ceri,
Camillo Orsini, Orazio Baglione e molti nobili romani fecero gran
difesa. Ma eccoti sopraggiugnere una folta nebbia, per cagione di cui
le artiglierie di castello Sant'Angelo, che prima faceano gran danno
ai Borboneschi, cessarono di tirare. Con tale occasione accostossi
il Borbone verso la porta di Santo Spirito, ed essendo la muraglia
bassa, appoggiatevi molte scale, fu de' primi a salir per esse, ma
non già ad arrivar sulle mura, perchè, colto nell'anguinaglia da una
palla d'archibugio o de' suoi o de' nemici soldati, andando colle
gambe all'aria, poco stette a spirar la scellerata sua anima, senza
godere alcun frutto dell'infame suo attentato. Entrarono bensì i suoi
soldati: il che riferito a _papa Clemente_, che tuttavia stava nel
palazzo Vaticano, tosto si ritirò in castello Sant'Angelo coi cardinali
e prelati del suo seguito; nè poi si arrischiò a fuggire, come avrebbe
potuto, secondo alcuni; quando altri scrivono che i Colonnesi con dieci
mila armati erano nei contorni, acciocchè egli non potesse mettersi
in salvo. Perciò, ivi rinserrato, fu costretto ad essere spettatore
di quella tanto lagrimevol tragedia. Presero nello stesso tempo gli
arrabbiati masnadieri non solamente Trastevere, ma anche la città,
entrando per ponte Sisto: tanto era il disordine de' suoi soldati e dei
Romani, e sì poca era stata la precauzione de' capitani. Esigerebbe
ora più carte la descrizione dell'orrida disavventura di Roma. A me
basterà di dire in compendio che all'ingresso di quella furibonda
canaglia rimasero uccisi ben quattro mila fra soldati e cittadini
romani. Il Giovio dice fin sette mila. In quella notte poi e per più
dì susseguenti ad altro non attesero quei cani che al saccheggio della
infelice città. E siccome essa era piena di ricchezze per le corti di
tanti cardinali, principi ed ambasciatori, così immenso fu il bottino,
con ascendere a più milioni d'oro. Nè minor crudeltà usarono in tal
congiuntura gli spietati Spagnuoli cattolici, che i Tedeschi luterani.
Non contenti di spogliar palagi, case, e tutti ancora i sacri luoghi,
con bruciar anche dove trovavano resistenza, fecero prigioni quanti
cardinali, vescovi, prelati, cortigiani e nobili romani caddero nelle
lor mani, e ad essi imposero indicibili taglie di danaro, tormentandone
eziandio moltissimi, affinchè rivelassero gli ascosi e non ascosi
tesori: crudel trattamento, da cui non andò esente neppure uno degli
abbati, priori e capi de' monisteri. E chi s'era riscattato dagli
Spagnuoli, se sopraggiugnevano i Tedeschi, era di nuovo taglieggiato
e sottoposto a tormenti. Si aggiunse a tanta barbarie lo sfogo ancora
della libidine, restando esposte ad ogni ludibrio non men le matrone
romane e le lor figlie, che le stesse vergini sacre; giacchè niun
freno avendo quella bestial ciurmaglia per la morte dell'empio lor
generale, non lasciò intatto alcun monistero o tempio alcuno dalle
violenze. Oltre a tutti i vasi ed arredi sacri delle chiese, che
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