Annali d'Italia, vol. 6 - 23

dovea parimente darla al Guicciardini, s'ingannò forte. Più di lui ne
sapeva anche l'Anonimo Padovano, che si trovò presente a queste guerre.
Sul principio di giugno il _signor di Lautrec_, per le forti istanze
dei Veneziani, passò sul Veronese, per formare l'assedio di quella
città. Le genti sue unite colle venete formavano un'armata di mille
e ducento uomini d'arme, di due mila cavalli leggieri e dodici mila
fanti. Ma alla difesa di Verona stava _Marcantonio Colonna_, divenuto
generale di Cesare, con grandi forze, perchè provveduto, secondo
l'Anonimo Padovano, di tre mila cavalli leggieri, sei mila fanti
tedeschi e mille e cinquecento spagnuoli. Venuto ordine dal senato
veneto che si mettesse a sacco quel paese per levare la sussistenza
alla città, orrendo spettacolo fu il vedere non solamente i soldati,
ma ancora gran gente del Trivisano, Padovano, Vicentino e Bresciano,
concorsa a questo inumano e pur delizioso mestiere, che tutti si
diedero a tagliar le biade e a saccheggiare e bruciar anche le case
dei poveri contadini. Erano per questo in somma disperazione i miseri
Veronesi, dentro oppressi da contribuzioni, gravezze e insolenze
innumerabili de' soldati, e fuori privati delle loro sostanze colla
desolazion di tutto il territorio. Infinita roba e gran copia di
bestiame aveano gl'infelici lor villani salvata in Val Polesella; ma
eccoti passar l'Adige Franzesi e Veneti, che, penetrati colà, fecero
un netto d'ogni cosa. Rallentò poscia questo flagello, perchè giunsero
alla Chiusa, e se ne impossessarono sei mila fanti tedeschi (altri
dicono otto, ed altri nove mila) spediti in soccorso a Verona. Corse
anche voce che quindici mila Svizzeri pagati dal re d'Inghilterra
avessero fra poco a calar nello Stato di Milano. Non vi volle di
più perchè il Lautrec, preso da spavento, contro il volere de'
Veneziani, si ritirasse a Peschiera ricuperata sul Mincio, da dove
poi le sue genti faceano continue scorrerie fino alle porte di Verona.
Passarono intanto le fanterie tedesche, poco danaro non di meno e poca
vettovaglia portando all'afflitta città di Verona; il che fatto, per
la maggior parte se ne tornarono al loro paese. Aspettò il Colonna tre
mila Svizzeri, inviati anch'essi in aiuto suo, e giunti che furono, con
tre mila cavalli e dieci mila fanti passò a Soave, dove si fermò otto
giorni, con dar tempo e sicurezza a que' popoli di fare i raccolti di
quel poco che loro era restato, e tutto poi fece condurre in Verona.
Pensava di far lo stesso verso il Mantovano; ma, tumultuando gli
Svizzeri e Tedeschi per mancanza di paghe, fu costretto a licenziar
tutti gli ultimamente venuti, parte de' quali passò poi al servigio
de' Veneziani. Andarono in questi tempi i Franzesi sul Mirandolese,
con disegno di cacciar da quella forte terra _Gian-Francesco Pico_, il
quale già v'era rientrato con farne uscire il nipote _Galeotto_. Finì
tutto il lor movimento in saccheggi, non solo di quel paese, ma di
tutto quel tratto del Mantovano, per dove passarono andando e venendo.
Nè già vantavano miglior legge i loro nemici. Marcantonio Colonna,
sul principio di luglio, partito segretamente di notte da Verona con
sette mila fanti tedeschi e cinquecento cavalli, all'improvviso giunse
a Vicenza, e per forza entratovi, tutta la mise a sacco, asportandone
spezialmente la seta, che era il maggior capitale di quel tante volte
spogliato popolo. Queste erano le sacrileghe maniere d'allora per
soddisfare in qualche guisa i non pagati soldati.
Crescevano intanto le angherie, le taglie e la carestia nell'infelice
popolo di Verona, indarno servendo i conforti del Colonna, perchè
fatti bisognavano, e non parole. Informati dunque i Veneziani del
miserabile stato di quella città, cotante istanze fecero, che il
_signor di Lautrec_ s'indusse di nuovo a rinnovarne l'assedio. Volle
egli prima d'ogni altra cosa impadronirsi della Chiusa, per impedir
ai soccorsi che potessero venir di Lamagna; poscia nel dì 20 d'agosto
si avvicinò col campo a quell'afflitta città, e da più parti cominciò
a batterla colle artiglierie. Maravigliosa fu la difesa del Colonnese
per li ripari che continuamente formava di dentro, e per le sortite
che con danno degli assedianti facea al di fuori. Mancò la polve da
fuoco ai Gallo-Veneti, e già n'era giunta da Venezia a Lignago una gran
condotta sopra carri. Non si sa se per malizia, o per altro accidente,
le si attaccò il fuoco, e vi perirono non solamente cento e ottanta
vasi d'essa polve, ma anche tutte le carra, molti uomini, buoi, ed
altre cose condotte per bisogno di quell'impresa. Fu, ciò non ostante,
provveduto e proseguito con vigore l'assedio, ed anche più la difesa,
con immortal gloria di _Marcantonio Colonna_, che a tutte le breccie,
a tutti gli assalti accorrendo, sempre mirabilmente provvide, e, benchè
ne riportasse un dì un'archibugiata, seppe con sì bel modo e segretezza
farsi curare, che nella guarnigione niun disordine insorse. Durò questa
danza fino a mezzo ottobre, finattantochè giunse nuova che da Trento
veniva un grosso soccorso a Verona: il che tanto terrore mise nel campo
gallo-veneto, che tutti chi qua e chi là ordinatamente si misero in
salvo. Però, passati per la montagna di Perona circa ottocento cavalli
tedeschi, carichi di vettovaglie e munizioni, felicemente arrivarono
a Verona. Oltre a ciò ben circa cinque mila Tedeschi espugnarono
la Chiusa, con tagliare a pezzi il presidio veneto; ed aperto quel
passo, spinsero poi gran quantità d'altri viveri sopra zatte per
l'Adige alla medesima città, che recarono gran sollievo non meno ai
soldati che agl'infelici cittadini. Non si potea dar pace il senato
veneto al vedere saltar fuori ogni dì nuove remore alla ricuperazion
di Verona; e tanto più s'impazientavano, perchè gagliardamente si
trattava in Brusselles pace fra _Massimiliano Cesare_, _Francesco re
di Francia_ e _Carlo re di Spagna_, non sapendo qual destino potesse
toccare alla tuttavia pertinace città. Non cessavano di spronare il
Lautrec a ripigliar l'impresa; e perchè egli allegava la mancanza
delle paghe all'esercito suo, astretti furono i Veneziani anche a
questa esorbitante spesa, per cui si ridusse la lor costanza a mettere
all'incanto le dignità, gli uffizii e magistrati non men di Venezia che
di terra ferma, e a vendere od impegnare gli stabili della repubblica.
E continuarono bensì la guerra, con impedir la venuta d'altri soccorsi
a Verona, ma senza per questo poterla costrignere alla resa. Gravissimo
danno patì in tale occasione la città e il territorio di Brescia,
perchè gli convenne alimentar nobilmente l'esercito franzese con ispesa
di più di cinquecento ducati d'oro per giorno. Con tante vicende e guai
terminò ancora l'anno presente, in cui non si dee tacere un gravissimo
pericolo incorso da _papa Leone_, e narrato dal contemporaneo Anonimo
Padovano nella sua Storia manuscritta. Era ito esso pontefice nel mese
d'aprile per diporto a Civita (mi immagino che sia Cività Lavinia),
quando poco discosto di là diciotto fuste di Mori, smontati in terra
ferma, fecero una larga scorreria, con ridurre in ischiavitù gran
quantità di gente. Intenzion loro, per quanto apparve, era di cogliere
lo stesso papa, probabilmente da qualche scellerato informati che
egli praticava in quelle parti. Spaventato il pontefice, ebbe tempo
di scappare piucchè in fretta a Roma. Che orrore! che terribili
conseguenze, se riusciva a quei Barbari un sì gran colpo! Dolenti essi,
per non aver colto quanto speravano, voltarono le prore all'isola della
Elba, ch'era del signor di Piombino, e spogliatala di ogni bene, se ne
tornarono in Africa. Delle leghe fatte in quest'anno parleremo all'anno
seguente.

NOTE:
[391] Antichità Estensi, P. II, pag. 320.
[392] Guicciardino. Ammirat. Nardi. Raynaldus, Annal. Eccl. Anonimo
Padovano.


Anno di CRISTO MDXVII. Indizione V.
LEONE X papa 5.
MASSIMILIANO I re de' Rom. 25.

Ebbe fine in quest'anno il concilio lateranense, dove furono fatti
molti bei regolamenti di ecclesiastica disciplina, ma non quali
occorrevano e si desideravano da' migliori per la correzion dei tanti
abusi che allora deformavano la Chiesa di Dio, benchè salda stesse la
vera dottrina di Cristo per tutte le chiese d'Occidente. Non abbiam
vergogna di confessarlo, dappoichè tanti piissimi cattolici l'han
confessato. Pur troppo quegli abusi misero le armi in mano a Martino
Lutero, frate agostiniano in Sassonia, per cominciare nel presente
anno a imperversare contro la Chiesa cattolica, aprendo la porta non
solo ad un massimo deplorabile scisma, ma ad infinite eresie, che come
la finta idra andarono poi pullulando, e divise fra loro infestano
tuttavia tanti popoli del settentrione. Il gran mercato che si faceva
allora delle indulgenze, per raunar danaro in tutta la cristianità
d'occidente, in apparenza per la fabbrica della basilica vaticana, ma
in sostanza anche per altri mondani fini, quel fu che accese un fuoco
in Germania, che, di giorno in giorno sempre più crescendo, arrivò
a formar quella gran piaga nella Chiesa del Signore che tuttavia
deploriamo, e che Dio solo saprà saldare, quando gli alti suoi giudizii
saranno adempiuti. Ma perchè questo è argomento spettante alla storia
ecclesiastica, passiamo oltre. Le turbolenze degli anni addietro, e
i pubblici e i privati interessi de' potentati cristiani aveano nel
precedente anno tenuta molto in esercizio la politica de' gabinetti.
L'accrescimento della potenza franzese in Italia con occhio bieco
veniva riguardata da _papa Leone_, da _Massimiliano Cesare_, da _Arrigo
re d'Inghilterra_ e da _Carlo re di Spagna_, ma principalmente dagli
_Svizzeri_, che, dopo aver cavato tanto sangue dallo Stato di Milano,
ora che questo era caduto in mano di un re sì potente, miravano come
seccato il fonte della loro ricchezza. Però il _cardinale di Sion_
s'era sbracciato con più viaggi e maneggi per formare una lega, e gli
venne fatto di conchiuderla nel dì 19 d'ottobre del 1516[393] fra il
suddetto _Massimiliano_, il _re d'Inghilterra_ e il _re di Spagna_,
con lasciar luogo d'entrarvi al _papa_, il quale l'avea procurata, per
valersene come portasse l'occasione. Dall'altro canto anche _Francesco
re di Francia_ non istette in ozio per contraminare questi trattati,
ben conoscendoli formati contra di lui. Tanto operò con gli Svizzeri,
che, nel dì 29 di novembre di esso anno, a forza d'oro, trasse quella
nazione ad una pace perpetua col regno di Francia. Anzi molto prima
ancora aveva intavolato un altro negoziato di pace con _Massimiliano_
e col re _Carlo_ suo nipote, che fu bene in certa maniera conchiuso
nei dì 15 di agosto, ma che solamente acquistò perfezione nel dì 4 di
dicembre 1516, in cui fu ratificato da esso Cesare, sempre voglioso,
sempre bisognoso di danaro. Fra l'altre convenzioni v'era, che Riva
di Trento, Rovereto e Gradisca restassero in dominio di Massimiliano,
e che, cedendo egli al re Cristianissimo Verona, questi gli avesse
a pagare cento mila scudi d'oro, ed altrettanti i Veneziani. Però
nei primi giorni di quest'anno comparve a Verona _Bernardo vescovo
di Trento_, colla facoltà di fare la restituzion di quella città.
Insorsero ben discordie intorno al giorno in cui si avea da far la
consegna, e la guarnigione tumultuò, perchè dimandava le paghe: pure
nel dì 16 (altri dicono nel dì 15) di gennaio data fu la tenuta di
Verona al _signor di Lautrec_, uscendone il vescovo e _Marcantonio
Colonna_ con tutta sua gente. Passati poi tre giorni, il Lautrec
consegnò essa città ad _Andrea Gritti_, che la accettò a nome del
senato veneto, e ben regalato si ridusse nello Stato di Milano.
Infinite allegrezze fecero i Veronesi, liberati dall'insoffribil giogo
dell'armi straniere. E tal fine ebbe la lega di Cambrai, e la lunga e
crudel guerra originata da essa, per cui non si può dire quanti tesori,
quanto sangue spendessero tanti principi della cristianità, e quanti
disastri e desolazioni patisse tutta la Lombardia. Maraviglia fu che
in mezzo a sì potente e lungo turbine potesse sostenersi la repubblica
veneta; ma quanto più terribile fu il suo pericolo, tanto maggior
divenne la sua gloria; perchè, quantunque perdesse qualche porzione
dell'antico suo dominio, pur seppe e potè conservare la maggior parte e
il meglio delle sue signorie in terra ferma.
Dopo una sì solenne ed universal pace pareva oramai che l'Italia avesse
a respirare, ma fallirono questi conti; perciocchè _Francesco Maria_,
già _duca d'Urbino_, dimorante in Mantova, esule da' suoi Stati,
sentendo il mal governo che facea _Lorenzo de Medici_, e invitato da
chiunque gli era affezionato e fedele, si accinse a ricuperar quel
ducato. Fu a ciò anche istigato da _Federigo Gonzaga signor di Bozzolo_
e condottier d'armi assai rinomato, per vendicarsi di un affronto che
pretendeva a sè fatto dal suddetto Lorenzo. Giacchè la pace dovea far
cassare non poche brigate di soldati, e questi avvezzi all'onorato
mestier della guerra, delle prede e rapine, avrebbono cercato chi
desse loro soldo, nello stesso tempo che si trattava della restituzion
di Verona, se l'intese esso Francesco Maria co' caporali spagnuoli e
tedeschi, e prese al suo servigio cinque mila fanti dei primi, e tre
mila altri italiani con mille e cinquecento cavalli. Il _marchese di
Mantova_ gli somministrò buona copia di danaro. Però con questa armata,
picciola di numero, ma considerabile pel suo valore, poco dopo la resa
di Verona s'avviò alla volta de' suoi Stati con tal celerità, che non
ebbero tempo per opporsegli le genti del papa e di Lorenzo de Medici
che erano in Ravenna e Rimini. Passato per la via del Furlo, in poco
tempo ebbe alla sua divozion Urbino con tutto il ducato, eccettuata
la fortezza di San Leo. Ma non già Pesaro, Sinigaglia, Gradara e
Mondavio, terre separate da quel ducato, perchè _Renzo da Ceri_, che
v'inviò gran gente di presidio, le sostenne. Intanto Lorenzo de Medici
alle milizie italiane, tanto sue che de' Fiorentini, unì due mila
e cinquecento fanti tedeschi, e più di quattro mila fanti guasconi,
che aveano servito nell'armata di Lautrec. L'Anonimo Padovano dice
ducento lancie e due mila Guasconi, comandati dal _signore di Scudo_.
I capitani di questo esercito erano _Renzo da Ceri_, _Vitello da Città
di Castello_ e il _conte Guido Rangone_; ed ascese questa armata fino a
mille uomini d'armi, mille cavalli leggieri e quindici mila fanti, che
pareano atti ad inghiottire il duca d'Urbino. Era insospettito forte il
papa che il re di Francia tenesse mano segretamente in questa guerra;
ma il re, per disingannarlo, mandò i suoi ministri a Roma, affinchè
trattassero lega col pontefice, che infatti fu stabilita. Fu in tal
congiuntura fatta gagliarda istanza a papa Leone, perchè restituisse
Modena, Reggio e Rubiera ad _Alfonso duca_ di Ferrara, secondochè
ne avea date in Bologna tante promesse, non mai eseguite. Promise il
papa con un breve di restituirle nello spazio di sette mesi, ma con
intenzione di nulla farne, se cessavano i presenti pericoli, siccome
infatti avvenne, perchè l'osservar la parola non fu mai contato fra le
virtù di questo pontefice. Continuò dipoi con varie vicende la guerra,
diffusamente descritta dal Guicciardini. Altro non ne rapporterò io, se
non che trovandosi Lorenzo de Medici nel mese di giugno all'assedio di
Mondolfo, fu colpito nella sommità del capo da una palla di archibuso;
pel qual colpo gli convenne star molti giorni in letto: il che fu
cagione che i suoi soldati più pensassero a saccheggiare il paese che
a cercar vittoria. Spedito dal papa il _cardinal Giulio de Medici_ suo
cugino al comando di quell'armata, appena giunto egli colà, insorse
una quistione tra i fanti italiani e tedeschi, per cui seguirono
ammazzamenti e saccheggi non pochi, e fu forza dividere quelle nazioni
tra Rimini e Pesaro. Accadde ancora che il duca Francesco Maria,
tenendo segrete intelligenze col corpo degli Spagnuoli, militanti per
la Chiesa, arrivò una mattina improvvisamente ai loro alloggiamenti.
Parte di essi scappò a Pesaro, e l'altra parte andò ad unirsi con
lui. Dopo di che assaltò il campo de' Tedeschi, dove secento d'essi
restarono morti o feriti. Non andò molto che anche un'altra buona
frotta di Guasconi passò nell'armata d'esso duca.
Trovavasi assai forte di gente _Francesco Maria_, ma esausto affatto
di pecunia, requisito troppo importante agl'impegni della guerra. Ne
penuriava anche _papa Leone_, ma seppe trovar maniera di ricavarne,
con fare nel dì primo di luglio la promozione di trentuno cardinali,
fra i quali molti di gran merito pel loro sapere o nobiltà. Dagli
altri creati per altri motivi ricavò la somma di ducento mila ducati
d'oro, che mirabilmente servirono a terminar la guerra d'Urbino.
Imperciocchè, ossia che l'accorto cardinal Giulio de Medici sapesse
sotto mano guadagnar gli Spagnuoli che erano al servigio di Francesco
Maria, o che s'interponesse _don Ugo di Moncada_ vicerè di Sicilia,
per istaccarli da lui: certo è che esso duca entrato in diffidenza
de' medesimi, e conosciuto di non potersi sostenere contro le forze
del papa, aiutato dai re di Francia e di Spagna, diede orecchio ad un
miserabile accomodamento; per cui il pontefice si obbligò di pagare ai
fanti spagnuoli quarantacinque mila ducati d'oro, e sessanta mila ai
fanti guasconi; e che esso Francesco Maria potesse passar liberamente
a Mantova con tutte le sue robe, colle artiglierie e colla famosa
libreria, messa insieme da _Federigo I duca_ di Urbino, avolo suo
materno: il che fu eseguito. Così terminò la presente guerra, durata
quasi otto mesi, per cui spese il pontefice circa ottocento mila ducati
di oro, la maggior parte nondimeno, come vuole il Guicciardini, pagata
dai Fiorentini, i quali fecero in tale occasione una trista figura,
siccome divenuti schiavi della casa de Medici. Furono poi confiscati
i beni di moltissimi nobili del ducato d'Urbino, che s'erano mostrati
favorevoli a Francesco Maria, e vennero atterrate nel seguente anno le
mura d'Urbino, Fossombrone e Mondolfo, acciocchè non avessero quegli
abitanti coraggio di ribellarsi in avvenire. Lorenzo de Medici colà
tornò duca. Appartiene a quest'anno un esecrando avvenimento, cioè la
congiura di _Alfonso Petrucci cardinale_ di Siena contro la persona
del pontefice Leone. Era inviperito questo porporato, perchè il papa
avesse fatto cacciar di Siena _Borghese_ suo fratello, quasi signore di
quella città, e privato lui stesso delle rendite paterne. Crebbe tanto
questo sacrilego odio, che più volte pensò d'uccidere lo stesso papa
nel concistoro, oppure alla caccia; ma infine s'appigliò al partito di
farlo avvelenare per mezzo di Batista da Vercelli chirurgo, se potea
giugnere a medicar una fistola antica, che il papa avea ne' confini
delle natiche. Fu scoperta questa infame trama, preso il cardinale con
varii complici, provato il delitto, per cui in castello Sant'Angelo
gli venne tagliato il capo. _Bendinello de' Sauli_ cardinal genovese,
siccome convinto che il Petrucci gli avesse rivelata la scellerata sua
intenzione, fu privato della dignità del cardinalato, e condannato a
una perpetua prigione. Questi poi col danaro ricuperò la libertà e il
cappello, ma perchè poco tempo dappoi mancò di vita, attribuirono i
maligni la morte sua a veleno. A _Raffaello Riario cardinale_ di San
Giorgio e camerlengo per la stessa ragione tolto fu il cappello, ma
restituito da lì a non molto tempo per grossissima quantità di danaro.
Adriano cardinale di Corneto, benchè gli fosse perdonato, diffidando di
sua vita, se ne fuggì, nè si seppe dove incognito andasse a terminare i
suoi giorni. Gran dire cagionò dappertutto questo nero attentato. Nel
presente anno a' dì 8 di ottobre _Francesco re di Francia_ rinnovò la
lega offensiva e difensiva colla _republica di Venezia_.

NOTE:
[393] Du-Mont, Corps Diplomat., tom. 4, P. I.


Anno di CRISTO MDXVIII. Indizione VI.
LEONE X papa 6.
MASSIMILIANO I re de' Romani 26.

Fu questo dopo tante guerre un anno di pace tanto in Italia, quanto
negli altri regni cristiani, se non che gran timore era in Roma e ne'
popoli italiani che il gran Sultano de' Turchi Selim volgesse le armi
contro le provincie cristiane. _Papa Leone_, affinchè questo tiranno
non trovasse sprovvedute le contrade cristiane, più che mai si diede
ad incitare i monarchi battezzati ad una lega, non solamente per fargli
fronte occorrendo, ma anche per invadere preventivamente da più parti i
di lui Stati. A questo fine spedì a _Massimiliano Cesare_ il _cardinale
di San Sisto_, ed altri cardinali di grande autorità ai _re di
Francia_, _Spagna_ ed _Inghilterra_, avendo prima intimata una tregua
di cinque anni ad essi e a tutti gli altri principi cristiani. Andarono
questi legati, ma nulla operarono di sostanziale per sì rilevante
affare, se non che furono intimate le decime al clero, ed anche ben
pagate, ma senza che queste s'impiegassero poi contro il nemico comune.
Pensava ognun di que' monarchi a' proprii interessi più che a quelli
della cristianità. Eppure, se mai giusto fu il timore della potenza
turchesca, certamente fu in questo tempo. Imperocchè regnava Selim,
uno de' più feroci e crudeli sultani di quella nazione. Invasato costui
dallo spirito de' conquistatori e dall'amor della gloria, avea già sì
dilatato il suo imperio, che oramai ognun diffidava di resistergli.
Principi di gran potenza per più secoli erano stati fin qui i sultani,
ossia soldani d'Egitto, siccome possessori non solo di quel vasto e
fertilissimo paese, ma anche della Palestina, Soria e di una parte
dell'Arabia, e guerniti sempre d'un possente esercito di Mammalucchi,
non dissimili dai giannizzeri turcheschi. S'invogliò Selim di stendere
la sua signoria sopra quelle ricchissime contrade, e però, ammassato un
formidabile esercito, fingendo di volerla contro il sofì di Persia, già
da lui sconfitto, all'improvviso piombò addosso a Damasco e alle altre
città di Soria, delle quali, non men che di Gerusalemme, s'impadronì.
Spinse poi l'armi vittoriose contro il sultano di Egitto, che restò
sconfitto e ucciso in una gran battaglia. Succeduto a lui un altro
sultano, fu anch'egli preso e fatto ignominiosamente morire. In una
parola, con infinito spargimento di sangue e di crudeltà e saccheggi
innumerabili rimase distrutta affatto la monarchia di que' soldani, e
tutto il loro impero sottoposto al giogo de' Turchi. Tanti progressi
del tiranno d'Oriente, e per li quali venne egli a raddoppiar le
entrate della sua camera, e che spezialmente accaddero ne' due prossimi
passati anni, bastavano bene ad atterrir l'Italia, e chiunque era
confinante alla smisurata potenza di Selimo. Ma si aggiunse ch'egli
si diede ad armare una bella flotta di navi: segno ch'egli meditava
qualche grande impresa contro i Cristiani. Però avea ben ragion di
temere papa Leone. Fece egli fare in Roma solenni processioni di
penitenza, alle quali anche intervenne con pie' nudi, e non tralasciò
diligenza veruna per muovere i potentati della Cristianità ad una lega
e crociata contra di un sì forte non mai sazio conquistatore.
Ma in mezzo a questi timori non dimenticava esso pontefice
l'ingrandimento della propria casa. Aveva egli già concertato
l'accasamento di _Lorenzo duca di Urbino_ suo nipote con _madama
Maddalena_ della casa de' duchi o conti di Bologna in Piccardia. I
Sammartani la chiamano[394] Maddalena della Torre contessa d'Auvergne,
e il Belcaire[395] la dice figlia d'una sorella di _Francesco Borbone
duca di Vandomo_, di sangue reale. Venuta la primavera di quest'anno,
Lorenzo, passato a Firenze, ivi fece un suntuoso preparamento per
la sua andata in Francia. Secondo l'Anonimo Padovano, seco condusse
cinquecento cavalli ed infiniti carriaggi. Era in questo tempo nato a
_Francesco I re_ di Francia un figlio maschio, che fu poi _Francesco
II_; e perchè egli attendeva a guadagnarsi sempre più la benevolenza
del papa sulla speranza d'averlo propizio per la difesa dello Stato
di Milano, desiderò che esso pontefice fosse padrino al battesimo del
figliuolo. Per questa cagione, siccome scrive il Guicciardini, Lorenzo
affrettato a compiere quel viaggio, avendo prese le poste arrivò
a Parigi, dove, nel dì 25 d'aprile, con _Antonio duca di Lorena_ e
_Margherita d'Alenzon_ sorella del re tenne al sacro fonte il nato
Delfino. Furono in tal congiuntura per dieci giorni fatte immense
allegrezze, banchetti, giostre e tornei, ne' quali anche Lorenzo si
fece conoscere valoroso cavaliere. Furono poi celebrate con regal
pompa le di lui nozze; nè il re Cristianissimo lasciò indietro onore
alcuno che non compartisse a lui, massimamente all'udire le grandi
proteste ch'egli fece d'un perpetuo attaccamento suo e del pontefice
alla di lui corona. Portò in questa occasione Lorenzo un breve del papa
che concedeva al re di potere ad arbitrio suo valersi delle decime
raccolte per la meditata crociata, con obbligo poi di restituir quel
danaro quando si avesse a proceder contra del Turco. Ed ecco dove
andavano a finire tanti sussidii del clero: il che faceva poi gridare
i partigiani della nascente eresia di Lutero, i quali arrabbiatamente
declamavano contra il progetto d'essa crociata. Venne poi Lorenzo colla
consorte per mare a Livorno, ed indi a Firenze, dove per otto giorni
continui si fecero incredibili suntuose allegrezze. Cresceva intanto
a furia l'incendio commosso in Germania dal suddetto Lutero, perchè
sostenuto da _Federigo duca di Sassonia_. Perciò papa Leone giudicò
bene d'inviare in Germania _Tommaso da Vio cardinale_, insigne teologo
scolastico di questi tempi, appellato il cardinal Gaetano. Andò egli:
seco s'abboccò Lutero: si venne alle dispute sopra le indulgenze; ma
infine il porporato si trovò deluso. Lutero, uomo pien di alterigia,
avea cominciata la guerra alla Chiesa sua madre, era risoluto di
continuarla, perchè si sentiva sicure le spalle; nè un cervello sì
bollente e superbo si sarebbe mai ridotto a disdirsi. Stette _Alfonso
duca_ di Ferrara aspettando con impazienza che passassero i sette mesi
che papa Leone s'era preso di tempo col re di Francia per restituirgli
Modena, Reggio e Rubiera. Ma passò altro che sette mesi, senza che se
ne vedesse esecuzione alcuna. Ne fece egli istanze a Roma, e si trovò
che le promesse di questo pontefice, anche autenticate da strumenti e
brevi, solamente significavano di voler fare quello che tornasse il
conto a lui, e non altrimenti. Determinò per questo il duca, nel dì
14 di novembre, di portarsi in persona a Parigi per implorar di nuovo
la protezione del re, e tornò di colà nel seguente febbraio con buona
provvision di parole, perchè in que' tempi si guardava ognuno dal
disgustare un papa, e molto più premeva a quel re di tenerselo amico,
dacchè era divenuto signor di Milano.

NOTE:
[394] Sammarthan., Histoire de la Maison de France.
[395] Belcaire, Commentar. Rerum Gallicar., lib. 16.


Anno di CRISTO MDXIX. Indizione VII.
LEONE X papa 7.
CARLO V imperadore 1.

Nel dì 12 del presente anno terminò il corso di sua vita _Massimiliano
re dei Romani_: principe che in pietà, clemenza ed altre virtù, non
si lasciò vincere da alcuno, e che vide ben favorita la sua casa
dalla fortuna, ma senza ch'egli sapesse profittar d'altre favorevoli
occasioni che esigevano più costanza, maggiore attività e miglior
uso del danaro ch'egli prodigamente spendeva, senza poi trovarlo al
bisogno. S'egli fosse più lungamente vissuto, era da sperare che il
suo zelo e potere avesse estinto in fasce lo scisma incominciato da
Lutero, il quale appunto, nell'interregno, prese maggior vigore.
Grandi maneggi furono fatti dai due principi che sopra gli altri
aspiravano a quella gran dignità, cioè da _Carlo V re di Spagna_,
delle due Sicilie, delle Indie Occidentali, e signore della Borgogna,
de' Paesi-Bassi e d'altri molti Stati, nel quale era caduto eziandio
tutto il retaggio della nobilissima casa d'Austria per la morte del
suddetto avolo suo; e _Francesco I_, re del floridissimo regno di
Francia, duca di Milano, e signore di Genova. Studioso cadaun di essi
di guadagnare i voti degli elettori, e spezialmente il re Francesco
con grosse offerte di danari (che questa sola buona ragione aveva
egli dal suo canto) cercò di ottenere il pallio. Ma perchè l'essere
Carlo di nazion germanica, portava nelle bilance di ognuno troppa