Annali d'Italia, vol. 6 - 20
segretamente comperata da _Massimiliano Cesare_ per trenta mila ducati
d'oro la città di Siena, affin di darla al nipote _duca d'Urbino_.
Sdegnato col _cardinal de Medici_, pensava ad alterar di nuovo lo
Stato di Firenze; minacciava i Lucchesi, e volea mettere in Genova
per doge _Ottaviano Fregoso_, con cacciarne _Giano_. E perciocchè egli
frequentemente avea in bocca di voler liberare l'Italia dai Barbari,
anzi gradiva il titolo di liberatore, come se già avesse terminata sì
grande opera, per attestato del Giovio nella Vita di Alfonso duca di
Ferrara, il _cardinal Grimani_ gli disse un dì che restava pur tuttavia
sotto il giogo il regno di Napoli. Allora Giulio, crollando il bastone
su cui s'appoggiava, e fremendo, con ira disse che in breve, se il
cielo altro non disponeva, i Napoletani avrebbono un altro padrone.
Ma il principale sfogo dello sdegno pontificio avea da essere nella
primavera contra del _duca di Ferrara_, il quale, abbandonato da tutti,
pensò in questo frattempo di prepararsi a morire glorioso, col fare
ogni possibil difesa. Stabilì una tregua coi Veneziani, fortificò
Ferrara, prese al suo soldo _Federigo Gonzaga_ signor di Bozzolo con
due mila fanti italiani, il capitan Calappini con altri due mila
fanti tedeschi, i quali, quantunque il papa facesse comandar loro
dall'imperadore, come a vassalli suoi, di ritornarsene, pur vollero
osservar la fede data al duca.
Era immerso in questi gran pensieri di mondo papa _Giulio II_, pensieri
confacevoli tutti al feroce suo animo e genio guerriero, quando venne
Dio a chiamarlo ai conti in tempo ch'egli forse non si aspettava.
Dopo alcuni giorni di malattia, nei quali conservò sempre il giudizio
consueto, e quella severità, a cui niuno del sacro collegio osò in
addietro di contraddire, dopo aver divotamente ricevuti i sacramenti
della Chiesa, nella notte del dì 20 di febbraio, venendo il giorno
21, spirò l'anima sua. Ho io chi scrive ch'egli sull'ultimo cadde in
delirio, e andava gridando: _Fuori d'Italia Franzesi: Fuori Alfonso
d'Este_. Ma ha maggior fondamento chi scrisse, esser egli stato
esente dalla frenesia. Scrivono gli storici veneti che alla di lui
morte cooperò la rabbia, per avere inteso il trattato di lega che si
manipolava fra il re di Francia e la loro repubblica, e per conoscere
d'essere in odio a tutti i cardinali per li suoi marziali disegni.
Ma queste verisimilmente non furono che immaginazioni. Quel che è
certo, questo pontefice comparve agli occhi del mondo principe d'animo
invitto, impetuoso, e pieno non men di smisurati disegni che di spirito
di vendetta, e benemerito assai della Chiesa romana pel temporale.
Qual poscia egli comparisse agli occhi di Dio, coll'aver suscitate
tante guerre per la cristianità, invece di promuovere qual padre
comune la pace, avendola tante volte avuta in sua mano, e coll'avere
impiegate le sostanze della Chiesa, ed abusato anche della religione
in tanti secolareschi impegni: a noi non tocca di deciderlo. Tuttavia
l'autor franzese della Lega di Cambrai non lascia di riflettere che
tanti disordini, cagionati da questo pur troppo bellicoso pontefice,
troppo influirono a scemar la venerazione dovuta al sommo grado dei
successori di san Pietro, e a far nascere il deplorabile scisma de'
popoli settentrionali, siccome fra pochi anni avvenne. Che s'egli
acquistò fama di grand'uomo, ciò fu, secondo il Guicciardino, _presso
coloro, i quali, essendo perduti i veri vocaboli delle cose, e confusa
la distinzion del pesarle rettamente, giudicano che sia più uffizio
de' pontefici l'aggiugnere coll'armi e col sangue de' cristiani imperio
alla sedia apostolica, che l'affaticarsi coll'esempio buono della vita,
e col correggere e medicare i costumi trascorsi per la salute di quelle
anime, per le quali si magnificano che Cristo gli abbia costituiti in
terra suoi vicarii_. Per altro fu uno de' suoi pregi l'essersi astenuto
dagli eccessi nell'amor del suo sangue, da cui non si guardarono altri
papi di questi tempi, avendo egli solamente ottenuto dai cardinali sul
fin della vita che Pesaro fosse dato in vicariato al _duca d'Urbino_
suo nipote. Alle forti istanze ancora di _madonna Felice_ sua figlia,
moglie di _Giovan-Giordano_ Orsino, la quale desiderava il cappello
cardinalizio per Guido da Montefalco suo fratello uterino, rispose
apertamente che non era persona degna di quel grado. A questo pontefice
ancora si dee il principio della nuova basilica vaticana, una delle
maraviglie del mondo, con altre belle fabbriche entro e fuori di Roma.
Secondo il Ciaconio, fu egli il primo dei papi che cominciò a portar
barba lunga, per opinione che da questo selvatico e vano ornamento
avesse a venir più riverenza a chi per tanti massicci titoli ne è sì
degno. Ma che anche gli ecclesiastici e i papi portassero barba negli
antichi tempi, è fuor di dubbio. La morte di questo pontefice non
alterò punto la quiete di Roma. Solamente in Lombardia accadde qualche
mutazione, perchè il _Cardona_ vicerè di Napoli, tuttavia esistente in
Milano, corse a Piacenza e Parma, costringendo que' popoli a rimettersi
sotto il dominio del duca di Milano, come spettanti a quel ducato; e
il _duca di Ferrara_ ricuperò Cento, Lugo, Bagnacavallo e le altre sue
terre di Romagna; ma non già la città di Reggio, perchè, ito colle sue
genti colà, niun movimento si fece da que' cittadini in suo favore.
Apertosi poi in Roma il conclave, in poco tempo, per opera specialmente
de' cardinali giovani, fu eletto papa _Giovanni cardinale_, figliuolo
del fu rinomato Lorenzo della celebre casa _de Medici_, non senza
maraviglia del popolo, che vide posto nella cattedra di san Pietro
chi non avea se non trentasette anni: del che per tanti anni addietro
non vi era esempio. Prese egli il nome di _Leone X_. Universalmente
venne applaudita sì inaspettata elezione, perchè questo personaggio
non avea macchie ne' precedenti suoi costumi; era di genio dolce,
liberale e magnifico, letterato ed amante della letteratura. Infatti,
non uscito per anche dal conclave, prese per segretarii delle sue
lettere _Pietro Bembo_ e _Jacopo Sadoleto_, scrittori di raro merito,
e col tempo cardinali insigni. Perciò si figurò la gente in lui
il rovescio del poc'anzi defunto papa Giulio II, cioè un pontefice
che metterebbe le sue delizie nel godimento della pace, e farebbe
godere ad ognuno un soave governo. Se in tutto l'indovinassero ce ne
accorgeremo. Diede egli principio al suo reggimento colla mansuetudine
e con rara magnificenza nel dì della sua coronazione, che fu il giorno
11 d'aprile, perchè fu essa eseguita con incredibil pompa, talmente
che non v'era memoria di solennità simile a questa. Acconsentì che
v'intervenisse _Alfonso duca_ di Ferrara, il quale in abito ducale
portò il gonfalon della Chiesa. Vi furono eziandio i _duchi d'Urbino_
e _di Camerino_, ed un concorso innumerabile di nobiltà. Cento mila
ducati d'oro (se n'erano trovati trecento mila in castello Sant'Angelo)
costò quella funzione, che non riportò applauso dai saggi, i quali
avrebbono desiderato che un romano pontefice, invece di profondere
i tesori in pompe secolaresche, si fosse applicato alla correzion
de' costumi della sacra sua corte: difetto che pur troppo produsse
dei lagrimevoli sconcerti sotto questo medesimo papa. Nulla si fece
di questo; anzi Roma divenne l'emporio dell'allegria, del lusso,
de' solazzi e banchetti, più di quel che fosse mai stata; laonde
sempre più crebbe la dissolutezza e licenza con grave danno della
disciplina ecclesiastica. Si mostrò sui principii papa Leone neutrale
ed irresoluto nei torbidi d'Italia, giacchè si udivano i preparamenti
de' Franzesi per tornare in Italia, ed altrettanto farsi da' Veneziani
collegati con essi, per ricuperare le città perdute: al qual fine
crearono lor capitan generale _Bartolomeo d'Alviano_, capitano di
singolare valore e sperienza, già per onorifica adozione decorato
del cognome della casa Orsina. Era questi stato condotto prigione
in Francia; e rilasciato ora in virtù della lega, seppe così ben
giustificare o col vero o col falso la condotta sua nella battaglia
di Ghiaradadda, rifondendone tutta la colpa sul Pitigliano, che tornò
in grazia del senato veneto. Si prevalse il papa di questi romori
per far paura a _Massimiliano duca_ di Milano, tanto che ottenne di
ricavar dalle sue mani Parma e Piacenza. Il che fatto, non piacendo
ad esso pontefice la venuta de' Franzesi, cominciò segretamente (per
non disgustare il re di Francia) a muovere con danari gli Svizzeri al
soccorso del duca di Milano.
Già erano insorte varie commozioni per le città di quel ducato, perchè
i popoli, dianzi cotanto infastiditi del dominio e pesante governo de'
Franzesi, sperando miglior trattamento sotto lo Sforza, s'erano poi
trovati non poco ingannati, stante l'eccesso delle taglie imposte per
pagare e regalare gl'insaziabili Svizzeri, e per raunare un esercito
in difesa dello Stato. Perciò prevaleva il desiderio di tornar sotto
i non più odiati Franzesi, divenendo il minor male in confronto
del maggiore una spezie di bene nelle bilance del mondo. Tanto più
ancora se ne invogliarono i popoli, perchè sembrava loro lo Sforza
principe di poca mente, e anche di minore spirito. Avvenne eziandio
che _Sagramoro Visconte_, deputato all'assedio del castello di Milano,
tuttavia occupato da essi Franzesi e languente, v'introdusse una notte
gran quantità di farina, vino e grascia: dopo il qual tradimento se
ne fuggì all'armata nemica, oppure in Francia, dove ricevette non
poche finezze dal re Lodovico. Calarono finalmente i Franzesi da Susa
in Lombardia con forte esercito, sotto il comando del _signor della
Tremoglia_ assistito dal prode maresciallo _Gian-Jacopo Trivulzio_,
e s'impadronirono senza opposizione di Asti e d'Alessandria. Le
speranze di Massimiliano Sforza erano riposte negli Svizzeri, giacchè
il _Cardona_ vicerè di Napoli co' suoi Spagnuoli se ne stava sul
Piacentino con ordini segreti del _re Cattolico_ di non mettere
a rischio la sua picciola armata, e di ritirarsi, occorrendo, ad
assicurare il regno di Napoli. Grandi rumori e quasi guerra fu fra
gli stessi Svizzeri, perchè parte di essi era stata guadagnata dalla
pecunia franzese. Pure prevalendo il partito di chi ardentemente
bramava la difesa dello Sforza nel ducato di Milano, cinque mila d'essi
vennero ad unirsi con lui, e maggior numero anche se ne aspettava. Con
questo rinforzo uscì il duca in campagna, e andò a postarsi su quel
di Tortona, per opporsi a' Franzesi. Ma intanto il popolo di Milano,
veggendo sguernita la città di milizie, e minacciante il castello,
acclamò il nome de' Franzesi. Fu subito ristorato di nuove genti e
di vettovaglie quell'importante castello. Dalla altra parte non perde
tempo l'Alviano, generale de' Veneziani, e, prevalendosi del terrore
già sparso per li popoli, uscì in campagna con mille e ducento lancie
due mila e cinquecento cavalli leggeri ed otto mila fanti, gente tutta
ben agguerrita e coraggiosa. Impadronitosi di Valeggio e di Peschiera,
ancorchè intendesse fatti gagliardi movimenti in Brescia, e fosse
chiamato colà; pure s'indrizzò a Cremona, dove bravamente entrò, con
isvaligiar _Cesare Feramosca_, che con trecento cavalli e cinquecento
fanti del duca di Milano era ivi in guardia. Mentre rinforzava di
vettovaglie il castello, che tuttavia restava in potere de' Franzesi,
ma vicino a rendersi, spedì _Renzo da Ceri_ con parte di sue genti a
Bergamo, dove era invitato da quel popolo. Furono ivi inalberate le
bandiere di San Marco. Altrettanto fece, al comparire di Renzo, la
città di Brescia, con ritirarsi gli Spagnuoli nel castello. L'esempio
di Cremona servì a far rivoltare anche Lodi e Soncino.
Quasi nel medesimo tempo spedite dal re di Francia nove galee sottili
con altri legni alla volta di Genova, si trovarono secondate da
molta gente delle riviere, e molto più da _Antoniotto_ e _Girolamo_
fratelli Adorni, i quali mossero tumulto in quella città con tal
vigore, che _Giano Fregoso_ durò fatica a salvar la vita colla fuga.
Tornò Genova in tal guisa, ma senza il castelletto, alla divozion
de' Franzesi, e fu ivi costituito governatore pel re Cristianissimo
il suddetto Antoniotto. Non potea con più prospero vento camminar
la fortuna de' Franzesi, perchè nulla più restava che facesse lor
contrasto, se non Novara e Como, tuttavia ubbidienti a _Massimiliano
Sforza_. S'era appunto ridotto questo principe a Novara, dove già erano
giunti cinque o sei mila Svizzeri, quando il Tremoglia e il Trivulzio
giunsero sotto quella città, e si diedero tosto a bersagliarla con
sedici pezzi d'artiglieria. l'Anonimo Padovano fa ascendere l'armata
de' Franzesi a mille quattrocento lancie, a mille cavalli leggeri e
a quattordici mila fanti. Gli scrittori franzesi, all'incontro, le
danno solamente cinquecento uomini d'armi, o, vogliam dire, lancie,
sei mila lanzicheneschi tedeschi e quattro mila fanti franzesi,
non avendo voluto il Tremoglia aspettare altri rinforzi che erano
in viaggio. Parea che gli Svizzeri sprezzassero l'arrivo del campo
franzese, talmente che vollero che stesse aperta la porta di Novara:
nel qual tempo tremava di paura Massimiliano Sforza, veggendosi
ristretto in quella stessa città, dove suo padre era stato venduto da
altri Svizzeri al medesimo Trivulzio, che era ivi all'assedio, temendo
un simile brutto giuoco da quella nazion venale. E certo fu creduto
che non mancassero secreti maneggi per questo; anzi il Tremoglia
superbamente avea scritto al re che gli darebbe prigione ancor questo
duca. Ma sentendo il Tremoglia che veniva il capitano ossia general
_Mottino_ con altri sette mila Svizzeri verso Novara, si ritirò due
miglia lungi da quella città a un luogo appellato la Riotta, e quivi
malamente si accampò. Il Belcaire, copiato poi dallo scrittor franzese
della Lega di Cambrai, forse persuaso che i suoi nazionali fossero
invincibili, ed incapaci di commettere mai spropositi, rovescia il
difetto di questo accampamento sul _Trivulzio_, quasi che non avesse
avuti la Francia tanti attestati della fedeltà e del sapere di questo
insigne capitano italiano, e quasi che mancassero ingegneri ed uomini
intendenti tra i Franzesi stessi che potessero scorgere il difetto di
quell'accampamento, e non potesse farsi ubbidire il Tremoglia. Arrivò
poi in Novara il Mottino colle sue genti; e, fatto consiglio, fu
risoluto di andare ad assalire il campo franzese, senza aspettare il
capitano _Altosasso_, che dovea venire con altre schiere di Svizzeri
ad unirsi con loro. Pertanto sul far del giorno sesto di giugno,
usciti in numero di dieci mila, furono addosso ai Franzesi, che non si
aspettavano siffatta visita, e si attaccò la terribil giornata. Fecero
sulle prime le artiglierie franzesi de' notabili squarci nelle file
nemiche; ma essendo riuscito agli Svizzeri di occupar que' medesimi
bronzi, e di rivolgerli contra gli stessi Franzesi dopo un feroce
combattimento di più ore, e dopo una grande vicendevole strage, toccò
ai Franzesi di voltar le spalle. Secondo il solito de' fatti d'armi,
che diversamente sono raccontati a misura delle diverse passioni,
ancor questo si truova descritto con gran varietà. Scrive l'Anonimo
Padovano che, a comun giudizio, vi perirono circa dieci mila persone
fra tutte e due le parti, ma molto più de' Franzesi, e quasi tutti
fanti. Lo storico Gradenigo mette morti cinque mila Svizzeri ed otto
mila Franzesi, la cavalleria de' quali, o perchè non potè, o perchè
non volle combattere, quasi tutta si salvò. Lasciarono i Franzesi in
preda ai vincitori tutte le artiglierie e munizioni. Il peggio fu che
senza poter essere ritenuti, non solamente si ritirarono in Piemonte,
ma passarono anche di là da' monti: scena accaduta anche a' dì
nostri. Qui avrei voluto l'eloquenza del Belcaire e dell'autore della
Lega di Cambrai a scusare e giustificare sì grande scappata dei lor
nazionali, quando aveano Alessandria, Asti, ed altre città da potervisi
ricoverare. Ma i mentovati due scrittori han dimenticato di stendere
questa apologia.
S'era dianzi inoltrato sino a Lodi lo _Alviano_ coll'armata veneta,
bramoso di unirsi co' Franzesi; ma perchè il _Cardona_ cogli Spagnuoli
si mosse a quella volta affin di vietargli il passo, quivi si
fermò. Udita poi la rotta de' Franzesi, disfatto il ponte sull'Adda,
abbandonata anche Cremona, si ritirò a Ghedi. Videsi poscia una strana
peripezia, perchè, per così dire, in un momento si rivoltò tutto
lo Stato di Milano contra de' Franzesi. In Milano quanti di loro si
trovarono che non ebbero tempo di salvarsi nel castello, tutti furono
messi a fil di spada. A trecento Guasconi, che erano in Pavia, toccò
la medesima mala sorte. Tutte le altre città si rivoltarono, mandando
a chiedere perdono a _Massimiliano duca_, con essere poi condannata
ognuna a pagare quantità grande di danaro, cioè Milano ducento mila
ducati d'oro, e le altre a proporzione: danaro che colò tutto per
premio della vittoria in mano agli Svizzeri, i quali, inseguendo da
lungi i fuggitivi Franzesi, maggiormente s'ingrassarono alle spese de'
Monferrini e Piemontesi. Intanto il vicerè di Napoli, che era fin qui
stato alla veletta, osservando qual esito avesse da avere la fortuna
dei Franzesi, si avviò a Cremona, e fu ammesso in quella città. Diede
ancora ad _Ottaviano Fregoso_ tre mila fanti e quattrocento cavalli,
sotto il comando del _marchese di Pescara_, per poter entrare in
Genova, con patto che, entratovi, gli pagasse ottanta mila ducati
d'oro. Se ne impadronì egli con esserne fuggito _Antoniotto Adorno_,
ed ivi fu creato doge, con aver poi quella repubblica sborsato sì
grave regalo all'ingordo Cardona. Fu anche abbandonata Brescia da
_Renzo di Ceri_, non avendo egli assai forze da difenderla; ma, nel
volere ridursi a Crema, s'incontrò in parte dell'armata spagnuola che
marciava alla volta di Brescia, e fu forzato in Soresina a lasciare
in lor mano le artiglierie, per potersi speditamente salvare in essa
Crema. Entrarono dunque di nuovo gli Spagnuoli in possesso della
città di Brescia, di cui già tenevano il castello. Da lì a qualche
tempo anche Bergamo tornò alla lor divozione, con pagare venti mila
ducati di taglia. Era ridotto alla Tomba _Bartolomeo d'Alviano_
colle milizie venete, dove concorsero molti Veronesi, malcontenti
del dominio tedesco, e l'animarono all'acquisto della lor patria,
perchè non vi erano di presidio se non due mila fanti e cinquecento
cavalli. Dopo aver egli inteso che _Gian-Paolo Baglione_, spedito
a Lignago, se n'era impadronito, passò sotto Verona. Con incredibil
prestezza piantò le batterie, e fece alquanto di breccia; venne anche
all'assalto. Tal difesa nondimeno fecero, e tali precauzioni presero
i pochi Tedeschi lasciati ivi di guarnigione, che l'Alviano, giacchè
non si sentiva commozione alcuna di dentro, si ritirò nel Padovano,
aspettando ciò che meditassero gli Spagnuoli, i quali, impadronitisi
per forza di Peschiera, e giunti all'Adige, aveano ivi gittato un
ponte. In questi tempi ancora pervenne a Verona il _vescovo Gurgense_,
primo mobile della corte di Massimiliano Cesare, con quattro mila fanti
e secento cavalli borgognoni, tutta bella gente. Al quale avviso i
Veneziani rinforzarono di molte soldatesche Trivigi sotto il comando
del Baglione. L'Alviano restò in Padova, dove fece delle mirabili
fortificazioni, coll'atterramento di molte case, con una vastissima
spianata intorno alla città, e con ogni maggior provvisione per
sostenere un assedio.
Attesero in questo mentre gli Spagnuoli a ricuperar Lignago; indi
passarono a Montagnana, e quivi tennero molti consigli. Era di parere
il Cardona vicerè che s'imprendesse l'assedio di Trivigi, come più
facile a riuscire; ma gli convenne cedere all'ostinata volontà del
vescovo Gurgense, che pontò in preferir quello di Padova. Arrivarono
in questi giorni al loro campo ducento uomini di armi, che, alle
forti istanze di Cesare, mandò _papa Leone_. Mal volontieri, dice il
Guicciardino. Fu questo nondimeno un segno che il pontefice, ancorchè
andasse tergiversando, inclinava alla aderenza dell'_imperatore_ e del
_re di Spagna_. l'Anonimo Padovano scrive che furono ducento lancie
e due mila fanti spediti dal papa; e a lui, più che al Guicciardino,
sembra in molte circostanze dovuta fede, perchè scrive d'essersi
trovato presente in queste guerre d'Italia. Era composto l'esercito
spagnuolo di mille lancie, cinquecento cavalli leggieri e sette
mila fanti, co' quali si congiunsero quattro mila fanti tedeschi e
cinquecento cavalli borgognoni condotti dal suddetto vescovo Gurgense:
esercito poco sufficiente ad espugnar Padova, città di gran circuito,
ben munita e difesa dall'Alviano, uomo senza paura. Riuscì infatti
ridicolo il tentativo fatto contra di quella città, e dopo diciotto
giorni fu obbligato il Cardona a ritirarsi a Vicenza, città in questi
tempi come deserta, perchè continuamente esposta agl'insulti e al
possesso di chiunque giugnea colà più forte. Nè già era più felice lo
stato de' Bergamaschi. Dacchè gli Spagnuoli si furono impadroniti di
quella città, i loro commissarii aveano riscossi quindici mila ducati
d'oro da quegli afflitti cittadini. _Renzo da Ceri_, che, stando in
Crema per li Veneziani, tenea spie in Bergamo, segretamente di notte
con trecento cavalli e mille fanti marciò a quella volta; ed, entrato
nel far del giorno in essa città, non solamente risparmiò a quei
commissarii la fatica di portar via quel danaro, ma anche, uccisi e
presi molti di quei Spagnuoli, s'impossessò della città; e, lasciato
ivi il capitan Cagnolino Bergamasco, se ne tornò subito a Crema. Pochi
giorni passarono che giunse in Brescia il _conte Antonio da Lodrone_
con due mila Tedeschi; e già si disponeva per passare a Bergamo. Cagion
fu questo avviso che il Cagnolino si ritirasse in fretta colle sue
genti a Crema, e Bergamo tornasse in potere degli Spagnuoli. Risoluto
poscia il conte di Lodrone d'acquistar Pontevico, posto di grande
importanza sull'Oglio, colle artiglierie, e con un buon corpo di
combattenti ito colà, dopo una gran rottura di muro, diede l'assalto
alla terra. Fu questa mirabilmente difesa dal capitan Fattinnanzi,
che v'era di guarnigione con quattrocento fanti, di modo che dopo gran
sangue il conte fu astretto a convertire l'assedio in blocco. Passato
un mese, per mancanza di vettovaglie, quel capitano rendè la terra,
salvo l'avere e le persone. Avea Renzo da Ceri preso gusto alla preda.
Dacchè seppe che gli Spagnuoli aveano riscosso dai miseri Bergamaschi
altra gran somma di danaro per compensare i danni dianzi patiti, ma
senza colpa dei cittadini, se ne tornò col solito suo corteggio a
quella città; e, presi quanti Spagnuoli ivi trovò, dopo avervi lasciato
di presidio ottocento fanti e ducento cavalli sotto il governo di
Bartolomeo da Mosto, si ridusse di nuovo a Crema. Ciò inteso, il vicerè
_Cardona_ con lettere raccomandò la ricuperazion di Bergamo al duca
di Milano, il quale si trovava allora cogli Svizzeri in Piemonte,
saccheggiando tutto il paese, sotto pretesto d'impedire ai Franzesi il
ritorno in Italia. Spedì il duca a quell'impresa con assai schiere ed
artiglierie _Silvio Savello_ e _Cesare Feramosca_, che cominciarono
a battere la città. Ma ecco sul far del giorno giugnere quattrocento
cavalli ed altrettanti fanti, inviati da Crema da Renzo da Ceri, che
animosamente assalirono il campo milanese, nel qual tempo uscirono alla
medesima danza gli altri ch'erano nella città. Fu sanguinosa la pugna;
ma infine rimasero sconfitti i Veneziani colla perdita di quasi tutti i
fanti. S'arrendè l'infelice città di Bergamo, e all'innocente popolo fu
imposta dal Savello una taglia di dieci mila ducati d'oro.
Dappoichè fu sciolto l'assedio di Padova, fece _papa Leone_ quante
pratiche potè per istaccare i Veneziani dalla lega coi Franzesi; ma
senza frutto: tanto era irritato quel senato contro la mala fede degli
Spagnuoli. Però, essendosi il vicerè _Cardona_ ridotto con tutti i
capitani in Verona, tenuto fu ivi consiglio, e risoluto d'infestare
i Veneziani, per trarli colla forza ad acconciarsi con loro. Nel dì
17 di settembre s'avviò l'esercito collegato verso il Padovano, con
bando che fosse lecito ad ognuno il mettere a ferro e fuoco tutto il
paese da Monselice sino alle Acque salse. Fu eseguito il barbarico
editto, e in tempo che i poveri popoli, non aspettando la seconda
visita di questi cani, erano ritornati colle famiglie e bestiami alle
lor case. Non contenti costoro, cristiani di nome, e Turchi ne' fatti,
di far grandissimo bottino, imprigionavano, uccideano e bruciavano
case e ville, dovunque arrivava il loro furore. Meno degli altri non
operavano i soldati del papa. Fra le altre terre l'amena e fertile di
Pieve di Sacco, dove si contavano tante belle case di nobili veneti,
tutta fu consegnata alle fiamme. Lungo le Brente nuova e vecchia fecero
lo stesso scempio, scorrendo sino a Lizzafusina, Mergara, Mestre ed
altri luoghi marittimi, dai quali spararono anche di molte cannonate
verso Venezia, con arrivar le palle fin quasi a quella nobilissima
città: il che riempiè di terrore il popolo. L'_Alviano_, che in
Padova rodeva il freno al mirar tante iniquità dei nemici, seppe con
tal efficacia persuadere al senato veneto che si potea reprimere la
baldanza di quegli assassini, e di tagliar loro il ritorno a casa,
che data gli fu licenza di uscire in campagna coll'armata sua, benchè
inferiore all'altra di forze. I movimenti di questo generale, e i
passi stretti occupati da lui con far rompere le strade, cagion furono
che i collegati risolvessero di retrocedere per non restar privi dei
viveri. Ma alla Brenta e al Bachiglione ebbero a fronte l'Alviano, il
quale in tal maniera li strinse, che non sapeano trovar alcun varco per
ridursi in salvo. In tale stato di cose, se l'Alviano fosse stato un
saggio e prudente capitano, avrebbe di troppo angustiato il nemico, e,
senza azzardar battaglia, gli avrebbe dissipati o vinti colla fame. Ma
egli non parlava d'altro che di venire alle mani; e quantunque _Andrea
Gritti_ e _Andrea Loredano_ legati della repubblica colla maggior parte
de' capitani si opponessero, mostrando che non era da combattere con
gente disperata; pure si ostinò nella sua risoluzione, e furibondo
non rispose se non con villanie a chi gli contraddiceva. Non restava
ai collegati altro scampo che la via di Valsugana per ritirarsi a
Trento, ma questa si trovava piena di mille difficoltà. Sicchè il
miglior partito era quello d'aprirsi il passo colla spada alla mano,
se non che temeano che i Veneziani abborrissero questo giuoco. Ma il
saggio _Prospero Colonna_, ben conoscente del genio fervido e superbo
dell'_Alviano_, promise di tirare il campo veneto ad un fatto d'armi.
La mattina dunque del dì 7 d'ottobre, _Ferdinando d'Avalos_ marchese
di Pescara, giovane valorosissimo, s'avviò contro de' Veneziani
verso l'Olmo, ed unitosi col Colonnese nelle coerenze di Creazzo,
circa tre miglia lungi da Vicenza, diede principio alla terribile
zuffa. Si combattè con incredibile ardore da ambe le parti, ma infine
restò sconfitto l'Alviano. Le particolarità di questo conflitto
sono descritte in differente guisa dal Guicciardino, dal Giovio, dal
Gradenigo e da altri. Fra morti e presi de' Veneti si contarono circa
quattrocento uomini di arme e quattro mila fanti. L'Anonimo Padovano
vi aggiugne più di ottocento cavalli leggeri, e fa maggiore la strage
de' fanti. Restarono prigioni _Gian-Paolo Baglione_ governatore della
veneta armata, _Giulio Manfrone_, _Andrea Loredano_ legato del campo,
che fu poi barbaramente ucciso per gara nata fra i pretendenti di
averlo prigione. Tutta l'artiglieria coi carriaggi venne in potere dei
vincitori, i quali la stessa sera cenarono in Vicenza. Al vedere che
il senato veneto non prese risoluzione alcuna contro dell'Alviano,
può far credere fondato il sentimento di alcuni che scrivono esser
egli stato spinto dal Loredano suddetto ad uscire alla battaglia. Il
Loredano morto non potè più dir le sue ragioni. Perchè si avvicinava il
verno, niun'altra impresa tentarono i collegati, se non che il Cardona
seguitò da Vicenza ad infestar il Padovano, con lasciar tempo alla
repubblica veneta, intrepida sempre in mezzo alle sue sventure, di far
nuove provvisioni di guerra. Andato poscia a Roma il _vescovo Gurgense
Matteo Langio_, creato già cardinale, si ripigliarono i trattati di
pace, e ne fu fatto compromesso in _papa Leone X_; ma ancor questa
d'oro la città di Siena, affin di darla al nipote _duca d'Urbino_.
Sdegnato col _cardinal de Medici_, pensava ad alterar di nuovo lo
Stato di Firenze; minacciava i Lucchesi, e volea mettere in Genova
per doge _Ottaviano Fregoso_, con cacciarne _Giano_. E perciocchè egli
frequentemente avea in bocca di voler liberare l'Italia dai Barbari,
anzi gradiva il titolo di liberatore, come se già avesse terminata sì
grande opera, per attestato del Giovio nella Vita di Alfonso duca di
Ferrara, il _cardinal Grimani_ gli disse un dì che restava pur tuttavia
sotto il giogo il regno di Napoli. Allora Giulio, crollando il bastone
su cui s'appoggiava, e fremendo, con ira disse che in breve, se il
cielo altro non disponeva, i Napoletani avrebbono un altro padrone.
Ma il principale sfogo dello sdegno pontificio avea da essere nella
primavera contra del _duca di Ferrara_, il quale, abbandonato da tutti,
pensò in questo frattempo di prepararsi a morire glorioso, col fare
ogni possibil difesa. Stabilì una tregua coi Veneziani, fortificò
Ferrara, prese al suo soldo _Federigo Gonzaga_ signor di Bozzolo con
due mila fanti italiani, il capitan Calappini con altri due mila
fanti tedeschi, i quali, quantunque il papa facesse comandar loro
dall'imperadore, come a vassalli suoi, di ritornarsene, pur vollero
osservar la fede data al duca.
Era immerso in questi gran pensieri di mondo papa _Giulio II_, pensieri
confacevoli tutti al feroce suo animo e genio guerriero, quando venne
Dio a chiamarlo ai conti in tempo ch'egli forse non si aspettava.
Dopo alcuni giorni di malattia, nei quali conservò sempre il giudizio
consueto, e quella severità, a cui niuno del sacro collegio osò in
addietro di contraddire, dopo aver divotamente ricevuti i sacramenti
della Chiesa, nella notte del dì 20 di febbraio, venendo il giorno
21, spirò l'anima sua. Ho io chi scrive ch'egli sull'ultimo cadde in
delirio, e andava gridando: _Fuori d'Italia Franzesi: Fuori Alfonso
d'Este_. Ma ha maggior fondamento chi scrisse, esser egli stato
esente dalla frenesia. Scrivono gli storici veneti che alla di lui
morte cooperò la rabbia, per avere inteso il trattato di lega che si
manipolava fra il re di Francia e la loro repubblica, e per conoscere
d'essere in odio a tutti i cardinali per li suoi marziali disegni.
Ma queste verisimilmente non furono che immaginazioni. Quel che è
certo, questo pontefice comparve agli occhi del mondo principe d'animo
invitto, impetuoso, e pieno non men di smisurati disegni che di spirito
di vendetta, e benemerito assai della Chiesa romana pel temporale.
Qual poscia egli comparisse agli occhi di Dio, coll'aver suscitate
tante guerre per la cristianità, invece di promuovere qual padre
comune la pace, avendola tante volte avuta in sua mano, e coll'avere
impiegate le sostanze della Chiesa, ed abusato anche della religione
in tanti secolareschi impegni: a noi non tocca di deciderlo. Tuttavia
l'autor franzese della Lega di Cambrai non lascia di riflettere che
tanti disordini, cagionati da questo pur troppo bellicoso pontefice,
troppo influirono a scemar la venerazione dovuta al sommo grado dei
successori di san Pietro, e a far nascere il deplorabile scisma de'
popoli settentrionali, siccome fra pochi anni avvenne. Che s'egli
acquistò fama di grand'uomo, ciò fu, secondo il Guicciardino, _presso
coloro, i quali, essendo perduti i veri vocaboli delle cose, e confusa
la distinzion del pesarle rettamente, giudicano che sia più uffizio
de' pontefici l'aggiugnere coll'armi e col sangue de' cristiani imperio
alla sedia apostolica, che l'affaticarsi coll'esempio buono della vita,
e col correggere e medicare i costumi trascorsi per la salute di quelle
anime, per le quali si magnificano che Cristo gli abbia costituiti in
terra suoi vicarii_. Per altro fu uno de' suoi pregi l'essersi astenuto
dagli eccessi nell'amor del suo sangue, da cui non si guardarono altri
papi di questi tempi, avendo egli solamente ottenuto dai cardinali sul
fin della vita che Pesaro fosse dato in vicariato al _duca d'Urbino_
suo nipote. Alle forti istanze ancora di _madonna Felice_ sua figlia,
moglie di _Giovan-Giordano_ Orsino, la quale desiderava il cappello
cardinalizio per Guido da Montefalco suo fratello uterino, rispose
apertamente che non era persona degna di quel grado. A questo pontefice
ancora si dee il principio della nuova basilica vaticana, una delle
maraviglie del mondo, con altre belle fabbriche entro e fuori di Roma.
Secondo il Ciaconio, fu egli il primo dei papi che cominciò a portar
barba lunga, per opinione che da questo selvatico e vano ornamento
avesse a venir più riverenza a chi per tanti massicci titoli ne è sì
degno. Ma che anche gli ecclesiastici e i papi portassero barba negli
antichi tempi, è fuor di dubbio. La morte di questo pontefice non
alterò punto la quiete di Roma. Solamente in Lombardia accadde qualche
mutazione, perchè il _Cardona_ vicerè di Napoli, tuttavia esistente in
Milano, corse a Piacenza e Parma, costringendo que' popoli a rimettersi
sotto il dominio del duca di Milano, come spettanti a quel ducato; e
il _duca di Ferrara_ ricuperò Cento, Lugo, Bagnacavallo e le altre sue
terre di Romagna; ma non già la città di Reggio, perchè, ito colle sue
genti colà, niun movimento si fece da que' cittadini in suo favore.
Apertosi poi in Roma il conclave, in poco tempo, per opera specialmente
de' cardinali giovani, fu eletto papa _Giovanni cardinale_, figliuolo
del fu rinomato Lorenzo della celebre casa _de Medici_, non senza
maraviglia del popolo, che vide posto nella cattedra di san Pietro
chi non avea se non trentasette anni: del che per tanti anni addietro
non vi era esempio. Prese egli il nome di _Leone X_. Universalmente
venne applaudita sì inaspettata elezione, perchè questo personaggio
non avea macchie ne' precedenti suoi costumi; era di genio dolce,
liberale e magnifico, letterato ed amante della letteratura. Infatti,
non uscito per anche dal conclave, prese per segretarii delle sue
lettere _Pietro Bembo_ e _Jacopo Sadoleto_, scrittori di raro merito,
e col tempo cardinali insigni. Perciò si figurò la gente in lui
il rovescio del poc'anzi defunto papa Giulio II, cioè un pontefice
che metterebbe le sue delizie nel godimento della pace, e farebbe
godere ad ognuno un soave governo. Se in tutto l'indovinassero ce ne
accorgeremo. Diede egli principio al suo reggimento colla mansuetudine
e con rara magnificenza nel dì della sua coronazione, che fu il giorno
11 d'aprile, perchè fu essa eseguita con incredibil pompa, talmente
che non v'era memoria di solennità simile a questa. Acconsentì che
v'intervenisse _Alfonso duca_ di Ferrara, il quale in abito ducale
portò il gonfalon della Chiesa. Vi furono eziandio i _duchi d'Urbino_
e _di Camerino_, ed un concorso innumerabile di nobiltà. Cento mila
ducati d'oro (se n'erano trovati trecento mila in castello Sant'Angelo)
costò quella funzione, che non riportò applauso dai saggi, i quali
avrebbono desiderato che un romano pontefice, invece di profondere
i tesori in pompe secolaresche, si fosse applicato alla correzion
de' costumi della sacra sua corte: difetto che pur troppo produsse
dei lagrimevoli sconcerti sotto questo medesimo papa. Nulla si fece
di questo; anzi Roma divenne l'emporio dell'allegria, del lusso,
de' solazzi e banchetti, più di quel che fosse mai stata; laonde
sempre più crebbe la dissolutezza e licenza con grave danno della
disciplina ecclesiastica. Si mostrò sui principii papa Leone neutrale
ed irresoluto nei torbidi d'Italia, giacchè si udivano i preparamenti
de' Franzesi per tornare in Italia, ed altrettanto farsi da' Veneziani
collegati con essi, per ricuperare le città perdute: al qual fine
crearono lor capitan generale _Bartolomeo d'Alviano_, capitano di
singolare valore e sperienza, già per onorifica adozione decorato
del cognome della casa Orsina. Era questi stato condotto prigione
in Francia; e rilasciato ora in virtù della lega, seppe così ben
giustificare o col vero o col falso la condotta sua nella battaglia
di Ghiaradadda, rifondendone tutta la colpa sul Pitigliano, che tornò
in grazia del senato veneto. Si prevalse il papa di questi romori
per far paura a _Massimiliano duca_ di Milano, tanto che ottenne di
ricavar dalle sue mani Parma e Piacenza. Il che fatto, non piacendo
ad esso pontefice la venuta de' Franzesi, cominciò segretamente (per
non disgustare il re di Francia) a muovere con danari gli Svizzeri al
soccorso del duca di Milano.
Già erano insorte varie commozioni per le città di quel ducato, perchè
i popoli, dianzi cotanto infastiditi del dominio e pesante governo de'
Franzesi, sperando miglior trattamento sotto lo Sforza, s'erano poi
trovati non poco ingannati, stante l'eccesso delle taglie imposte per
pagare e regalare gl'insaziabili Svizzeri, e per raunare un esercito
in difesa dello Stato. Perciò prevaleva il desiderio di tornar sotto
i non più odiati Franzesi, divenendo il minor male in confronto
del maggiore una spezie di bene nelle bilance del mondo. Tanto più
ancora se ne invogliarono i popoli, perchè sembrava loro lo Sforza
principe di poca mente, e anche di minore spirito. Avvenne eziandio
che _Sagramoro Visconte_, deputato all'assedio del castello di Milano,
tuttavia occupato da essi Franzesi e languente, v'introdusse una notte
gran quantità di farina, vino e grascia: dopo il qual tradimento se
ne fuggì all'armata nemica, oppure in Francia, dove ricevette non
poche finezze dal re Lodovico. Calarono finalmente i Franzesi da Susa
in Lombardia con forte esercito, sotto il comando del _signor della
Tremoglia_ assistito dal prode maresciallo _Gian-Jacopo Trivulzio_,
e s'impadronirono senza opposizione di Asti e d'Alessandria. Le
speranze di Massimiliano Sforza erano riposte negli Svizzeri, giacchè
il _Cardona_ vicerè di Napoli co' suoi Spagnuoli se ne stava sul
Piacentino con ordini segreti del _re Cattolico_ di non mettere
a rischio la sua picciola armata, e di ritirarsi, occorrendo, ad
assicurare il regno di Napoli. Grandi rumori e quasi guerra fu fra
gli stessi Svizzeri, perchè parte di essi era stata guadagnata dalla
pecunia franzese. Pure prevalendo il partito di chi ardentemente
bramava la difesa dello Sforza nel ducato di Milano, cinque mila d'essi
vennero ad unirsi con lui, e maggior numero anche se ne aspettava. Con
questo rinforzo uscì il duca in campagna, e andò a postarsi su quel
di Tortona, per opporsi a' Franzesi. Ma intanto il popolo di Milano,
veggendo sguernita la città di milizie, e minacciante il castello,
acclamò il nome de' Franzesi. Fu subito ristorato di nuove genti e
di vettovaglie quell'importante castello. Dalla altra parte non perde
tempo l'Alviano, generale de' Veneziani, e, prevalendosi del terrore
già sparso per li popoli, uscì in campagna con mille e ducento lancie
due mila e cinquecento cavalli leggeri ed otto mila fanti, gente tutta
ben agguerrita e coraggiosa. Impadronitosi di Valeggio e di Peschiera,
ancorchè intendesse fatti gagliardi movimenti in Brescia, e fosse
chiamato colà; pure s'indrizzò a Cremona, dove bravamente entrò, con
isvaligiar _Cesare Feramosca_, che con trecento cavalli e cinquecento
fanti del duca di Milano era ivi in guardia. Mentre rinforzava di
vettovaglie il castello, che tuttavia restava in potere de' Franzesi,
ma vicino a rendersi, spedì _Renzo da Ceri_ con parte di sue genti a
Bergamo, dove era invitato da quel popolo. Furono ivi inalberate le
bandiere di San Marco. Altrettanto fece, al comparire di Renzo, la
città di Brescia, con ritirarsi gli Spagnuoli nel castello. L'esempio
di Cremona servì a far rivoltare anche Lodi e Soncino.
Quasi nel medesimo tempo spedite dal re di Francia nove galee sottili
con altri legni alla volta di Genova, si trovarono secondate da
molta gente delle riviere, e molto più da _Antoniotto_ e _Girolamo_
fratelli Adorni, i quali mossero tumulto in quella città con tal
vigore, che _Giano Fregoso_ durò fatica a salvar la vita colla fuga.
Tornò Genova in tal guisa, ma senza il castelletto, alla divozion
de' Franzesi, e fu ivi costituito governatore pel re Cristianissimo
il suddetto Antoniotto. Non potea con più prospero vento camminar
la fortuna de' Franzesi, perchè nulla più restava che facesse lor
contrasto, se non Novara e Como, tuttavia ubbidienti a _Massimiliano
Sforza_. S'era appunto ridotto questo principe a Novara, dove già erano
giunti cinque o sei mila Svizzeri, quando il Tremoglia e il Trivulzio
giunsero sotto quella città, e si diedero tosto a bersagliarla con
sedici pezzi d'artiglieria. l'Anonimo Padovano fa ascendere l'armata
de' Franzesi a mille quattrocento lancie, a mille cavalli leggeri e
a quattordici mila fanti. Gli scrittori franzesi, all'incontro, le
danno solamente cinquecento uomini d'armi, o, vogliam dire, lancie,
sei mila lanzicheneschi tedeschi e quattro mila fanti franzesi,
non avendo voluto il Tremoglia aspettare altri rinforzi che erano
in viaggio. Parea che gli Svizzeri sprezzassero l'arrivo del campo
franzese, talmente che vollero che stesse aperta la porta di Novara:
nel qual tempo tremava di paura Massimiliano Sforza, veggendosi
ristretto in quella stessa città, dove suo padre era stato venduto da
altri Svizzeri al medesimo Trivulzio, che era ivi all'assedio, temendo
un simile brutto giuoco da quella nazion venale. E certo fu creduto
che non mancassero secreti maneggi per questo; anzi il Tremoglia
superbamente avea scritto al re che gli darebbe prigione ancor questo
duca. Ma sentendo il Tremoglia che veniva il capitano ossia general
_Mottino_ con altri sette mila Svizzeri verso Novara, si ritirò due
miglia lungi da quella città a un luogo appellato la Riotta, e quivi
malamente si accampò. Il Belcaire, copiato poi dallo scrittor franzese
della Lega di Cambrai, forse persuaso che i suoi nazionali fossero
invincibili, ed incapaci di commettere mai spropositi, rovescia il
difetto di questo accampamento sul _Trivulzio_, quasi che non avesse
avuti la Francia tanti attestati della fedeltà e del sapere di questo
insigne capitano italiano, e quasi che mancassero ingegneri ed uomini
intendenti tra i Franzesi stessi che potessero scorgere il difetto di
quell'accampamento, e non potesse farsi ubbidire il Tremoglia. Arrivò
poi in Novara il Mottino colle sue genti; e, fatto consiglio, fu
risoluto di andare ad assalire il campo franzese, senza aspettare il
capitano _Altosasso_, che dovea venire con altre schiere di Svizzeri
ad unirsi con loro. Pertanto sul far del giorno sesto di giugno,
usciti in numero di dieci mila, furono addosso ai Franzesi, che non si
aspettavano siffatta visita, e si attaccò la terribil giornata. Fecero
sulle prime le artiglierie franzesi de' notabili squarci nelle file
nemiche; ma essendo riuscito agli Svizzeri di occupar que' medesimi
bronzi, e di rivolgerli contra gli stessi Franzesi dopo un feroce
combattimento di più ore, e dopo una grande vicendevole strage, toccò
ai Franzesi di voltar le spalle. Secondo il solito de' fatti d'armi,
che diversamente sono raccontati a misura delle diverse passioni,
ancor questo si truova descritto con gran varietà. Scrive l'Anonimo
Padovano che, a comun giudizio, vi perirono circa dieci mila persone
fra tutte e due le parti, ma molto più de' Franzesi, e quasi tutti
fanti. Lo storico Gradenigo mette morti cinque mila Svizzeri ed otto
mila Franzesi, la cavalleria de' quali, o perchè non potè, o perchè
non volle combattere, quasi tutta si salvò. Lasciarono i Franzesi in
preda ai vincitori tutte le artiglierie e munizioni. Il peggio fu che
senza poter essere ritenuti, non solamente si ritirarono in Piemonte,
ma passarono anche di là da' monti: scena accaduta anche a' dì
nostri. Qui avrei voluto l'eloquenza del Belcaire e dell'autore della
Lega di Cambrai a scusare e giustificare sì grande scappata dei lor
nazionali, quando aveano Alessandria, Asti, ed altre città da potervisi
ricoverare. Ma i mentovati due scrittori han dimenticato di stendere
questa apologia.
S'era dianzi inoltrato sino a Lodi lo _Alviano_ coll'armata veneta,
bramoso di unirsi co' Franzesi; ma perchè il _Cardona_ cogli Spagnuoli
si mosse a quella volta affin di vietargli il passo, quivi si
fermò. Udita poi la rotta de' Franzesi, disfatto il ponte sull'Adda,
abbandonata anche Cremona, si ritirò a Ghedi. Videsi poscia una strana
peripezia, perchè, per così dire, in un momento si rivoltò tutto
lo Stato di Milano contra de' Franzesi. In Milano quanti di loro si
trovarono che non ebbero tempo di salvarsi nel castello, tutti furono
messi a fil di spada. A trecento Guasconi, che erano in Pavia, toccò
la medesima mala sorte. Tutte le altre città si rivoltarono, mandando
a chiedere perdono a _Massimiliano duca_, con essere poi condannata
ognuna a pagare quantità grande di danaro, cioè Milano ducento mila
ducati d'oro, e le altre a proporzione: danaro che colò tutto per
premio della vittoria in mano agli Svizzeri, i quali, inseguendo da
lungi i fuggitivi Franzesi, maggiormente s'ingrassarono alle spese de'
Monferrini e Piemontesi. Intanto il vicerè di Napoli, che era fin qui
stato alla veletta, osservando qual esito avesse da avere la fortuna
dei Franzesi, si avviò a Cremona, e fu ammesso in quella città. Diede
ancora ad _Ottaviano Fregoso_ tre mila fanti e quattrocento cavalli,
sotto il comando del _marchese di Pescara_, per poter entrare in
Genova, con patto che, entratovi, gli pagasse ottanta mila ducati
d'oro. Se ne impadronì egli con esserne fuggito _Antoniotto Adorno_,
ed ivi fu creato doge, con aver poi quella repubblica sborsato sì
grave regalo all'ingordo Cardona. Fu anche abbandonata Brescia da
_Renzo di Ceri_, non avendo egli assai forze da difenderla; ma, nel
volere ridursi a Crema, s'incontrò in parte dell'armata spagnuola che
marciava alla volta di Brescia, e fu forzato in Soresina a lasciare
in lor mano le artiglierie, per potersi speditamente salvare in essa
Crema. Entrarono dunque di nuovo gli Spagnuoli in possesso della
città di Brescia, di cui già tenevano il castello. Da lì a qualche
tempo anche Bergamo tornò alla lor divozione, con pagare venti mila
ducati di taglia. Era ridotto alla Tomba _Bartolomeo d'Alviano_
colle milizie venete, dove concorsero molti Veronesi, malcontenti
del dominio tedesco, e l'animarono all'acquisto della lor patria,
perchè non vi erano di presidio se non due mila fanti e cinquecento
cavalli. Dopo aver egli inteso che _Gian-Paolo Baglione_, spedito
a Lignago, se n'era impadronito, passò sotto Verona. Con incredibil
prestezza piantò le batterie, e fece alquanto di breccia; venne anche
all'assalto. Tal difesa nondimeno fecero, e tali precauzioni presero
i pochi Tedeschi lasciati ivi di guarnigione, che l'Alviano, giacchè
non si sentiva commozione alcuna di dentro, si ritirò nel Padovano,
aspettando ciò che meditassero gli Spagnuoli, i quali, impadronitisi
per forza di Peschiera, e giunti all'Adige, aveano ivi gittato un
ponte. In questi tempi ancora pervenne a Verona il _vescovo Gurgense_,
primo mobile della corte di Massimiliano Cesare, con quattro mila fanti
e secento cavalli borgognoni, tutta bella gente. Al quale avviso i
Veneziani rinforzarono di molte soldatesche Trivigi sotto il comando
del Baglione. L'Alviano restò in Padova, dove fece delle mirabili
fortificazioni, coll'atterramento di molte case, con una vastissima
spianata intorno alla città, e con ogni maggior provvisione per
sostenere un assedio.
Attesero in questo mentre gli Spagnuoli a ricuperar Lignago; indi
passarono a Montagnana, e quivi tennero molti consigli. Era di parere
il Cardona vicerè che s'imprendesse l'assedio di Trivigi, come più
facile a riuscire; ma gli convenne cedere all'ostinata volontà del
vescovo Gurgense, che pontò in preferir quello di Padova. Arrivarono
in questi giorni al loro campo ducento uomini di armi, che, alle
forti istanze di Cesare, mandò _papa Leone_. Mal volontieri, dice il
Guicciardino. Fu questo nondimeno un segno che il pontefice, ancorchè
andasse tergiversando, inclinava alla aderenza dell'_imperatore_ e del
_re di Spagna_. l'Anonimo Padovano scrive che furono ducento lancie
e due mila fanti spediti dal papa; e a lui, più che al Guicciardino,
sembra in molte circostanze dovuta fede, perchè scrive d'essersi
trovato presente in queste guerre d'Italia. Era composto l'esercito
spagnuolo di mille lancie, cinquecento cavalli leggieri e sette
mila fanti, co' quali si congiunsero quattro mila fanti tedeschi e
cinquecento cavalli borgognoni condotti dal suddetto vescovo Gurgense:
esercito poco sufficiente ad espugnar Padova, città di gran circuito,
ben munita e difesa dall'Alviano, uomo senza paura. Riuscì infatti
ridicolo il tentativo fatto contra di quella città, e dopo diciotto
giorni fu obbligato il Cardona a ritirarsi a Vicenza, città in questi
tempi come deserta, perchè continuamente esposta agl'insulti e al
possesso di chiunque giugnea colà più forte. Nè già era più felice lo
stato de' Bergamaschi. Dacchè gli Spagnuoli si furono impadroniti di
quella città, i loro commissarii aveano riscossi quindici mila ducati
d'oro da quegli afflitti cittadini. _Renzo da Ceri_, che, stando in
Crema per li Veneziani, tenea spie in Bergamo, segretamente di notte
con trecento cavalli e mille fanti marciò a quella volta; ed, entrato
nel far del giorno in essa città, non solamente risparmiò a quei
commissarii la fatica di portar via quel danaro, ma anche, uccisi e
presi molti di quei Spagnuoli, s'impossessò della città; e, lasciato
ivi il capitan Cagnolino Bergamasco, se ne tornò subito a Crema. Pochi
giorni passarono che giunse in Brescia il _conte Antonio da Lodrone_
con due mila Tedeschi; e già si disponeva per passare a Bergamo. Cagion
fu questo avviso che il Cagnolino si ritirasse in fretta colle sue
genti a Crema, e Bergamo tornasse in potere degli Spagnuoli. Risoluto
poscia il conte di Lodrone d'acquistar Pontevico, posto di grande
importanza sull'Oglio, colle artiglierie, e con un buon corpo di
combattenti ito colà, dopo una gran rottura di muro, diede l'assalto
alla terra. Fu questa mirabilmente difesa dal capitan Fattinnanzi,
che v'era di guarnigione con quattrocento fanti, di modo che dopo gran
sangue il conte fu astretto a convertire l'assedio in blocco. Passato
un mese, per mancanza di vettovaglie, quel capitano rendè la terra,
salvo l'avere e le persone. Avea Renzo da Ceri preso gusto alla preda.
Dacchè seppe che gli Spagnuoli aveano riscosso dai miseri Bergamaschi
altra gran somma di danaro per compensare i danni dianzi patiti, ma
senza colpa dei cittadini, se ne tornò col solito suo corteggio a
quella città; e, presi quanti Spagnuoli ivi trovò, dopo avervi lasciato
di presidio ottocento fanti e ducento cavalli sotto il governo di
Bartolomeo da Mosto, si ridusse di nuovo a Crema. Ciò inteso, il vicerè
_Cardona_ con lettere raccomandò la ricuperazion di Bergamo al duca
di Milano, il quale si trovava allora cogli Svizzeri in Piemonte,
saccheggiando tutto il paese, sotto pretesto d'impedire ai Franzesi il
ritorno in Italia. Spedì il duca a quell'impresa con assai schiere ed
artiglierie _Silvio Savello_ e _Cesare Feramosca_, che cominciarono
a battere la città. Ma ecco sul far del giorno giugnere quattrocento
cavalli ed altrettanti fanti, inviati da Crema da Renzo da Ceri, che
animosamente assalirono il campo milanese, nel qual tempo uscirono alla
medesima danza gli altri ch'erano nella città. Fu sanguinosa la pugna;
ma infine rimasero sconfitti i Veneziani colla perdita di quasi tutti i
fanti. S'arrendè l'infelice città di Bergamo, e all'innocente popolo fu
imposta dal Savello una taglia di dieci mila ducati d'oro.
Dappoichè fu sciolto l'assedio di Padova, fece _papa Leone_ quante
pratiche potè per istaccare i Veneziani dalla lega coi Franzesi; ma
senza frutto: tanto era irritato quel senato contro la mala fede degli
Spagnuoli. Però, essendosi il vicerè _Cardona_ ridotto con tutti i
capitani in Verona, tenuto fu ivi consiglio, e risoluto d'infestare
i Veneziani, per trarli colla forza ad acconciarsi con loro. Nel dì
17 di settembre s'avviò l'esercito collegato verso il Padovano, con
bando che fosse lecito ad ognuno il mettere a ferro e fuoco tutto il
paese da Monselice sino alle Acque salse. Fu eseguito il barbarico
editto, e in tempo che i poveri popoli, non aspettando la seconda
visita di questi cani, erano ritornati colle famiglie e bestiami alle
lor case. Non contenti costoro, cristiani di nome, e Turchi ne' fatti,
di far grandissimo bottino, imprigionavano, uccideano e bruciavano
case e ville, dovunque arrivava il loro furore. Meno degli altri non
operavano i soldati del papa. Fra le altre terre l'amena e fertile di
Pieve di Sacco, dove si contavano tante belle case di nobili veneti,
tutta fu consegnata alle fiamme. Lungo le Brente nuova e vecchia fecero
lo stesso scempio, scorrendo sino a Lizzafusina, Mergara, Mestre ed
altri luoghi marittimi, dai quali spararono anche di molte cannonate
verso Venezia, con arrivar le palle fin quasi a quella nobilissima
città: il che riempiè di terrore il popolo. L'_Alviano_, che in
Padova rodeva il freno al mirar tante iniquità dei nemici, seppe con
tal efficacia persuadere al senato veneto che si potea reprimere la
baldanza di quegli assassini, e di tagliar loro il ritorno a casa,
che data gli fu licenza di uscire in campagna coll'armata sua, benchè
inferiore all'altra di forze. I movimenti di questo generale, e i
passi stretti occupati da lui con far rompere le strade, cagion furono
che i collegati risolvessero di retrocedere per non restar privi dei
viveri. Ma alla Brenta e al Bachiglione ebbero a fronte l'Alviano, il
quale in tal maniera li strinse, che non sapeano trovar alcun varco per
ridursi in salvo. In tale stato di cose, se l'Alviano fosse stato un
saggio e prudente capitano, avrebbe di troppo angustiato il nemico, e,
senza azzardar battaglia, gli avrebbe dissipati o vinti colla fame. Ma
egli non parlava d'altro che di venire alle mani; e quantunque _Andrea
Gritti_ e _Andrea Loredano_ legati della repubblica colla maggior parte
de' capitani si opponessero, mostrando che non era da combattere con
gente disperata; pure si ostinò nella sua risoluzione, e furibondo
non rispose se non con villanie a chi gli contraddiceva. Non restava
ai collegati altro scampo che la via di Valsugana per ritirarsi a
Trento, ma questa si trovava piena di mille difficoltà. Sicchè il
miglior partito era quello d'aprirsi il passo colla spada alla mano,
se non che temeano che i Veneziani abborrissero questo giuoco. Ma il
saggio _Prospero Colonna_, ben conoscente del genio fervido e superbo
dell'_Alviano_, promise di tirare il campo veneto ad un fatto d'armi.
La mattina dunque del dì 7 d'ottobre, _Ferdinando d'Avalos_ marchese
di Pescara, giovane valorosissimo, s'avviò contro de' Veneziani
verso l'Olmo, ed unitosi col Colonnese nelle coerenze di Creazzo,
circa tre miglia lungi da Vicenza, diede principio alla terribile
zuffa. Si combattè con incredibile ardore da ambe le parti, ma infine
restò sconfitto l'Alviano. Le particolarità di questo conflitto
sono descritte in differente guisa dal Guicciardino, dal Giovio, dal
Gradenigo e da altri. Fra morti e presi de' Veneti si contarono circa
quattrocento uomini di arme e quattro mila fanti. L'Anonimo Padovano
vi aggiugne più di ottocento cavalli leggeri, e fa maggiore la strage
de' fanti. Restarono prigioni _Gian-Paolo Baglione_ governatore della
veneta armata, _Giulio Manfrone_, _Andrea Loredano_ legato del campo,
che fu poi barbaramente ucciso per gara nata fra i pretendenti di
averlo prigione. Tutta l'artiglieria coi carriaggi venne in potere dei
vincitori, i quali la stessa sera cenarono in Vicenza. Al vedere che
il senato veneto non prese risoluzione alcuna contro dell'Alviano,
può far credere fondato il sentimento di alcuni che scrivono esser
egli stato spinto dal Loredano suddetto ad uscire alla battaglia. Il
Loredano morto non potè più dir le sue ragioni. Perchè si avvicinava il
verno, niun'altra impresa tentarono i collegati, se non che il Cardona
seguitò da Vicenza ad infestar il Padovano, con lasciar tempo alla
repubblica veneta, intrepida sempre in mezzo alle sue sventure, di far
nuove provvisioni di guerra. Andato poscia a Roma il _vescovo Gurgense
Matteo Langio_, creato già cardinale, si ripigliarono i trattati di
pace, e ne fu fatto compromesso in _papa Leone X_; ma ancor questa
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