Annali d'Italia, vol. 6 - 19
difesa dianzi era stato inviato _Marcantonio Colonna_ con cento lancie,
ducento cavalli leggeri e mille fanti. Disposte le sue artiglierie,
cominciò tosto il duca di Ferrara a bersagliar quelle vecchie mura
con un continuo tremuoto. Formata la breccia, si venne all'assalto
nel venerdì santo, giorno ben santificato da quella gente; e durò la
battaglia per quattro ore, sostenuta con tal vigore dal Colonna, che
vi perirono fra l'una e l'altra parte da mille e cinquecento fanti,
la maggior parte italiani, e vi restò malamente ferito _Federigo da
Bozzolo_, valente capitano de' Franzesi.
A questi avvisi, il vicerè Cardona, non volendo lasciar perdere
Ravenna, fu necessitato a muoversi coll'armata collegata, e venne a
postarsi in un forte alloggiamento, tre miglia lungi da quella città,
dove si afforzò con alzar terra e cavar fosse fatte a mano colla
maggior celerità possibile. Trovavasi il general franzese in sommo
imbroglio, perchè vedea i nemici ostinati a schivar la zuffa; e intanto
l'armata sua si trovava in gran disagio, perchè erano cinque giorni
che gli uomini campavano di solo frumento cotto e d'acqua, e i cavalli
non istavano meglio, perchè cibati anch'essi di solo frumento e di
poche foglie di salici; sicchè era necessario o ritirarsi o avventurare
giornata campale. Fu preso l'ultimo partito, e tutto il sabbato santo
fu impiegato a prepararsi per sì orrida danza. La mattina dunque
del dì 11 di aprile, correndo la maggior festa dell'anno, cioè la
Risurrezion del Signore, giorno celebrato con tanta divozione da tutto
il Cristianesimo, ma funestato da coloro con tanti sdegni e spargimenti
di sangue, l'esercito franzese in ordinanza marciò contra del
collegato. Con essi Franzesi era il _cardinale San Severino_, legato
del conciliabolo di Pisa, che pareva un san Giorgio, perchè armato
da capo a' piedi. Prevalse fra gli Spagnuoli il parere di _Pietro
Navarro_, che non si avesse ad uscir dai trinceramenti, credendo egli
maggior vantaggio l'aspettar di piè fermo il nemico dietro ai ripari.
Ma il senno del duca di Ferrara trovò la maniera di cacciarli fuor
della tana; perciocchè, postate le batterie de' suoi grossi cannoni
in un buon sito, cominciò con tal furia a percuotere entro le lor
trincee i collegati, che, per attestato dell'Anonimo Padovano, il quale
diligentemente descrive questo gran fatto d armi, vi restarono uccise
circa due mila persone, e più di cinquecento cavalli sventrati. Allora
i capitani, veggendo così malmenata la lor gente senza poter fare
resistenza, chiesero licenza al vicerè di uscire a battaglia. Scrive il
Guicciardini che fu il valoroso _Fabrizio Colonna_ che annoiato di sì
brutto giuoco, senza dimandarne permissione, sboccò fuor dei ripari,
e diede principio alla mischia, seguitato poi dal resto dell'armata.
Gareggiavano in bravura questi due eserciti. L'odio delle nazioni,
l'amor della gloria, la necessità infiammavano il cuor di ognuno. Però
terribile fu il combattimento, e una giornata simile non s'era da gran
tempo veduta in Italia. All'istituto mio non lice il descriverne le
circostanze. Però basterà di dire che andarono in rotta i pontificii
e Spagnuoli, specialmente per la strage che ne fecero le bombarde del
duca Alfonso, postate ai loro fianchi; confessando il Bembo che egli
con questi bronzi e col suo stuolo fu cagione della vittoria in gran
parte. Perderono i vinti tutte le loro artiglierie, e buona parte delle
insegne e dello equipaggio, con lasciar morti sul campo ottocento
uomini d'armi, mille trecento cavalli leggeri e sette mila fanti, e
con restar prigionieri il cardinale legato, cioè _Giovanni de Medici_,
il _marchese di Bitonto_, _Ferdinando d'Avalos_ marchese di Pescara,
allora giovinetto, che poi riuscì capitano di gran nome, il _principe
di Bisignano_, il _Carvajal_ e _Pietro Navarro_ Spagnuoli con altri non
pochi uffiziali. Il prode _Fabrizio Colonna_, per sua buona ventura,
restò prigione di Alfonso duca di Ferrara, cioè d'un principe che gli
usò tutte le maggiori finezze, nè volle poi riscatto, siccome vedremo.
Restarono fra i morti il _duca d'Alba_, il _conte di Montebasso_,
il _Valmontone_ ed altri capitani. Si salvò a Cesena il _Cardona_,
dove attese a raccogliere le reliquie del tanto sminuito e sbandato
esercito.
Ma se piansero per la loro mala sorte i collegati, non ebbero già
occasion di ridere i Franzesi per la loro vittoria. Imperocchè, secondo
l'Anonimo Padovano, che mostra d'aver avuta buona contezza di questa sì
sanguinosa giornata, vi perirono settecento uomini di armi, ottocento
ottanta arcieri e nove mila fanti, e, tra' principali uffiziali loro,
_Ivo d'Allegre_ con due figli, amendue capitani d'arcieri, _la Grotta_,
_Villadura_, i due capitani de' Tedeschi _Filippo_ e _Jacob_ ed altri
ch'io tralascio. Il _signore di Lautrec_, carico di ferite, ritrovato
fra i morti, e poi curato in Ferrara, salvò la vita. Certamente è
uno sbaglio di stampa il dirsi nella Storia del Guicciardino che
_tra l'uno e l'altro esercito perirono almeno dieci mila persone_.
Tanto il Giovio che il Mocenigo, il Bembo, il Buonaccorsi, il Nardi
ed altri storici mettono almeno sedici migliaia di morti. Ma ciò
che contrappesò la perdita de' collegati, fu la morte dello stesso
generale _Gastone di Fois_. A questo valoroso principe, giovane di
ventiquattr'anni, dopo aver fatto delle stupende azioni di valore e
di saggia condotta in quello spaventoso combattimento, parea di aver
fatto nulla, se non inseguiva con circa mille cavalli un corpo di tre
mila fanti spagnuoli, che ben serrato si ritirava dal campo. Un colpo
di archibuso il colpì in questa azione, per cui diede fine alle sue
vittorie, lasciando una perenne memoria del suo senno e coraggio, e una
ferma opinione che, s'egli fosse soppravvivuto, avrebbe fatto conquiste
e meraviglie maggiori. Fu poi portato a Milano il suo corpo, ed ivi
con esequie magnifiche e in sepolcro nobilissimo seppellito. Terminata
la sanguinosa battaglia, _Marcantonio Colonna_, dopo aver consigliato
i Ravennati di andar la mattina per tempo ad offerire la città ai
vincitori, per ottener le migliori condizioni che potessero, si ritirò
nella cittadella. Poi, nella mezza notte, lasciato ivi un capitano con
cento fanti, perchè mancavano le provvisioni, col resto de' suoi se
ne andò a Rimini. Comparvero, sul far del dì, i deputati di Ravenna
al campo franzese; ma mentre ivi si trattava della capitolazione,
i fanti Guasconi, non sazii del bottino fatto il dì innanzi, ed
avidi di far vendetta dei tanti de' suoi uccisi nella battaglia,
si arrampicarono per la breccia delle mura di Ravenna, e facilmente
cacciati quei pochi cittadini che vi erano in guardia, penetrarono
nella città. Dietro loro di mano in mano entrò il resto della fanteria,
e tutti poi si diedero non solamente a saccheggiar le case, ma anche
ad uccidere chiunque scontravano per le strade, senza riguardo a
sesso od età. Niun rispetto si ebbe alle cose sacre, e il barbarico
furore d'alcuni giunse ad introdursi in un monistero di sacre vergini,
con ivi commettere ogni maggiore eccesso. Tutto era urli e pianti.
Avvisato di tanto disordine il _signor della Palissa_, capo pro interim
dell'armata, corse col legato e con altri capitani all'infelice città,
e i primi suoi passi furono a quel monistero, e quanti vi si trovarono
dentro (erano trentaquattro) li fece immediatamente impiccar per la
gola alle finestre. Questo spettacolo e un bando generale servì per
mettere fine al saccheggio, e tutti i soldati uscirono della città. Il
terrore intanto sparso per tutta la Romagna cagione fu che le città di
Faenza, Cervia, Imola, Cesena, Rimini e Forlì, a riserva delle rocche,
mandassero le chiavi al campo franzese, per esentarsi da mali maggiori,
e la cittadella di Ravenna per pochi giorni si sostenne. Fu esibito al
duca di Ferrara il comando dell'armata gallica; ma egli, conoscendo che
gente indisciplinata, orgogliosa e bestiale fosse quella, se ne scusò
con buona maniera. E tanto più se ne astenne, perchè, come principe
savio già prevedeva che il re Cristianissimo con tanti minacciosi
venti che erano oltramonti per aria, non potrebbe più attendere agli
affari d'Italia, nè a rinforzar quella troppo infievolita armata.
Però ritiratosi a Ferrara, cominciò a pensare come potesse salvar sè
stesso nell'imminente naufragio. Infatti la famosa vittoria di Ravenna
fu l'ultima delle glorie franzesi nella presente guerra, e la fortuna
voltò loro da lì innanzi le spalle.
Arrivata che fu a Roma, dove era tornato il pontefice, la gran nuova
del suddetto fatto d'armi, non si può dire che paura e scompiglio
ivi nascesse. Cominciarono allora più che mai i saggi porporati a
tempestar _papa Giulio_, perchè venisse ad una pace; ed egli colla
paura in corpo una volta tenne delle strette pratiche per essa, e
massimamente per essersi traspirato che _Prospero Colonna_, _Roberto
Orsino_, _Pietro Margano_ ed altri baroni romani meditavano delle
novità. Ma da che si seppe il netto della battaglia, e che sì caro era
costato ai Franzesi il loro trionfo, rinculò ben tosto, e più di prima
si confermò nella brama e speranza di cacciarli d'Italia. A questa
risoluzione maggiormente li accesero sicuri avvisi che i re di Spagna
e d'Inghilterra moveano guerra alla Francia, e che venti mila Svizzeri,
condotti dal _cardinal Sedunense_ ossia di Sion, coi danari d'esso papa
e de' Veneziani, erano pronti a calare in Italia. Venne intanto ordine
dal re Lodovico al _signor della Palissa_, creato governator di Milano,
di ritirarsi alla difesa di quello Stato. Tanto fece egli con lasciar
leggieri presidii in Ravenna e Bologna. Ma dacchè s'intese mosso
l'esercito pontificio alla volta della Romagna, _Federigo da Bozzolo_,
lasciato in Ravenna, abbandonata quella città, sen venne colla poca
sua gente a rinforzar Bologna. Diede papa Giulio principio al concilio
lateranense nel dì 3 di maggio, con iscarso concorso nondimeno di
prelati; ed ivi furono dichiarati nulli tutti gli atti del ridicolo
conciliabolo pisano. Sul principio ancora di giugno pervennero per
la via di Trento sul Veronese gli Svizzeri e Tedeschi, e alla mostra
furono trovati circa diciotto mila fanti scelti. Con loro si congiunse
l'esercito de' Veneziani, consistente in mille uomini d'arme, due
mila cavalli leggieri, sei mila fanti e gran quantità di artiglierie.
Erasi postato il signor della Palissa a Valeggio presso il Mincio, per
contrastar loro il passo. Ma, sentendosi troppo debole di forze, nel
dì 9 di giugno si ritirò andando verso Ponte Vico. Sopravvenuto poi
ordine da _Massimiliano Cesare_, già dichiarato nemico de' Franzesi,
che richiamava tutti i fanti tedeschi che erano al loro soldo, quattro
mila d'essi nel medesimo dì se ne tornarono alle lor case: il che fu
cagione che il Palissa precipitosamente si ricoverasse a Pizzighettone,
e passasse l'Adda, sempre infestato dai corridori dell'esercito
collegato, che era passato di là dal Mincio. Gran bisbiglio e movimento
era in questi tempi per tutte le città dello Stato di Milano, a cagion
della voce sparsa che _Massimiliano Sforza_, figlio del fu Lodovico
il Moro, avesse a riacquistarne il dominio: cosa sommamente sospirata
da que' popoli, non tanto per l'antica divozione verso quella casa,
e per desiderio d'aver un proprio principe, quanto ancora perchè i
Franzesi d'allora mettevano in opera, dovunque comandavano, l'arte di
farsi odiare. Questo infatti era il concordato da Massimiliano re dei
Romani col papa. Furono i primi ad arrendersi senza contrasto alcuno
i Cremonesi, ancorchè la cittadella restasse in man de' Franzesi; e
nacque lite, chi avesse a prenderne il possesso pretendendo non meno i
Veneziani che il commissario dello Sforza, assistito da Cesare, quella
città. L'ultimo la vinse col favore degli Svizzeri, guadagnati da un
regalo di quaranta o cinquanta mila ducati che loro sborsò il popolo di
Cremona.
Servì ad accelerare il precipizio del dominio franzese in Italia la
guerra nel medesimo tempo mossa dai _re d'Aragona_ e _d'Inghilterra_
alla Francia; per cui il re Luigi, trovandosi molto imbrogliato, fu
costretto a richiamare il Palissa di là dai monti, con ordine di
lasciar ben guernite le cittadelle più forti. Si ritirò dunque il
Palissa a Pavia, lasciate guarnigioni in Crema e Trezzo. Anche il
_Trivulzio_, scorgendo di non poter tenere la città di Milano, che
tumultuava, parendo a que' cittadini un'ora mille anni di veder lo
Sforza rientrare nella signoria de' suoi maggiori, dopo aver ben
provveduto il castello di quella città, si ridusse a Pavia; perlochè
i Milanesi alzarono tosto le bandiere sforzesche. Altrettanto fece
Lodi, allorchè vi si appressò l'esercito della lega. E Bergamo si
diede ai Veneziani. Marciarono i collegati con gran fretta a Pavia,
per non lasciar pigliar fiato ai Franzesi che s'erano fortificati
in quella città. Ma il Palissa, che già scorgea commosso anche quel
popolo a sedizione, e disperato il caso di sostenersi lungamente,
dappoichè i nemici aveano piantate le bombarde, e passato anche il
Ticino, all'improvviso colle artiglierie e bagaglio uscì di quella
città, per incamminarsi alla volta d'Asti. Rottosi il ponte di legno
ch'era sul Gravelone, al primo pezzo d'artiglieria grossa che volle
passare, ne restarono di qua tagliati fuora tredici altri con due
mila fanti tedeschi; i quali, assaliti dagli Svizzeri, fecero una
memorabil difesa, finchè, vedendo morta la metà di loro, e perduta
ogni speranza d'aiuto, pieni di ferite si gettarono disperatamente nel
Ticino per passare all'altra riva, dove i Franzesi erano spettatori
della crudel battaglia senza loro poter recare aiuto. Se ne affogarono
circa ducento. Aveano i Franzesi molto prima inviato con buona scorta
il legato pontificio prigione, cioè _Giovanni cardinale de Medici_.
Allorchè fu egli al passo del Po alla Stella, oppure a Bassignana,
tolto fu di mano a Franzesi, e ridotto in luogo di salvamento.
Il Guicciardino di questo fatto dà l'onore ai villani del Cairo,
guadagnati la notte antecedente dai familiari del cardinale. L'Anonimo
Padovano ne fa autore il marchese Bernabò Malaspina; e il Giovio scrive
che fu molto prima concertata la sua fuga coll'abbate Bongallo e con
altri suoi amici. Gravissimi disagi patì poscia il resto dell'armata
franzese; pure continuò il viaggio, e passò l'Alpi, portando seco un
buon documento ai principi di non maltrattare i popoli, massimamente
quei di nuova conquista. Certamente l'alterigia loro, l'aspro governo e
il licenzioso procedere colle donne aveano talmente esacerbati i popoli
della Lombardia, che tutti a gara, subito che se la videro bella, si
sottrassero al loro dominio, anzi infierirono contro di loro. Appena
partito da Milano il Trivulzio, quel popolo furiosamente si diede a
svenar quanti soldati e mercatanti franzesi erano rimasti in quella
città, con saccheggiarne le case e botteghe. V'ha chi scrive, averne
uccisi circa mille e cinquecento. Parimente in Como ne furono scannati
non pochi, e nella lor fuga verso l'Alpi, contra di essi si scatenarono
tutti i villani del paese, uccidendo chiunque alquanto si scostava dal
corpo di battaglia. Intanto Pavia, Alessandria, Como, Tortona ed altre
città inalberarono le bandiere sforzesche. Il marchese di Monferrato
colle sue genti entrò in Asti e in Novara; ma non ebbe la fortezza di
quest'ultima città. In tanta rivoluzion di cose trovarono maniera i
ministri pontificii d'indurre i Piacentini e Parmigiani a darsi alla
Chiesa: il che aprì allora un campo di doglianze e dispute del duca
di Milano e dell'imperio contro il papa: dispute ravvivate poi a'
giorni nostri, siccome diremo a suo tempo. Pretese inoltre il papa che
Asti dovesse toccare a lui; ma non gli riuscì di aver quel boccone.
Fu ancora spedito dall'esercito della lega _Giano Fregoso_ con mille
cavalli e tre mila fanti a Genova; alla comparsa de' quali, si ribellò
tutto quel popolo, e i Franzesi si chiusero nel castelletto e nella
fortezza della Lanterna. Fu esso Fregoso proclamato poco appresso doge
di quella repubblica.
Mentre sì gran tracollo davano in Lombardia gli affari dei
Franzesi, restando solamente in lor potere Brescia, Crema e qualche
fortezza[386], il pontefice, raunate le reliquie dell'esercito disfatto
sotto Ravenna, colla giunta di quattro altri mila fanti, spedì sul
fine di maggio questa armata in Romagna, per cui tornarono quetamente
alla sua ubbidienza tutte quelle città. Ne era generale _Francesco
Maria duca_ d'Urbino suo nipote, il quale intimò poi la resa a Bologna.
Vedendo i Bentivogli disperato il caso, se n'andarono chi a Mantova,
chi a Ferrara; e la città di Bologna, nel dì 10 di giugno, capitolò
col duca e col _cardinal Sigismondo Gonzaga_ legato, i quali poi vi
fecero solenne entrata nella domenica seguente 13 di giugno. Aveva
intanto _Alfonso duca_ di Ferrara, per mezzo del _marchese di Mantova_
suo cognato e di _Fabrizio Colonna_ suo prigione (trattato non di meno
non come tale, ma come suo amico), fatti varii maneggi per rientrare
in grazia del pontefice, ed era anche venuto il salvocondotto per
lui e per li suoi Stati. In vigore di questo, dopo aver egli mandato
innanzi il Colonna ben regalato e senza taglia alcuna, s'inviò nel
dì 23 di giugno a Roma, dove giunto, fu assoluto dalle censure, ed
ammesso al bacio del piede di sua santità. Ma che? I principi di animo
grande si fan gloria di perdonare ai supplicanti nemici. Papa Giulio,
al contrario, parve che si facesse gloria fino di mancar di fede.
Nel mentre che Alfonso era in Roma, il duca d'Urbino non solamente
occupò Cento, la Pieve e le terre della Romagna spettanti al duca, ma
eziandio inoltratosi a Reggio, non ostante il richiamo del Vitfurst
governatore cesareo di Modena, che gli intimò quella essere città
dell'imperio, costrinse i Reggiani alla resa. Dopo di che spogliò il
duca anche di Carpi, Brescello, San Felice e Finale. Inoltre lo stesso
papa cominciò a pontare, volendo, che esso duca gli cedesse il ducato
di Ferrara. Perciò Alfonso, che non si sentiva voglia di far questo
sacrifizio, chiese licenza, in vigore del salvocondotto, di tornarsene
a casa; nè la potè ottenere. I Colonnesi coll'oratore spagnuolo che
aveva anch'egli persuaso ad un principe di tanto credito il portarsi
colà, iti a pregare il papa di questo, non ne riportarono che ingiurie
e minaccie. Poscia si penetrò il disegno di papa Giulio di ritenerlo
prigione. Allora gli onorati signori Colonnesi, cioè _Fabrizio_ e
_Marcantonio_, che aveano obbligata la loro fede al duca, con una
brigata di lor gente, sforzata la porta di San Giovanni, il cavarono
di Roma, e salvo il condussero a Marino, da dove poi dopo tre mesi
travestito, con deludere tutte le spie messe fuori dal pontefice,
felicemente passò a Ferrara. Se queste azioni facessero onore a papa
Giulio, sel può ciascuno immaginare.
Restava al papa, inflessibile nelle sue passioni, di gastigare i
Fiorentini, e specialmente il gonfaloniere _Pietro Soderino_, perchè
avessero permesso in Pisa il conciliabolo de' Franzesi, e dato aiuto
di gente in questa guerra al re di Francia, tuttochè l'avessero fatto
forzati dall'obbligo delle lor precedenti convenzioni, con essersi per
altro mantenuti neutrali: della qual neutralità si ebbero poi molto a
pentire. Operò dunque colla lega, che il _Cardona_ vicerè di Napoli
colle armi spagnuole entrasse nel dominio fiorentino, e rimettesse
in casa i Medici, già da gran tempo banditi da quella città. Mentre
i Fiorentini trattavano d'accordo, gli Spagnuoli accampati sotto la
bella e ricca terra di Prato, non sapendo dove trovar vettovaglie, nel
dì 30 d'agosto diedero un assalto a quella terra; e senza che quattro
mila fanti, ch'erano ivi di presidio, ma troppo vili, facessero menoma
resistenza, vi entrarono. Commisero costoro inudite crudeltà, maggiori
delle commesse dai Franzesi in Brescia, come attesta il Giovio; il
quale aggiugne ancora, che cinquemila uomini disarmati, parte soldati
e parte terrazzani, furono ivi uccisi dalla inesplicabil brutalità dei
vincitori. L'Anonimo Padovano ne scrive ammazzati più di tre mila.
Il Guicciardini dice che vi morirono più di due mila persone, e che
il _cardinal de Medici_ legato pontificio, messe guardie alla chiesa
maggiore, salvò l'onestà delle donne, quasi tutte colà rifuggite. Ma il
Nardi e il Buonaccorsi, che registravano allora sì fieri avvenimenti,
asseriscono che non fu perdonato nè a vergini sacre, nè a luoghi
sacri, nè a' bambini in fasce. E quei che rimasero in vita, furono
tutti eccessivamente taglieggiati, e con varii tormenti straziati,
perchè pagassero ciò che non poteano. Ed ecco dove andavano a terminar
le strane premure di un papa per cacciare i Barbari d'Italia, cioè
con una medicina peggiore affatto del male: il che nello stesso
tempo, oltre alla Toscana, provò la Lombardia, inondata allora dagli
Svizzeri, divenuti formidabili da per tutto, e che da ogni lato
esigevano contribuzioni, e nulla potea saziarli. Nel tornare al lor
paese, occuparono la Valtellina, Chiavenna e Locarno, nè più vollero
dimetterle. Nel dì 31 d'agosto il gonfaloniere Soderino, uscito di
Firenze, si ritirò a Ragusi.
I Medici furono rimessi con infinite dimostrazioni d'allegrezza in
città, e riformarono quel reggimento a modo loro, con dover pagare i
Fiorentini al re dei Romani e al Cardona più di centoquaranta mila
ducati d'oro. Restarono poi sommamente burlati anche i Veneziani
dalla lor lega, chiamata allora la lega santa. Imperciocchè riuscì ben
loro di ricuperar Crema per trattato segreto che fecero con Benedetto
Crivello, posto dai Franzesi alla guardia di quella terra, il quale
corrotto con danari, per questo tradimento fu ben ricompensato da essi
Veneti. Ma non andò così per conto di Brescia, città, alle cui passate
e presenti miserie si aggiunse in questi tempi anche la peste, morendo
fin centocinquanta di que' cittadini per giorno. Ne formò l'esercito
veneziano l'assedio, e cominciò a battere colle artiglierie le mura.
Quando ecco giugnere il Cardona co' suoi Spagnuoli, ben carichi del
bottino della Toscana, il quale imbrogliò tutte le loro speranze.
Cominciò esso vicerè a pretendere che non solamente quella città
si avesse a rendere a lui, ma anche Bergamo e Crema, già ritornate
all'ubbidienza della repubblica. Erano queste pretensioni chiaramente
contrarie ai patti della lega. Ma di che non è capace la smoderata
avidità ed ambizione d'alcuni principi? Niun freno hanno per essi nè
la pubblica fede, nè i patti, nè i giuramenti; e volesse Dio che non ne
avessimo veduto ancor noi più d'un esempio a' dì nostri. Aveano già gli
Svizzeri e gli Spagnuoli molto prima cominciato ad usar delle insolenze
contro de' Veneziani. Le accrebbero sotto Brescia, la qual città,
nel dì 13 di novembre, con molto onorevoli condizioni fu consegnata
dal _signor d'Aubigny_ al _vicerè Cardona_. Costrinsero ancora essi
Spagnuoli a rendersi Peschiera, Lignago, e i castelli di Trezzo e di
Novara; siccome da un'altra parte riuscì ai Genovesi di trar con danari
il castelletto della lor città di mano del castellano franzese, che poi
fu squartato vivo in Lione.
Tornato che fu a' quartieri il deluso esercito veneto, si applicò
quel saggio senato a trattar di pace col _vescovo Gurgense_, che era
il plenipotenziario di _Massimiliano Cesare_ in Italia. Volle il papa
che questo negoziato si facesse in Roma; e, dettata imperiosamente la
capitolazione, comandò ai Veneziani di accettarla. Conteneva essa, che
Verona e Vicenza restassero a Massimiliano; che per Padova e Trivigi
pagassero ad esso Cesare trecento libbre d'oro ogni anno a titolo di
censo, e due mila e cinquecento libbre d'oro pel privilegio; e per le
terre del Friuli ne fosse poi giudice lo stesso papa. Conobbero allora
i Veneziani d'essere maltrattati e traditi anche da questa banda;
ed, ancorchè si trovassero in poco buono stato per li monti d'oro
spesi in guerra, pure, non ostante lo sdegno e le grida di esso papa,
generosamente ricusarono di consentire a sì gravosa ed inaspettata
pace, con darsi piuttosto ad intavolar accordo e lega col re di
Francia, siccome diremo, giacchè il papa, in una nuova lega fatta con
Massimiliano e col re di Aragona, ne avea esclusi con poco buon garbo
gli stessi Veneti. Nel dì 15 di dicembre arrivò a Milano _Massimiliano
Sforza_, dichiarato duca da Cesare e dalla lega; nè si può esprimere
con quanto giubilo, con quante feste egli fosse ricevuto dai Milanesi,
e quanto magnifica fosse l'entrata sua in quella nobil città, perchè
accompagnato dal _cardinal di Sion_, dal _vescovo Gurgense_, da
_Raimondo di Cardona_ vicerè, e da infinito numero di capitani e nobili
italiani, tedeschi, spagnuoli e svizzeri. Anche il castello di Milano,
tenuto da' Franzesi, intanto andava facendo co' grossi cannoni delle
salve, d'allegrezza non già, ma di danno ai Milanesi. Rimase nondimeno
il povero duca come schiavo degli Svizzeri. Nè si dee tacere che,
assaltato nell'anno presente il re Cristianissimo dai re d'Aragona e
d'Inghilterra, lasciò per sua negligenza che il primo, cioè _Ferdinando
il Cattolico_, occupasse la Navarra, togliendola a quel re. E perchè
mancava all'Aragonese un legittimo titolo di appropriarsi quel picciolo
regno, si servì d'una bolla di _papa Giulio II_, che avea dichiarato
decaduto da ogni suo diritto chiunque fosse aderito al conciliabolo di
Pisa, concedendo a ciascuno facoltà di occupar i loro Stati. Questa
bolla procurata dall'accorto re, per attestato del Mariana, tenuta
fu per molto tempo segreta, e poi sfoderata al bisogno. Ma non so io,
se quel re avesse creduta autorità ne' papi da donare i regni altrui
quando mai contra di lui fosse stata pronunziata una simil sentenza.
Maraviglia fu che il _re Luigi_, per lo sdegno che nudriva contro del
papa, sì pertinace promotore della di lui rovina, non si lasciasse
allora trasportare all'eccesso di far creare un antipapa nel suo regno.
Senza dubbio ne fu assai trattato. Probabilmente non il timore di Dio,
ma quel degli uomini il trattenne. Con tali e tante turbolenze terminò
l'anno presente.
NOTE:
[386] Paris de Grassis. Guicciardino. Buonaccorsi. Anonimo Padovano.
Nardi, ed altri.
Anno di CRISTO MDXIII. Indizione I.
LEONE X papa 1.
MASSIMILIANO I re de' Romani 21.
Fra tante sue sventure non avea per anche _Luigi XII_ re di Francia
dato congedo in suo cuore al desiderio e alla speranza di ricuperar lo
Stato di Milano, perchè tuttavia si conservavano alla divozione di lui
i castelli di Milano e di Cremona, e la Lanterna ossia il Finale di
Genova. Vari negoziati perciò fece durante questo verno coi potentati
nemici, o per pacificarli, o per rompere la loro unione. Nulla potè
ottenere dall'Inghilterra, meno dal papa e da Massimiliano. Per quanti
progetti facesse agli Svizzeri, costoro insuperbiti, mirando d'alto in
basso gli stessi monarchi, non volendo abbandonare la vigna che loro
molto bene fruttava, e credendo oramai di poter dar legge ad ognuno,
saldi stettero in sostenere lo Sforza. Unicamente riuscì ad esso re di
stabilire la tregua di un anno col re Cattolico, ma solamente per li
confini dell'Alpi coll'Aragona. Per consiglio ancora di _Gian-Jacopo
Trivulzio_, si rivolse ai Veneziani, non essendogli ignoto quanto
amareggiato giustamente fosse quel senato pel tradimento usatogli
dalla lega e dal papa, e perchè Massimiliano nell'investitura data
allo Sforza avea compreso anche Brescia, Bergamo e Crema. Infatti
dopo molti dibattimenti nel dì 13 (altri dicono nel dì 24) di marzo
dell'anno presente fu conclusa una lega difensiva ed offensiva fra esso
re Lodovico e la repubblica veneta, con obbligarsi questa a mantenere
mille e ducento lancie, ed otto mila fanti in aiuto del re; e che
Bergamo, Brescia, Cremona e la Ghiaradadda dovessero tornare sotto la
signoria di Venezia. _Andrea Gritti_ prigione in Francia, riavuta la
libertà, fu destinato a sottoscrivere questo accordo, per cui s'avea
a vedere una scena nuova in Italia. Intanto le prosperità dell'anno
precedente accendevano l'animo di _papa Giulio_ a disegni maggiori,
coll'essersi messo in capo di regolare a talento suo l'Italia tutta,
per non dire tutti i principi della cristianità. Già avea stesa una
bolla terribile contra del _re di Francia_, privandolo del titolo di
re, e concedendo quel regno a chiunque lo occupasse, con attizzar
più che mai il _re d'Inghilterra Arrigo_ contra dell'altro. Avea
ducento cavalli leggeri e mille fanti. Disposte le sue artiglierie,
cominciò tosto il duca di Ferrara a bersagliar quelle vecchie mura
con un continuo tremuoto. Formata la breccia, si venne all'assalto
nel venerdì santo, giorno ben santificato da quella gente; e durò la
battaglia per quattro ore, sostenuta con tal vigore dal Colonna, che
vi perirono fra l'una e l'altra parte da mille e cinquecento fanti,
la maggior parte italiani, e vi restò malamente ferito _Federigo da
Bozzolo_, valente capitano de' Franzesi.
A questi avvisi, il vicerè Cardona, non volendo lasciar perdere
Ravenna, fu necessitato a muoversi coll'armata collegata, e venne a
postarsi in un forte alloggiamento, tre miglia lungi da quella città,
dove si afforzò con alzar terra e cavar fosse fatte a mano colla
maggior celerità possibile. Trovavasi il general franzese in sommo
imbroglio, perchè vedea i nemici ostinati a schivar la zuffa; e intanto
l'armata sua si trovava in gran disagio, perchè erano cinque giorni
che gli uomini campavano di solo frumento cotto e d'acqua, e i cavalli
non istavano meglio, perchè cibati anch'essi di solo frumento e di
poche foglie di salici; sicchè era necessario o ritirarsi o avventurare
giornata campale. Fu preso l'ultimo partito, e tutto il sabbato santo
fu impiegato a prepararsi per sì orrida danza. La mattina dunque
del dì 11 di aprile, correndo la maggior festa dell'anno, cioè la
Risurrezion del Signore, giorno celebrato con tanta divozione da tutto
il Cristianesimo, ma funestato da coloro con tanti sdegni e spargimenti
di sangue, l'esercito franzese in ordinanza marciò contra del
collegato. Con essi Franzesi era il _cardinale San Severino_, legato
del conciliabolo di Pisa, che pareva un san Giorgio, perchè armato
da capo a' piedi. Prevalse fra gli Spagnuoli il parere di _Pietro
Navarro_, che non si avesse ad uscir dai trinceramenti, credendo egli
maggior vantaggio l'aspettar di piè fermo il nemico dietro ai ripari.
Ma il senno del duca di Ferrara trovò la maniera di cacciarli fuor
della tana; perciocchè, postate le batterie de' suoi grossi cannoni
in un buon sito, cominciò con tal furia a percuotere entro le lor
trincee i collegati, che, per attestato dell'Anonimo Padovano, il quale
diligentemente descrive questo gran fatto d armi, vi restarono uccise
circa due mila persone, e più di cinquecento cavalli sventrati. Allora
i capitani, veggendo così malmenata la lor gente senza poter fare
resistenza, chiesero licenza al vicerè di uscire a battaglia. Scrive il
Guicciardini che fu il valoroso _Fabrizio Colonna_ che annoiato di sì
brutto giuoco, senza dimandarne permissione, sboccò fuor dei ripari,
e diede principio alla mischia, seguitato poi dal resto dell'armata.
Gareggiavano in bravura questi due eserciti. L'odio delle nazioni,
l'amor della gloria, la necessità infiammavano il cuor di ognuno. Però
terribile fu il combattimento, e una giornata simile non s'era da gran
tempo veduta in Italia. All'istituto mio non lice il descriverne le
circostanze. Però basterà di dire che andarono in rotta i pontificii
e Spagnuoli, specialmente per la strage che ne fecero le bombarde del
duca Alfonso, postate ai loro fianchi; confessando il Bembo che egli
con questi bronzi e col suo stuolo fu cagione della vittoria in gran
parte. Perderono i vinti tutte le loro artiglierie, e buona parte delle
insegne e dello equipaggio, con lasciar morti sul campo ottocento
uomini d'armi, mille trecento cavalli leggeri e sette mila fanti, e
con restar prigionieri il cardinale legato, cioè _Giovanni de Medici_,
il _marchese di Bitonto_, _Ferdinando d'Avalos_ marchese di Pescara,
allora giovinetto, che poi riuscì capitano di gran nome, il _principe
di Bisignano_, il _Carvajal_ e _Pietro Navarro_ Spagnuoli con altri non
pochi uffiziali. Il prode _Fabrizio Colonna_, per sua buona ventura,
restò prigione di Alfonso duca di Ferrara, cioè d'un principe che gli
usò tutte le maggiori finezze, nè volle poi riscatto, siccome vedremo.
Restarono fra i morti il _duca d'Alba_, il _conte di Montebasso_,
il _Valmontone_ ed altri capitani. Si salvò a Cesena il _Cardona_,
dove attese a raccogliere le reliquie del tanto sminuito e sbandato
esercito.
Ma se piansero per la loro mala sorte i collegati, non ebbero già
occasion di ridere i Franzesi per la loro vittoria. Imperocchè, secondo
l'Anonimo Padovano, che mostra d'aver avuta buona contezza di questa sì
sanguinosa giornata, vi perirono settecento uomini di armi, ottocento
ottanta arcieri e nove mila fanti, e, tra' principali uffiziali loro,
_Ivo d'Allegre_ con due figli, amendue capitani d'arcieri, _la Grotta_,
_Villadura_, i due capitani de' Tedeschi _Filippo_ e _Jacob_ ed altri
ch'io tralascio. Il _signore di Lautrec_, carico di ferite, ritrovato
fra i morti, e poi curato in Ferrara, salvò la vita. Certamente è
uno sbaglio di stampa il dirsi nella Storia del Guicciardino che
_tra l'uno e l'altro esercito perirono almeno dieci mila persone_.
Tanto il Giovio che il Mocenigo, il Bembo, il Buonaccorsi, il Nardi
ed altri storici mettono almeno sedici migliaia di morti. Ma ciò
che contrappesò la perdita de' collegati, fu la morte dello stesso
generale _Gastone di Fois_. A questo valoroso principe, giovane di
ventiquattr'anni, dopo aver fatto delle stupende azioni di valore e
di saggia condotta in quello spaventoso combattimento, parea di aver
fatto nulla, se non inseguiva con circa mille cavalli un corpo di tre
mila fanti spagnuoli, che ben serrato si ritirava dal campo. Un colpo
di archibuso il colpì in questa azione, per cui diede fine alle sue
vittorie, lasciando una perenne memoria del suo senno e coraggio, e una
ferma opinione che, s'egli fosse soppravvivuto, avrebbe fatto conquiste
e meraviglie maggiori. Fu poi portato a Milano il suo corpo, ed ivi
con esequie magnifiche e in sepolcro nobilissimo seppellito. Terminata
la sanguinosa battaglia, _Marcantonio Colonna_, dopo aver consigliato
i Ravennati di andar la mattina per tempo ad offerire la città ai
vincitori, per ottener le migliori condizioni che potessero, si ritirò
nella cittadella. Poi, nella mezza notte, lasciato ivi un capitano con
cento fanti, perchè mancavano le provvisioni, col resto de' suoi se
ne andò a Rimini. Comparvero, sul far del dì, i deputati di Ravenna
al campo franzese; ma mentre ivi si trattava della capitolazione,
i fanti Guasconi, non sazii del bottino fatto il dì innanzi, ed
avidi di far vendetta dei tanti de' suoi uccisi nella battaglia,
si arrampicarono per la breccia delle mura di Ravenna, e facilmente
cacciati quei pochi cittadini che vi erano in guardia, penetrarono
nella città. Dietro loro di mano in mano entrò il resto della fanteria,
e tutti poi si diedero non solamente a saccheggiar le case, ma anche
ad uccidere chiunque scontravano per le strade, senza riguardo a
sesso od età. Niun rispetto si ebbe alle cose sacre, e il barbarico
furore d'alcuni giunse ad introdursi in un monistero di sacre vergini,
con ivi commettere ogni maggiore eccesso. Tutto era urli e pianti.
Avvisato di tanto disordine il _signor della Palissa_, capo pro interim
dell'armata, corse col legato e con altri capitani all'infelice città,
e i primi suoi passi furono a quel monistero, e quanti vi si trovarono
dentro (erano trentaquattro) li fece immediatamente impiccar per la
gola alle finestre. Questo spettacolo e un bando generale servì per
mettere fine al saccheggio, e tutti i soldati uscirono della città. Il
terrore intanto sparso per tutta la Romagna cagione fu che le città di
Faenza, Cervia, Imola, Cesena, Rimini e Forlì, a riserva delle rocche,
mandassero le chiavi al campo franzese, per esentarsi da mali maggiori,
e la cittadella di Ravenna per pochi giorni si sostenne. Fu esibito al
duca di Ferrara il comando dell'armata gallica; ma egli, conoscendo che
gente indisciplinata, orgogliosa e bestiale fosse quella, se ne scusò
con buona maniera. E tanto più se ne astenne, perchè, come principe
savio già prevedeva che il re Cristianissimo con tanti minacciosi
venti che erano oltramonti per aria, non potrebbe più attendere agli
affari d'Italia, nè a rinforzar quella troppo infievolita armata.
Però ritiratosi a Ferrara, cominciò a pensare come potesse salvar sè
stesso nell'imminente naufragio. Infatti la famosa vittoria di Ravenna
fu l'ultima delle glorie franzesi nella presente guerra, e la fortuna
voltò loro da lì innanzi le spalle.
Arrivata che fu a Roma, dove era tornato il pontefice, la gran nuova
del suddetto fatto d'armi, non si può dire che paura e scompiglio
ivi nascesse. Cominciarono allora più che mai i saggi porporati a
tempestar _papa Giulio_, perchè venisse ad una pace; ed egli colla
paura in corpo una volta tenne delle strette pratiche per essa, e
massimamente per essersi traspirato che _Prospero Colonna_, _Roberto
Orsino_, _Pietro Margano_ ed altri baroni romani meditavano delle
novità. Ma da che si seppe il netto della battaglia, e che sì caro era
costato ai Franzesi il loro trionfo, rinculò ben tosto, e più di prima
si confermò nella brama e speranza di cacciarli d'Italia. A questa
risoluzione maggiormente li accesero sicuri avvisi che i re di Spagna
e d'Inghilterra moveano guerra alla Francia, e che venti mila Svizzeri,
condotti dal _cardinal Sedunense_ ossia di Sion, coi danari d'esso papa
e de' Veneziani, erano pronti a calare in Italia. Venne intanto ordine
dal re Lodovico al _signor della Palissa_, creato governator di Milano,
di ritirarsi alla difesa di quello Stato. Tanto fece egli con lasciar
leggieri presidii in Ravenna e Bologna. Ma dacchè s'intese mosso
l'esercito pontificio alla volta della Romagna, _Federigo da Bozzolo_,
lasciato in Ravenna, abbandonata quella città, sen venne colla poca
sua gente a rinforzar Bologna. Diede papa Giulio principio al concilio
lateranense nel dì 3 di maggio, con iscarso concorso nondimeno di
prelati; ed ivi furono dichiarati nulli tutti gli atti del ridicolo
conciliabolo pisano. Sul principio ancora di giugno pervennero per
la via di Trento sul Veronese gli Svizzeri e Tedeschi, e alla mostra
furono trovati circa diciotto mila fanti scelti. Con loro si congiunse
l'esercito de' Veneziani, consistente in mille uomini d'arme, due
mila cavalli leggieri, sei mila fanti e gran quantità di artiglierie.
Erasi postato il signor della Palissa a Valeggio presso il Mincio, per
contrastar loro il passo. Ma, sentendosi troppo debole di forze, nel
dì 9 di giugno si ritirò andando verso Ponte Vico. Sopravvenuto poi
ordine da _Massimiliano Cesare_, già dichiarato nemico de' Franzesi,
che richiamava tutti i fanti tedeschi che erano al loro soldo, quattro
mila d'essi nel medesimo dì se ne tornarono alle lor case: il che fu
cagione che il Palissa precipitosamente si ricoverasse a Pizzighettone,
e passasse l'Adda, sempre infestato dai corridori dell'esercito
collegato, che era passato di là dal Mincio. Gran bisbiglio e movimento
era in questi tempi per tutte le città dello Stato di Milano, a cagion
della voce sparsa che _Massimiliano Sforza_, figlio del fu Lodovico
il Moro, avesse a riacquistarne il dominio: cosa sommamente sospirata
da que' popoli, non tanto per l'antica divozione verso quella casa,
e per desiderio d'aver un proprio principe, quanto ancora perchè i
Franzesi d'allora mettevano in opera, dovunque comandavano, l'arte di
farsi odiare. Questo infatti era il concordato da Massimiliano re dei
Romani col papa. Furono i primi ad arrendersi senza contrasto alcuno
i Cremonesi, ancorchè la cittadella restasse in man de' Franzesi; e
nacque lite, chi avesse a prenderne il possesso pretendendo non meno i
Veneziani che il commissario dello Sforza, assistito da Cesare, quella
città. L'ultimo la vinse col favore degli Svizzeri, guadagnati da un
regalo di quaranta o cinquanta mila ducati che loro sborsò il popolo di
Cremona.
Servì ad accelerare il precipizio del dominio franzese in Italia la
guerra nel medesimo tempo mossa dai _re d'Aragona_ e _d'Inghilterra_
alla Francia; per cui il re Luigi, trovandosi molto imbrogliato, fu
costretto a richiamare il Palissa di là dai monti, con ordine di
lasciar ben guernite le cittadelle più forti. Si ritirò dunque il
Palissa a Pavia, lasciate guarnigioni in Crema e Trezzo. Anche il
_Trivulzio_, scorgendo di non poter tenere la città di Milano, che
tumultuava, parendo a que' cittadini un'ora mille anni di veder lo
Sforza rientrare nella signoria de' suoi maggiori, dopo aver ben
provveduto il castello di quella città, si ridusse a Pavia; perlochè
i Milanesi alzarono tosto le bandiere sforzesche. Altrettanto fece
Lodi, allorchè vi si appressò l'esercito della lega. E Bergamo si
diede ai Veneziani. Marciarono i collegati con gran fretta a Pavia,
per non lasciar pigliar fiato ai Franzesi che s'erano fortificati
in quella città. Ma il Palissa, che già scorgea commosso anche quel
popolo a sedizione, e disperato il caso di sostenersi lungamente,
dappoichè i nemici aveano piantate le bombarde, e passato anche il
Ticino, all'improvviso colle artiglierie e bagaglio uscì di quella
città, per incamminarsi alla volta d'Asti. Rottosi il ponte di legno
ch'era sul Gravelone, al primo pezzo d'artiglieria grossa che volle
passare, ne restarono di qua tagliati fuora tredici altri con due
mila fanti tedeschi; i quali, assaliti dagli Svizzeri, fecero una
memorabil difesa, finchè, vedendo morta la metà di loro, e perduta
ogni speranza d'aiuto, pieni di ferite si gettarono disperatamente nel
Ticino per passare all'altra riva, dove i Franzesi erano spettatori
della crudel battaglia senza loro poter recare aiuto. Se ne affogarono
circa ducento. Aveano i Franzesi molto prima inviato con buona scorta
il legato pontificio prigione, cioè _Giovanni cardinale de Medici_.
Allorchè fu egli al passo del Po alla Stella, oppure a Bassignana,
tolto fu di mano a Franzesi, e ridotto in luogo di salvamento.
Il Guicciardino di questo fatto dà l'onore ai villani del Cairo,
guadagnati la notte antecedente dai familiari del cardinale. L'Anonimo
Padovano ne fa autore il marchese Bernabò Malaspina; e il Giovio scrive
che fu molto prima concertata la sua fuga coll'abbate Bongallo e con
altri suoi amici. Gravissimi disagi patì poscia il resto dell'armata
franzese; pure continuò il viaggio, e passò l'Alpi, portando seco un
buon documento ai principi di non maltrattare i popoli, massimamente
quei di nuova conquista. Certamente l'alterigia loro, l'aspro governo e
il licenzioso procedere colle donne aveano talmente esacerbati i popoli
della Lombardia, che tutti a gara, subito che se la videro bella, si
sottrassero al loro dominio, anzi infierirono contro di loro. Appena
partito da Milano il Trivulzio, quel popolo furiosamente si diede a
svenar quanti soldati e mercatanti franzesi erano rimasti in quella
città, con saccheggiarne le case e botteghe. V'ha chi scrive, averne
uccisi circa mille e cinquecento. Parimente in Como ne furono scannati
non pochi, e nella lor fuga verso l'Alpi, contra di essi si scatenarono
tutti i villani del paese, uccidendo chiunque alquanto si scostava dal
corpo di battaglia. Intanto Pavia, Alessandria, Como, Tortona ed altre
città inalberarono le bandiere sforzesche. Il marchese di Monferrato
colle sue genti entrò in Asti e in Novara; ma non ebbe la fortezza di
quest'ultima città. In tanta rivoluzion di cose trovarono maniera i
ministri pontificii d'indurre i Piacentini e Parmigiani a darsi alla
Chiesa: il che aprì allora un campo di doglianze e dispute del duca
di Milano e dell'imperio contro il papa: dispute ravvivate poi a'
giorni nostri, siccome diremo a suo tempo. Pretese inoltre il papa che
Asti dovesse toccare a lui; ma non gli riuscì di aver quel boccone.
Fu ancora spedito dall'esercito della lega _Giano Fregoso_ con mille
cavalli e tre mila fanti a Genova; alla comparsa de' quali, si ribellò
tutto quel popolo, e i Franzesi si chiusero nel castelletto e nella
fortezza della Lanterna. Fu esso Fregoso proclamato poco appresso doge
di quella repubblica.
Mentre sì gran tracollo davano in Lombardia gli affari dei
Franzesi, restando solamente in lor potere Brescia, Crema e qualche
fortezza[386], il pontefice, raunate le reliquie dell'esercito disfatto
sotto Ravenna, colla giunta di quattro altri mila fanti, spedì sul
fine di maggio questa armata in Romagna, per cui tornarono quetamente
alla sua ubbidienza tutte quelle città. Ne era generale _Francesco
Maria duca_ d'Urbino suo nipote, il quale intimò poi la resa a Bologna.
Vedendo i Bentivogli disperato il caso, se n'andarono chi a Mantova,
chi a Ferrara; e la città di Bologna, nel dì 10 di giugno, capitolò
col duca e col _cardinal Sigismondo Gonzaga_ legato, i quali poi vi
fecero solenne entrata nella domenica seguente 13 di giugno. Aveva
intanto _Alfonso duca_ di Ferrara, per mezzo del _marchese di Mantova_
suo cognato e di _Fabrizio Colonna_ suo prigione (trattato non di meno
non come tale, ma come suo amico), fatti varii maneggi per rientrare
in grazia del pontefice, ed era anche venuto il salvocondotto per
lui e per li suoi Stati. In vigore di questo, dopo aver egli mandato
innanzi il Colonna ben regalato e senza taglia alcuna, s'inviò nel
dì 23 di giugno a Roma, dove giunto, fu assoluto dalle censure, ed
ammesso al bacio del piede di sua santità. Ma che? I principi di animo
grande si fan gloria di perdonare ai supplicanti nemici. Papa Giulio,
al contrario, parve che si facesse gloria fino di mancar di fede.
Nel mentre che Alfonso era in Roma, il duca d'Urbino non solamente
occupò Cento, la Pieve e le terre della Romagna spettanti al duca, ma
eziandio inoltratosi a Reggio, non ostante il richiamo del Vitfurst
governatore cesareo di Modena, che gli intimò quella essere città
dell'imperio, costrinse i Reggiani alla resa. Dopo di che spogliò il
duca anche di Carpi, Brescello, San Felice e Finale. Inoltre lo stesso
papa cominciò a pontare, volendo, che esso duca gli cedesse il ducato
di Ferrara. Perciò Alfonso, che non si sentiva voglia di far questo
sacrifizio, chiese licenza, in vigore del salvocondotto, di tornarsene
a casa; nè la potè ottenere. I Colonnesi coll'oratore spagnuolo che
aveva anch'egli persuaso ad un principe di tanto credito il portarsi
colà, iti a pregare il papa di questo, non ne riportarono che ingiurie
e minaccie. Poscia si penetrò il disegno di papa Giulio di ritenerlo
prigione. Allora gli onorati signori Colonnesi, cioè _Fabrizio_ e
_Marcantonio_, che aveano obbligata la loro fede al duca, con una
brigata di lor gente, sforzata la porta di San Giovanni, il cavarono
di Roma, e salvo il condussero a Marino, da dove poi dopo tre mesi
travestito, con deludere tutte le spie messe fuori dal pontefice,
felicemente passò a Ferrara. Se queste azioni facessero onore a papa
Giulio, sel può ciascuno immaginare.
Restava al papa, inflessibile nelle sue passioni, di gastigare i
Fiorentini, e specialmente il gonfaloniere _Pietro Soderino_, perchè
avessero permesso in Pisa il conciliabolo de' Franzesi, e dato aiuto
di gente in questa guerra al re di Francia, tuttochè l'avessero fatto
forzati dall'obbligo delle lor precedenti convenzioni, con essersi per
altro mantenuti neutrali: della qual neutralità si ebbero poi molto a
pentire. Operò dunque colla lega, che il _Cardona_ vicerè di Napoli
colle armi spagnuole entrasse nel dominio fiorentino, e rimettesse
in casa i Medici, già da gran tempo banditi da quella città. Mentre
i Fiorentini trattavano d'accordo, gli Spagnuoli accampati sotto la
bella e ricca terra di Prato, non sapendo dove trovar vettovaglie, nel
dì 30 d'agosto diedero un assalto a quella terra; e senza che quattro
mila fanti, ch'erano ivi di presidio, ma troppo vili, facessero menoma
resistenza, vi entrarono. Commisero costoro inudite crudeltà, maggiori
delle commesse dai Franzesi in Brescia, come attesta il Giovio; il
quale aggiugne ancora, che cinquemila uomini disarmati, parte soldati
e parte terrazzani, furono ivi uccisi dalla inesplicabil brutalità dei
vincitori. L'Anonimo Padovano ne scrive ammazzati più di tre mila.
Il Guicciardini dice che vi morirono più di due mila persone, e che
il _cardinal de Medici_ legato pontificio, messe guardie alla chiesa
maggiore, salvò l'onestà delle donne, quasi tutte colà rifuggite. Ma il
Nardi e il Buonaccorsi, che registravano allora sì fieri avvenimenti,
asseriscono che non fu perdonato nè a vergini sacre, nè a luoghi
sacri, nè a' bambini in fasce. E quei che rimasero in vita, furono
tutti eccessivamente taglieggiati, e con varii tormenti straziati,
perchè pagassero ciò che non poteano. Ed ecco dove andavano a terminar
le strane premure di un papa per cacciare i Barbari d'Italia, cioè
con una medicina peggiore affatto del male: il che nello stesso
tempo, oltre alla Toscana, provò la Lombardia, inondata allora dagli
Svizzeri, divenuti formidabili da per tutto, e che da ogni lato
esigevano contribuzioni, e nulla potea saziarli. Nel tornare al lor
paese, occuparono la Valtellina, Chiavenna e Locarno, nè più vollero
dimetterle. Nel dì 31 d'agosto il gonfaloniere Soderino, uscito di
Firenze, si ritirò a Ragusi.
I Medici furono rimessi con infinite dimostrazioni d'allegrezza in
città, e riformarono quel reggimento a modo loro, con dover pagare i
Fiorentini al re dei Romani e al Cardona più di centoquaranta mila
ducati d'oro. Restarono poi sommamente burlati anche i Veneziani
dalla lor lega, chiamata allora la lega santa. Imperciocchè riuscì ben
loro di ricuperar Crema per trattato segreto che fecero con Benedetto
Crivello, posto dai Franzesi alla guardia di quella terra, il quale
corrotto con danari, per questo tradimento fu ben ricompensato da essi
Veneti. Ma non andò così per conto di Brescia, città, alle cui passate
e presenti miserie si aggiunse in questi tempi anche la peste, morendo
fin centocinquanta di que' cittadini per giorno. Ne formò l'esercito
veneziano l'assedio, e cominciò a battere colle artiglierie le mura.
Quando ecco giugnere il Cardona co' suoi Spagnuoli, ben carichi del
bottino della Toscana, il quale imbrogliò tutte le loro speranze.
Cominciò esso vicerè a pretendere che non solamente quella città
si avesse a rendere a lui, ma anche Bergamo e Crema, già ritornate
all'ubbidienza della repubblica. Erano queste pretensioni chiaramente
contrarie ai patti della lega. Ma di che non è capace la smoderata
avidità ed ambizione d'alcuni principi? Niun freno hanno per essi nè
la pubblica fede, nè i patti, nè i giuramenti; e volesse Dio che non ne
avessimo veduto ancor noi più d'un esempio a' dì nostri. Aveano già gli
Svizzeri e gli Spagnuoli molto prima cominciato ad usar delle insolenze
contro de' Veneziani. Le accrebbero sotto Brescia, la qual città,
nel dì 13 di novembre, con molto onorevoli condizioni fu consegnata
dal _signor d'Aubigny_ al _vicerè Cardona_. Costrinsero ancora essi
Spagnuoli a rendersi Peschiera, Lignago, e i castelli di Trezzo e di
Novara; siccome da un'altra parte riuscì ai Genovesi di trar con danari
il castelletto della lor città di mano del castellano franzese, che poi
fu squartato vivo in Lione.
Tornato che fu a' quartieri il deluso esercito veneto, si applicò
quel saggio senato a trattar di pace col _vescovo Gurgense_, che era
il plenipotenziario di _Massimiliano Cesare_ in Italia. Volle il papa
che questo negoziato si facesse in Roma; e, dettata imperiosamente la
capitolazione, comandò ai Veneziani di accettarla. Conteneva essa, che
Verona e Vicenza restassero a Massimiliano; che per Padova e Trivigi
pagassero ad esso Cesare trecento libbre d'oro ogni anno a titolo di
censo, e due mila e cinquecento libbre d'oro pel privilegio; e per le
terre del Friuli ne fosse poi giudice lo stesso papa. Conobbero allora
i Veneziani d'essere maltrattati e traditi anche da questa banda;
ed, ancorchè si trovassero in poco buono stato per li monti d'oro
spesi in guerra, pure, non ostante lo sdegno e le grida di esso papa,
generosamente ricusarono di consentire a sì gravosa ed inaspettata
pace, con darsi piuttosto ad intavolar accordo e lega col re di
Francia, siccome diremo, giacchè il papa, in una nuova lega fatta con
Massimiliano e col re di Aragona, ne avea esclusi con poco buon garbo
gli stessi Veneti. Nel dì 15 di dicembre arrivò a Milano _Massimiliano
Sforza_, dichiarato duca da Cesare e dalla lega; nè si può esprimere
con quanto giubilo, con quante feste egli fosse ricevuto dai Milanesi,
e quanto magnifica fosse l'entrata sua in quella nobil città, perchè
accompagnato dal _cardinal di Sion_, dal _vescovo Gurgense_, da
_Raimondo di Cardona_ vicerè, e da infinito numero di capitani e nobili
italiani, tedeschi, spagnuoli e svizzeri. Anche il castello di Milano,
tenuto da' Franzesi, intanto andava facendo co' grossi cannoni delle
salve, d'allegrezza non già, ma di danno ai Milanesi. Rimase nondimeno
il povero duca come schiavo degli Svizzeri. Nè si dee tacere che,
assaltato nell'anno presente il re Cristianissimo dai re d'Aragona e
d'Inghilterra, lasciò per sua negligenza che il primo, cioè _Ferdinando
il Cattolico_, occupasse la Navarra, togliendola a quel re. E perchè
mancava all'Aragonese un legittimo titolo di appropriarsi quel picciolo
regno, si servì d'una bolla di _papa Giulio II_, che avea dichiarato
decaduto da ogni suo diritto chiunque fosse aderito al conciliabolo di
Pisa, concedendo a ciascuno facoltà di occupar i loro Stati. Questa
bolla procurata dall'accorto re, per attestato del Mariana, tenuta
fu per molto tempo segreta, e poi sfoderata al bisogno. Ma non so io,
se quel re avesse creduta autorità ne' papi da donare i regni altrui
quando mai contra di lui fosse stata pronunziata una simil sentenza.
Maraviglia fu che il _re Luigi_, per lo sdegno che nudriva contro del
papa, sì pertinace promotore della di lui rovina, non si lasciasse
allora trasportare all'eccesso di far creare un antipapa nel suo regno.
Senza dubbio ne fu assai trattato. Probabilmente non il timore di Dio,
ma quel degli uomini il trattenne. Con tali e tante turbolenze terminò
l'anno presente.
NOTE:
[386] Paris de Grassis. Guicciardino. Buonaccorsi. Anonimo Padovano.
Nardi, ed altri.
Anno di CRISTO MDXIII. Indizione I.
LEONE X papa 1.
MASSIMILIANO I re de' Romani 21.
Fra tante sue sventure non avea per anche _Luigi XII_ re di Francia
dato congedo in suo cuore al desiderio e alla speranza di ricuperar lo
Stato di Milano, perchè tuttavia si conservavano alla divozione di lui
i castelli di Milano e di Cremona, e la Lanterna ossia il Finale di
Genova. Vari negoziati perciò fece durante questo verno coi potentati
nemici, o per pacificarli, o per rompere la loro unione. Nulla potè
ottenere dall'Inghilterra, meno dal papa e da Massimiliano. Per quanti
progetti facesse agli Svizzeri, costoro insuperbiti, mirando d'alto in
basso gli stessi monarchi, non volendo abbandonare la vigna che loro
molto bene fruttava, e credendo oramai di poter dar legge ad ognuno,
saldi stettero in sostenere lo Sforza. Unicamente riuscì ad esso re di
stabilire la tregua di un anno col re Cattolico, ma solamente per li
confini dell'Alpi coll'Aragona. Per consiglio ancora di _Gian-Jacopo
Trivulzio_, si rivolse ai Veneziani, non essendogli ignoto quanto
amareggiato giustamente fosse quel senato pel tradimento usatogli
dalla lega e dal papa, e perchè Massimiliano nell'investitura data
allo Sforza avea compreso anche Brescia, Bergamo e Crema. Infatti
dopo molti dibattimenti nel dì 13 (altri dicono nel dì 24) di marzo
dell'anno presente fu conclusa una lega difensiva ed offensiva fra esso
re Lodovico e la repubblica veneta, con obbligarsi questa a mantenere
mille e ducento lancie, ed otto mila fanti in aiuto del re; e che
Bergamo, Brescia, Cremona e la Ghiaradadda dovessero tornare sotto la
signoria di Venezia. _Andrea Gritti_ prigione in Francia, riavuta la
libertà, fu destinato a sottoscrivere questo accordo, per cui s'avea
a vedere una scena nuova in Italia. Intanto le prosperità dell'anno
precedente accendevano l'animo di _papa Giulio_ a disegni maggiori,
coll'essersi messo in capo di regolare a talento suo l'Italia tutta,
per non dire tutti i principi della cristianità. Già avea stesa una
bolla terribile contra del _re di Francia_, privandolo del titolo di
re, e concedendo quel regno a chiunque lo occupasse, con attizzar
più che mai il _re d'Inghilterra Arrigo_ contra dell'altro. Avea
- Parts
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